Il cesso ovale

Finalmente Donald Trump ha detto pane al pane e vino al vino. Si è manifestato: la potremmo chiamare “Donaldepifania”. Ha confessato di avere portato la politica presidenziale americana dallo studio ovale al cesso della Casa Bianca. Ha risolto il doppio significato del termine gabinetto: fino ad ora si chiamava così la compagine di governo, ma anche il luogo dove si vanno a fare i propri bisogni; da oggi in poi saranno la stessa cosa.

Purtroppo infatti aver definito un cesso alcuni paesi poveri, da cui escono i migranti per raggiungere gli Stati Uniti, non è stato un infortunio lessicale, una battuta esagerata e/o imprudente: rispecchia fedelmente la mentalità di Trump e il suo sostanziale link con l’elettorato americano e con il modo di pensare di molti cittadini del mondo.

Pensavo che la politica si fosse trasferita dai luoghi istituzionali ai bar. Molto peggio! Ha traslocato nei cessi, dove, oltre compiere alcune operazioni fisiologiche, si imbrattano i muri con scritte oscene, dove si sfogano i propri istinti primordiali.

Se si dà una rapida occhiata in giro per il mondo, ci si accorge che questo non è l’andazzo di una certa america egoista, protezionista e isolazionista, ma è lo stile politico emergente più o meno in tutto il globo. Papa Francesco parla con insistenza di terza guerra mondiale. Io comincerei a parlare di Apocalisse culturale ed esistenziale.

L’unica speranza che mi rimane è che con questa “autoconfessione del cesso” sia stato toccato il fondo: c’è sempre un incidente, un trauma che costringe a rientrare in se stessi, a ravvedersi, a tornare a galla. La goccia disgustosa che fa traboccare il vaso populista? A volte basta poco per far aprire gli occhi alla gente. Difficile, ma non impossibile.

A ben pensarci anche la cosiddetta Brexit rientra in questa perversa “deriva del cesso”. Gli Scozzesi sono stati profeti fuori dalla patria. La loro propensione – seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste – verso l’Unione europea, è sfociata in rabbia ed ha trovato, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti di un bar si sono avvicinati allo schermo. Poi, hanno tutti assieme cominciato a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro pig, porco. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere…

Ecco la dimostrazione di quanto affermavo sopra in modo paradossale. Stiamo andando ben oltre la politica nei bar. Perfino in questi luoghi, tradizionalmente vocati agli sfoghi parolai e sporcaccioni, si può mettere un limite al populismo deteriore. Ci sono riusciti in Scozia. Ci riusciranno gli americani? E noi Italiani? Non siamo lontano dai cessi della politica. Torniamo almeno al bar e chissà… Un tempo c’erano i circoli ricreativi agganciati alle parrocchie ed alle sezioni di partito: voleva dire che si poteva tranquillamente passare dalle chiacchiere da bar alle cose più serie. Proviamoci ancora!

 

Ippoeresia papale

Papa Francesco ha offerto uno spettacolo al circo a oltre duemila tra bisognosi, senzatetto, profughi, detenuti e volontari. L’iniziativa è in linea con l’attenzione dimostrata dal papa verso gli artisti circensi, considerati come “creatori di bellezza”. Sono insorti gli animalisti che si sono rivolti assai criticamente al sommo pontefice, affermando per bocca della presidente Enpa: «La stragrande maggioranza delle persone e dei fedeli ritengono che l’amore per gli animali non debba essere sacrificato all’amore per il prossimo, ma al contrario faccia parte di un armonioso sentire, come oltre 7 secoli fa insegnava al mondo il Santo di cui Ella ha deciso di portare il nome».

È proprio vero quel che diceva mio padre: «Se casca un òmm, tùtti i ridon cmè i matt, se casca un caval, i dizon “pòvra béstia”. Assistiamo imperterriti alla carneficina quotidiana dei fuggiaschi dai paesi africani e ci scandalizziamo degli eventuali maltrattamenti subiti dagli animali utilizzati nei circhi equestri. Siamo pronti ad ascoltare gli insegnamenti di San Francesco inerenti il rispetto per la natura e gli animali, ma ce ne freghiamo altamente della sua testimonianza riguardo al distacco dai beni materiali e la solidarietà verso i poveri. Siamo intransigenti con i bambini che giocano in strada, ma siamo tolleranti con i cani che insozzano i marciapiedi.

Niente da ridire su chi tratta bene gli animali e li difende dalle violenze degli uomini, arrivo persino a considerare che anche per loro ci potrà essere una vita felice oltre la morte: il creatore ripescherà tutto e tutti in una creazione rinnovata e sublimata.

Tuttavia non nutro grande simpatia e affetto verso gli animali (è più forte di me), li rispetto, non farei loro il minimo sgarbo, ma   preferisco vederli nel loro habitat naturale. Non ho nulla da ridire sull’iniziativa di papa Francesco, anche perché non penso che con questo gesto abbia voluto sottovalutare o addirittura sorvolare sulle torture agli animali, ma esprimere un gesto di simpatica solidarietà a persone emarginate, offrendo loro gratuitamente uno spettacolo popolare per antonomasia: un dono semplice, che vede protagonisti artisti semplici e spettatori persone semplici. Anche questo è un armonioso operare.

Povero papa Francesco…ha tutti gli occhi addosso perché ha il coraggio di mettere in discussione se stesso e la sua Chiesa. Chi lo ritiene un eretico, chi lo considera un “rompiscatole”, chi lo bolla come populista, chi lo vede troppo progressista, addirittura lassista, chi lo giudica “molto fumo e poco arrosto”, chi lo giudica un demagogo evangelico, chi non vede l’ora che si tolga dai piedi, chi lo combatte con le furbizie curiali etc. etc. Lui lo sa e va dritto per la sua strada. Ha molti nemici, ma anche molti amici. Nella prima categoria sono entrati anche gli animalisti: pazienza…

Forse i protettori degli animali farebbero bene a girare intorno a casa mia: giorno e notte si lamenta un cane dimenticato e relegato in un piccolo recinto. Denunce e proteste non hanno sortito alcun risultato. Oltre tutto la prima volta che riuscirà ad aprirsi un varco nella recinzione che lo avvolge, avrà tanta cattiveria in corpo da sbranare il primo sfortunato che gli capiterà a tiro. Tutti piangeranno e imprecheranno, il cane verrà abbattuto e forse diremo “povera bestia”, dimenticandoci magari della persona sbranata. Così va il mondo e non certo per colpa di papa Francesco.

Qui si fa l’Europa o si muore!

C’era un mio simpatico e brillante conoscente, che alla moglie aveva affibbiato il soprannome di “Francia” a significare i rapporti coniugali piuttosto burrascosi e difficili. In effetti la storia parla di tensioni alquanto frequenti fra Italia e Francia. Ho tuttavia sempre avuto l’impressione che le difficoltà non siano state e non siano tanto dovute a divergenze di interessi e a differenti caratteristiche socio-economiche, ma ad uno spocchioso senso di superiorità, che i Francesi nutrono nei nostri confronti, considerandoci i parenti poveri.

Ricordo come mia sorella, nella sua solita schiettezza di giudizio, una volta si lasciò andare e parlò di “quegli stronzoni di Francesi”: non sbagliava di molto. Un conto è essere superiori su basi oggettive, un conto è ritenersi aprioristicamente migliori. Sono convinto che la Francia, come del resto l’Italia, abbia parecchi scheletri nell’armadio da nascondere e invece di cercare l’alleanza con i paesi più simili, con cui instaurare collaborazioni e solidarietà, ha preferito la fuga in avanti verso la Germania: della serie “è meglio leccare i piedi ai tedeschi” che condividere “la puzza dei piedi” con gli italiani.

Ecco perché ho seguito con un certo interesse gli incontri bilaterali di vertice tra Macron e Gentiloni-Mattarella, il presidente francese è infatti un non entusiasmante mix istituzionale tra presidente della repubblica e capo del governo. Al di là dei soliti convenevoli e degli scontati complimenti reciproci non ho visto in Macron una credibile inversione di tendenza rispetto al succitato andazzo. Addirittura, se non ho capito male, ci ha, seppure elegantemente, dipinti come la ruota di scorta nella strategia europea, come la riserva che gioca nella misura in cui i titolari restano in panchina.

Sarò prevenuto, ma ho avuto questa brutta impressione: mi augurerei di essere smentito dalla sostanza degli accordi, definiti pomposamente e ottimisticamente il “Trattato del Quirinale”. Il tempo è galantuomo e ci dirà se si è avuta una svolta storica, anche se ho notato che Gentiloni non ha voluto spendere una definizione così impegnativa.

Emmanuel Macron in questa prima fase della sua presidenza ha tradito molte entusiastiche ed esagerate aspettative: è malato di protagonismo (non è l’unico leader ad avere questa malattia) e non sembra avere una visione internazionale aperta e solidaristica.

Tutti i capi di stato in questo periodo si attestano innanzitutto sulla difesa degli interessi nazionali, poi vengono le alleanze e le collaborazioni: l’Europa vista così non mi piace e non mi convince. Di questo passo la Federazione la vedremo col binocolo.

In buona (meglio sarebbe dire in cattiva) sostanza ci sono tre modi eleganti di essere antieuropeisti e sono queste buone maniere, che mi spaventano assai più degli sbracati attacchi populisti. Abbiamo l’autonomismo inglese, sfuggito di mano agli inglesi stessi e quindi portato all’eccesso della Brexit. Abbiamo il protagonismo assoluto della Germania, la prima della classe che scrive alla lavagna i buoni e i cattivi e vuole dettare tempi e modi al processo di integrazione europea: della serie “o così o pomì”. Abbiamo la strategia del pesce in barile della Francia, che si accontenta delle briciole protagonistiche e lega l’asino dove vuole il padrone.

E l’Italia? Meno male che c’è Draghi, altrimenti saremmo trattati a pesci in faccia: abbiamo i nostri limiti e difetti, ma gli altri non ne sono affatto esenti. Resto sempre affezionato al grande presidente Pertini, che ripeteva: non siamo primi ma nemmeno secondi a nessuno. Cerchiamo di ricordarcelo e di scombinare coraggiosamente questi fili strategici europei, non tirandoci indietro ma accelerando, andando a vedere in mano agli altri, senza paura di aprire i nostri armadi. Nessuno in fin dei conti può darci lezioni di europeismo. Qui si fa l’Europa o si muore!

Fatta la Var, trovato l’inganno

Renato, un simpatico amico di mio padre, era un amante della compagnia e ad essa sacrificava i propri gusti: non gli interessava il calcio, ma a volte andava con gli amici allo stadio. Tutto pur di stare in compagnia, senza rinunciare alla propria personalità.

Dagli spalti lanciava le sue provocazioni. Durante la partita, magari in una fase piuttosto tranquilla a centro-campo, si metteva a gridare: «Opso! Arbitro, opso!». Era la sua versione dell’inglese off-side, fuori-gioco in italiano. A chi gli faceva osservare che il problema in quel momento non esisteva, rispondeva: «Cò vót ch’a sapia mi, andì sémpor adrè con cl’opso lì…». Faceva il finto tonto, in realtà sapeva benissimo di cosa stava parlando, ma gli piaceva prendere in giro la gente nei suoi eccessi, anche quelli del tifo calcistico. Tra l’altro, dava sempre ragione all’arbitro. Quando tutti inveivano contro il direttore di gara, lui lo difendeva a spada tratta: «Al gh’à ragión, al gh’à ragión». Un provocatore nato.

Non ho idea di cosa direbbe Renato della Var, forse si chiederebbe: «Mo co’ éla c’la bagàja lì?». Fatto sta che… fatta la legge trovato l’inganno. Molte decisioni arbitrali, tramite la moviola in campo, sono state riviste e portate all’oggettività della situazione così come risultante dal video. Ero maliziosamente convinto che sarebbe cambiato qualcosa negli equilibri fra le squadre: le cosiddette grandi non avrebbero più potuto godere degli smaccati favori arbitrali e quindi la classifica ne avrebbe risentito. Sarebbe interessante rivisitare le partite di un campionato trascorso utilizzando lo strumento tecnologico, per vedere l’effetto che ne uscirebbe: forse lo scudetto potrebbe cambiare casacca.

Purtroppo le novità si stanno dimostrando vere fino ad un certo punto. Infatti laddove l’oggettività dell’immagine è indiscutibile (fuori gioco, gol fantasma, etc.) ci si può sentire relativamente tranquilli, ma rimane scoperta l’area di giudizio riconducibile alla volontarietà del fallo e soprattutto alla decisione di ricorrere o meno al supporto del Var (discorsi per i quali rimane una notevole discrezionalità arbitrale). Ecco quindi rispuntare il rischio (oserei dire la certezza) della sudditanza psicologica degli arbitri nei confronti delle squadre più blasonate: con il Var a disposizione i favoritismi diventano ancora più scoperti ed inaccettabili. Con il progredire del campionato sembra quasi che i direttori di gara si stiano ribellando al Var sfruttando i relativi loro margini di autonomia di giudizio a vantaggio dei club più influenti. Non se ne esce, non c’è Var che tenga!

Tutto sommato aveva ragione mio padre. Lui dell’arbitro non parlava mai, lo ignorava, lo riteneva un elemento esterno da prendere per quello che è (come la pioggia per i contadini, a volte come le grandine). Capiva perfettamente quando l’arbitro sbagliava, ma riteneva inutile, oltre che sconveniente, urlare contro di lui: è come abbaiare alla luna. C’era in questo atteggiamento un qualcosa di aristocratico: non mi abbasso a questionare con un soggetto che magari approfitta del potere che gli è stato concesso.

Era solito dire: “S’al spéta ch’a sbraja mi, al spéta un pés, l’arbitro. Al pól fisciär anca dez rigór…”. Ed aggiungeva, dicendo una cosa vera fino ad un certo punto, ma che può essere una sana regola calcistica: “Butta dentor dil bali int la rej e po’ l’arbitro al gh’ à poch da móvor”. Di una cosa si spazientiva molto: non sopportava che l’arbitro ignorasse o invertisse gli interventi dei suoi collaboratori (segnalinee): “S’a fìss mi al guärdalinei andrìss da l’arbitro, a gh metrìss la bandiera sòtta al bras e andrìss fóra. Ch’al vaga avanti lu…”.

Oggi forse non accetterebbe che l’arbitro snobbi la Var, come sta succedendo in parecchi casi. Ma poi chiuderebbe le polemiche, così come faceva al termine di certe partite calde.

Il rifiuto della violenza e della polemica pesante era per lui assoluto e intransigente, non consentiva che mi attardassi a curiosare dopo la fine del match, tagliava corto e mi spingeva fuori senza possibilità di replica: “Andèmma a ca’ parchè nuätor, stasira, a ghèmma da magnär”. Una frase brutale, se volete, ma lapidaria, che rendeva l’idea sull’assurdità di un diverso comportamento.

La tasa pr i gat

Tutti conosceranno la barzelletta in cui una persona “spiritosa” si rivolge al farmacista per chiedergli una confezione di “spirito di contraddizione”. Dopo una brevissima perplessità il farmacista risponde con una certa soddisfazione: «Se attende un attimo le posso fornire quanto richiesto: le consegno una fotografia di mia moglie…». In dialetto e raccontata dal grande Bruno Lanfranchi era tutt’altra cosa.

In politica, soprattutto in campagna elettorale, è normale che tutti vogliano abolire o diminuire le tasse: chi mette in discussione il canone televisivo, chi le tasse universitarie, chi vuole abbassarle tutte. A spararle grosse si fa presto, a destra, a sinistra ed al centro.

Mio padre riconosceva che l’Italia aveva raggiunto un notevole benessere pur tra mille difficoltà, che il clima democratico reggeva, che il paese continuava a crescere e chi governava “ Al n’era miga un gabbiàn “ perché   “a pära facil mo l’ é dificcil bombén” e “ né gh vól miga di stuppid parchè i stuppid i s’ fermon prìmma”.

Non era un economista, non era un sociologo, non era un uomo erudito e colto. Politicamente parlando aderiva al partito del buon senso, rifuggiva da ogni e qualsiasi faziosità, amava ragionare con la propria testa, sapeva ascoltare ma non rinunciava alle proprie profonde convinzioni mentre rispettava quelle altrui. Volete una estrema sintesi di tutto cio? Eccola! Oggi, di fronte alle sparate anti-tasse, ripeterebbe quel ragionamento terra terra che gli ho sentito fare diverse volte: «Se fosse così facile, lo avrebbero fatto anche coloro che hanno governato fino ad oggi. Non credo che fossero dei sadici o dei masochisti. Il problema è un altro e cioè: se tutti i paghison e i fisson col ch’l’è giust, as podriss där d’al polastor aj gat…».

Avrebbe un insperato alleato nel ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda. Per lui le proposte di abolire o abbassare le tasse sono un regalo alla parte più ricca del Paese, una cosa trumpiana, dal momento che le fasce più deboli sono già esentate da parecchie tasse. Ecco spuntare lo spirito di contraddizione di cui sopra. Non ha tutti i torti, ma non ha nemmeno tutte le ragioni: è il signornò della campagna elettorale. Non so se si atteggia così solo per distinguersi o in quanto convinto di quel che dice. Non mi sembra perfettamente in linea con il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, che sostiene come il governo non possa creare sviluppo e lavoro in modo diretto, ma possa favorirli usando le leve del potere politico, una di queste è senza dubbio quella fiscale.

Quando il ministro Padoa Schioppa sosteneva paradossalmente che pagare le tasse   fosse non solo un onere ma anche un onore, non solo un obbligo ma anche una soddisfazione, tutti lo deridevano: quel che intendeva dire tutti lo capivano, ma veniva loro comodo sputtanarlo come un visionario qualsiasi.

In conclusione sulle tasse non si deve fare demagogia, non si può stare sempre e comunque dalla parte del manico, non si può fare della poesia.

La morale della favola è nella battuta di mio padre. La ripeto: «Se tutti i paghison e i fisson col ch’l’è giust, as podriss där d’al polastor aj gat…». Dopo forse bisognerebbe istituire “la tasa pr i gat”.

 

 

 

Dall’omofobia all’omofollia

Ai tempi della mia lontana infanzia si giocava a scegliere la più bella attrice con cui idealmente accoppiarsi: l’imbarazzante alternativa era allora quella, ad esempio, tra Sophia Loren e Gina Lollobrigida. Un giochino stupido quanto innocuo, non certo il miglior approccio educativo al sesso femminile, ma solo un superficiale modo di sognare la donna ideale facendola corrispondere alla più bella ed affascinante delle attrice del grande schermo.

Al giorno d’oggi, durante un occasionale zapping pomeridiano, mi è capitato di assistere ad un’intervista della conduttrice de “La vita in diretta”, Francesca Fialdini (sono andato a scovarne il nome ed il profilo su internet e quasi me ne vergogno) a Cristiano Malgioglio, cantautore e paroliere, un personaggio scaduto dallo spettacolo all’avanspettacolo, catapultato nella odierna tv spazzatura. Si giocava più o meno con lo stesso spirito, con la differenza che i giocatori non erano bambini e che l’indice di gradimento era sessualmente capovolto: Malgioglio era invitato ad esprimere i suoi gusti e si confessava, scegliendo idealmente non un’attrice, ma il marito di un’attrice.

Sgombro subito il campo da un possibile equivoco: non ho niente contro l’omosessualità e ancor meno contro chi la dichiara e la vive apertamente. Non sopporto però l’esibizionismo sessuale sia di dritto che di rovescio. Ho sempre considerato che chi ostenta i gusti sessuali, come chi racconta con insistenza le proprie avventure, voglia solo colmare le lacune della propria esistenza. In poche brutali parole sono convinto che chi parla di sesso vuol dire che non lo pratica o con esso ha un rapporto problematico, altrimenti non avrebbe alcun bisogno di parlarne.

Ricordo come diversi anni fa il noto giornalista e scrittore Luca Goldoni mi avesse stupito affermando come non sopportasse che gli facessero fare la parte del guardone: lo disturbava persino sentire nella stanza d’albergo confinante le prorompenti e invadenti effusioni amorose. Bussava alla parete chiedendo un minimo di riservatezza e di discrezione: della serie fate l’amore senza clamore.

Immaginiamoci se possa essere accettabile giocherellare in chiave sia etero che omosessuale in video, enfatizzando i propri gusti e le proprie inclinazioni: il sesso è una cosa troppo seria per essere banalizzata fino a questo punto. Siamo ben oltre la pornografia, che ha una sua chiara fisionomia; qui trasferiamo il sesso dalla stanza da letto al salotto pomeridiano di una tv pubblica. Impera il cattivo gusto: la moglie dell’allora presidente Ciampi, tra le inopportune esternazioni sui generis da first lady, ne inserì una più che accettabile di condanna alla insopportabile televisione spazzatura. Non è ironia, non è leggerezza, è stupidità bella e buona.

Non sono mai stato un moralista, detesto il bigottismo religioso e civile, ho persino una certa qual tendenza alla trasgressione, ma l’altro giorno ho fatto il verso a Luca Goldoni: dopo essermi accorto dove si andava a parare, ho cambiato immediatamente canale. Resta però un piccolo particolare: i soldi del canone, anche i miei, che vanno a pagare una conduttrice penosa e danno spazio ad un penoso esibizionista. Potrò almeno reagire? Non pagare il canone è diventato (giustamente) quasi impossibile. Mi resta solo la possibilità di prendere sul serio chi (in qualche modo) lo mette in discussione.

La bellezza della Tv “pallosa”

A metà degli anni settanta del secolo scorso fui partecipe di un’iniziativa editoriale a livello parmense, esperienza breve, ma molto interessante, in una città dove tutto rischia sempre di cadere nel vuoto pneumatico creato a livello informativo. Si era incerti se puntare su una radio o su un settimanale cartaceo. Si optò per il giornale e fu “Parmasette”. Alcuni però avrebbero preferito un’emittente radiofonica: si ipotizzava la radio culturale, la radio “pallosa”, in netto contrasto con l’andazzo assai leggero del panorama cittadino.

Ebbene, parafrasando quanto sopra, ci starei a trasformare la Rai nell’emittente pubblica “pallosa”, quella che costringe lo spettatore a pensare, magari senza canone, risparmiando sui costi e puntando sulla qualità della proposta culturale.

Di fronte alla eventualità, da molti liquidata frettolosamente come elettoralistica, di eliminare il canone televisivo rendendolo possibile con una razionalizzazione ed un contenimento delle spese, non mi sono affatto scandalizzato, anzi, se devo proprio essere sincero, ho tirato un respiro di sollievo: vuoi vedere che ne uscirà la Tv pallosa che costa poco e punta in alto? Sarebbe troppo bello.

Il problema non è alleggerire le tasse, fra cui possiamo mettere il canone televisivo, nemmeno sostituire l’entrata del canone con l’aumento degli introiti pubblicitari (ce n’è fin troppa, al punto che la pubblicità non è un intervallo fra i programmi, ma i programmi sono un intervallo fra i messaggi pubblicitari), ancor meno trasferire sic et simpliciter il servizio pubblico a carico del bilancio dello stato (un servizio pubblico veramente tale lo potrebbe anche comportare), men che meno privatizzare la Rai considerandola un pezzo d’antiquariato di cui disfarsi.

Il sogno è ricondurre ad austerità i programmi televisivi e radiofonici, dando loro un respiro formativo ed informativo a scapito della mera ed insulsa gara all’audience. Non so se chi parla di eliminazione del canone intenda tutto ciò; se fosse così, avrebbe tutto il mio appoggio.   Paradossalmente, pur di avere una “Rai pallosa”, sarei disposto a pagare un canone raddoppiato.

In casa mia, anche quando, dopo parecchio tempo, fu introdotta Sua Maestà la televisione, il tubo catodico fu sempre tenuto rigorosamente lontano dalla cucina, dal locale dove si consumavano i pasti: se in TV trasmettevano un evento proprio irrinunciabile, si raggiungeva l’onorevole compromesso di anticipare l’ora del pasto per poi potersi trasferire in salotto ed assistere al programma televisivo. Pur definendola sarcasticamente “la rovina delle compagnie” in casa e fuori casa, mio padre amava la televisione, ne coglieva tutta la portata a livello informativo, formativo, culturale e ricreativo, sapeva scegliere tra i programmi quelli meritevoli di attenzione. Il televisore entrò in casa mia con un certo ritardo rispetto ai tempi delle altre famiglie: una spesa voluttuaria che si inseriva in un bilancio magro. Ecco perché non mi sento video-dipendente e quindi riesco ad essere distaccato e critico nel valutare la questione televisiva a cui peraltro sono interessato.

Qualcuno mi collocherà fuori dal mondo. Tutto sommato è il più bel complimento che mi si può fare, visto cos’è il mondo in cui viviamo e per il quale la televisión, come canticchiava Enzo Iannacci, la ga ‘na forsa da león e la t’indormenta cmé un cojón.

 

I sacchetti biopolemici

Non sono un ambientalista accanito né un maniacale ecologista, ma sinceramente non vedo la materia del contendere nella polemica sorta in relazione all’utilizzo oneroso dei contenitori biodegradabili nell’acquisto di frutta e verdura. Dal punto di vista economico siamo nell’ordine di un costo medio annuo pro-capite di circa 10 euro. Sul piano del rispetto ambientale mi pare una misura razionalmente accettabile e moderatamente utile. Oltretutto dovrebbe favorire la raccolta differenziata e il riciclaggio dei rifiuti. Dov’è il problema?
Un tempo si diceva “cherchez la femme”, oggi si lascia intendere “cherchez Renzi”. Infatti subito è partita l’illazione: le nuove misure, peraltro derivanti da disposizioni europee, favorirebbero un’azienda legata al segretario del PD. Siamo alla follia! C’è la campagna elettorale, lo capisco, ma tutto ha un limite. Ogni e qualsiasi provvedimento legislativo ha una ricaduta economica e dietro di esso può quindi intravedersi un potenziale conflitto di interessi. Successe, mi ricordo benissimo, con l’introduzione dei registratori di cassa, dietro la quale molti videro un favore colossale alla Olivetti che li produceva.
Questa smania dietrologica, accentuata colpevolmente dal regime berlusconiano, che del conflitto di interessi ha fatto un vanto e un dato imprescindibile, ci sta condizionando un po’ troppo. Che la politica rischi di essere immischiata negli affari è cosa nota e piuttosto vecchia. Che negli ultimi decenni la questione sia peggiorata e/o sia stata resa più evidente non c’è dubbio. Di qui a farsi prendere dall’ansia del “retroscenismo” a tutti i costi e dal puntiglio di vedere sempre, comunque e dovunque il lato sporco della situazione, la distanza è notevole. Di cose scorrette ce ne sono già tante, è perfettamente inutile dare ascolto a chi vuole inventarne. Rifiuto categoricamente uno stile politico e giornalistico che butta manciate di fango a vanvera pensando di ripulire così la sporca società. Niente a che vedere con l’auspicabile, coraggiosa ed oggettiva denuncia di fatti e fenomeni irregolari, con le ammirevoli e sacrosante battaglie di verità scomode.
Ma torniamo al merito dei sacchetti biologici. Non dobbiamo essere ossessionati dal rischio dell’inquinamento ambientale, ma cerchiamo di fare tutto il possibile per evitarlo. Qualcuno, come detto, sente odore di business, altri magari cadono nel “benaltrismo”: i sacchetti biodegradabili sono uno specchietto per le allodole atto a distogliere l’attenzione dai veri fenomeni inquinanti a livello internazionale e nazionale. I traffici sui rifiuti tossici, le colossali emissioni di sostanze nocive nell’aria, l’inquinamento dei mari, le città invase dai rifiuti: sono le questioni che giustamente più percepiamo. Di fronte al presidente degli Usa che se ne frega altamente dei protocolli, peraltro piuttosto morbidi, per combattere l’inquinamento a livello planetario, la questione dei sacchetti per frutta e verdura può suonare quasi ridicola. Intendiamoci bene, non si tratta di pretendere di vuotare il mare con un cucchiaino, ma di introdurre mentalità e stili di comportamento che favoriscano il rispetto e la difesa dell’ambiente. Tutto può servire. Provarci è intellettualmente serio e civicamente doveroso.

Carmen uccisa dal regista

Pochi giorni or sono scrivevo un commentino dedicato ai “mali di stagione…lirica”, intendendo alludere anche alle ormai consuete forzature nella messa in scena delle opere liriche. Sono stato facile profeta: il 07 gennaio prossimo verrà rappresentata al Maggio musicale fiorentino una Carmen di Bizet che fa già discutere per la suo stravolgente ambientazione (un centro di accoglienza per stranieri) e per il suo invertito finale (Carmen ammazza Don Josè vendicandosi delle molestie sessuali subite e reagendo al femminicidio previsto dal dramma). È il caso di dire che questa Carmen di Firenze si salva da don Josè, ma rischia di soccombere al regista (forse, tutto sommato, era meglio la vendetta dell’amante).

Vi ricordate Piero Pacciani, il mostro di Firenze. Di fronte a certe bigotte difese della donna a volte mi scappava detto, paradossalmente e provocatoriamente, che forse sarebbe stato meglio farsi difendere da Piero Pacciani. Similitudini pazzesche e raccapriccianti, ma eloquenti.

Queste masturbazioni scenografiche e registiche non dovrebbero fare più notizia ed infatti mi ha stupito la grande attenzione mediatica riservata all’evento. Forse costituisce una novità rimanere nel solco della tradizione.

Quasi sempre, ma soprattutto in materia di opera lirica, faccio riferimento ai giudizi di mio padre: come già detto, era drasticamente contrario alle innovazioni, era un autentico “matusa” in questo campo. Anche se il discorso sarebbe molto lungo e complesso, il messaggio che papà mi lanciava era: stai sempre attento ai mistificatori della realtà, a chi te la vuole raccontare e chi più ne ha più ne metta .

Giacché siamo sul terreno della dissacrazione, introduco cosa intendesse mio padre al riguardo, tramite il richiamo ad una battuta piuttosto gustosa. Si rappresentava Otello ed anche l’opera lirica di Verdi, così come la tragedia di Shakespeare, contiene le “nevrotiche” insistenze di Otello su un “fazzoletto” donato a Desdemona quale pegno d’amore. Il fazzoletto! Il fazzoletto! Commento di mio padre ad alta voce in pieno loggione: “S’ al fiss stè un linsól chisà che lavór!” Della serie “dissacriamo un po’ anche i mostri sacri”, più parmigiano di così si muore.

Torno però alla Carmen di Bizet di Firenze: mi ha colpito l’affermazione del regista Leo Muscato, il quale, intervistato come non mai, ha detto che l’ambientazione storico-culturale a Siviglia dell’opera non regge, perché quel mondo non esiste più e allora…

Una lapalissiana considerazione che vale, più o meno, per tutte le opere teatrali: andrebbero quindi stravolte ed aggiornate tutte, altrimenti rischieremmo di renderle inespressive? Ma fatemi il piacere! Siamo arrivati al punto che uno si alza al mattino e si prende il diritto di sparare cazzate e trova chi lo ascolta, lo paga e gli mette a disposizione un teatro ed un testo teatrale. Non voglio porre il carro avanti ai buoi. Tra l’altro non avrò la possibilità di assistere a questo spettacolo. Mi sembra però che nasca sotto una cattiva stella. Come al solito del direttore d’orchestra (che accetta simili stravolgimenti) e dei cantanti non frega niente a nessuno: una Carmen per sola regia. Se andiamo avanti così, l’unica salvezza sarà eseguire le opere liriche in forma di concerto.

Tutto da cambiare, tutto da rivoluzionare, tutto da rifare (come diceva il grande Gino Bartali). Ricordo la reazione stizzita di mio padre rispetto alle condanne verso il loggione per aver cassato il finale a mezza voce di Aida ad opera del grande tenore Carlo Bergonzi. «Lo spartito dice così» affermavano gli acculturati appassionati dell’ultimo minuto. «Alóra adésa andèmma a ca e spachèmma tutt i disch indò in-t-al finäl j canton in vóza» rispondeva piccato il mio scettico genitore. Se diceva così per un acuto, chissà cosa direbbe oggi per una Carmen che, invece di farsi ammazzare, spara al suo ingombrante e testardo amante. Troverebbe sicuramente una battuta adeguata, io invece mi fermo qui.

 

I giornalisti sportivi Rai: scioperanti o scioperati

Quando da bambino mi appassionavo al calcio, sotto l’attenta e saggia supervisione paterna, non esistevano le TV a pagamento, la RAI, unica emittente, trasmetteva qualche partita, difficilmente in diretta, non c’era il rischio dell’attuale sbornia televisiva con le telecamere a scrutare ed a moviolare ad libitum, non esistevano i salotti televisivi pre, durante e post partita, di cronista c’era Nicolò Carosio e poco più, ben lontani dalle attuali schiere di giornalisti, commentatori tecnici, esperti, moviolisti, combinati in polpettoni stomachevoli che alla fine riescono a falsare l’avvenimento (altro che i quasi goal di Carosio). Scusate se insisto, ma è l’occasione per pulirmi un po’ in bocca, per ridicolizzare quanto succede in TV durante un incontro di calcio: un gruppo di giornalisti ed esperti nello studio centrale, un duetto per il pre-partita, un duetto per la cronaca, con altri due cronisti a commentare le inutili urla degli allenatori, una equipe per commenti e interviste durante l’intervallo ed alla fine. A parte il costo di tali sovrastrutture, che qualcuno direttamente o indirettamente paga (canone, pubblicità, etc), non so fino a quando,   il povero telespettatore al termine fa una certa fatica a ricordare il risultato dell’incontro, stordito dalla sarabanda di commenti, immagini (replay che si sovrappongono alla diretta), critiche, schemi di gioco, interviste, pareri, etc. etc.

Ebbene, nel periodo oggetto dei miei ricordi la culla del calcio era lo stadio, la sede naturale ed unica era il terreno di gioco circondato dalle gradinate più o meno gremite di pubblico. Calcio e stadio: il binomio entro cui si svolgeva l’avvenimento agonistico, con i due fronti contrapposti di protagonisti , i giocatori da un lato il pubblico dall’altro. Tutte le altre, a mio giudizio, sono interferenze più o meno fastidiose (dagli spot pubblicitari in giù).

Ragion per cui mi fa letteralmente “sbudellare” dal ridere lo sciopero indetto dai giornalisti sportivi della Rai in segno di protesta contro le scelte programmatiche troppo “risparmiose” della televisione pubblica in materia sportiva.

Di sport, di calcio in particolare, nei palinsesti Rai ce n’è fin troppo, ma se proprio desideriamo allargare le dirette televisive pagandone il caro prezzo, consiglierei di contenere al massimo i costi dei “chiacchieroni” per poter spendere di più trasmettendo gli avvenimenti più importanti e spettacolari.

L’altra sera, in conseguenza dello sciopero, il derby calcistico torinese di Coppa Italia è andato in onda senza telecronaca e commenti: mi sono divertito moltissimo, mi sembrava di vivere nel mondo dei sogni, finalmente un po’ di silenzio per lasciar parlare il pallone. Fossi il direttore generale della Rai non esiterei a sfoltire l’inutile e fastidioso esercito dei commentatori e proporrei loro di stornare i fondi dal ridondante pool sportivo per impiegarli all’acquisto dei diritti televisivi.

I giornalisti a quel punto si sarebbero fatti un autogol clamoroso: gli utenti Rai tirerebbero un respiro di sollievo e avrebbero qualche occasione in più per seguire lo sport e non le chiacchiere sportive. Non sarà così, vinceranno loro, i pupattoli catodici del pallone e noi continueremo a guardare gli avvenimenti sportivi più con le orecchie che con gli occhi.

Mia madre di fronte alla sarabanda degli uomini che ruotano attorno al calcio, esclamava ingenuamente: “Co’ farisla tutta ch’la génta lì s’a ne gh’ fìss miga al balón?”. Non avrebbero più pane per i loro denti, il castello crollerebbe rovinosamente. Il concetto, che aveva mio padre del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose. E che i giornalisti sportivi andassero tutti a quel paese, lontano da quello dei balocchi in cui vivono.