Liberi da Renzi per essere uguali a D’Alema…

Tento disperatamente di stare lontano da questa campagna elettorale stucchevole nei contenuti, assurda nei toni, paradossale nelle prospettive, ma ogni tanto ci casco: la passionaccia politica che, nonostante tutto, viene a galla. Ebbene, ho seguito l’intervista di Lucia Annunziata a Massimo D’Alema, una sorta di celebrazione televisiva della presunzione incrociata fra giornalismo e politica.

Devo dare atto a D’Alema di essere riuscito a contenere l’invadenza di una intervistatrice che in realtà intervista solo se stessa. Vorrei riprendere cosa sosteneva Umberto Eco a proposito di interviste: «L’intervista sembra l’essenza del giornalismo: vado sul posto, on the spot, e sento cosa…ne è invece la negazione, non dà orientamento, non dà giudizio critico. Noi ne abbiamo troppe. Che senso ha fare oggi un’intervista a Letta quando ieri l’ha fatta con Lilli Gruber, no? E il giorno prima l’ha fatta su un altro giornale…Dirà ovviamente, se non è un pazzo, le stesse cose che ha detto il giorno prima. E allora l’intervista è uno dei cancri del giornalismo italiano».

Lucia Annunziata vuole evitare le interviste di comodo e quindi parla sempre lei, anche se nel caso del dialogo con D’Alema continuava a fare riferimento all’intervista rilasciata qualche giorno prima ad Aldo Cazzullo sul Corriere della sera e allora… Essere invadenti con D’Alema è una gara dura e infatti la sfida è finita, come minimo, con un pareggio.

Ma vengo alla tesi fondamentale sostenuta da questo acuto e furbo esponente politico, che ha sempre catturato la mia attenzione (non la mia adesione). A suo dire l’iniziativa del partito LeU, di cui lui è uno dei subdoli ispiratori e uno dei protagonisti sotto traccia, non andrebbe contro il PD, non romperebbe l’unità della sinistra e non indebolirebbe il centro-sinistra nella sua prospettiva di governo. Questo nuovo movimento avrebbe infatti lo scopo di recuperare identità e credibilità verso quegli elettori che sono stati abbandonati dal partito democratico: lavoratori precarizzati dalla riforma del mercato del lavoro, insegnanti traditi dall’aziendalizzazione della scuola pubblica, cittadini spiazzati da una politica moderata e smidollata. In buona sostanza il nuovo partito, di cui Piero Grasso è la faccia emblematica e presentabile, recupererebbe voti dall’astensionismo e dall’antipolitica: la sinistra dovrebbe solo ringraziare e tacere.

L’abilità non fa difetto a D’Alema. Ipotizziamo per un attimo che possa avere qualche ragione. Cosa gli fa credere di avere più appeal politico rispetto a Renzi nei confronti dei portuali di Genova, dei giovani disoccupati sparsi per la penisola, dei lavoratori in bilico? Cosa lo rende capace di scaldare i cuori inariditi dell’odierno proletariato? Al di là di un nostalgico e demagogico richiamo della foresta, lanciato oltre tutto da chi questa foresta non ha fatto altro che disboscarla, al di là di una dispettosa rivalsa antirenziana che traspare dai pori della pelle, non vedo nulla di concreto e di credibile. Già il massimalismo di ritorno sfiora il ridicolo, se poi è incarnato dagli esponenti storici del burocratismo di sinistra diventa una presa in giro al buon senso politico della “povera gente”.

LeU (liberi e uguali) non recupererà un bel niente, otterrà una percentuale di voti da prefisso telefonico, creerà solo scompiglio e confusione, farà un piacere a Grillo e ai grillini. Non sono un portuale, non sono un giovane, non sono un lavoratore e non vivo sulla mia pelle i problemi principali del Paese. Mi sforzo concettualmente di vestire questi scomodi panni elettorali: se dovessi scegliere un’alternativa, anche velleitaria, al PD, non mi butterei sicuramente nelle braccia assai poco rassicuranti di D’Alema, Bersani e c. e non mi lascerei incantare dalla sirena grassiana. Tutt’al più mi asterrei o addirittura voterei Grillo (Di Maio non lo prendo nemmeno in considerazione). Messaggio dalemiano non pervenuto!

 

Riflessione del 22/01/2018

Letture. 2Sam 5,1-7.10; Sal 88; Mc 3,22-30.

Riflessione personale

Mentre il re Davide viene incoronato dagli anziani del popolo d’Israele, Gesù viene addirittura demonizzato dagli scribi del suo tempo. È relativamente facile riconoscere l’autorità che si rivela nella potenza; è molto più difficile accettare l’autorità di chi scaccia il male con le armi del perdono e della misericordia. La tentazione è di vivere la religione come una battaglia contro, mentre Gesù predica la follia dell’accoglienza verso tutti: o ci comportiamo come ci indica Lui o rischiamo di metterci su una bruttissima strada.

Le profane alleanze e i capitani di sventura

Il desolante quadro elettorale si sta completando: dopo le promesse a vanvera, dopo le candidature “prestidigitatorie”, dopo gli scandali sbirciati dal buco della serratura, sono in arrivo le future alleanze giocate sulla ruota dell’imballatura politica.

Un tempo viaggiava forte la battuta: “se mia nonna avesse le ruote sarebbe un carretto”, versione italiana e puritana della ben più significativa e dialettale “se me nòna la gavis i cojón la saris al me nonón”. E se dalle urne del 04 marzo 2018 uscisse un risultato che non assegnasse una maggioranza a nessun partito e/o raggruppamento, cosa si farà? E giù tutti a fantasticare ed a prevedere i puzzle più strampalati: Grillo (io continuo a personificare il M5S) + LeU (una sigla piuttosto astrusa che assegna, chissà perché, in dote esclusiva a Bersani e D’Alema i valori della libertà e dell’uguaglianza); Grillo + Salvini (il massimo dell’antipolitica fatta pernacchia); Pd + LeU (la improbabile e opportunistica quiete dopo l’assurda tempesta); ultima ma non ultima, Renzi + Berlusconi.

Quanto alla ipotesi di una maggioranza di emergenza tra PD e FI, essa viene vista dai più come la gogna trionfale del bipolarismo o partitismo come dir si voglia: v’è chi la sventola per sputtanare Renzi in vista di questo “ignobile connubio”; altri per rompere le palle a Berlusconi a livello dei suoi difficili equilibri nell’esile cordata del centro-destra; altri per imprimere nella mente degli elettori il comandamento “non avrai altro governante all’infuori di Di Maio”. In positivo qualcuno la vede come argine alla follia grillina, altri quale combinazione istituzionale per dare un minimo di stabilità governativa all’Italia, altri per guadagnare un po’ di tempo prima di tornare alle urne, altri ancora per fare la caricatura al compromesso storico.

Resto per un attimo su questa prospettiva: tutto sommato mi pare la più plausibile politicamente parlando. Senza scomodare i parallelismi con la Germania (probabile alleanza tra socialisti e popolari), non ci sarebbe da scandalizzarsi se per un certo periodo le due forze più significative trovassero un minimo comune denominatore, tale da traghettare il Paese verso un sistema elettorale un po’ meno rabberciato e un mini-programma governativo di emergenza.

In definitiva al “Grillo contro tutti” si sostituirebbe il “quasi tutti contro Grillo”, ad estremi mali estremi rimedi, uno spericolato “si salvi chi può”. E chi farebbe il capo del governo? Qui verrebbe il bello o, meglio, qui cascherebbe l’asino.

Da ragazzo organizzai una squadretta di quartiere per partecipare ad un torneo calcistico parrocchiale: una frettolosa ed assurda compagine. Fummo i primi ad entrare in campo, inaugurando il torneo. Quando fu il momento di scegliere il capitano, mi candidai presuntuosamente (come giocatore facevo letteralmente ridere, ma la squadretta l’avevo costruita io e quindi nessuno ebbe il coraggio di contestare la mia leadership). Fu un disastro: dopo un breve vantaggio, prendemmo una botta di goal da non credere. La squadra si era fatta compatire e io, come capitano, ero diventato lo zimbello del quartiere. Mi ci volle del tempo a recuperare un minimo di dignità.

Le figurine e le figurette dei candidati al Parlamento

Ritorno per un attimo alla mia unica esperienza diretta di candidatura elettorale: quella a consigliere comunale, nelle lontane elezioni amministrative a Parma del 1975. Come al solito cominciarono a prendere consistenza i dubbi e le perplessità: la campagna elettorale sarebbe stata troppo difficile ed impegnativa ed avrebbe rischiato di sottrarre tempo alla mia ben avviata professione; all’interno del partito, la DC, la mia convinta adesione alla componente minoritaria di sinistra mi metteva in una posizione di debolezza; la lista si preannunciava zeppa di candidati veri; la mia notorietà era limitata, considerata la giovane età (25 anni) e l’esperienza modesta in campo politico e sociale. Tra i motivi contrari alla candidatura pesava come un macigno il mio atteggiamento di severa critica verso la gestione del partito a Parma, un partito in cui facevo sempre più fatica a riconoscermi ed a collocarmi convintamente, nonostante mi rendessi conto della necessità di sostenere la visione più aperturista e progressista, portata avanti dalle componenti di sinistra: non mi vergogno ad ammettere che la mia adesione alla D.C. era mediata dalla fiducia nella linea avanzata, testimoniata in primis, almeno a Parma, da Carlo Buzzi (forse prima di essere democristiano ero Buzziano).

Ci stavo ripensando e propendevo per il no: forse era meglio lasciar perdere. Non ricordo in qual modo, ma Carlo Buzzi, il mio indiscutibile leader, espresse la volontà di parlarmi a quattrocchi: il colloquio si svolse nella semplice ed austera saletta attigua al suo studio, una chiacchierata da uomo a uomo, da amico ad amico. Buzzi mi chiese quali fossero le mie intenzioni non nascondendo, fin dall’inizio, il suo parere favorevole ad una mia scesa in campo. Gli spiegai con calma i dubbi e le perplessità che erano insorti, soffermandomi particolarmente sul giudizio aspramente critico nei confronti della D.C. parmense: come e perché candidarmi nella lista di un partito di cui ero un tesserato, un militante, ma sempre più con forti divergenze verso la sua linea politica a livello nazionale, ma soprattutto a livello locale (si trattava infatti di una consultazione elettorale amministrativa).

Il mio autorevole interlocutore non perse tempo ad analizzare i motivi contrari da me addotti, ma andò dritto al cuore del problema fulminandomi con una similitudine: “Vedi Ennio, mi disse in tono mite ma estremamente serio, Ulisse Corazza, l’eroe che diede la vita sulle barricate antifasciste del 1922, era un consigliere comunale del partito popolare, era un giovane più o meno come te, un uomo dell’oltretorrente come te, era un cattolico come te, era critico nei confronti del suo partito come te e forse più di te”. Accettai di candidarmi, feci la mia serrata campagna elettorale, persi la battaglia, ma fortunatamente non la faccia.

Ho richiamato questa modesta esperienza personale per sottolineare la sofferenza di una candidatura e del percorso che vi dovrebbe essere a monte, quel che non trovo nella   bagarre per le prossime elezioni politiche e anche per alcune consultazioni regionali. Probabilmente alla debolezza della politica e dei valori su cui dovrebbe fondarsi corrisponde la leggerezza con cui emergono le candidature: si tratti delle improvvisazioni social dei signor nessuno o delle investiture opportunistiche dei personaggi di spicco civico e/o mediatico.

Prendo ad esempio la presentazione dell’avvocato di grido Giulia Bongiorno nelle liste della Lega. Partita da simpatie andreottiane è approdata negli anni ottanta ad Alleanza Nazionale; ha seguito Gianfranco Fini nella scissione per poi presentarsi alle elezioni in appoggio a Mario Monti. Improvvisamente si rimette in pista con Matteo Salvini. È vero che la coerenza è ormai un optional, ma tutto ha un limite…Vorrei chiedere a questa illustre principessa del Foro cosa le rimane   dell’insegnamento pragmatico di Andreotti, dello spirito nazionalista di Fini, dell’anelito ad un destra moderna cavalcato dallo stesso Fini e miseramente fallito, dell’europeismo e del rigorismo di Monti. Cosa ci azzecca la Lega di Salvini con tutto ciò? Forse ha imparato da Andreotti che, politicamente parlando, è meglio tirare a campare piuttosto che tirare le cuoia.

Da bambino facevo la raccolta di figurine e le scambiavo con gli amici, ce le giocavamo e non le incollavamo neanche sugli album perché rappresentavano un’infantile e innocente merce di scambio. Evidentemente Salvini ha giocato a figurine con Meloni e Berlusconi ed ha strappato loro quella di Giulia Buongiorno. Gli elettori cosa ne diranno? Staremo a vedere su quale album verrà incollata.

 

Quando la cura è peggio della malattia

Se da una parte emerge drammaticamente la povertà del dibattito politico consacrata e coltivata dal compiacimento mediatico, dall’altra parte, per rendere interessante e appetibile la partita, si scatena la ricerca, più gossipara che giustizialista, dello scandalo a tutti i costi, sbirciando gli intrallazzi tra i poteri dal buco della serratura.

Sul vuoto pneumatico della campagna elettorale penso di avere già dato. Mi resta da stigmatizzare il gusto sadico, al limite del masochistico, di scovare le combutte di potere che squalificano e condizionano la politica. L’occasione mi è offerta su un piatto d’argento dal chiacchiericcio intorno ai presunti rapporti affaristici tra Matteo Renzi e Carlo De Benedetti: l’ingegnere per antonomasia avrebbe speculato sulle azioni delle banche popolari in base a informazioni ottenute dall’allora premier in materia di riforma di questi istituti di credito. La questione, peraltro già archiviata dalla Consob e in via di archiviazione dalla magistratura, è rispuntata, più succulenta che mai, nel clima della campagna elettorale.

Dopo avere ascoltato un’esauriente intervista a trecentosessanta gradi rilasciata da Carlo De Benedetti, mi sono fatto l’idea che non esista materia per scandalizzarsi, strapparsi le vesti e crocifiggere il solito Renzi: la riforma era sulla bocca di tutti, gli scambi di opinione tra uomini di potere sono all’ordine del giorno, le manovre finanziarie sono l’alimento quotidiano delle borse, il capitalismo ha i secoli contati.

Resta in democrazia il problema dei rapporti tra i poteri, quelli istituzionali (legislativo, esecutivo e giudiziario) e quelli di fatto (economico, bancario, finanziario e mediatico). Silvio Berlusconi aveva risolto quasi tutto, concentrando in sé potere politico, economico e mediatico: dopo avere sfruttato le scie craxiane per accrescere e consolidare le proprie posizioni imprenditoriali e televisive, le traballanti situazioni economiche delle sue imprese gli consigliarono di prendere il toro per le corna e buttarsi nella mischia politica, chiudendo il cerchio in senso totalitario. Restava fuori dal giro solo il potere giudiziario, che diventò in effetti l’unico antidoto allo strapotere berlusconiano, ma invase anche il campo della politica creando i rischi di una interferenza, che permangono tuttora.

Da allora il sistema, dopo avere rischiato di diventare un vero e proprio regime, risente di questa triste esperienza: è un po’ come una persona che soffre di una grave malattia, non ne guarisce mai completamente e, invece di reagire e riprendere la vita normale, continua a ingigantire ogni sintomo di recrudescenza della malattia, finendo col mettersi a letto ad aspettare la morte. Gli antiberlusconiani sono evoluti, trasformandosi persino in antirenziani, non capendo di essere fuorviati dal “complesso del regime”, allargando l’esorcismo verso i potentati economici fino al punto da demonizzarli tutti e sempre, chiudendo l’analisi della società in un pericoloso provincialismo pseudo-etico per cui tutto è affarismo e conflitto di interessi e quindi, come ha acutamente osservato l’ingegner De Benedetti, di fronte ad una imbarazzata Lilly Gruber, rifugiandosi nella prospettiva di consegnare il Paese nelle mani del primo incompetente che passa, purché totalmente estraneo ai giochi di potere e immacolato giudiziariamente.

Per continuare nella similitudine medico-sanitaria, è come se, dal momento che diversi medici sbagliano le diagnosi e le terapie o addirittura mettono i propri interessi prima di quelli del malato, ci si affidasse ad un medicone qualsiasi, che ha il pregio di non avere mai confuso una gastrite con un tumore allo stomaco solo perché ha il difetto di non sapere nemmeno cosa siano.

Stiamo cioè correndo il rischio di gridare continuamente al lupo e di affidarci, per la paura, ad un cacciatore improvvisato che non ha mai abbattuto neanche una lepre e forse non sa neanche sparare. Siccome poi tutte le padelle sarebbero quasi uguali, meglio cadere addirittura nella brace.

Qualcuno invece, perso per perso, sussurra “arridateci er puzzone” e si prepara a ricadere nella padella berlusconiana. La padella renziana non sarebbe sufficientemente antiaderente all’influenza dei poteri forti e allora sotto coi grillini e succeda quel che deve succedere: muoia Di Maio con tutti gli italiani dell’antipolitica.

La satira allineata e scoperta

Sono incappato casualmente in uno dei tanti talk show televisivi: si trattava di quello imbastito da Giovanni Floris su La7. Sono stato trattenuto in quanto si stava esibendo, a livello di satira politica, Gene Gnocchi, personaggio generalmente gradevole e senza eccessive pretese intellettualistiche.

Nella faziosa, insopportabile e inconcludente sarabanda politica, accentuata dalla campagna elettorale, si è perso anche lui con una prestazione a senso unico, sotto l’occhio soddisfatto e accondiscendente di Marco Travaglio (sembrava avvertirlo: sparla pure di tutti, ma non dei grillini…). L’ho trovato scaduto in una satira a metà strada fra il giornalino studentesco e il papiro goliardico: tutto estremamente superficiale e scontato.

Innanzitutto non si può deridere chi generalmente e storicamente sale sul carro del vincitore (Bruno Vespa), salvo salire su quello grillino ancor prima che i cinque stelle vincano le elezioni: La7 è infatti scopertamente schierata con i suoi trimalcioni e con gli ospiti fissi. Altro che par-condicio… Persino la satira risente di questo orientamento e allora, quando è apertamente strumentalizzata, perde tutto il suo appeal.

Poi esiste il buongusto che Gene Gnocchi ha accantonato, speriamo solo momentaneamente. Ad un certo punto ha preso di mira Giorgia Meloni: è indubbiamente un personaggio che sembra fatto apposta per essere preso in giro. Ma associarlo all’immagine di un maiale-femmina soprannominato Claretta Petacci, ritengo sia una trovata che fa solo piangere.

Non ho niente da spartire col fascismo, ho assorbito una educazione più “afascista” che antifascista, mi sono formato politicamente aderendo a scuole di pensiero democratiche, ho militato nella Democrazia Cristiana, non ho mai avuto nessun tipo di nostalgia. Potrei continuare, ma non è il caso.

Tuttavia un’offesa così triviale, per una persona morta e sepolta, già abbondantemente punita (uccisa insieme a Mussolini), svillaneggiata e oltraggiata dopo la morte (il suo corpo appeso alle forche di piazzale Loreto), storicamente e forse ingiustamente associata alle malefatte del Duce di cui era amante, considerata malignamente come il simbolo dell’opportunismo femminile verso l’uomo di potere, mi sembra di cattivo gusto: così ho esclamato a gran voce davanti al video, anche se ero solo, ed ho immediatamente spento la TV.

Adriana Lecouvreur, protagonista della famosa opera di Cilea, di fronte alla perfidia della sua rivale in amore, afferma: «Ma perché mai discendere a tanta scortesia…». Lo chiedo a Gene Gnocchi, ma mi permetto di andare anche oltre.

Se avesse fatto satira durante il ventennio, avrebbe avuto il coraggio di dire della Petacci quel che ha detto l’altra sera? Ho seri dubbi a giudicare dalla frettolosa omologazione gnocchiana all’attuale corrente che tira verso il movimento cinque stelle, la sua immediata iscrizione al partito dei nani e delle ballerine di craxiana memoria. Due pesi e due misure: la Meloni associata all’immagine di una “zana” di nome Petacci, la Raggi con un bidoncino per la raccolta dei rifiuti della sua parte politica. La seconda è benevola satira, la prima è insulsa e inaccettabile cattiveria, soprattutto per una persona morta e sepolta.

Il papa e le provocatorie esigenze dei poveri

Il viaggio apostolico di papa Francesco in Cile è stato preceduto da polemiche e disordini avvenuti in quel Paese, sostanzialmente riconducibili, se ho ben capito nonostante la sordina mediatica applicata, allo spreco di risorse effettuato per la preparazione e lo svolgimento di questo evento a fronte dei gravi problemi socio-economici della gente cilena. Probabilmente si tratta solo della punta dell’iceberg riguardante lo scetticismo verso la credibilità della Chiesa nella lotta contro le povertà e le ingiustizie: della serie “predica bene, ma non si capisce come razzola”.

Ciò mi porta immediatamente a considerare il brano evangelico in cui l’apostolo Giuda, ben prima del tradimento, osa fare un appunto socio-politico in occasione dell’episodio della donna, probabilmente la Maddalena, che unge, senza ritegno alcuno, i piedi e il capo di Gesù. Giuda insinua un pesante dubbio: «Non si poteva utilizzare meglio questi costosi unguenti, vendendoli e dando il ricavato ai poveri?». Il Maestro non scende in questa polemica e risponde che Lui presto se ne andrà, mentre i poveri faranno compagnia ai discepoli per sempre e quindi invita Giuda a lasciare in pace la donna gli sta rendendo omaggio.

Cosa voglio dire? Mi sembra pretestuosa la polemica insorta: i problemi cileni esistono da prima della visita papale e ci saranno anche dopo e quindi la bella accoglienza riservata a Francesco non è in contrasto con le difficoltà del popolo cileno. Ricordo come nella mia famiglia, dove regnava sovrana la povertà, si facevano comunque i salti mortali per accogliere dignitosamente gli ospiti illustri e graditi.

Quando i papi se ne stavano rintanati in Vaticano venivano criticati per la loro lontananza rispetto ai drammatici problemi della gente, ora che girano il mondo li si critica perché farebbero sprecare soldi e tempo nei loro impegnativi viaggi. Quando capita un disastro, se i governanti non si recano sul posto, vengono accusati di insensibilità, se si recano in visita alle persone colpite, sono bollati come demagoghi e perditempo.

Francesco deve tuttavia fare i conti con l’apertura sociale che caratterizza il suo papato: i poveri sanno essere generosi, ma sanno anche essere esigenti. Non tocca al papa risolvere i problemi sociali, mancherebbe altro, ma bisognerebbe, come si suol dire, andare giù una mano di vanga: è quello chi si aspettano esageratamente le folle (era così anche ai tempi di Gesù).

Però bisogna usare molta accortezza e prudenza: forse   il Vaticano e la Chiesa a livello istituzionale e pastorale devono aprire in tutti i sensi le porte prima e più di quanto i diversi Paesi possano e debbano aprire le porte al papa.

In secondo luogo mi sembra che le linee politiche di questo pontificato siano lasciate un po’ troppo all’ammirevole, generosa e solidaristica improvvisazione papale. Manca il tessitore della tela internazionale, un segretario di stato all’altezza della nuova, problematica ed impegnativa strada tracciata da Francesco, che non è un papa politico come poteva essere Paolo VI, né un papa giramondo come poteva essere Giovanni Paolo II, né un papa dogmatico come poteva essere Benedetto XVI.

Ho l’impressione che manchi la squadra e che alla lunga questa debolezza possa condizionare gli innovativi proponimenti e compromettere gli esiti della coraggiosa azione avviata da Francesco. Detto brutalmente, Giovanni Paolo II se ne sbatteva altamente della curia e della dimensione clericale della Chiesa, guardava alla gente, arringava le folle, cercava le radunate oceaniche e,   mentre lui viaggiava, i porporati facevano i fatti loro.

Detto altrettanto brutalmente, papa Francesco non risparmia critica e rimbrotti alla Chiesa istituzione, suona la sveglia alla Chiesa comunità di credenti, testimonia al mondo una forte dimensione evangelica, ma tutto rischia di rimanere a mezz’aria o addirittura, in certi casi, di ritorcersi contro di lui. Forse il mestiere di papa è il più difficile che ci possa essere e non va valutato e giudicato con criteri umani. Chiedo scusa se mi sono permesso…

 

Renzi e la “sindrome di Baggio”

Non vorrei avere qualche allarmante deficit di memoria (alla mia età ci potrebbe anche stare), ma personalmente non ricordo una campagna elettorale così zeppa di cazzate sparate alla viva il parroco: una tira l’altra, come ciliegie che stanno guarnendo la torta politica in vista del voto.

Siccome tutte le parti in lizza hanno fior di consulenti mediatici alle spalle, ritengo che questa tattica della sparata venga considerata redditizia a livello di cattura del consenso. E allora i casi sono tre: o gli elettori sono talmente frastornati da lasciarsi incantare da chi la spara più grossa o siamo tutti in vena di scherzare, sia coloro che andranno a votare sia quanti si asterranno, oppure alla fine prevarrà il buon senso riesumato in fretta e furia di fronte alla valanga di sciocchezze.

Non invidio Matteo Renzi, il principale bersaglio di questi attacchi da destra, sinistra e centro: tutti, più o meno, direttamente o indirettamente, addosso al PD. Visto il livello culturale e politico degli attaccanti, considerati i pulpiti sgangherati da cui provengono le assurde prediche, forse si può riabilitare il famigerato detto “molti nemici, molto onore”.

Senza entrare nel merito delle polemiche (sarebbe tempo perso!) mi sento di dare un consiglio spassionato (in stile montanelliano) al leader PD: lasci perdere, parli poco, porti avanti un suo discorso concreto basato su pochi fatti del passato e poche proposte per il futuro. Parecchi sono i motivi che consigliano un profilo basso ed essenziale.

Innanzitutto le cazzate che girano sono tali e tante da rendere pressoché impossibile controbattere efficacemente a tutte: probabilmente chi le spara vuole trascinare tutti in una rissa totale in cui c’è solo da rimetterci in dignità e serietà. Avete presente quando a scuola si era interrogati assieme a compagni impreparati? Le domande giravano e anche chi aveva studiato e poteva esprimere risposte attendibili finiva, prima o poi, per sbagliare qualche colpo, per essere travolto dal vortice e per fare una pessima figura di fronte al professore incavolato per un così basso livello dei suoi allievi.

Fin qui la motivazione in negativo, ma ve n’è una anche in positivo. Ricordate quando il famoso e talentuoso calciatore Roberto Baggio arrivò finalmente in nazionale? Il vestire la maglia azzurra lo condizionò al punto da sentirsi obbligato di stupire pubblico e critica ad ogni giocata: quando gli arrivava il pallone voleva strafare, attirava su di sé tutti gli occhi e naturalmente si esponeva al rischio di deludere persino i suoi estimatori. Non vorrei che Matteo Renzi fosse catturato psicologicamente dal “complesso di Baggio”, intendesse dimostrare sempre e comunque di essere all’altezza della situazione e di ricoprire il ruolo del “miglior fico del bigoncio” (lo lasci fare a D’Alema, il Massimo specialista di questa disciplina).

E poi chi ha governato corre un altro rischio. Ai molti che inevitabilmente avrà scontentato deve aggiungere i molti in preda alla cosiddetta “sindrome rancorosa del beneficiato”: gli insegnanti messi a ruolo, i giovani del bonus cultura, i lavoratori del bonus stipendiale, i contribuenti che hanno pagato un po’ meno tasse, etc.

Infine c’è sempre in agguato il benaltrismo e lo svaccamento di quanto fatto da chi è stato al governo. Al riguardo ricordo quanto mi diceva un caro amico, un comunista serio e leale, all’indomani della instaurazione a Parma di una giunta comunale di centro-sinistra dopo tanti anni di amministrazione socialcomunista. Di fronte al frenetico attivismo dei nuovi amministratori qualcuno dei precedenti diceva “cosa vuoi che sia…”; al che il mio amico rispondeva piuttosto piccato ai suoi compagni di partito: «Se era così facile, perché in tanti anni non lo avete fatto?».

Concludendo, se Renzi vuole rilanciarsi, a mio modesto giudizio, non deve ripercorrere pedissequamente la precedente tuttologa esperienza, ma lasci giudicare agli elettori, tenga un atteggiamento semplice e lineare, vada al sodo, faccia poche chiacchiere e non si senta in obbligo di fare i goal di tacco, ma si accontenti di bei passaggi all’interno di un affidabile gioco di squadra.

 

La scampagnata elettorale dei cittadini perbene

Se il buon giorno si vede dal mattino, la campagna elettorale in cui ci stanno tuffando sarà decisamente insopportabile e insulsa: proclami che trovano disdetta nell’arco di poche ore, contrasti dialettici tra alleati di coalizione, pronunciamenti incoerenti, polemichette da quattro soldi, evidenti promesse da marinaio, clamorose gare a chi la spara più grossa, etc. Ci sono tutti i presupposti per trasformarla in una pericolosissima scampagnata qualunquistica.

Su tutto ciò aleggia da parte mia un dubbio atroce: questo modo, aggressivo, chiacchierone e paradossale, di porsi di fronte all’elettore alla fine pagherà? Sparare cazzate consentirà di conquistare un consenso, seppure superficiale e contingente? Siamo ormai così irrimediabilmente invischiati in un dibattito palleggiato fra i bar di periferia e i salotti televisivi, in cui non riusciamo a distinguere la finzione mediatica dalla realtà dei fatti? Abbiamo perso la capacità critica per distinguere, giudicare e votare di conseguenza?

Spero non si tratti di domande retoriche, credo, nonostante tutto, in un positivo rigurgito di coscienza democratica e di senso civico da parte dei cittadini. Voglio credere che alla fine gli elettori sappiano almeno scegliere il meno peggio, magari turandosi il naso, possano cioè accontentarsi del “poco realistico” rispetto al “molto fantasioso”. Le tre piste critiche dell’elettore medio potrebbero essere le seguenti riferite alle tre aree politiche in gioco.

Può un centro-destra, senza capo né coda, avere sufficiente credibilità dopo le lunghe e penose esperienze governative che, comunque la si rigiri, ci avevano ridicolizzato a livello internazionale e portato sull’orlo del baratro del default.

Può un centro sinistra diviso e rissoso, continuamente e masochisticamente autocritico, preoccupato soprattutto di difendere la propria fantomatica identità, incapace di pagare il prezzo politico alle sfide moderne, paralizzato in una classe dirigente molto choccante e poco lungimirante, rappresentare la capacità e la continuità di governo?

Può l’antipolitica dei grillini, chiusa in se stessa, svergognata dalle ormai troppe esperienze negative, totalmente incapace di esprimere una classe dirigente all’altezza del compito, portata solo ad improvvisare le ricette per stupire gli insoddisfatti, costituire un’alternativa di governo seria?

La risposta a questi dubbi amletici potrebbe portare l’elettore, come purtroppo sta già sempre più succedendo, all’astensione, motivata dalla mancanza di proposte minimamente credibili ed agibili. Oppure potrebbe invogliare il cittadino ad uno scatto di responsabilità e di concretezza, partendo dallo spirito e dalla lettera della Costituzione italiana, visceralmente, frettolosamente e strumentalmente considerata intangibile in occasione del referendum del 2016.

Avevamo allora solo voglia di scherzare, di ridimensionare Renzi, di protestare contro il presente ancorandoci al passato? Se non era così abbiamo la possibilità di dimostrarlo, di partecipare, di approfondire, di scegliere con la testa, di ragionare e di giudicare, ricordando che la politica non è fatta di contrasto infinito tra fazioni contrapposte, ma di sintesi tra le diverse opinioni e di mediazione tra le diverse proposte. Il compromesso ai livelli più alti, come ci dimostra proprio la Costituzione Italiana.

Siccome i partiti e gli schieramenti sembrano incapaci   di tornare ad un clima politico costruttivo, gli elettori cerchino di non cadere nella trappola e abbiano quel sussulto democratico che li sappia rendere “cittadini perbene”, fuori e dentro le urne.

La dietrogrillogia

Non posso credere che la candidatura a premier di Luigi Di Maio sia una cosa seria e non lo specchietto per le allodole di qualche altro progetto politico. Più vedo, più ascolto il presuntuoso e ignorante personaggio passato per caso davanti a Palazzo Chigi e voglioso di entrarvi non da visitatore, ma da protagonista, e più mi convinco che o il movimento cinque stelle è un colossale bluff oppure persegue un disegno al di sopra del nulla benvestito da Di Maio. Non sono l’unico che se lo sta chiedendo, anche in seguito all’atteggiamento piuttosto defilato assunto da Beppe Grillo.

Pur con tutto il rispetto e la più buona volontà non riesco a prendere sul serio il fatto che i pentastellati pensino di governare l’Italia mettendo in campo un politicante politichetto che fa il verso al politico. Silvio Berlusconi afferma che non lo assumerebbe in una sua azienda neanche come fattorino: non so dargli torto, pur consigliando al fu cavaliere di usare lo   stesso rigoroso metro di giudizio nella selezione dei suoi candidati e di quelli della sua sbracata coalizione.

Senza un minimo di classe dirigente si possono anche accumulare consensi e voti, ma quando si passa dal dire al fare casca l’asino: sta succedendo ai grillini perifericamente investiti di cariche amministrative, succederà a maggior ragione per il governo centrale con un candidato premier, che sembra ancor peggio dei suoi colleghi amministratori locali.

Allora diventa obbligatorio fare un po’ di dietrologia e sbizzarrirsi con alcune ipotesi nascoste dietro il paravento dimaiano. Una prima possibilità, di carattere squisitamente tattico, potrebbe essere riconducibile alla furbizia di Beppe Grillo: logorare questi saputelli, lasciando magari che si verifichi una caduta libera dei consensi, per poi rispuntare come salvatore della Patria mettendo tutti a tacere e spadroneggiando in modo trasparente l’intero movimento. Della serie “l’unico grillino doc è Beppe Grillo”, diffidate delle imitazioni. Discorso non molto lontano dalla realtà: ho sempre ritenuto che dietro Grillo non ci fosse nessuno a livello dirigenziale e che il grillismo sia un fenomeno legato verticisticamente a questo istrione, capace di raccontarla agli scontenti in vena di scherzarci sopra.

Una seconda ipotesi la potremmo definire “giustizialistico-mediatica”: una scheggia impazzita (?) della magistratura, appoggiata dai soliti opportunistici giornalisti, che prenderebbe in mano la situazione, esprimendo una buona fetta di governo in nome della velleitaria pulizia etica. Della serie “sgombriamo la politica”, arrivano i nostri: una sorta di riedizione del dopo-tangentopoli, allora interpretato da Bossi e Berlusconi pronti a sfilare il potere alla magistratura milanese, oggi monopolizzato da un gruppo di magistrati d’assalto vogliosi di scendere in politica sotto le bandiere pentastellate. Non ci vuol molto a immaginare cosa succederebbe ai vari Di Maio…e forse solo LeU si salverebbe essendosi vaccinata con l’antivirus Piero Grasso.

Una terza fantasiosa ipotesi potrebbe essere quella che titolerei “tecnico-elitaria”: i personaggi con la puzza sotto il naso, che finalmente trovano il modo di sfogare la loro rabbia antiregime. Una sorta di governo Monti a rovescio, che manda a casa i politici e i tecnici di regime. E, come spesso accade nella storia, ad un regime ne succederebbe uno ancor peggio…

Ho finito di fantasticare. Solo così riesco però a dare un senso alla non strategia grillina, in funzione delle elezioni politiche ormai vicine.   Se mi sarò sbagliato su tutto il fronte, cosa assai probabile, vorrà dire che gli italiani avranno valutato la prospettiva di essere gli utili idioti al seguito di Di Maio e di rischiare tutto (come teme Paolo Gentiloni) al seguito di niente. Cosa avranno deciso lo sapremo il cinque marzo: speriamo bene.