Auguro a tutti un anno…taciturno

Tra le indicazioni omiletiche del primo giorno dell’anno ne ho colta una con particolare interesse in quanto tocca un mio ansioso e categorico imperativo: non sprecare il tempo.

Quando preparavo gli esami universitari non uscivo di casa, rimanevo giorno e notte in pigiama, studiavo persino in bagno; quando non ne potevo più, alleviavo la fatica con un sottofondo di musica classica, mi alzavo alle cinque del mattino e facevo brevissime soste solo per i pasti. Esageravo, come è sempre stato mio costume, ma poi mi rifacevo e tiravo il fiato per qualche giorno prima di tuffarmi nel successivo esame.

Sì, perché è vero quanto sosteneva mio padre con un suo prezioso insegnamento: ci deve essere un tempo per studiare e lavorare, un tempo per stare con la famiglia, un tempo per le amicizie, un tempo (il più importante e assorbente) per i legami sentimentali, un tempo per ascoltare gli altri ed i loro problemi, un tempo per il divertimento e lo svago. Non è facile combinare al meglio queste opzioni, ma bisogna almeno provarci.

A volte, ascoltando le chiacchiere inutili della gente e pensando purtroppo anche alle mie, mi viene spontaneo tentare una paradossale proiezione: se il tempo dedicato alle polemiche viziose, ai ragionamenti oziosi e ai contrasti inutili fosse convertito alle cose importanti della vita personale e comunitaria, forse avremmo avviato a soluzione parecchi problemi.

Provate ad immaginare il fiume di sciocchezze che scorre nei bar e nei locali pubblici in genere, nei salotti (anche e soprattutto quelli televisivi), nei saloni di bellezza: roba da far invidia al tanto vituperato peggior dibattito politico. Il mezzo televisivo ha tolto parola e capacità critica allo spettatore, alle chiacchiere umane sono state sostituite quelle catodiche. Poi è arrivato lo smartphone e Dio ce ne scampi e liberi: le stupidaggini corrono sul web e diventano addirittura roba delinquenziale.

Al riguardo mio padre, a volte, proprio per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, si alzava di soppiatto dalla poltrona e quatto, quatto se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Mio padre con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?” ; l’altro risponde: ” No vagh a lét”. E l’altro ribatte: “Ah, a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

Il dialogo tra mio padre e la televisione non era come quello tra due sordi: sapeva godere anche la TV ma con una certa parsimonia (la usava spesso come sonnifero che provocava solenni russate, sistematicamente negate all’evidenza), forse intravedeva per tempo il pericolo che l’immagine assorbita acriticamente porta con sé.

Visto che siamo in tema di parole sprecate e di dialogo tra sordi, vi racconto come nel bar frequentato abitualmente da mio padre ci fosse qualche persona un po’ dura d’orecchi, uno in particolare dotato di apparecchio acustico. Gli amici, i primi tempi di utilizzo dell’aggeggio, chiedevano al ringalluzzito compagnone: “Gh’ät piè la radio? Parchè s’a te gh’la zmors a t’ podèmma där dal stuppid”.

Poi vengono le polemiche assurde ammantate di scontro sociale. In un cantiere edile mio padre assistette alle continue, reiterate, pesanti rimostranze di due operai nei confronti del loro datore di lavoro, assente dalla scena ma non per questo meno osteggiato. Tra un improperio e l’altro i due lavoratori cercavano di preparare una tavola di legno da utilizzare non so come. Dopo un paio d’ore si accorsero di avere sbagliato tutto e che la tavola era inutilizzabile. Mio padre, che aveva una linguaccia che non poteva star ferma, li rimproverò di brutto dicendo: “Al vostor padrón al sarà gram, mo sarà dificcil ch’al s’ faga di gran sòld cól vostor lavór”. Questa, a casa mia, si chiama onestà intellettuale. Era solito dire:“Primma äd tutt fa bén al to’ lavor e po’ a t’ pól fär tutti il batalj sindacäli ch’a t’ vól”.

Continuo e chiudo con i ricordi paterni: difendeva a spada tratta una cognata piuttosto taciturna, sostenendo che era in vantaggio su tutti i suoi parenti critici verso di lei, in quanto aveva meno possibilità di dire sciocchezze.

Sarebbe già qualcosa se facessimo un po’ tutti un proposito per l’anno appena iniziato, un impegno piccolo-piccolo, che farebbe risparmiare tempo, fiato e financo denaro: dire meno scemenze. Proviamoci.

Non rifiutiamo i rifiuti

La Regione Emilia-Romagna ha accolto la richiesta di aiuto del Lazio sui rifiuti, prevedendone lo smaltimento di piccole quantità prestabilite (non più di 15mila tonnellate provenienti da Roma), per un periodo limitato (43 giorni pieni), tassativamente non reiterabile, utilizzando tre termovalorizzatori (tra i quali quello di Parma).

La notizia di per sé non ha nulla di straordinario, ma induce a due riflessioni, una di tipo istituzionale, l’altra di carattere politico. In un periodo, in cui sembrano trionfare l’indipendentismo, la glocalizzazione, il ripiegamento sui propri interessi e problemi, l’innalzamento dei muri protettivi, un esempio di solidarietà tra Regioni ci fa capire come l’autonomia istituzionale, prevista peraltro dalla Costituzione Italiana e concretizzata più o meno bene nel nostro Paese, non debba prevaricare sul bene comune, facendo ricadere sui cittadini le difficoltà e i ritardi di un territorio rispetto ad un altro (bene ha detto in tal senso il Presidente emiliano Bonaccini).

Come afferma autorevolmente papa Francesco, sulla globalizzazione dell’indifferenza deve prevalere quella della solidarietà. La tentazione di assumere l’atteggiamento sussiegoso della formica rispetto al menefreghismo della cicala (del tipo “i romani si arrangino col loro rudo”) non deve diventare uno schema rigido nei rapporti istituzionali e territoriali. Credo al riguardo che la revisione e la precisazione dei poteri regionali debba essere effettuata a livello costituzionale (la tanto vituperata e bocciata riforma tentava di mettere qualche freno alla deriva autonomistica) per non lasciare pericolose occasioni di sviluppo agli egoismi ed ai particolarismi.

Ma c’è una seconda, spontanea anche se un po’ maliziosa, riflessione: è per lo meno curioso che i rifiuti di una città amministrata da una grillina doc vengano seppure parzialmente ed occasionalmente smaltiti dal termovalorizzatore di una città governata da un grillino “traditore”, considerato tale proprio ed anche perché incapace di bloccare la costruzione e l’utilizzazione di questo forno inceneritore. Lungi da me tornare sulla polemica dell’opportunità di questa struttura, per la quale ho sempre avuto non poche perplessità.

Desidero invece ricostruire la vicenda sul piano politico: Federico Pizzarotti diventa, alcuni anni or sono, sindaco di Parma, il primo sindaco Grillino in Italia, soprattutto sulla spinta di una demagogica volontà di bloccare la realizzazione del termovalorizzatore, peraltro già quasi ultimato. Poi si accorge di avere promesso l’impossibile e si adegua alla realtà dei fatti: diventa non solo per questo motivo un revisionista da confinare, ma i parmigiani, in mancanza di meglio, lo confermano quale primo cittadino.

Il testimone della sindacatura grillina doc passa a Virginia Raggi che in quel di Roma non ne azzecca una: la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti diventano per lei un tormentone burocratico-amministrativo e un flop post-elettorale. La capitale continua ad essere invasa dai rifiuti al punto da chiedere aiuto a chi detiene i tanto vituperati termovalorizzatori e il rudo arriva da Raggi a Pizzarotti, il quale, su impeccabile imbeccata regionale, fa buon viso a cattiva sorte, anzi rischia di fare un ulteriore figurone nei confronti degli ex-compagni che lo hanno sbrigativamente scaricato.

Il tempo è galantuomo. Chi di rifiuti ferisce di rifiuti perisce. Promettere è facile, mantenere molto meno. In politica la coerenza non è più una virtù…conta solo gridare e purtroppo la gente corre dietro a chi grida più forte. Successe a Gerusalemme duemila anni fa: quel Gesù osannato, che volevano incoronare re, fu messo in croce dopo pochi giorni sull’onda emotiva scatenata da chi gridava a squarciagola “crocifiggilo”. Forse ho semplificato un po’ troppo, sulle vicende odierne e su quelle della morte di Cristo, ma penso sia chiaro quel che volevo e voglio dire.

 

La cattedra di Mattarella e la lavagna degli italiani

Sergio Mattarella ha “esagerato”: ha preso alla lettera il famoso detto “il più bel tacer non fu mai scritto”. Nel suo messaggio augurale non solo ha parlato per pochi minuti (dieci per la precisione), ma ha calibrato le parole, è riuscito a dire tutto a tutti, senza pericolose allusioni, ha dato un’autentica lezione di stile presidenziale. Quando nelle università, durante i corsi di diritto costituzionale, si tratterà dei poteri del Presidente della Repubblica, sarà sufficiente riportare integralmente il discorso di Mattarella del 31 dicembre 2017 per rendere perfettamente l’idea concreta di come si rispetta la Costituzione e di come si svolge la propria funzione di carattere istituzionale.

Riascoltiamo questo discorso, rileggiamolo: non c’è alcun bisogno di commenti, perché va dritto al cuore delle questioni. Ogni cittadino di buona volontà ci si può trovare, non perché dia ragione a tutti, anzi, ma in quanto tocca tutti nel vivo dei propri doveri.

Nessuna demagogia, nessuna strumentalità, nessuna invadenza, nessuna intromissione, nessun compiacimento, nessun infingimento. Il discorso, pur essendo di così alto profilo, è risultato chiarissimo: una sorta di controcanto alla politica politicante, al populismo dilagante, alla sfiducia, al risentimento, all’astensionismo.

Il Presidente è entrato in punta di piedi nelle case degli italiani, ma ha fornito loro uno squarcio di vita politica proiettata in avanti ed aperta al contributo di tutti, li ha messi in guardia dalla trappola dell’eterno presente. Partendo dalla consapevolezza delle conquiste in tema di pace, libertà, democrazia e diritti egli ha formulato un forte invito a volgere lo sguardo al pur problematico futuro. Mi pare il filo conduttore della sua tela: non una nostalgica e consolatoria rivisitazione del passato, non una scriteriata fuga dalla realtà attuale, ma un fiducioso e virtuoso slancio verso un’era che pone interrogativi inediti sul rapporto tra uomo, sviluppo e natura.

È salito in cattedra, ma non ha messo nessuno dietro la lavagna, ha invitato i cittadini all’impegno, appellandosi alle donne ed agli uomini che sanno affrontare con tenacia e coraggio le difficoltà della vita e cercano di superarle.

Ai giovani ha chiesto di partecipare al voto. Alla democrazia ha chiesto di vivere d’impegno nel presente, ma alimentandosi di memoria e visione del futuro. Alla politica ha chiesto di avere la capacità di misurarsi con le novità ed i cambiamenti, guidando i processi per rendere più giusta e sostenibile la nuova stagione che si apre. Alla società ha chiesto di affrontare il problema del lavoro, che resta la prima e più grave questione sociale. Non ha dimenticato nessuno, chi soffre e chi ne allevia le sofferenze.

Sergio Mattarella riesce ad impersonificare umanamente e istituzionalmente il legame tra il meglio del passato, del presente e del futuro. Per sua scelta esistenziale, per sua matrice culturale, per sua esperienza politica può essere un faro credibile per il popolo italiano. Vediamo di non perderlo di vista in mezzo alle nebbie che ci assalgono, di ascoltare i suoi preziosi consigli nel profluvio di sciocchezze che ci blandiscono, di cogliere dalla sua testimonianza il giusto viatico per affrontare le difficili sfide che ci attendono.

È mezzanotte, anzi lo era…

Le piazze italiane, in occasione dei festeggiamenti per l’arrivo del nuovo anno, sono state messe   sotto sorveglianza speciale: barriere per evitare l’accesso di mezzi, posti di blocco, transenne, ingressi obbligati e presenza rafforzata di forze dell’ordine. A pena si aggiunge pena. Sì, perché il doversi divertire per forza sbraitando in piazza è già di per sé un fatto penoso, se poi lo si deve fare sotto scorta diventa ancor più patetico.

È diventato un impegno ineludibile per le amministrazioni comunali promuovere eventi con enormi disagi, complicazioni, rischi e spese. Anche Parma non scherza. Non sarebbe meglio che simili mobilitazioni venissero riservate ad iniziative di ben altra caratura socio-culturale? Non voglio mandare a letto la gente alle nove. Pretendo misura anche e soprattutto da chi governa una città, ma la tentazione di seguire la corrente è invincibile.

Faccio molta fatica a capire come ci si possa divertire in queste radunate oceaniche seppure sbandierate da eventi musicali: sanno tanto di ultima spiaggia, di esorcismo contro i problemi, di fuga dalla realtà. Si tratta di un rito pagano da celebrare a tutti i costi. Aggiungiamoci la blindatura e il tutto diventa una colossale farsa.

Lasciamo perdere le contraddizioni etiche: da una parte ci lamentiamo e dall’altra sprechiamo, da una parte chiediamo ordine e dall’altra facciamo casino, etc. etc. Lasciamo perdere il solito contorno di incidenti dovuti allo scriteriato uso di petardi e simili. Lasciamo perdere la recrudescenza degli incidenti stradali nella bagarre del dopo festeggiamenti. Lasciamo perdere i ricoveri al pronto soccorso di chi perde il controllo della propria mente e della propria salute.

Alla fine cosa ci resta? Il cervello intontito, la bocca impastata, la testa che gira, la delusione che sopraggiunge inevitabilmente. Valeva la pena fare tutto ‘sto casino per cominciare male il nuovo anno?

I miei genitori mi raccontavano come allo scadere del primo anno di vita (sono nato infatti il primo gennaio) partecipai alla festa dell’ultimo dell’anno a casa di un carissimo zio, il quale si divertiva innocuamente a farmi rompere vecchie suppellettili (era la trasgressione di un tempo). Nei giorni successivi tentai di ripetere l’operazione, immediatamente stoppato da mio padre, che tentò di spiegarmi che la festa era finita. Avevo infatti memorizzato nel mio cervello che la vita fosse uno scherzo da perpetuare.

Il meccanismo è sempre quello, per grandi e piccoli: illudersi che la festa più è chiassosa e sgangherata, più possa continuare all’infinito, rifuggendo dalla realtà quotidiana. A ben pensarci è il meccanismo psicologico del tifo calcistico portato alle estreme conseguenze, degli sballi del sabato sera, dei coca-party, del sesso usa e getta e via discorrendo.

Alcuni anni or sono a Napoli per festeggiare la fine dell’anno facevano scoppiare vere bombe: le chiamavano “bombe Saddam”. Adesso che il terrorismo ce le ha portate sotto casa, siamo in crisi. Mica poi tanto a giudicare dal casino che combiniamo…e lo spacciamo da libera espressione del nostro modo di vivere. Se è vero come è vero che non dobbiamo piegarci alla paura, evitiamo almeno di fare gli sbruffoni e di fare la parodia della nostra civiltà.

La sobrietà è merce rara

Ho sempre seguito con interesse la conferenza stampa di fine anno del capo del governo: un’occasione per ribadire il mio interesse verso la politica, possibilmente fatta non di chiacchiere; un rendiconto annuale del Presidente del Consiglio, illustrato ai rappresentanti della stampa, dovrebbe effettivamente essere un evento riguardante la politica dei fatti.

Ero andato con mia madre e mia nonna a trascorrere qualche giorno di vacanza a Fabbro Ficulle (paesino in provincia di Terni), ospite del convento dove viveva mia zia suora Orsolina. Avevo quattro-cinque anni,   non ricordo con precisione. Pranzavamo in una saletta messa molto gentilmente a nostra disposizione ed in quella saletta vi era un apparecchio radio: la nonna gradiva ascoltarla durante il pasto, soprattutto le piaceva ascoltare il giornale radio. Un giorno al termine del notiziario politico me ne uscii candidamente con questa espressione: “Adesso nonna chiudi pure la radio, perché a me interessa il governo”. Facile immaginare le reazioni di mia madre, ma soprattutto di mia nonna, incredula e divertita, che rideva di gusto, anche se forse aveva fatto qualche pensiero su questa mia stranezza infantile.

Il premier Gentiloni non ha deluso le aspettative e, con il suo stile sobrio, ha dato un’idea concreta della sua azione di governo. Chi ha deluso sono stati gli autorevoli (?) giornalisti che lo interrogavano: istigati dalla contemporanea chiusura della legislatura e dalla automatica apertura della campagna elettorale, lo hanno sottoposto ad un monotono ritornello di domande, tutte più o meno riconducibili alla sua volontà di ricandidarsi. In poche parole tentavano di farlo litigare con Renzi, volevano spillargli una qualche battuta su cui imbastire il dualismo elettorale col segretario PD. Gira e rigira, il motivo era sempre quello, si partiva e si finiva lì.

L’onorevole Aldo Moro, durante una conferenza stampa da Presidente del Consiglio – allora la serie di tribune elettorali culminava in quella riservata al capo del governo in carica – di fronte ad una domanda ripetitiva, con il suo inconfondibile e flemmatico stile, non degnò neppure di uno sguardo il giornalista pappagallo, si rivolse al moderatore e laconicamente disse: «Ho già risposto…». Con quella scarna battuta aveva indirettamente rivolto ai suoi colleghi un pressante invito alla sostanza della politica (lui che sapeva fare discorsi di ore, era capace di non sprecare neanche un minuto sulle oziose polemichette da quattro soldi) ed una lezione di etica professionale ai giornalisti chiacchieroni e disattenti.

Se Paolo Gentiloni avesse usato lo stesso criterio moroteo, la conferenza stampa di fine anno 2017 sarebbe durata poco e il moderatore Carlo Verna avrebbe dovuto incassare un imbarazzante sequela di “ho già risposto”.

Gentiloni non è Moro, ma comunque non è caduto nella trappola. Con un tono tra lo scocciato e il rassegnato ha dribblato i pelosi complimenti verso di lui, che preludevano scorrettamente ad attacchi verso Renzi e il PD.

Mi pare esistesse in passato una trasmissione televisiva o radiofonica che si intitolava “uno contro tutti” o “tutti contro uno” come dir si voglia: sarà il leit motiv della campagna elettorale? Penso di sì. Renzi ha la sua parte di colpa nell’attirare su di sé un’esagerata attenzione. Non c’è dubbio: parla troppo! Non è questione di quantità: i politici hanno sempre parlato molto per non dire nulla. Aldo Moro sapeva parlare molto e poco a seconda dei casi. I tempi sono cambiati. Consiglio tuttavia a Renzi di farsi magari un po’ di violenza e di contenersi: i suoi logorroici competitor lo tireranno a cimento, i giornalisti mestieranti lo provocheranno in continuazione, gli elettori può darsi finiscano col votare chi (s)parla poco.

 

 

L’afta elettorale

Col morto in casa ancora caldo è quasi normale che si cominci a litigare sull’eredità e sui rapporti esistenti col de cuis: mentre si chiude mestamente la legislatura, la campagna elettorale, peraltro in moto perpetuo, si profila tanto calda quanto assurda, tanto litigiosa quanto inconsistente.

Mi è subito venuta alla mente la famosa barzelletta delle promesse elettorali: vi daremo questo, vi concederemo quest’altro, vi offriremo ciò che vorrete… E l’afta epizootica? chiese timidamente un agricoltore della zona interessata. Vi daremo anche quella! rispose gagliardamente il comiziante di turno.

Sono mesi che il movimento cinque stelle parla di reddito di cittadinanza: una delle tante boutade, una proposta chiaramente inapplicabile per motivi economici e inopportuna per una società basata sul lavoro e non sulla sussistenza.

Adesso arriva anche Silvio Berlusconi, lui che di sogni irrealizzabili se ne intende, il quale anziché la zuppa promette il pan bagnato, non il reddito di cittadinanza ma quello di dignità. Luigi Di Maio reagisce stizzito e accusa Berlusconi di essere “un copione”. Che pena!

Ho sempre avuto una certa antipatia per i primi della classe: li sopportavo e li sopporto sono se lo sono veramente e soprattutto se lasciano copiare il compito in classe. Ebbene, Di Maio è il capoclasse tollerato da Beppe Grillo, non è certo il primo della classe a giudicare dalle fandonie che snocciola in continuazione e poi denuncia addirittura chi tenta di scopiazzargli il compito. Il massimo della sciatteria politicante. Berlusconi deve essere veramente alla frutta se non trova di meglio che scopiazzare i pentastellati, cavalcandone le più trite battaglie teoriche.

Sullo stesso file del televideo Rai in questi giorni erano collocati due titoli: “Di Maio: Berlusconi ci copia” e “La Costituzione compie 70 anni”. Peggiore accostamento non si poteva fare, a meno che non si intendesse rendere l’idea della sfacelo politico attuale rispetto al progetto politico costituzionale. I padri della Costituzione si rivolteranno nella tomba e chi ha speso la propria vita per conquistare libertà e democrazia si chiederà se ne valesse la pena. Siamo arrivati alla scuola degli asini…

Abbiamo di fronte quasi due mesi e, se il buon giorno si vede dal mattino, stiamo freschi. Una certa qual esasperazione dei toni propagandistici è da mettere in conto, ma tutto ha un limite e speriamo che tale limite il cittadino lo sappia far rispettare in cabina   elettorale. Qualcuno in un lontano passato disse, che essendo il voto segreto, bisognasse fare i conti comunque con Dio che vede tutto e non con Stalin che infatti non ammetteva il voto segreto. Oggi si potrebbe aggiornare la questione senza scomodare Dio e lasciando perdere Stalin. “In cabina ci dovrebbe entrare il buonsenso, lasciando perdere gli slogan elettorali la cui ridondanza formale è direttamente proporzionale alla inconsistenza sostanziale”.

Mia sorella Lucia amava ricordare, in riferimento alla schietta e profonda religiosità incarnata da don Raffaele Dagnino, suo maestro e storico sacerdote, l’incoraggiamento sui generis da lui fatto ad un’amica a cui era nato un figlio con una piccola imperfezioni fisica. «L’important l’è cal g’abia dal bon sens, ‘na roba ca ne’s compra miga dal bodgär» sentenziò con sano realismo umano e religioso di fronte alle ansie di una madre inquieta. Proviamo a farci guidare da questa merce rara durante la campagna elettorale, ma soprattutto al momento del voto.

 

 

Il rischio della naftalina costituzionale

Il caro amico don Luciano Scaccaglia, durante la celebrazione del Battesimo sull’altare poneva due riferimenti essenziali: la Bibbia e la Costituzione italiana. L’una chiedeva al cristiano la fedeltà alla Parola di Dio, l’altra al cittadino l’attivo rispetto dei principi democratici posti a base del vivere civile. Questo, secondo i detrattori del cavolo (resisto alla tentazione di usare un termine volgaruccio che lascio alla facile intuizione del lettore), anche altolocati, voleva dire fare politica in chiesa… Che ottusità mentale e culturale! Erano stupende e geniali provocazioni esistenziali, che contenevano autentici trattati di teologia coniugata con la laicità dello Stato. Se, pertanto, fare politica in chiesa vuol dire affermarne la laicità ed auspicarne l’ancoraggio ai valori di giustizia, uguaglianza e solidarietà, don Scaccaglia faceva politica: egli, tra l’altro in perfetto stile degasperiano, alla duplice appartenenza del cittadino credente alla Chiesa e allo Stato rispondeva con la duplice fedeltà al Vangelo e alla Costituzione, conciliando Chiesa e Stato nell’impegno concreto degli uomini e non sui principi astratti e sui compromessi giuridici o, peggio ancora, di potere.

Ma veniamo al settantesimo compleanno costituzionale. La torta per festeggiare contiene, a mio giudizio, due ingredienti fondamentali, uno di metodo e l’altro di merito. Il metodo, che io amo definire della “mediazione ai livelli più alti”, continua ad essere un’autentica ed insuperabile lezione di “galateo” politico: il confronto, con addirittura qualche punta di scontro vero e proprio, se attuato con onestà di intenti e vera disponibilità al dialogo, porta a risultati positivi. In quella fase storica la fame democratica era tale da non consentire alcun spreco di risorse umane ed intellettuali. Oggi riteniamo di essere sazi di democrazia e rischiamo di sciupare tutto: facciamoci tornare l’appetito che, tra l’altro, vien mangiando. Noi, a forza di fare gli schizzinosi e di rifiutare il cibo, siamo diventati democraticamente anoressici.

Nel merito la nostra Costituzione rappresenta una combinazione formidabile dei valori liberali, socialisti e cattolici in un mix che riesce a coniugare al meglio i diritti individuali con quelli collettivi: in larga parte è tuttora inattuata, in qualche parte dovrebbe essere aggiornata, in nessuna parte è superata.

Di fronte alla Costituzione si possono avere due atteggiamenti ugualmente sbagliati: la oltranzistica e nostalgica difesa e la smaniosa e modernistica revisione. Il dibattito rischia di avvitarsi sempre e comunque in questo falso dualismo dialettico con il risultato di mettere la Costituzione in naftalina. È successo con le riforme costituzionali bocciate dal recente referendum. Lo sforzo di rinnovamento è stato banalmente liquidato come stravolgimento. Attenzione quindi a non cadere nell’immobilismo costituzionale: i padri costituenti non hanno inteso darci una legge intoccabile e perfetta, ma uno strumento da utilizzare al meglio, con saggezza e coraggio, sapendo distinguere ciò che è irrinunciabile da ciò che deve essere cambiato e perfezionato.

La Costituzione non è l’abito da sposa, che si mette una volta e poi lo si ripone nell’armadio come un talismano, è l’abito della festa da tenere sempre in ordine, da adattare, da indossare e soprattutto da onorare.

Il Natale è donna

Le provocazioni non mi dispiacciono. Gesù è stato il più grande provocatore di tutti i tempi: tutte le volte che ascolto la lettura del vangelo durante la messa non posso esimermi dal pensare, a volte dal sussurrare: che razza di provocatore era mai questo uomo-dio.

D’altra parte la pastora battista Lidia Maggi, teologa e biblista, scrive a commento della liturgia natalizia: «La fede, oggi, non si limiti a confessare che Gesù è Dio. Più decisivo riconoscere che Dio è Gesù, un amore gratuito che capovolge ogni nostro immaginario religioso».

Nessuno scandalo quindi che un attivista del movimento ucraino femminista, Femen appunto, in topless, in piazza S. Pietro si sia lanciata sulla statua di Gesù Bambino per strapparla dal presepe, gridando “Dio è donna”.

Se questa donna fosse portata davanti a Gesù adulto ed a lui fosse chiesto se meriterebbe le manette per vilipendio della religione o roba del genere, sono sicuro che risponderebbe: «Chi nella sua vita non ha violato il messaggio di me Bambino, faccia scattare le manette ai polsi di questa femminista…». E tutti se ne andrebbero sconsolati ed umiliati. Poi magari Gesù si rivolgerebbe direttamente alla contestatrice: «Capisco cosa hai voluto dire. Io d’altra parte nella mia vita non ho fatto altro che sdoganare le donne, dal momento della mia nascita fino alla mia morte e resurrezione. La Chiesa invece è stata deturpata da un maschilismo pazzesco. Qualcosa è cambiato e sta cambiando: un papa ha detto che Dio è anche e soprattutto madre, il papa attuale vuole studiare il modo di inserire a pieno titolo la donna nei meccanismi clericali ed ecclesiali. Siamo solo all’inizio. Non mi sono scandalizzato affatto del tuo seno nudo, anche mia madre lo avrà mostrato con orgoglio per allattarmi di fronte ai pastori. Il seno della donna è realtà d’amore, in tutti i sensi. Se intendevi portare la mia statua nella sede del tuo movimento per farmi capire quali sono le vostre aspirazioni, non c’è problema: verrò di mia spontanea volontà, parleremo a lungo e sono convinto che su parecchie questioni ci troveremo d’accordo. Quindi va pure, non sarò certo io a metterti le manette ai polsi. Fai la tua battaglia, mi raccomando, sii provocatoria, ma non violenta…».

Mi fermo qui perché non vorrei finire io in manette per vilipendio della religione. Il Natale è donna. Lo sostiene indirettamente anche Massimo Cacciari nel suo libro “Generare Dio”. Perfettamente in linea col cardinal Martini, ritiene che il fatto fondamentale per credenti e non credenti sia sapere mettere in discussione la propria fede o la propria non-fede. Era il presupposto della “cattedra dei non credenti”, istituita dal cardinal Martini e di cui Cacciari fu, se non erro, il primo autorevole esponente.

Egli, a commento del proprio libro, sottolinea come il suo “affetto” sia tutto indirizzato a Maria e non agli uomini, compresi gli uomini di Chiesa, che in duemila anni non hanno combinato nulla di buono in materia di cristianesimo.

Anche il gesto clamoroso compiuto da quella femminista penso e spero possa indurci a valutare il Natale nella giusta luce, che mette i sessi in perfetta parità: una vera donna che accetta, in piena libertà, di fare posto ad una creatura, un vero uomo, che accetta di essere Figlio di Dio e di immolarsi per la salvezza di tutti ed a cui sarà legata per tutta la vita fino al suo drammatico epilogo. C’è da riflettere!

 

Bòti da oròb

Un mio simpatico zio, che oserei definire diversamente credente, amava ironizzare benevolmente sull’espressione latina “urbi et orbi”, riferita alla benedizione papale impartita dalla loggia di S. Pietro in occasione delle più solenni festività, come è successo anche per questo Natale. Sostituiva alla definizione suddetta un modo di dire parmigiano: “la benedisiòn bòti da oròb”.

Quando si vuol allontanare brutalmente qualcuno, senza troppo riguardo lo si manda a farsi benedire: un eufemismo piuttosto irriverente verso la fede e la sua combinazione teologica e rituale. Aggiungiamo che la benedizione papale prevede l’aggiuntiva e generosa elargizione dell’indulgenza plenaria da tutti i peccati commessi: quella delle indulgenze è una vecchia e delicata questione storicamente foriera di polemiche e fratture all’interno della Chiesa.

Mai come quest’anno mi sono sentito bisognoso di indulgenza e di misericordia, senza però illudermi che basti un segno di croce davanti al video per purificare il proprio cuore e la propria anima. Sarebbe comodo!

Un papa insolitamente serio, probabilmente irrigidito, se non addirittura infastidito, anche dai soliti penosi, anacronistici ed assurdi onori militari, ha benedetto Roma e il Mondo, risparmiandoci le botte che ci meriteremmo, limitandosi all’invito a vedere Gesù nei bimbi che soffrono. Non è una sollecitazione da poco!

Tuttavia mi permetto di fare un appunto a Sua Santità: da chi innesca processi di rinnovamento si pretende tutto, da chi ha dormito per secoli non si pretendeva nulla. È sempre così… Vado avanti e chiedo: non sarebbe meglio sostituire questi appelli di carattere generale, che comportano una carrellata piuttosto superficiale sulle situazioni di crisi umanitaria, con gesti e appunti concreti e ben mirati, che tocchino veramente in profondità certe situazioni   insostenibili, richiedenti interventi immediati? Diversamente le parole passano e i problemi rimangono, addirittura con l’applicazione dell’indulgenza plenaria, che sembra quasi assolvere tutti dai misfatti passati, presenti e futuri.

Il rituale buonismo del Natale è ad altissimo rischio, anche per il Papa. Cominci col mandare a casa guardie svizzere e carabinieri schierati in alta uniforme, che col Natale non hanno proprio nulla da spartire: le uniformi davanti alla stalla di Betlemme erano quelle assai poco alte dei pastori. Gli inni, quello vaticano e quello italiano, hanno una melodia diversa dalle note dei canti angelici del “gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”. Le folle plaudenti di piazza San Pietro sono eccessive rispetto ai quattro gatti che omaggiarono il redentore appena nato.

Si dirà che la storia è cambiata. Sì, in peggio: in duemila anni siamo riusciti a rovinare tutto. Io credo che il papa, anziché concederci l’indulgenza plenaria, dovrebbe, come fece Gesù, prendere un bastone e cominciare ad affibbiare botte da orbi a quanti hanno travisato tutto: parafrasando una recente omelia di padre Ermes Ronchi, siamo passati da un giorno qualunque, un luogo qualunque, una giovane donna qualunque, un bambino qualunque, la normalità di una casa ridotta a stalla, alle luci delle ribalte profane e delle liturgie solenni nel tempio e nelle piazze. Un Dio che si rivela nella più assoluta quotidianità, mistificato dalla straordinaria pomposità celebrativa: dalla provocante semplicità dell’evento evangelico alla spettacolare solennità dell’evento liturgico.

Forse, magari senza volerlo, mio zio, quando ipotizzava “la benedisión bòti da oròb”, voleva dire proprio questo. Grazie zio!

Il presepe della paura

Come non cogliere tristi e imbarazzanti analogie tra l’indifferenza, l’ostilità e la persecuzione che colpirono la famiglia terrena di Gesù e il colpevole naufragio della legge sullo Ius soli, vale a dire sul diritto di essere considerato italiano per chi ha fatto un serio percorso di inserimento nella nostra comunità. Un incidente procedurale al Senato ha chiuso sul nascere l’iter di questa legge impropriamente e strumentalmente   trasformata in un referendum pro o contro gli immigrati.

“Colpito e affondato” ha commentato il leghista Calderoli; “orgogliosi di aver fatto naufragare la legge” ha detto il forzista Gasparri; “Renzi stai sereno, sullo Ius soli decideranno gli italiani” ha dichiarato la sorella d’Italia Giorgia Meloni. Indipendentemente da tutto, non riesco a capire come si possa essere contenti per non aver risolto un problema, che esiste e che aspetta di essere affrontato.

Se, come sembra, lo scioglimento delle Camere farà chiudere sostanzialmente bottega al Parlamento, peggiore congedo non poteva arrivare dall’Aula di Palazzo Madama, stoppata dalla mancanza di numero legale: un fuggi fuggi, che, complice forse l’imminente arrivo delle festa natalizie, ha fatto passare la discussione dalle pregiudiziali di costituzionalità a quelle di menefreghismo.

Ognuno risponde alla propria coscienza, anche i parlamentari, senza bisogno che questo diritto glielo conceda il loro partito: tuttavia non riesco a capire come si sentiranno gli opportunisti o razzisti oppositori dello Ius soli, quando siederanno alla tavola del cenone natalizio della loro famiglia. Possibile che non abbiano qualche scrupolo nell’aver chiuso la porta in faccia a tante persone che, stando sull’uscio, chiedevano di poter entrare legittimamente ed a tutti gli effetti nella nostra comunità nazionale.

A proposito di coscienza, ricordo come alle mie ingenue sollecitazioni sugli immigrati che dormono e magari muoiono sotto i ponti, un caro amico mi fece osservare come i gerarchi nazisti responsabili dei campi di concentramento mangiassero e dormissero tranquillamente nelle loro case e nelle loro famiglie.

Archiviata la coscienza, restano la debolezza della politica e la paura della gente: due caratteristiche che trovano una loro perfetta compatibilità e interdipendenza. La politica accarezza la pancia degli italiani, la gente si chiude egoisticamente nel proprio territorio e pretende di essere difesa dalla politica. Un ignobile connubio!

Non si può stare con un piede davanti al presepio e con l’altro dentro i propri interessi. Oltre tutto, al di là del discorso etico, non mi sembra certo, razionalmente parlando, il modo migliore di convivere in una nazione civile.

Il Natale 2017 è macchiato da questo vergognoso infortunio parlamentare. Le ormai vicine elezioni politiche avranno nel loro bagaglio anche tale questione. Non mi illudo. Anzi, ho il timore che coloro i quali hanno lavorato a questa imboscata parlamentare verranno premiati dalle urne. L’Italia, che tutto sommato e in qualche modo dimostra un certo livello di solidarietà verso gli stranieri, ha incespicato nello Ius soli finendo con lo sbattere il capo contro la mangiatoia di Betlemme, quella che i nazionalisti vorrebbero difendere dalle incursioni islamiche. È una strana culla che non cerca difensori di comodo, ma imitatori coraggiosi.