All’inferno con telethon

E così la maratona natalizia di Telethon, finalizzata al sostegno della ricerca per combattere le malattie, ci mette la coscienza a posto? Ho seri dubbi e manifesto al riguardo tutte le mie perplessità.

È pur vero che lo stesso Gesù si è accontentato, alla sua nascita, di avere intorno degli “squallidi” pastori o dei ciarlatani maghi. È altrettanto vero che, una volta cresciuto, ha detto come anche un bicchiere d’acqua dato a chi ha sete possa rappresentare un grande merito di fronte al Padre Eterno. Oggi il nostro bicchiere d’acqua può essere un messaggino telefonico: versione evangelica informatica?

In materia di solidarietà mio padre aveva una regola d’oro: “S’a t’ tén il man sarädi a ne t’ cäga in man gnan’ ‘na mòsca”. Oggi può voler dire fare una telefonatina che sa tanto di pacca sulle spalle?

Mantengo tutto il mio scetticismo, anche se mi rendo conto che può fare rima con disfattismo. Credo sia tutta questione di atteggiamento interiore molto spesso coperto dall’esteriorità: siamo infatti alla industrializzazione spettacolare della beneficenza. La vedova al tempio butta segretamente qualche spicciolo nel tesoro vincendo la gara con chi ostentava offerte assai consistenti. Noi abbiamo messo d’accordo la vedova coi ricchi farisei: spettacolarizziamo tutto, anche pochi spiccioli, e ci illudiamo di essere bravi e buoni. Abbiamo modernizzato l’elemosina contestualizzandola scientificamente e finalizzandola umanamente.

Attori, cantanti, conduttori televisivi, sportivi, cronisti, giornalisti: tutti allineati e coperti a sostegno della ricerca contro la malattia. Cosa vogliamo di più? Non siamo forse nella società quasi perfetta? Se ci fermiamo in superficie può anche essere, se appena scendiamo di un millimetro cambia tutto. È sempre la solita storia che il Natale porta inesorabilmente a galla: la forma non può cambiare la sostanza. Non scherziamo per favore. Una importante ed esperta funzionaria ministeriale diceva spesso a me, giovane e sprovveduto professionista da strapazzo: «Dottor Mora, si ricordi che la forma è sostanza!». Ebbene ciò può essere vero in campo burocratico ed amministrativo, ma in campo culturale e sociale…

Ricordo quando da studente diedi qualche lezione privata ad un ragazzino che scolasticamente faceva fatica a stare al passo. Alla fine del ciclo mi arrivò a casa un pacco dono con dentro un bel regalo. La famiglia benestante di quel bambino mi aveva ricompensato. Un carissimo e disincantato amico mi disse: «Caro Ennio, questa è la giustizia dei ricchi…». Sì, è la giustizia di telethon, quella delle maratone televisive, quella dei ricchi epuloni che si degnano di guardare di sfuggita i poveri Lazzaro e gli allungano un pezzettino di pane. Meglio di niente, ma l’inferno non ce lo toglierà nessuno.

Alla ricerca del Natale perduto

Scriveva Alberto Moravia: «Il Natale mi fa pensare a quelle anfore romane che, ogni tanto, i pescatori tirano fuori dal mare, …tutte ricoperte di conchiglie e di incrostazioni che le rendono irriconoscibili. Per ritrovarne la forma, bisogna togliere tutte le incrostazioni. Così il Natale». Un altro scrittore, padre D. M. Turoldo, dal versante cristiano, mette a fuoco la stanchezza dei nostri Natali, lo stress, la mancanza del futuro e di bambini: «Siamo tutti stanchi; tutta l’Europa è stanca: un mondo intero di bianchi, vecchi e stanchi e pieni di paure! Il solo bambino delle nostre case di questi giorni saresti tu, Gesù, ma sei un bambino di gesso! Nulla di più triste dei nostri presepi: in questo mondo dove nessuno più attende nessuno».

Mi riconosco in queste autorevoli definizioni del Natale: in me prevale la tristezza delle occasioni perdute associata alla pigrizia ed alla stanchezza per tentare il ripristino del vero Natale. Ecco perché, tra l’altro, non sopporto il rito degli auguri (anche se spesso ci vengo tirato dentro per i capelli), che è la consacrazione del finto Natale, quello irriconoscibile e fasullo che ci siamo costruiti. Sono passati duemila anni e del coraggioso “fiat” di Maria non è rimasto nulla, nonostante quel “fiat” abbia avuto un seguito a Betlemme, ma soprattuto sul Golgota dove tutto è stato compiuto.

Quante volte abbiamo sentito affermare che per celebrare il Natale occorrerebbe essere felici e spensierati: è la più grossa fandonia che si possa dire. La nascita di Gesù ha comportato enormi e drammatici problemi: per sua madre Maria in odore di lapidazione, per Giuseppe in odore di colossale presa in giro, per i pastori in odore di falsa illusione, per i magi in odore di scientistico abbaglio…

Il Natale ci mette in discussione e scopre tutte le nostre magagne ed è per questo che mi prende una grande tristezza: non ho il coraggio pazzesco di Maria, non ho l’umiltà profonda di Giuseppe, non ho la sincerità trasgressiva dei pastori, non ho la testarda perseveranza dei Magi. Sono solo con le mie paure.

Mi viene in soccorso l’indimenticabile amico sacerdote Luciano Scaccaglia, che affermava: «Nel Natale tutti sono inclusi, tutti hanno il diritto di esserci, tutti hanno diritto a un pezzo di pane, di speranza e di accoglienza, tutti sono a diritto nel presepe: il tossico e la prostituta, chi ha perso fiducia, chi è in carcere, chi prende continuamente porte in faccia o è messo da parte, le coppie “regolari” e le coppie “di fatto”, l’omosessuale che si sente discriminato ed emarginato e guardato con sospetto e l’eterosessuale che cerca faticosamente di imparare ad amare, magari sbagliando i percorsi, lo straniero, come i magi, con la loro religiosità aperta alla ricerca, i credenti non sazi né sicuri nei loro “punti fermi”, ma sempre in cammino un po’ a tentoni, i poco credenti con l’insoddisfazione per i vuoti che trovano in sé, gli atei non “devoti” al loro clericalismo, ma perché atei più per disperazione che per convinzione, poiché la loro onesta ricerca è finita in “sentieri interrotti”… Tutti possono tornare a casa lasciando risuonare la parola più bella che risuona a Natale: “Non temete!”,   perché Dio abita la nostra debolezza e non è assente per nessuno».

La cura per la Curia

Don Andrea Gallo raccontava una stupenda barzelletta (?): «Voi sapete che nella nostra Santa Madre Chiesa, uno dei dogmi più importanti è la Santissima Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’amore e la comunione vanno in tutto il mondo, e si espandono. Lo Spirito Santo dice: “Andiamo a farci un giro. Io sono affascinato dall’Africa”. Il Padre risponde: “Be’, io andrò a vedere il paradiso delle Seychelles. Perché non capisco come mai i miei figli e figlie hanno il paradiso in terra”. Gesù ascolta e non risponde. Allora gli altri due: “Tu non vai?” Gesù: “Io ci son già stato duemila anni fa”. “Non ci farai mica far la figura che noi andiamo e tu rimani”, gli dicono in coro il Padre e lo Spirito Santo. “Va be’, allora vado anch’io”. “Dove vai?” “A Roma”. “Sì, ma a Roma dove vai?” “Vado in Vaticano”. “In Vaticano?”, dicono increduli il Padre e lo Spirito Santo. Gesù risponde: “Eh sì, non ci sono mai stato”».

Questa gustosa storiella mi è tornata in mente leggendo le critiche che papa Francesco ha rivolto alla Curia Vaticana: non ha speso parole chiarissime, forse ha parlato a nuora perché suocera intenda, forse è stanco di avere a che fare con un ambiente viscido e ambiguo, forse ha cannato qualche scelta di persone, forse si rende conto di dover combattere contro i mulini a vento.

Da una parte il papa, che, tra l’altro, non deve rispondere ai suoi elettori, non ha problemi di secondo mandato, ha un diretto superiore molto esigente ma totalmente al di fuori degli schemi, quello Spirito Santo che tutti invocano e di cui tutti se ne fregano, ha l’autorità per intervenire direttamente e pesantemente nella carne burocratica della Chiesa, per riformare le strutture riconducendole al paradossale dettato evangelico della non-struttura.

Dall’altra parte il papa deve pur fare i conti con la debolezza umana annidata nelle stanze vaticane: sono sue pecore anche i cardinali e i monsignori di Curia e non può limitarsi a “smerdarli” come meriterebbero, non fosse altro perché hanno la furbizia e la capacità di disfare la tela papale.

Se ne esce? Da tempo vedo un grosso rischio per papa Francesco, quello di non riuscire ad istituzionalizzare, strutturare, codificare, consolidare, concretizzare il messaggio fortemente innovativo di cui è portatore. Nello stesso tempo capisco che l’invito aperto e misericordioso dell’attuale pontefice non può essere rinchiuso nelle mura vaticane, non può essere lasciato agli addetti ai lavori, non deve essere tradotto in disposizioni canoniche. In fin dei conti Gesù non ha scritto niente e diceva continuamente ai suoi discepoli di non preoccuparsi, perché al momento giusto avrebbero comunque saputo cosa c’era da fare e da dire.

Ammetto che, quando il papa lancia frecciate ai potenti e ingombranti esponenti della sua corte, godo come un matto, ma la goduria finisce in fretta, perché le frecciate e i rimproveri scavalcano le mura vaticane e superano gli abiti talari per arrivare a tutti coloro che dicono di essere cristiani.

Sembra che nei richiami di questi ultimi giorni in vista del Natale 2017 alcuni, coloro che ostentano di essere più papisti del papa, abbiano visto un attacco agli opposti estremismi curiali: ai pedanti conservatori più incalliti, ma anche   agli inconcludenti e deludenti riformatori chic. Non sono addentro agli equilibri “politici” della Chiesa, me ne frego altamente dei dogmi e delle regole, il mio punto di riferimento è il Vangelo, ascolto volentieri le parole di Francesco e sono attento ai suoi comportamenti in quanto lo vedo proteso a ricondurre tutto il popolo di Dio agli insegnamenti evangelici senza fronzoli e senza sconti. Il resto lo lascio ai vaticanisti.

 

La messa (in scena) è finita, andate in un altro teatro

L’utilizzo dello smartphone è diventato una specie di ossessione per (quasi) tutti. Una volta, scherzando goliardicamente con gli amici, mi sono chiesto quando si riuscirà ad utilizzarlo per un clistere o…poi mi sono fermato per non essere scurrile o addirittura volgare.

Finalmente papa Francesco ha inflitto un teorico colpo madornale a questa mania generalizzata: se ne sconsiglia caldamente l’uso durante le celebrazioni liturgiche, non solo per non disturbare o essere disturbati dalle chiamate, ma anche per evitare di scattare fotografie e immortalare ricordi.

In effetti quando si assiste televisivamente a qualche rito a livello vaticano presieduto dal Papa, si è colpiti dai bagliori di un’autentica gragnola di scatti fotografici partenti dai telefonini (persino da quelli dei numerosi sacerdoti concelebranti): colpa della mania che ci perseguita e che non dovrebbe avere niente da spartire con una seria partecipazione alle liturgie eucaristiche.

Un tempo il discorso era limitato ai Battesimi, alle Cresime, alle Prime Comunioni, ai Matrimoni ed alle performance dei fotografi ufficiali e di qualche parente o amico. Ricordo al riguardo le battaglie di certi sacerdoti volte a contenere al massimo queste fastidiose trasgressioni: battaglie perse a giudicare dall’inflazione attuale.

Ho accolto con soddisfazione e sollievo la raccomandazione papale volta a sottolineare l’incompatibilità sostanziale tra il significato della celebrazione eucaristica e la smania di scattare le foto col telefonino. Sarebbe come se sul Calvario le donne strette attorno alla Croce di Cristo si fossero preoccupate di cogliere l’aspetto spettacolare dell’evento. Come se l’apostolo Giovanni si fosse brevemente allontanato per godere meglio la scena.

Se però di inopportuna spettacolarizzazione vogliamo parlare, il discorso lo dobbiamo vedere da entrambe le parti: da quella dei promotori e dei protagonisti principali del rito oltre che da quella dei distratti componenti del popolo di Dio.

Assistiamo in televisione ai riti celebrati in Vaticano, in S. Pietro a Roma, e ne cogliamo la pesante teatralizzazione, abbiamo la sensazione di assistere ad assurde messe in scena degne del miglior Franco Zeffirelli. Il prossimo Natale non mancherà di fornire ghiotte occasioni al riguardo.

A quando, papa Francesco, una ventata di aria fresca anche in questo campo? A quando il licenziamento dell’insopportabile ed impettito maestro di cerimonie, protagonista instancabile di un marcamento a uomo del pontefice ovunque celebri una messa? Mi sembra che il tutto possa essere considerato una sorta di istigazione a rovinare l’Eucaristia facendone un’occasione di pur perbenistica ma dissacrante memoria. Se mettiamo su un piatto d’argento tutta l’esteriorità liturgica possibile, diventa difficile pretendere che non venga assaporata con accanimento. Con le arie che tirano si spettacolarizza tutto, quindi anche le messe addobbate e sovraccaricate di esteriorità.

Poi entriamo in certe chiese periferiche e torniamo a terra, per constatare la routinaria pochezza di liturgie sbrigativamente ed anonimamente finalizzate solo al tagliando di adempimento del precetto festivo. Da una estremità all’altra: dalla vuota enfasi rituale alla banalizzazione precettistica. Là scatti con lo smartphone, qui scatti per uscire di chiesa il più alla svelta possibile.

I soliti mali di stagione… lirica

Tempo di inaugurazione delle stagioni liriche. Dopo la Scala, il Comunale di Roma e via via gli altri teatri d’opera apriranno i loro battenti operistici. Seguo questi avvenimenti a distanza e con grande nostalgia per il periodo in cui ero immerso a doppio titolo, di appassionato e di modesto addetto ai lavori, nella vita del teatro Regio di Parma.

Sono passati ben trent’anni da allora, ma le anomalie sono rimaste, anzi si sono fatte ancor più fastidiose ed eclatanti: mi riferisco all’attenzione mondana verso l’evento e alla sua caratterizzazione culturale in chiave teatralmente esteriore.

Innanzitutto per andare a teatro, come sosteneva mio padre, non occorre l’abito di gala ma il biglietto. Si ricordava infatti dei salti mortali per entrare al Regio, quando la povertà non gli consentiva il regolare biglietto e bizoggnava arrangiarsi per non privarsi della impagabile soddisfazione dell’opera lirica. Una sera davano un’opera diretta dal concittadino maestro Podestà. Si misero in due ad aspettarlo davanti all’entrata del palcoscenico, in largo anticipo sull’orario normale (gli artisti sono in teatro un’ora prima dello spettacolo), per chiedergli se avesse potuto farli entrare assieme a lui per poi sgattaiolare in sala e sistemarsi in qualche modo. Dopo aver capito che si trattava di veri appassionati che non avevano effettivamente la possibilità di pagare l’ingresso, acconsentì con la promessa che non sarebbero rimasti in palcoscenico, cosa assolutamente vietata, e avrebbero trovato una soluzione accettabile. Si accodarono al maestro e fecero per entrare, ma il controllore chiese: «Méstor, chi éni chi du chi?». «Lasa pasär, j én con mi…». Fin qui tutto bene, ma altri capirono l’antifona e si intrufolarono. «Anca chilù?» chiese l’inserviente. «Sì» rispose il maestro. E la storia si ripetè per altri. Ad un certo punto l’addetto alla portineria chiese spazientito: «Méstor…». Podestà non gli fece neanche finire la domanda e gli rispose senza possibilità di appello: «Mo sì, tutti…». Conosceva la passione dei suoi concittadini e la loro povertà.

Poi viene lo strapotere di scenografi, costumisti, registi, i quali oltre disturbare e/o travisare le opere liriche, impongono l’attenzione mediatica sul loro operato distraendola dai contenuti musicali, vocali ed interpretativi. Quando si parla o si scrive della rappresentazione di un’opera lirica, si fanno commenti a non finire sulla operazione registica, si dedicano due misere e scarne parole al direttore d’orchestra, all’orchestra stessa, al coro ed a chi lo dirige ed a volte si dimentica persino di citare i cantanti, come se fossero un elemento di puro contorno.

Voltiamo quindi pagina arrivando alla seconda anomalia, sempre nell’ambito dell’opera lirica in teatro: le scenografie e le regie d’avanguardia, le messe in scena antitradizionali ecc. ecc… Mio padre era drasticamente contrario a queste innovazioni, era un autentico “matusa” in questo campo, anche se ammetto non avesse tutti i torti. Cito un episodio significativo in tal senso. Nell’ultimo atto dell’opera Falstaff, la vicenda si svolge in una foresta e Sir John dice espressamente “ecco la quercia” per identificare il luogo dell’appuntamento. “ Mo indò éla?” gridò mio padre dal loggione, dal momento che la scena non aveva neanche l’odore della quercia. Maleducato? Sì! Aveva ragione: almeno un po’, sì! E negli anni le cose sono assai peggiorate e diventate al riguardo sempre più insopportabili.

La Dannazione di Faust con cui ha aperto il teatro Comunale di Roma passerà alla storia per le mise di Virginia Raggi e Maria Elena Boschi. Chi dirigeva l’orchestra? Chi cantava? Inutili curiosità da melomani.

L’Andrea Chenier della Scala verrà ricordata per la messa in scena di Martone, peraltro almeno accettabile e che ha rispettato il dramma lasciandolo nella storia della rivoluzione francese e non ha trasferito l’ambientazione, che so io, nella Resistenza al nazifascismo. Per fortuna direttore e cantanti erano sufficientemente bravi per imporsi all’attenzione e per costringere tutti a capire che oltre i cambi girevoli di scena c’erano anche arie e duetti di rara intensità teatrale oltre che musicale.

Un’anziana appassionata di opera lirica per sapere come era andata la recita chiedeva: «Ani fat gnir i zgrizór?». Intendeva andare al nocciolo della questione. Non si interessava certo ai personaggi di spicco presenti nel foyer, né alle caratteristiche della messa in scena, ma alle emozioni forti offerte dagli interpreti, che imprimono ed esprimono la vera cifra dello spettacolo.

 

Di Maio santo (quasi) subito

Il governatore della Banca D’Italia Ignazio Visco ha così testimoniato di fronte alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche: «A richiesta di informazioni su banche in difficoltà io risposi a Renzi che di banche in difficoltà parlo solo col ministro. Lui la domanda la fece e io non risposi».

Luigi Di Maio ha commentato: «Visco svela le pressioni di Renzi su Banca Etruria. Per uno scandalo di questa portata un vero partito democratico avrebbe già mandato a casa il suo segretario».

A Visco mi permetto di ricordare che il Presidente del Consiglio, pur non avendo costituzionalmente poteri diretti, è responsabile, da “primus inter pares” qual è, della politica governativa e quindi non capisco il perché di questa ostentata riottosità nei suoi confronti. Dal momento che ormai tutto si gioca a livello di maliziosi retroscena, scendo anch’io su questo fangoso terreno e non vorrei si trattasse di una frecciatina velenosa e vendicativa, visto che Renzi aveva posto qualche dubbio alla riconferma di Visco alla testa della Banca Centrale Italiana.

Infatti al grillino candidato in pectore alla presidenza del consiglio non è parso vero di costruirci sopra un attacco politico bello e buono. A lui chiedo cosa ci sia di strano e scandaloso nel fatto che un premier si interessi delle banche in difficoltà, chiedendo magari notizie al governatore della Banca d’Italia. Come si comporterà Di Maio nella malaugurata ipotesi che venga chiamato a palazzo Chigi?

Al di là di tutto resta il solito amaro retrogusto di un confronto politico falsato da strumentali polemiche e soprattutto da attacchi scorretti ed infondati. Non credo che Renzi sia un santo, anche se la chiamata alla santità vale per tutti anche per i politici, ma i canoni della santità non li determinano certo Grillo e Di Maio, che al massimo potranno scherzare coi fanti lasciando stare i santi.

In fin dei conti Giorgio La Pira, lui sì in odore di santità, non esitava ad interessarsi delle aziende in difficoltà: resta storico il suo insistente intervento a favore dell’azienda Pignone a rischio chiusura con le gravi conseguenze occupazionali che ne sarebbero potute derivare. Non si fece scrupolo di chiedere aiuto ad Enrico Mattei, presidente dell’Eni, affinché la salvasse e la rilevasse: eravamo al limite della correttezza istituzionale, l’interferenza della politica era indiscutibile; La Pira, che all’epoca, se non erro, era soltanto il sindaco di Firenze, stava intromettendosi, utilizzando allo scopo amicizie personali.

Tutti stupidi? Tutti ladri? Nossignori! Tra l’altro gli stupidi abbondano anche oggi; quanto ai ladri staremo a vedere cosa succederà quando governerà Di Maio. Mi metterò con la fantasia nelle vicinanze di palazzo Chigi per guardare il viso di chi ne uscirà dopo aver parlato col presidente. Probabilmente Grillo si sarà già eclissato e gli italiani si andranno a nascondere.

 

 

 

L’uomo giusto al posto giusto

Ho involontariamente ma fortunatamente ascoltato l’indirizzo di saluto rivolto al Quirinale dal Presidente Mattarella agli atleti che parteciperanno alle olimpiadi invernali in rappresentanza del nostro Paese dietro i colori della nostra bandiera. Come spesso mi accade (sarà anche l’età) mi sono commosso alle prese con la mite ma forte autorevolezza del Capo dello Stato: riesce a trasmettere un senso di fiducia, di serenità e di partecipazione, che allargano la mente e il cuore.

Mi sono quindi assai irritato quando la trasmissione è statabruscamente interrotta per il solito stupido rispetto del palinsesto, applicato dal solito petulante conduttore, insediato dal solito opportunista direttore, nominato dal solito cencelliano consiglio di amministrazione, presieduto dal solito tappezziere di turno. Li ho stramaledetti tutti quanti (non per cattiveria di cui sotto, ma per legittima difesa): ci inchiodano agli schemi che ci abbruttiscono.

Perché ascolto Mattarella con tanto riguardo e tanta consolazione? Perché è capace di togliere il Paese da quel senso di “cattiveria” che lo opprime e lo condiziona pesantemente. Non sto facendo il solito natalizio pistolotto buonista: se proprio devo essere sincero mai come quest’anno sono stato insofferente alla gara augurale di cui mi sento vittima. Mio padre per dissacrare il rito degli auguri raccontava la gustosa barzellettina di quel bambino che, in un linguaggio equivoco tra italiano e dialetto parmigiano, terminava la poesia di Natale con: «…e tanti ingurij al papà…». Al che il padre rispondeva: «Sì, e un m’lon in tla schén’na a tò mädra…».

Natale a parte, non ne posso più di vivere in un clima, politico, sociale e mediatico, improntato alla cattiveria. Ho sempre avuto un forte spirito critico, probabilmente ereditato da mio padre, e quindi non sono un pedissequo osservatore della società, non amo voltare le spalle ai problemi, non mi rifugio in una comoda alzata di spalle. Dal menefreghismo verso tutto e tutti alla “smerdata” di tutto e tutti passa parecchia differenza, anche se forse finiscono con l’essere i due lati della stessa medaglia.

Questo stile barbarico mi infastidisce: a volte cerco di riderci sopra, talora mi innervosisco, spesso tento di estraniarmi. Non si può vivere così, immersi nella cattiveria! Sergio Mattarella ha il potere di calmare, abbassando i toni polemici e riportando sempre le questioni alla loro effettiva dimensione. Si badi bene, non si tratta di stendere un velo zuccheroso sui problemi, ma di ricondurli ad una realtà obiettiva e di inserirli in una logica di cambiamento positivo e costruttivo.

Quando partecipavo alle riunioni assembleari di società cooperative, toccavo con mano come il presidente fosse generalmente il personaggio carismatico (non necessariamente il più intelligente o il più esperto, ma il più credibile, il più serio ed equilibrato) capace di instaurare un clima collaborativo anche di fronte agli inevitabili scontri polemici. Sì, la cooperazione, con le sue strane, paradossali e democratiche regole amministrative, ha sempre qualcosa da insegnare a tutti coloro che operano nelle diverse istituzioni e strutture.

Proviamo quindi a seguire lo stile di Mattarella, che sa farsi ascoltare senza alzare la voce, che sa imporsi senza protagonismo, che sa consigliare senza intromettersi, che sa rappresentarci senza invadenza, che sa volerci bene anche se non lo meritiamo.

 

Lo sfogatoio politico parallelo

Quando sono costretto dalle contingenze fisiche (non sempre infatti riesco a cambiare repentinamente canale o a voltare immediatamente la pagina), a sentire o leggere, mio malgrado, le dichiarazioni politiche (?) dei pentastellati, sguinzagliati dal loro furbastro burattinaio, ho l’impressione di avere a che fare con persone che fortuitamente si trovano a ricoprire ruoli istituzionali, gente che passa di lì per puro caso, soggetti che rappresentano, sì e no, solo loro stessi, che sparano cazzate a salve.

Luigi Di Maio è la punta di diamante di questi presuntuosi apprendisti stregoni della politica italiana: la boutade sul ridimensionamento delle pensioni d’oro per risanare le casse erariali è fin troppo eloquente al riguardo. Si tratta di proposte lanciate alla viva il parroco, che durano pochi minuti, fino all’incipiente ed inevitabile smentita e servono solo a tenere caldo il bar sport del dibattito fasullo e assordante.

Non è il caso di entrare nel merito di queste cavolate. Ritengo tuttavia che valga la pena discutere sull’atteggiamento da riservare a queste provocatorio modo di (non) fare politica. Registro la tendenza a controbattere, a rispondere polemicamente, a prendere sul serio le insistenti grida, a cadere nel tranello di un falso dibattito. Non voglio rifugiarmi in una concezione aristocratica della politica, arrivando ad assimilarla alla musica, ma…

A tal proposito ricordo come mia sorella Lucia amasse la musica. Questa passione, ereditata da papà, incombeva sulla sua vita: soprattutto l’opera lirica, il melodramma verdiano in particolare, ha condito ed alimentato il suo animo. Una passione abbinata a competenza acquisita sul campo. Mi raccontava come una volta ebbe l’ardire di attaccare discorso musicale con un frate effettivamente molto preparato nel campo, persona amabile ma piuttosto originale. Prima di interloquire volle fare una rapida verifica e chiese ad un suo collega garanzie sulla affidabilità di mia sorella in materia di opera lirica. Solo dopo avere avute le rassicurazioni del caso, proseguì il dialogo. In materia musicale infatti non si scherza. Tutti possono improvvisarsi allenatori di calcio, ma non direttori d’orchestra.

Forse anche per la politica potrebbe valere questa pregiudiziale, magari non per il cittadino medio o per lo sprovveduto, incolpevole elettore, ma almeno per chi svolge certe funzioni o si candida a guidare il Paese. Sarei propenso a riservare una sorta di dibattito-sfogatoio parallelo in cui tutto è possibile dire, come avvenne tempo fa con i microfoni aperti di radio radicale, relegando il discorso pentastellato ad esercitazione da social di infimo livello. Potrebbe essere anche pericoloso, ma non vedo sinceramente l’opportunità di dialogare con chi vuole solo provocare: si è sempre perdenti.

Agli esordi del movimento grillino mi illudevo che questa nuova formazione potesse arginare in qualche modo la crescente avversione popolare verso la politica, rappresentandone a livello istituzionale le pulsioni dopo averle filtrate e sciacquate in Arno. Purtroppo il discorso si è capovolto: è successo che Montecitorio si è trasformato nel bar della politica e l’antipolitica è diventata l’alimento istituzionale del Paese.

Non mi convincono coloro che si illudono, magari strumentalmente, di recuperare quanto di positivo può esserci nel contenitore pentastellato: mi sembrano quelli che vanno a rovistare fra i rifiuti per trovare qualcosa di utile e riciclabile. Se la politica è ridotta così…

 

Piove, del governo parleremo dopo.

Fino a qualche giorno fa era emergenza siccità, ora siamo repentinamente passati all’emergenza alluvioni. Non è facile capire fin dove queste contingenze drammatiche siano riconducibili agli “scherzi” della natura o agli errori ed omissioni dell’uomo. Quando succede il finimondo i media sono immediatamente portati a scaricare le colpe sulle negligenze degli organi, che, a vario titolo ed a diverso livello, gestiscono il territorio. Salvo dimenticare ed assolvere tutti nel giro di pochi giorni.

In questa facile e comoda ricerca dei capri espiatori si cela la mancanza di senso di responsabilità: lo scaricabarile non assolve nessuno e colpevolizza tutti. Non vale nemmeno buttare il prete (i disastri ambientali) nella merda (i cambiamenti climatici): anche il clima risente non poco degli scriteriati comportamenti umani. Il fatalismo di chi ritiene il clima una variabile indipendente assolve tutti ed in primis l’anidride carbonica che vomitiamo nell’atmosfera. Si passa cioè da una estremità all’altra, con la triste conclusione che chi va sott’acqua o chi è senz’acqua deve arrangiarsi.

E qui viene a proposito la battuta velenosa lanciata da mio padre in occasione di una alluvione in Italia (non ricordo dove e quando, ma non ha molta importanza ai nostri fini).

Di fronte al solito ritornello dei comunisti trinariciuti, quelli col paraocchi, che recitava più o meno “Cozi dal gènnor in Russia in sucédon miga”,   mio padre rispose: “ Sät parchè? In Russia i gh’àn j èrzon äd cärta suganta”. Allora erano i comunisti a sovrapporre le scorciatoie ideologiche con quelle climatiche, oggi è il turno dei capitalisti ad oltranza ritenere che il dio-danaro debba avere comunque il sopravvento sul dio-natura.

Gli Usa di Trump si chiamano fuori dalla mischia climatica, mentre gli altri Paesi balbettano e programmano i loro interventi su tempi biblici, che potrebbero essere presi in contropiede da un nuovo diluvio universale.

Una puntata politica tuttavia me la devo concedere. Se non erro, la gestione ed il controllo del territorio sono in gran parte delegati alle regioni: la vicinanza fisica dovrebbe essere garanzia di maggiore attenzione e sensibilità. Non è così. I palleggiatori di responsabilità sono aumentati. Tutti hanno le diagnosi perfette e le ricette pronte e quando piove andiamo in barca…

Non mi stancherò mai di ripetere l’aneddoto raccontato da mia nonna: Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?” , erano due ingegneri che si scambiavano complimenti, ma che si erano dimenticati l’uscio nella porcilaia.

In questi giorni ho apprezzato le sensate e misurate reazioni della gente colpita dalle alluvioni: di fronte alle subdole domande invitanti a scadere nell’immediato scaricabarile delle colpe, rispondevano quasi sempre con dei no-comment o con eloquenti sguardi di sofferenza. Bisogna ammettere che la gente è assai più seria ed equilibrata di chi la governa e di chi la informa. L’Italia poi è proprio nota per avere la capacità di farsi su le maniche in occasione delle situazioni di emergenza, quando non serve chiacchierare a vanvera o buttarla in politica. Non sia l’alibi di chi governa per non fare un cazzo.

 

 

Lo scandalismo è il mio mestiere

Ho appena salutato con una certa soddisfazione il varo della legge sul biotestamento, che vieta l’accanimento terapeutico, ma mi accorgo come sarebbe oltremodo necessario un provvedimento legislativo contro l’accanimento politico.

Ogni giorno un colpo basso verso l’avversario, ogni occasione è buona per infangare e sottoporre a giustizia sommaria il personaggio su cui si profila, anche vagamente, qualche responsabilità per comportamenti scorretti: non solo non si aspetta che la giustizia faccia il suo corso, ma ancor prima che si aprano eventuali indagini si improvvisano congetture e gogne mediatiche per i politici in odore di inopportunità.

Mi riferisco all’atteggiamento che da tempo si è scatenato contro Maria Elena Boschi, per la quale mi sembra si intravedano due capi di imputazione: quello di essere bella e di essere amica di Matteo Renzi. Il resto è fuffa demagogica: sul presunto interessamento a favore della banca amministrata anche da suo padre si è costruito un castello di insinuazioni, che punta dritto all’impeachment per interessi privati in atti d’ufficio o favoreggiamento di chissà quali reati. Sento puzza di scandalismo di bassa lega, altra e ben più rigorosa e coraggiosa è la ricerca della verità.

La storia è piena di fulmini scaricati sul capo di politici, distrutti da calunnie camuffate da rigorismo etico. L’attualità però sta superando i livelli di guardia. Che il grillino premier in pectore, Luigi Di Maio, sputi la teoria in base alla quale le presunte e risibili mascalzonate di Maria Elena Boschi chiuderebbero il cerchio di tangentopoli apertosi con le bustarelle di Mario Chiesa è veramente una colossale fandonia su cui i pentastellati cercano di fondare il loro incipiente successo elettorale. Il teorema grillino sarebbe: PSI di Craxi = PD di Renzi. In queste improvvisate ricostruzioni storiche tra passato e presente ci può stare di tutto e di più. Si potrebbe controbattere con il medesimo stile, sostenendo che i comportamenti scorretti di Virginia Raggi in Campidoglio completano la discesa agli inferi della cattiva amministrazione pubblica periferica apertasi con lo scandalo edilizio parmense degli anni settanta del secolo scorso.

Mentre i cinque stelle si esercitano in un giustizialismo da cortile, diversi esponenti del centro-destra non riescono a tacere e tirano pietre nonostante la loro parte politica non sia affatto senza peccato (non dico niente di più per non infierire su Berlusconi, al quale, in queste circostanze, riconosco tuttavia il buon gusto personale di stare zitto, fino a quando non so…).

Ma i più faziosi attacchi vengono da certi media, che sentono odore di sangue e quindi si scatenano e si specializzano in aggressioni volte non tanto a mettere nel mirino e delegittimare certi politici, ma ad autolegittimarsi nel ruolo di giustizieri della notte. Mi riferisco a Marco Travaglio ed alla sua deviante scuola giornalistica, alla spasmodica ricerca della prospettiva politica del “tanto peggio tanto meglio”, interpretata, in questa fase storica, dal movimento cinque stelle.

Quando Berlusconi iniziò la sua parabola discendente e diventò il pianista contro cui non si può sparare, alcuni lucidi ed ironici giornalisti ammisero candidamente: e adesso come facciamo, di cosa camperemo? Ed allora ecco come, terminato il paradossale divertissement dell’anti-berlusconismo di maniera, dopo qualche tempo la mira si sia aggiustata e spostata contro Matteo Renzi, reo di riciclaggio berlusconiano e di continuismo sistemico. Il cavallo, pur bolso che sia, su cui puntare in questo palio della politica, è il movimento cinque stelle col suo abile fantino, per vincere senza esclusione di colpi davanti alla piazza astiosa e facilmente aizzabile.

Non so se, in tale bailamme fangoso e pretestuoso, la pubblica opinione saprà distinguere tra il grano e la zizzania, tra lo scandalismo e gli scandali. La parabola evangelica prevede tempi lunghi per individuare e sradicare le erbe infestanti. La parabola elettorale comporta invece tempi brevissimi con tutti i rischi del caso, compreso quello di un clamoroso e rezionario ritorno al berlusconismo riveduto e corretto, sottoposto ad evidente e carnevalesco lifting.

Ricordo come uno stimato ed esperto commercialista mi descrivesse lo sciacallaggio esistente sul mercato delle libere professioni: ci si ruba il lavoro senza farsi scrupoli, applicando prezzi impossibili pur di conquistare il cliente. Il malcapitato utente si accorge a distanza di tempo di essere caduto nel tranello e ne soffre magari le tristi conseguenze, ma è tardi per tornare indietro: lui paga le sanzioni e il commercialista di un tempo ha perso irrimediabilmente il cliente. È già successo e potrebbe succedere anche in politica.