Il sacrosanto diritto alla non sofferenza

Il biotestamento è legge. In estrema sintesi si può dire che il provvedimento tutela il diritto alla vita, alla salute, ma anche il diritto alla dignità e all’autodeterminazione e dispone che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata. Tra le principali novità introdotte, abbiamo le disposizioni anticipate di trattamento (Dat), attraverso le quali ogni persona può esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, compreso il rifiuto alle pratiche di nutrizione e idratazione artificiale.

Non si dovrà quindi più, come disse in una stupenda battuta polemica Pier Luigi Bersani (una delle poche…), accettare che a decidere la nostra morte sia il senatore Gaetano Quagliariello, preoccupato solo di compiacere i cattolici dotati di dogmatici paraocchi: un passo avanti, non c’è dubbio, infatti personalmente penso di avere il sacrosanto diritto a decidere in proprio, dal momento che la vita è stata donata a me ed io ne devo e ne dovrò rispondere. Ho fatto esperienze tali da convincermi che non solo il testamento biologico sia sacrosanto, ma anche la prospettiva di una seria legislazione in materia di eutanasia non sia da scartare a priori. Ma non voglio correre.

Non è questione di egoismo o di mancanza di coraggio, anzi si tratta di rispetto per la persona e per la sua volontà. Se anche la vogliamo mettere sul piano squisitamente religioso, non credo che il Padre Eterno nel giudicarci userà il cronometro per stabilire se una donna sta abortendo o prendendo una pillola anticoncezionale (beghe di frati, diceva Indro Montanelli); non userà il calendario per ammettere i nostri comportamenti contraccettivi (non ho mai capito perché astenersi dall’atto sessuale nei giorni fertili sia ammesso mentre intervenire con altre metodiche sia da condannare: il risultato è lo stesso, si tratta sempre di evitare il concepimento); non adotterà un manuale delle terapie non accanite per ammettere la nostra morte (non sarà il burocratico controllore della fine dei nostri giorni); non sottilizzerà per vedere se ci siamo accostati all’Eucaristia in odore di concubinaggio (i sacramenti non si negano a nessuno). Cerchiamo di essere seri.

Meno male che la politica ha avuto questo sussulto di dignità per legiferare in un campo estremamente delicato, ma affrontabile in base a due precisi concetti: il rispetto della persona umana, trovando il non facile ma corretto equilibrio fra diritto alla vita e diritto alla dignità e all’autodeterminazione; la laicità della politica, che deve puntare al bene dell’individuo e della comunità senza farsi condizionare dalle regole religiose.

Anche sulle regole religiose c’è molto da discutere e in materia ritengo opportuno rifarmi a quanto diceva don Andrea Gallo: «Non è la tutela dei diritti individuali uno dei cardini del messaggio evangelico? La nozione di vita deve essere alta, ricca, personale più di quanto non sia una nozione di organismo, oggetto della scienza. Dov’è l’amore? Dov’è il rispetto del primato della coscienza personale? Dov’è la pietà? C’è un vuoto d’amore in questa crociata cattolica e avanza un pesante fondamentalismo. Esistono regole come la libertà di cura e il divieto di accanimento terapeutico anche nel catechismo. Mi sembra che si voglia respingere un principio sancito dalla legge, come la libertà di non accettare cure. A Piergiorgio Welby, per sua volontà, mentre ascoltava la musica di Bob Dylan, dopo essere stato sedato, è stato staccato il sondino ed è spirato: era come un malato di tumore con metastasi, sapeva che l’operazione non sarebbe servita a nulla e l’ha rifiutata. Si può accettare un’esistenza dolorosa in un letto, completamente immobile? Per Welby era un inferno. Chi aveva il diritto di decidere per lui?».

 

 

 

 

 

 

Sempre dalla parte di Davide

Mio padre di fronte a certi compensi da nababbo ai calciatori professionisti diceva che li avrebbe voluti vedere ad affrontare una squadra di muratori remunerati allo stesso livello?

Ciò significa che non sopportava le ingiustizie in genere, ma nemmeno le storture del pianeta calcio, gioco di cui ammirava l’essenzialità e la semplicità abbinate alla spettacolarità.

Questo dubbio atroce aleggiava sulla partita di Coppa Italia fra Inter (squadra blasonata e candidata alla vittoria del campionato) e Pordenone (squadra militante in serie C), fra Golia e Davide del pallone italico: ha prevalso (?) Golia con una vittoria risicata e persino immeritata ai calci di rigore.

Si dirà che questo è proprio il bello del calcio, vale a dire la sua imprevedibilità. Si potrebbe però fare anche un altro ragionamento. Sono poi così bravi e ammirevoli i divi superpagati delle squadre calcistiche, che vanno in crisi di fronte all’orgoglio di modesti pedatori di una squadretta di provincia? È così bravo il giovane portierone del Milan, il Donnarumma nazionale, che sostiene di essere stato violentato moralmente quando ha firmato un contratto milionario che lo lega ai rossoneri per alcuni anni o non sarà piuttosto che, furbescamente, vista la prevedibile mala parata della squadra, se ne vorrebbe andare in un altro club che gli garantirebbe onori e, forse, maggiori compensi?

Ricordo quanto mi diceva, già parecchi anni or sono, un ex giocatore del Parma: i divi del calcio si impegnano fino ad un certo punto, non hanno un forte legame sentimentale con la squadra in cui militano; infatti, se va male, trovano comunque da accasarsi e quindi…Ecco perché ha fatto tanto scalpore il matrimonio indissolubile tra Francesco Totti e la Roma: una unione che, al di là dell’indubbio e notevole interesse materiale del giocatore, ha evidenziato un raro senso di appartenenza alla maglia.

Nonostante l’Inter sia sempre stata la mia squadra del cuore – anche se gli affari calcistici hanno ben poco da spartire con gli affari di cuore – ho tifato Pordenone, forse anche perché, nello scorso campionato di serie C, questa squadra è stata penalizzata nella semifinale dei play off per accedere alla serie B proprio contro il Parma e quindi avevo nel mio subconscio pallonaro qualcosa da farmi perdonare. Non è bastato al Pordenone mettercela tutta, non è stato sufficiente superare brillantemente l’handicap del fattore campo, giocando senza timore reverenziale alla Scala del calcio (il meccanismo selettivo della Coppa Italia favorisce infatti le squadre più forti consentendo loro, nei primi turni, di giocare in casa): alla fine la lotteria dei calci di rigore gli è stata fatale, aveva proprio tutto contro.

Penso si tratti comunque di una di quelle sconfitte che lasciano un segno così forte da diventare proverbiali: forse un giorno si parlerà di quella volta che il Pordenone mise a repentaglio il blasone dell’aristocratica Inter, l’unica squadra, se non erro, a non avere mai sopportato l’onta di militare in una serie minore, precipitandola, almeno per 120 minuti, in serie C.

E pensare che da tempo mi ero ripromesso di ignorare le vicende calcistiche, ritenendole un pericoloso legame con il sistema di potere: il Pordenone mi ha riconsegnato quel calcio dal volto umano che tanto mi affascinava da ragazzo. Ed allora eccomi tornare con la mente ai pre-partita del Parma A.S (un tempo si chiamava così), che, grazie a Dio, non erano   fatti delle odierne chiacchiere assurde di schiere di commentatori prezzolati o dei rituali tafferugli tra gruppi di tifosi, ma era costituito dall’osservare da vicino il riscaldamento degli atleti di “casa”, i miei beniamini (mi accontentavo di poco rispetto alle star superpagate di oggi), negli spiazzi intorno alle gradinate dello stadio Tardini prima maniera. Mio padre accondiscendeva a costo di perdere qualche buona posizione sulle gradinate di curva e sopportando un piccolo quanto innocuo divismo: non ricordo con precisione, ma credo che qualche volta, per conferire una punta di umanità alla scena, mi abbia supportato nello stringere la mano a quelli che lui sapeva essere i miei “preferiti” (ricordo con tanta nostalgia Beppe Calzolari fra tutti). Allora tutto aveva una dimensione umana ben lontana dall’anonimo, industriale, artificioso, violento divismo calcistico di oggi.

 

Presepi e balocchi

Quando si avvicinavano le feste di Natale mio padre registrava quasi con fastidio, con un notevole senso di sorpresa, una ricorrente domanda che gli veniva formulata “Indò vät par Nadäl “. Questo succedeva nel periodo delle vacche grasse, perché, quando regnava sovrana la miseria, tali richieste sarebbero risuonate assurde per non dire offensive. E la risposta, pronta e spontanea anche se un po’ risentita e giustamente provocatoria, fulminava l’interlocutore: “Tutti, s’ j én lontàn, i fan di vèrs da gat par gnir a ca’, e mi ch’a són a ca’ vót ch’a vaga via?” . Si trattava, a ben pensarci, di un libero rifacimento del classico “Natale con i tuoi”, ma un po’ più ragionato e motivato da una logica stringente e indiscutibile che inchiodava, col buon senso, chi proponeva l’evasione in una pur legittima uscita dagli schemi.

La ritualità del Natale sovrappone l’incredibile dono fatto da Dio all’umanità all’usanza di scambiarsi doni instaurata dagli umani: della serie, visto che Dio è generoso approfittiamone e facciamo man bassa. C’è però un piccolo particolare: mentre Dio si dona in povertà, noi ci doniamo in ricchezza. Facciamo finta di essere buoni e generosi, ma in realtà celebriamo solo il nostro benessere materiale tenendocelo ben stretto. Ai piedi del presepe, plastica immagine dell’atteggiamento povero che Dio ci propone concretamente, collochiamo e ci scambiamo i simboli del nostro consumismo. Voglio allontanarmi quindi dal questo contesto ricordando i quattro Natali che hanno scandito in un certo senso la mia esistenza.

Il Natale della povertà: non ero ancora nato ma mi hanno ripetutamente raccontato che la mia famiglia ebbe un periodo di gravissime difficoltà economiche. La miseria regnava sovrana in molti strati sociali, mio padre era disoccupato, mia madre lavorava ma il reddito non era sufficiente, per farla breve non c’era il becco d’un quattrino per affrontare le feste natalizie. Arrivò in soccorso lo zio ribelle, che, nella sua simpatica rivoluzione personale, combatteva anche   la miseria, ottenendo interessanti successi ed aprendo il cuore a chi lo aveva sempre accolto incondizionatamente: intervenne senza bisogno di sollecitazioni con una generosità unica, capace di cambiare la situazione, di donare con gioia. Mi raccontavano i miei genitori come un Natale di povertà e tristezza si trasformò in gioia grazie all’intervento di questo inimitabile zio, che regalò tutto l’occorrente per trascorrere dignitosamente le feste Natalizie.

Il Natale della mia fanciullezza e del montante anche se lento, progressivo benessere: era fatto di armonia, degli ingredienti soliti e tradizionali, dell’albero, del presepe, della neve (cme l’ é bél Nadäl con la néva, diceva mio padre), del cenone, della letterina, della messa di mezzanotte, delle vacanze scolastiche, dell’apertura della stagione lirica, delle mangiate (anolén a più non posso). Mia madre era sempre al centro della situazione, ruotavamo intorno a lei:   riusciva persino a scuocere le tagliatelle per l’ardore di comunicare gli auguri a destra e manca. Forse si stava andando verso un po’ di consumismo e allora ecco arrivare…

Il Natale della paura: quando mio padre era gia da tempo afflitto da una grave forma di demenza senile e mia madre cominciava ad avere disturbi fisici piuttosto enigmatici. Avevo   un grave timore che da tempo mi attanagliava. Se anche la mamma, la quale cominciava a dare segni di malattia incipiente, fosse crollata fisicamente, ci sarebbe stato da mettersi le mani nei capelli: di fronte ad una eventualità di questo tipo mi tremavano le vene ai polsi e la paura era tanta. Quel Natale trascorse con la spada di Damocle sul capo di una famiglia che vedeva profilarsi un calvario: d’altra parte il Bambino di Betlemme aveva di fronte a sé prospettive poco tranquillizzanti.

Il Natale della sofferenza arrivò l’anno successivo: i miei timori diventarono certezze, le gravi malattie si sovrapposero, papà era sempre più assente con il suo cervello obnubilato da una inarrestabile forma di sclerosi galoppante, mamma era entrata da due mesi in ospedale dove la febbre la stava distruggendo in un quadro clinico grave ed ancora incerto. Più che Natale sembrava Venerdì Santo e mi viene la tentazione di definire quello come il più brutto della mia vita, anche se la famiglia reagì e seppe far fronte alle difficoltà, trovò in sé la forza ed in tal senso potrebbe essere, anche cristianamente, definito il Natale più bello.

 

 

 

Gli insopportabili pupattoli catodici

Per il sottoscritto è un periodo di conflitti virtuali con il mondo dell’informazione. Non mi riferisco   tanto alla “pornoinformazione delle fake news”, ma alla “pseudoinformazione perbenista”. Mentre verso la prima, una volta preso atto che esiste, si possono alzare barriere difensive attive e passive, con la seconda la battaglia rischia di essere persa in partenza. Tutti temono le false notizie che circolano clamorosamente nei circuiti informatici, io temo le notizie vere mal presentate dai media televisivi pubblici e privati.

Negli ultimi tempi ho provato a disintossicarmi dalla carta stampata, rinunciando al rito della lettura dei quotidiani. Mi sono fatto quasi violenza anche perché ho ereditato da mio padre il pallino della lettura del giornale, autentico simbolo della sua mentalità. Credo che mio padre, fatti salvi i giorni di assoluto e totale impedimento, non abbia mai rinunciato al giornale, parola che, come annotava simpaticamente mia madre, era pronunciata da lui in modo dialettale, rotondo nella pronuncia, con una punta di enfasi: “Al giornäl”. E soprattutto negli anni di vita intellettualmente più vivaci, non si trattava del misero, anche se blasonato, quotidiano locale, ma di un giornale che portava in se qualcosa in più rispetto alla lettura parziale e localistica degli avvenimenti: cercava uno strumento di informazione che, seppur discutibile nei suoi contenuti, mettesse lui e tutta la famiglia in condizione di capire cosa stava succedendo al di la “dal cantón con borgh Bartàn”. Questa sorta di culto della lettura del giornale mi è stato trasmesso pari pari e non ho mancato di praticarlo forse fin troppo.

Ultimamente mi sono rifugiato nel corner dell’informazione televisiva, andando automaticamente a sbattere contro Rainews24, una rete intelligentemente puntata sulle notizie a getto continuo. Purtroppo però l’attuale bravo direttore, Antonio Di Bella, è circondato da una folta schiera di pupattoli catodici non all’altezza del compito dal punto di vista professionale, come l’indisponente Enrica Agostini, una tifosa a prima vista del movimento cinque stelle, o come l’insopportabile saputello Roberto Vicaretti cui vengono affidati una confusionaria rassegna stampa e i pedanti mattutini dibattiti di approfondimento politico. Lasciamo perdere poi quelli che non sanno quello che fanno: la giornalista che sembra uscita dal bancone di una pescheria di Nuoro, tanto inaccettabile risulta il suo accento smaccatamente sardo (un tempo le avrebbero fatto frequentare qualche corso di dizione), e le altre sue colleghe che hanno confuso lo studio televisivo con palazzo Pitti (sembrano specchiarsi continuamente nella telecamera) o i colleghi di ambo i sessi che vengono sguinzagliati sul territorio a propinare luoghi comuni e commenti scontati (capitano lì per caso, parlano a vanvera di tutto con il piglio presuntuoso di chi non sa niente).

Che peccato! Uno strumento formidabile sciupato nella pappagallesca ripetizione di poche e superficiali notizie. Persino i microfonisti e i tecnici audio pagano dazio! Cambiare canale vuol dire addirittura peggiorare la situazione e allora si può sempre spegnere il televisore e fare l’eremita dell’informazione. In questo mondo però bisogna pur viverci, non serve scappare.

Ricordo il Resto del Carlino tutto spiegazzato che mio padre acquistava di primo mattino e che sfogliava, leggendo i titoli, quasi con avidità, sulla soglia del magazzino da cui partiva la spedizione lavorativa giornaliera. Il giornale veniva quindi consegnato alla famiglia durante la pausa pranzo (una sorta di staffetta giornaliera) e ripreso per la regolare ed approfondita lettura in serata: i contenuti venivano approfonditi e discussi in modo spontaneo nelle chiacchierate familiari, a tavola, in salotto (dopo che si ebbe l’opportunità di avere a disposizione questa stanza in più), seduti in poltrona (ricordo il gusto e la soddisfazione con cui mio padre al termine di un giornata lavorativa poteva sprofondare nella sua poltrona, accendere la lampada, inforcare gli occhiali e dedicarsi alla lettura del giornale con un’attenzione ed una concentrazione tali da fare invidia al fior fiore degli intellettuali). Mia madre si lamentava della sua eccessiva dedizione a questo rito culturale, ma lui non si distaccava dalla giusta e succulenta abitudine: solo il richiamo della cena pronta in tavola era in grado di interrompere il collegamento. Sì, perché il mangiare insieme per mio padre era la concretizzazione dell’unità della famiglia, il mettere in pratica lo spiccato senso della famiglia.

Ebbene io non posso nemmeno rifugiarmi nella tavola del pasto comunitario: vivo solo e litigo col video da cui sgorga sofferenza per un’informazione penosamente somministrata. Alla fine mi sento ancor più solo. Tuttavia, meglio soli che male informati.

 

La canonica non può essere canonica

Ho appena terminato la lettura di un bel libro di Michele Gesualdi sulla vita di don Lorenzo Milani, il cui contenuto può essere sintetizzato così: la canonica, intesa come casa del parroco e sede della parrocchia, nelle ardite esperienze pastorali degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso a Calenzano e Barbiana, di questo prete toscano incompreso e osteggiato come tutti i veri profeti, diventa la sede ideale della scuola per il popolo, laddove la parola e il sapere riscattano i figli dei poveri da un destino di sfruttamento. Non aggiungo altro e rimando i miei lettori a questo libro veramente interessante.

Contemporaneamente ho appreso come nella parrocchia di Santa Maria del Sile, poco fuori Treviso, vivranno sotto lo stesso tetto un sacerdote, don Giovanni Kirschner e una famiglia: la canonica diventa un luogo condiviso per superare la solitudine del parroco e ospitare una famiglia numerosa (quattro figli) particolarmente aperta e accogliente verso gli immigrati (sei richiedenti asilo). Per ora in parrocchia vanno i componenti della famiglia vera e propria, ma forse fra qualche mese li seguiranno anche i membri extra-comunitari.

Se ai tempi di don Milani urgeva il discorso scolastico, oggi urge recuperare il senso comunitario del vivere insieme, umanizzando la sacralità del sacerdote, condividendo il benessere, valorizzando la famiglia al di là degli schemi anagrafici: un modo di superare in un certo senso e positivamente il discorso del celibato sacerdotale, di rispondere alla crisi della famiglia chiusa in se stessa e di solidarizzare concretamente con gli immigrati.

Sembra che la diocesi abbia dato il suo placet, mentre si registrano le stupide reazioni di chi ritiene questa iniziativa una ostentazione di perbenismo, una esagerazione di accoglienza, un modo per spillare e risparmiare quattrini.

A me sembra un esperimento interessante e provocante: solo rimescolando preti e laici, parrocchia e famiglia, italiani e stranieri, si riuscirà a saldare le diverse esperienze, a dialogare comunitariamente, a collaborare concretamente, a vivere evangelicamente insieme.

Non so cosa direbbe don Lorenzo Milani al suo collega di oggi. L’importante è mettere concretamente a confronto le realtà per farle concorrere al bene comune. Fino ad ora si è pensato e faticosamente provato a far convivere i preti, ad accorpare le parrocchie, a sollecitare l’impegno dei laici col diaconato permanente. L’esperimento trevigiano rimescola le carte, supera gli schemi tradizionali, rimette in discussione le consuete risposte. Sono rimasto colpito favorevolmente anche perché l’importante è smuovere le acque di un dogmatismo incartato sul celibato sacerdotale e sul non sacerdozio femminile, di un solidarismo semplicisticamente risolto dall’associazionismo, di una testarda e assolutistica difesa della famiglia tradizionale, di una carità vissuta   nella beneficenza e non nella lotta concreta e quotidiana alle ingiustizie ed alle povertà.

«Riconosciamo, nelle nostre città, una sempre maggiore fragilità del vivere che riguarda sia i preti sia le famiglie, le coppie, i giovani, gli anziani. L’unica risposta è stare insieme perché nessuno si salva da solo. Condividere può rendere la vita migliore e se una persona vive bene può allargare questo benessere agli altri» così afferma don Giovanni, il parroco di Santa Maria del Sile. «Oggi siamo sopraffatti dalla vita, una solitudine interiore, un forte smarrimento. Per questo dobbiamo ritrovare senso in ciò che facciamo. Siamo circondati da modelli di società che guardano solo produzione e consumo, ma dov’è l’uomo? Dobbiamo prenderci cura l’uno dell’altro» così Silvio Calò spiega da protagonista l’esperimento messo coraggiosamente in atto.

Grazie a loro che ci interpellano con tanto vigore e grazie anche alla giornalista Silvia Madiotto dal cui articolo ho tratto la presentazione dell’iniziativa.

Spes contra spem

“Non si fermano le proteste a Gerusalemme e nei territori occupati. Due vittime negli scontri e feriti dopo la decisione americana di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e trasferirvi l’ambasciata Usa da Tel Aviv. Colpiti dall’aviazione israeliana obiettivi nel nord della Striscia di Gaza, in risposta al lancio di 2 razzi verso Israele. La tensione è alle stelle, gli scontri intorno alla spianata delle moschee potrebbero riaccendersi dopo le cerimonie per i 30 anni dall’inizio della prima Intifada. Trump ha invitato alla calma e alla moderazione”: questa, nell’estrema sintesi riportata da Televideo, la situazione incandescente venutasi a creare nei rapporti tra Israele ed i Palestinesi. E siamo solo all’aperitivo. Il punto più interessante e paradossale delle notizie è però l’appello alla calma e alla moderazione da parte di Trump: un becco di ferro di portata mondiale.

Ricordo scolastico. In classe con me, addirittura mio indimenticabile amico e compagno di banco, vi era un ragazzo piuttosto emotivo, che, quando veniva chiamato a rispondere a qualche domanda o a leggere un brano, si agitava notevolmente con relativa sorpresa degli insegnanti. I compagni, con la solita scherzosa ma sadica ironia, lo invitavano alla calma: «Non preoccuparti, stai sereno…». E lui, naturalmente, si agitava ancora di più   e bestemmiava tra i denti contro i colleghi, che lo prendevano in mezzo e ridevano come pazzi.

Il presidente Usa prima ha appiccato il fuoco e poi invita a spegnerlo, ben sapendo che in questi casi gli inviti alla calma ottengono esattamente l’effetto contrario in quanto suonano come una beffarda, ulteriore provocazione.

Non mi sono mai illuso che gli Stati Uniti potessero svolgere un’azione pacificatrice: la storia insegna che purtroppo tutti gli Stati, Italia compresa, cercano innanzitutto il proprio tornaconto e poi, semmai, la pace con gli altri Paesi. Nel caso in questione però non riesco sinceramente a trovare il bandolo della matassa degli interessi americani, che spingerebbero Trump a comportarsi in modo schizofrenico fino a tal punto.

Ho ascoltato autorevoli esperti ed osservatori fare alcune ipotesi peraltro molto teoriche e non del tutto convincenti. A livello internazionale gli Stati Uniti punterebbero ad un’alleanza di ferro con Israele e Arabia Saudita contro gli altri Paesi medio-orientali: strategia gradita anche alla Russia così chiamata a ridiventare il polo attrattivo degli anti-americani. In questa prospettiva verrebbe quadrato anche il cerchio delle tacite intese russo-americane, pre e post elettorali, attorno alle quali continua a dipanarsi il tormentone di un Trump sfacciatamente favorito dal nemico. Una sorta di spartizione del bottino, petrolio incluso.

A livello interno Trump terrebbe caldo il suo elettorato, rinsaldando con esso i rapporti, in vista anche di eventuali impeachment, che continuano a profilarsi. Quale miglior metodo di quello guerrafondaio: il nemico esterno distrae l’attenzione dai problemi interni e fa scattare le opportune molle patriottiche.

Se e nella misura in cui fossero vere queste interpretazioni, il comportamento di Trump sarebbe un condensato delle più orrende e tragiche ragioni di stato. Un tempo in occidente si scendeva in piazza contro l’imperialismo americano (ciò avviene ancora in Palestina, Turchia e Iran con tanto di bruciatura della bandiera a stelle e strisce), ma il mondo e le mentalità sono cambiate. Trump e Putin (suo sodale) piacciono anche alla gente europea, che vede in essi la scorciatoia populista ai problemi di vario genere. Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Svezia, a livello dei loro governi, sono contro Trump su Gerusalemme, ma poi entrerà in ballo la ragion di stato…

Lo stato di diritto, come sosteneva Pannella, dovrebbe andare contro la ragion di stato. Sta succedendo esattamente il contrario in quanto la ragion di stato schiaccia i diritti su cui dovrebbe fondarsi la pacifica convivenza.

“Spes contra spem”: un’espressione latina di Paolo di Tarso a significare la ostinata fede di Abramo capace di sperare contro ogni speranza, diventata un motto di Giorgio La Pira quale simbolo dell’idea audace di chi sa “osare l’inosabile”, usata da Pannella nel suo invito ad essere speranza (spes) piuttosto che avere speranza (spem) anche nella sua ultima lettera a papa Francesco del 22 aprile 2016.

Quindi ci resta solo papa Francesco. Riuscirà ad essere speranza per chi non ha speranza? Cosa potrà fare come agnello in mezzo ai lupi? Basteranno la sua sensibilità e la potenza dello Spirito Santo a tenerlo lontano dai pasticci internazionali e dai meri interessi vaticani nel mondo? Speriamo…

 

 

Il populismo al cucchiaio, che piace ai terroristi

Il simpatico e acuto salmodiare di Enzo Iannacci diceva: “Quelli che…votano a destra perché Almirante sparla bene”. Di politici che sparlano bene ce ne sono parecchi, anche ai massimi livelli internazionali. Da tempo considero, ad esempio, tempo perso ascoltare e osservare Donald Trump nelle sue esercitazioni con le quali “prende per il culo” il mondo intero. L’ultima non l’ho potuta evitare: il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale dello stato di Israele e il conseguente spostamento in tale città della sede dell’ambasciata statunitense. Si tratta di una insensata provocazione atta a gettare benzina sul fuoco dei già incandescenti rapporti medio-orientali. Se è vero, come è vero, che il conflitto tra israeliani e palestinesi è la madre di tutte le questioni di quell’area, aggiungere benzina proprio lì significa voler incendiare ulteriormente quella parte di mondo in cui, tra l’altro, alberga il terrorismo islamico.

Ho seguito con i nervi a fior di pelle l’insensato annuncio ufficiale fatto da Trump e, se non mi sono troppo innervosito, credo di aver capito che questo buffone faccia un ragionamento paradossale: siccome tenere Gerusalemme a bagnomaria non è servito a risolvere i problemi della convivenza tra Arabi e Israeliani, tanto vale buttare, come si suol dire, il prete nella merda e giocare d’anticipo mettendo tutti davanti al fatto compiuto.

C’è però un “piccolo” particolare: se si vuole spiazzare l’avversario che spinge alla porta, al fine di togliergli una importante argomento conflittuale bisogna aprire la porta improvvisamente e non chiuderla a doppia mandata o blindarla, con il solo risultato di innervosire il nemico. Roba di buon senso, non certo di alta strategia internazionale.

Il meno che possa succedere è di portare acqua polemica al mulino del terrorismo islamico, avvicinando ad esso i palestinesi, i musulmani stuzzicati nel loro orgoglio, nonché tutti coloro che odiano gli americani e gli occidentali. Mi sembra che Trump non vada oltre gli specchietti per le allodole per i suoi elettori a costo di mettere a repentaglio gli equilibri mondiali: spinge gli arabi in braccio ai terroristi o nella migliore delle ipotesi in braccio a Russia e Cina, isola ulteriormente l’Europa, se ne frega di tutto e di tutti (degli immigrati in primis…).

L’annuncio vomitato davanti alle telecamere mi ha colpito non solo e non tanto a livello verbale, ma anche per l’atteggiamento strafottente che lo ha accompagnato: un mix della gestualità di tutti i peggiori dittatori della storia. Un po’ di Mussolini, un po’ di Hitler, financo un po’ (tanto) di Berlusconi. Se lo scontro televisivo tra Kennedy e Nixon all’inizio degli anni sessanta dello scorso secolo cambiò il modo di rapportarsi con l’elettorato, non vorrei che l’apparizione televisiva di Trump per annunciare al mondo l’opzione gerosolitana passasse alla storia come il nuovo modo di volere la pace preparando la guerra.

La contenuta irritazione europea, l’impacciato e flebile appello vaticano, la strumentale reazione del mondo arabo, l’irritante soddisfazione israeliana, la tatticistica e sorniona attesa delle superpotenze rendono il quadro surreale, tale da far canticchiare: “Quelli… a cui piace Trump, perché una cucchiaiata di populismo fa sempre bene, due ancora meglio…”.

Pisapia, pisapippa e pisapizza

Da parecchio tempo mi sono chiesto cosa trovi Giuliano Pisapia di tanto progressista in Bruno Tabacci (suo compagno di cordata) rispetto, che so io, a Domenico Del Rio e ai dirigenti in genere del Partito Democratico. La domanda mi è tornata ancora più spontanea, quando l’ex sindaco di Milano ha gettato la spugna riguardo alle trattative per un’alleanza col PD condotte con Piero Fassino, chiamandosi fuori in prima persona e sciogliendo di fatto il suo Campo Progressista. Se ho ben capito – non è facile infatti comprendere le mosse strategiche e tattiche degli esponenti dell’area di sinistra – non ritiene possibile un’alleanza col PD, complici i tentennamenti sull’approvazione del cosiddetto Ius soli.

Quest’ultimo mi sembra un argomento pretestuoso, perché Pisapia sa benissimo che questa legge non può contare su un pacifico consenso parlamentare e rischia di incrinare i rapporti con gli alleati di centro (gli amici di un tempo di Bruno Tabacci) ed affrettare la caduta del governo in carica, con grave pregiudizio per tutta la problematica sul tappeto. Sono portato a pensare che Pisapia sia invece rimasto spiazzato dal nuovo movimento “liberi e uguali” e soprattutto dalla mossa di Pietro Grasso che si è reso disponibile a capeggiarlo. Gli hanno praticamente tolto la terra sotto i piedi, lui ha cominciato a traballare e ha colto l’occasione per farsi da parte: in effetti tre partiti di sinistra erano un po’ troppi, già di due uno avanza, immaginiamoci tre. Pensava di poter essere il referente di tutto il mondo alla sinistra del PD in dialogo collaborativo con lo stesso PD: il progetto è fallito per i troppi protagonismi e soprattutto per l’astio viscerale verso Renzi che manca nel pedigree di Pisapia.

Non ho ancora capito quanto ci sia di ingenuo e/o di sprovveduto nel carattere e nella mentalità di questo personaggio: sicuramente è in buona fede e, con le arie che tirano,   non è poco, ma non ci voleva molto a prevedere che i soliti marpioni della solita sinistra (D’Alema) lo avrebbero impallinato alla svelta. Molto probabilmente finirà così prima o poi anche Grasso: lo stanno strumentalizzando in modo vergognoso e lui sta al gioco in modo altezzoso e ambizioso.

Oltre tutto Pisapia, per diventare sindaco di Milano, non ha forse fatto un’operazione assai simile a quella renziana: una sinistra, tutt’altro che estremista, che guarda al centro (Tabacci ne era appunto un lucido e intelligente protagonista e garante). Pisapia, pur provenendo dall’area politica della sinistra estrema, non fa parte della burocrazia sinistrorsa che vuole reimpossessarsi non tanto del governo del Paese, ma dell’egemonia sul vecchio popolo ancora sensibile (non so quanto) ai richiami della foresta. Troppo moderato per gli uni, troppo spinto per gli altri, schiacciato in mezzo ad una morsa in cui non ha avuto il coraggio di resistere.

Quando si profilò all’orizzonte il suo ambizioso ma vago disegno politico, Beppe Grillo, che la politica la capisce più di tutti i pentastellati messi assieme, lo ribattezzò “Pisapippa” con il suo solito gusto dissacrante e distruttivo: allora ne risi soltanto, ora non ne rido più, perché ne esce con la patente di “pasticcione inconcludente” (e me ne dispiaccio sinceramente).

D’altra parte se l’arte del pizzaiolo napoletano è stata dichiarata patrimonio culturale dell’Umanità Unesco, considerata non come fenomeno commerciale ma come forma culturale, l’arte del cuoco politico milanese, Giuliano Pisapia, la possiamo ben inserire nel patrimonio culturale dei progressisti, considerata non come fenomeno della sinistra ma come pasticcio delle sinistre.

 

 

 

 

Le colpe dei figli ricadono sui padri

Consiglio a tutti di seguire la trasmissione Rai di Corrado Augias “Quante storie”. Ha il grande merito di calare la cultura, soprattutto i libri che ne sono uno specchio fondamentale, nel contesto politico, sociale ed economico e di proporre allo spettatore riflessioni profonde ma abbordabili. Molto opportunamente ogni giorno vengono ospitati studenti di scuola media superiore, i quali sono caldamente sollecitati ad intervenire con osservazioni e domande: lo fanno con tanta fatica, mettendo in mostra limiti sconcertanti a livello di formazione e di sensibilità.

Ogni volta tento disperatamente di giustificare questa estraneità con la loro giovane età, con il clima che li circonda e li induce ad evadere, con l’educazione familiare che li vezzeggia, con la scuola che li sopporta, con gli anziani che li difendono, con i nonni che li mantengono, con i media che li distraggono, con il lavoro che non li accoglie.

Poi faccio inevitabilmente un parallelo con la mia lontana gioventù. Anche la mia generazione scontava l’ingenuità e la timidezza tipiche della giovane età, ma aveva il coraggio di criticare e contestare il sistema, magari con atteggiamenti e metodi assai discutibili: meglio comunque esagerare nella protesta che accettare acriticamente la situazione. Anche i giovani di un tempo erano distratti e tentati dalle proposte fuorvianti del consumismo, ma sapevano cogliere gli aspetti fondamentali del mondo in cui vivevano.

Anche gli adolescenti di un tempo avevano un rapporto difficile con le famiglie, magari arrivavano a scontrarsi duramente con esse, persino a rifiutarle, ma non cercavano nei genitori i difensori d’ufficio delle loro inadempienze e dei loro difetti. Anche gli studenti del sessantotto avevano difficoltà nei percorsi scolastici, ma avevano la forza di opporsi, di occupare le università, di studiare senza mettere la testa nel sacco o senza rifugiarsi sulle nuvole. Il rapporto con gli anziani era tutt’altro che tranquillo, era conflittuale, ma meglio essere critici e criticati che compatiti. L’indipendenza economica era convintamente cercata e si soffriva a farsi mantenere. Si leggeva molto, si discuteva, si litigava. Le possibilità di lavoro erano maggiori, ma non si tergiversava aspettando che il posto di lavoro cascasse dal cielo.

Osservo i giovani con molta preoccupazione: mancano in loro cultura e sensibilità politiche. Ai miei tempi si sosteneva che “tutto fosse politica”, oggi la politica viene considerata una fesseria. Dove li abbiamo condotti questi giovani? Cosa abbiamo loro insegnato? Domande legittime e scomode. Quando li vedo non parlare o quando li sento parlare, mi chiedo: di chi è la colpa di tanta pochezza? Delle testimonianze sbagliate fornite loro o della svogliatezza con cui i giovani guardano il mondo che hanno attorno?

Dal punto di vista educativo, mio padre usava pazienza e senso pratico. Non ho mai ascoltato dalla sua bocca nessuna cosiddetta “paternale”, vale a dire nessun rimprovero o insegnamento teorico, tutto avveniva sempre in diretta, potremmo dire “il bello della diretta”. Non avevo un papà bontempone e accondiscendente ma carismatico, che esercitava l’autorità cercando di ottenere il meglio senza imporre ma proponendo con pazienza.

Su quest’ultima dote voglio soffermarmi un attimo recuperando quanto egli diceva di suo padre. Tutte le sere da giovane, maggiorenne e vaccinato usciva e si sentiva ripetere una serie di domande: “Ät tòt su un po’ äd sold? Gh’ät il ciävi? Gh’ät al fasolètt? E dulcis in fundo Véna a ca’ bonóra” . Quando me lo raccontava papà non aveva vergogna ad ammettere: “E mi gnäva sempor a ca’ tärdi!”

Un’altra battuta, che ho sentito ripetere da mio padre in occasione di rimproveri martellanti rivolti da madri o padri, un po’ isterici e troppo esigenti, ai loro figli bambini, magari per far loro smettere certe abitudini (succhiarsi il dito pollice) o certi vizietti infantili (attaccarsi alle gonne della mamma), è la seguente: “A t’ vedrè che quand al se spóza al ne la fa miga pu”. Della serie diamo tempo al tempo. Oppure di fronte a certi comportamenti adolescenziali piuttosto caparbi per non dire testardi era solito commentare: “S’al fa tant a catäros la moroza a cambia tutt”.

Certo mio padre non aveva a che fare con gli attuali, epocali e drammatici cambiamenti, situazioni quasi impossibili da dipanare ed in cui districarsi. A fronte di questa paradossale dinamicità globale i giovani soffrono la mancanza dello strumento principale di analisi e di impegno: la politica. Le ideologie non esistono più, le classi sociali si sono mischiate, le categorie mentali si sono capovolte, gli schemi culturali sono saltati. In poche parole, la politica gliela abbiamo rovinata e sfilata di mano. O hanno la pazienza di ricominciare daccapo o vivranno a mezz’aria con il rischio di ripiombare a terra spinti solo dai drammi della vita.

Uno zio sacerdote quasi papa

Molto impegnativo il quesito posto da mia madre al fratello sacerdote in ordine alla convivenza col marito, apparentemente non credente. Doveva tentare un improbabile proselitismo? Doveva porre il problema con una certa enfasi? Doveva provocare discussioni sul punto? Mio zio che conosceva l’onestà intellettuale e lo spessore morale di mio padre, rispondeva con un laconico ma apertissimo atteggiamento:“Lasol stär acsì”; adottava l’interpretazione, da me ascoltata e convintamene recepita, di un passo evangelico piuttosto delicato, laddove Gesù afferma: “Chi non crederà non sarà salvo”; da intendersi: “Chi non amerà non sarà salvo”.

A distanza di ottant’anni papa Francesco afferma: «Evangelizzare non è fare proselitismo. La Chiesa cresce non per proselitismo ma per attrazione, cioè per testimonianza, lo ha detto Benedetto XVI. Evangelizzare è testimoniare come vivere il Vangelo e in questa testimonianza ci sono conversioni. Ma noi non siamo entusiasti di fare subito le conversioni. Se vengono, si parla, per cercare che sia la risposta a qualcosa che lo Spirito ha mosso nel cuore davanti alla testimonianza del cristiano. Nel pranzo coi giovani a Cracovia uno mi ha chiesto: cosa devo dire a un compagno di università amico bravo ma ateo? Cosa devo dirgli per cambiarlo, per convertirlo? La risposta è stata questa: l’ultima cosa che devi fare è dire qualcosa. Tu vivi il tuo Vangelo e se lui ti domanda perché, gli puoi spiegare perché lo fai e lascia che lo Spirito Santo lo attiri. Questa è la forza: la mitezza dello Spirito Santo. Non è un convincere mentalmente con spiegazioni apologetiche. Noi siamo testimoni del Vangelo. Il proselitismo non è Vangelo”».

Mio zio sacerdote era quindi un profeta? Direi proprio di sì, e anche coraggioso, perché negli anni quaranta del secolo scorso non era facile sostenere simili tesi. Mia madre, di fronte a quella risposta si tranquillizzò in coscienza, mio padre continuò ad essere un galantuomo diversamente credente. Il problema sono io, che non sono tranquillo in coscienza perché non sono sicuro di essermi sempre comportato da galantuomo. Confido nello zio protettore, porto il suo nome.

Come ho ripetutamente scritto la mia vita, spiritualmente parlando, parte da una scena, che peraltro mi riguarda direttamente anche se avvenne appena prima della mia nascita, così delicata e commovente da mettermi i brividi. Lavinia, mia madre, era in attesa del secondo figlio, dopo quattordici anni dalla nascita della primogenita e mancavano pochi giorni al lieto evento. Ennio, suo fratello sacerdote, a trentacinque anni, era devastato da una tremenda malattia ed era perfettamente consapevole della ormai prossima fine. Mia madre, con il suo enorme pancione, si recò in visita allo zio (era un “rito” di tutte le sere) e quella volta trovò il coraggio di chiedergli se, nel caso in cui nascesse un maschio, avrebbe avuto piacere che lo chiamassero con il suo stesso nome, Ennio. Si trattava di un omaggio, ma anche di una elezione a protettore di tutta la dinastia, in quel momento da me prematuramente e indegnamente rappresentata. Nacque il maschio, lo chiamarono Ennio, lo battezzarono al cospetto del sempre più sofferente sacerdote, la zia suora lo porse in fasce al bacio di benedizione.

Se con queste premesse mi dovesse capitare di precipitare nel regno degli inferi, vorrà proprio dire che ce l’avrò messa tutta di mia spontanea volontà. Pochi giorni dopo il mio battesimo lo zio Ennio finiva il suo calvario, terminava le sofferenze accettate, o meglio offerte, in un cammino di autentica santità e…profezia. Mia madre, che ammirava il fratello prete, come più non si può, tra il serio e il faceto, gli pronosticava una carriera ecclesiastica di grande portata: «Diventerai, come minimo, papa…». Lui ci faceva sopra una sana risata. Forse oggi lo zio Ennio sacerdote, tramite Francesco, è diventato, un pochettino, papa.

Nella mia vita ho avuto il dono di nascere, crescere e vivere all’ombra di profeti: l’infanzia e la giovinezza con un’educazione religiosa illuminata dal ricordo vivo e palpitante dello zio sacerdote; la maturità caratterizzata dall’amicizia con “preti conciliari”; l’anzianità ravvivata dalla testimonianza scomoda di don Luciano Scaccaglia, un prete di frontiera.   Una bella ma gravosa sommatoria di responsabilità: io…speriamo che me la cavo….