Puntualmente in ritardo

Recentemente, in un dialogo con simpatiche e brillanti amiche, sono tornato a parlare del vezzo piuttosto diffuso di non essere puntuali, di arrivare clamorosamente in ritardo. Durante la mia vita professionale ne ho sofferto le conseguenze: vocato per natura ed educazione alla puntualità, ho tristemente perso tanto tempo aspettando i vari Godot degli incontri di lavoro, che arrivano con ritardi assai poco accademici.

Ad un certo punto, stanco di buttare via tempo prezioso per colpa altrui, mi diedi una regola: aspettare mezzora e poi lasciare il campo. Fu un macello, dovetti ripiegare frettolosamente, passai dalla parte del torto, rischia il licenziamento. Io mi ero dato una regola, ma gli altri non si erano dati una regolata e il torto finiva con l’essere mio: al danno del tempo sciupato si aggiungeva la beffa di essere paradossalmente considerato assenteista. Non avevo infatti l’autorità sufficiente, quella di quel giudice del tribunale di Parma che spaccava il minuto e, in occasione di procedure fallimentari, iniziava le assemblee dei creditori per l’approvazione della situazione debitoria con assoluta puntualità, mettendo parecchi soggetti in seria difficoltà. “Se ci sono io, ci devono essere anche loro”, era la pesante ma giustissima argomentazione posta alla base del suo rigido comportamento.

Ma veniamo ai giorni nostri. Lord Michael Bates, ministro britannico del Dipartimento internazionale per lo sviluppo, è arrivato alla Camera dei Lord con due minuti di ritardo, sufficienti a non permettergli di rispondere alla prima domanda della baronessa Lister. Quando ha preso la parola, il ministro si è scusato per il suo comportamento e ha presentato le sue dimissioni con effetto immediato” al primo ministro. “Di tutti i ministri che vorrei si dimettessero, lui è l’ultimo. Risponde sempre alle domande, mentre molti le evadono in modo maleducato”, ha dichiarato la stessa Lister. In ogni caso Bates molto probabilmente manterrà il suo posto, le sue dimissioni sono state infatti rifiutate da Downing Street.

Non so fino a qual punto l’aplomb del ministro inglese sia artificioso o meramente provocatorio, tuttavia è un bell’esempio di correttezza, che viene prima della politica, ma che deve essere applicata alla politica. Non ho dimestichezza con le aule parlamentari italiane e non so dire cosa succeda su questo fronte: a giudicare dall’assenteismo emergente da certe inquadrature televisive, dall’atteggiamento di molti parlamentari intenti a sbrigare le loro faccende con tanto di smartphone e di computer, dai rumori di sottofondo che accompagnano i dibattiti, posso facilmente immaginare che il rispetto degli orari sia un optional probabilmente superato dalla preventiva ed arbitraria selezione degli impegni (quelli televisivi sempre e comunque in priorità).

È vero che la puntualità non è tutto, che si può essere puntuali e inefficienti allo stesso tempo, ma, se, come si suol dire, il buon giorno si vede dal primo mattino, ci sono persone che partono con un’ora di ritardo e non so alla sera a qual punto saranno arrivati. E i loro interlocutori? Lasciamo perdere…

Tutti avranno visto i politici inquadrati dalle telecamere: hanno sempre l’orecchio attaccato al telefono, salutano tutti cordialmente, rispondono sempre alle domande dei cronisti. Gli osservatori ingenui penseranno: come sono impegnati! Come sono educati! Come sono bravi! Come sono disponibili! Se grattiamo la scorza mediatica non so cosa salti fuori.

Tornando al ministro britannico, qualcuno malignerà che si tratti del solito deviante formalismo inglese. Può darsi! Non desidero le orribili assemblee parlamentari dove tutti, allineati e coperti, applaudono a bacchetta come marionette. Tuttavia un po’ di correttezza, di educazione, di stile non guasta. In Gran Bretagna, ma anche in Italia.

E poi l’istituto delle dimissioni mi ha sempre affascinato: è una dimostrazione di forza e di serietà. Però andrebbero date sul serio e non per farsele respingere. Altrimenti…

01/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

1Re 2,1-4.10-12; 1Cronache 29,10-12; Marco 6,7-13.

 

Riflessione personale

 

Davide traccia una scia di preziosi insegnamenti per il figlio Salomone, che ne eredita il trono. Io non ho ereditato alcun trono e ben poche ricchezze dai miei genitori, ma molti e indimenticabili insegnamenti, che, strada facendo, diventano sempre più pressanti e sostanziosi. Non c’è giorno in cui non mi sovvenga qualche lezione di vita-vissuta impartitami dai miei genitori: ci si arriva col tempo e infatti l’educatore non deve avere fretta e non deve essere assillante.

La mia nascita per mia madre Lavinia fu l’inizio di una seconda vita. Lo capii quando, durante una delle notti insonni, vissute nella ritrovata intimità, che la stavano portando alla fine, mi sussurrò: “Ti ho voluto tanto bene!” Queste cose, chissà perché, si capiscono sempre tardi, troppo tardi. Meglio tardi che mai.

Anche Gesù, quando manda in missione i suoi apostoli si preoccupa di insegnare a loro uno stile sobrio e credibile di testimonianza, ma non suggerisce loro di incassare consenso immediato. Al contrario: “Se in qualche luogo non vi riceveranno e non vi ascolteranno, andandovene, scuotete la polvere di sotto ai vostri piedi, a testimonianza per loro”. I miei genitori forse non sono stati costretti a tanto, ma sicuramente non hanno raccolto in vita quell’adesione convinta che meritavano. La sto loro centellinando piano piano: oltre al bastone (l’amore per la famiglia), non presero nulla per il viaggio familiare (povertà assoluta): faticarono a guadagnare il pane, non accumularono beni, vissero faticosamente. Vangelo vivo: non potevo pretendere di più!

Il pietismo dell’Eurispes

Prendo da televideo e trascrivo testualmente. “Eurispes: il Paese è confuso e deluso. Un Paese deluso e confuso, tradito da un sistema che non riesce più a garantire crescita, stabilità, sicurezza economica e prospettive per il futuro. Questa la fotografia del 30esimo Rapporto “Italia” dell’Eurispes. Quattro italiani su dieci arrivano a fine mese usando i risparmi e solo il 30,5% riesce a far quadrare i conti. Il 18,7% riesce a risparmiare, mentre il 29,4% ha difficoltà a pagare le utenze. Inoltre, il 23,2% ha difficoltà ad affrontare spese mediche, il 25,4% a sostenere il mutuo e il 38% a pagare l’affitto. Per far fronte alle difficoltà economiche, ci si affida soprattutto alla famiglia d’origine (31,6%).”

Proseguo con la trascrizione. “Eurispes: fiducia in forze armate e polizia. Gli italiani hanno fiducia nelle istituzioni, particolarmente nelle Forze armate, nella polizia, nella Protezione civile e nel volontariato, ma solo 1 su 5 (il 21,5%) si fida del governo. Così il Rapporto Eurispes. Stabile il sentimento di affezione al Presidente della Repubblica (44,5%). Più del 50% sovrastima la presenza di immigrati e solo il 28,9% valuta giustamente all’8% la loro incidenza sulla popolazione. Il 77,5% ha paura dei cambiamenti climatici, ma nel 2008 il dato era all’81,5%. Tra le questioni considerate come minacce: corruzione (87,7%), politici incompetenti (86,2%), mafia (85,6%), smog (81,1%) e attentati (78%)”.

Con tutto il rispetto per Eurispes, mi sembra la scoperta dell’acqua calda. Non sono dati confortanti, ma nemmeno catastrofici. Quelli riguardanti la fiducia nelle istituzioni e la preoccupazione sui problemi sembrano fatti apposta per   creare confusione e incoraggiare l’astensionismo alle prossime elezioni politiche. Quelli di carattere socio-economico sembrano funzionali alla stregoneria dei grillini ed a quanti promettono la ripresa del miracolo economico.

In questi giorni sto seriamente riflettendo sul clima di sbornia informativa che i media   stanno creando: alla cosiddetta partitocrazia della prima repubblica è succeduta la “fantasiocrazia” del regime berlusconiano, ora stiamo vivendo nel catastrofismo mediatico. Il lupo perde il pelo ma non il vizio: sono, a ben pensarci, tre modi sostanzialmente equivalenti per confinare la democrazia nelle cantine carbonare dell’anti-politica. C’è il qualunquismo di chi se ne sbatte altamente di tutto e di tutti (l’indifferenza), c’è il qualunquismo che reagisce alla politica corrotta (il moralismo), c’è il qualunquismo indotto dagli incantatori di serpenti (il populismo dell’antipolitica). Contro le prime due manifestazioni si può sperare di combattere, contro la terza si rischia di non saltarci fuori, perché assolutizza mediaticamente il relativo, trasforma le impressioni in certezze, imposta la società come un mega-orto in cui vengono coltivate le paure.

La schizofrenia dell’elettorato italiano ha tante cause, ma la più consistente mi sembra la paura: la storia insegna che le risposte dettate dalla paura sono sempre fuorvianti se non tendono addirittura a criminalizzare alcune categorie (è sempre il turno degli stranieri) e cercano di trovare un riparo non tanto nelle istituzioni ma nella loro forza armata. Poi magari ci si pulisce la coscienza con una pacca sulla spalla del volontariato.

I dati Eurispes, come tutti i dati statistici da Trilussa in poi, sono fuorvianti se non vengono raccolti correttamente ed analizzati profondamente: l’acqua calda in cui nuota il caffè servito al bar sport dell’antipolitica.

Ricordo che mio padre, con la sua solita e sarcastica verve critica, di fronte agli insistenti messaggi statistici sulla morte di un bambino per fame ad ogni nostro respiro, si chiedeva: «E mi alóra co’ dovrissja fär? Lasär lì ‘d tirär al fiè?». Lo diceva forse anche per mettere fine ai pietismi di maniera che non servono a nulla e vanno molto di moda. Ricordiamoci poi che pietismo fa rima con egoismo e qualunquismo.

 

31/01/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

2Samuele 24.2.9-17; Salmo 31; Marco 6,1-6.

 

Riflessione personale

 

Papa Paolo VI consigliava: «Dite ai giovani che il mondo esisteva già prima di loro e ricordate ai vecchi che il mondo esisterà anche dopo di loro». Oggi dedico la mia riflessione ai giovani in concomitanza con la festa di San Giovanni Bosco, un maestro che seppe credere in essi. Col passare degli anni, invecchiando, sono portato a valorizzare la memoria storica e quindi a guardare indietro. Sono però molto attento a due “categorie” umane: le donne e i giovani. Per le prime – al di là della forte attrattiva verso di esse che ha caratterizzato tutta la mia vita – nutro una incommensurabile fiducia: il miglioramento del mondo, da tutti i punti di vista, credo dipenda soprattutto da loro e dalle loro inespresse e conculcate qualità. Sui secondi, i giovani, ho forti perplessità: li vedo assenti, fuori dal mondo, faccio fatica a capirli. Sono vecchio?! Pretenderei di abbinare gioventù ed esperienza, dimenticando che il bello dei giovani è proprio quello di non essere condizionati e frenati dall’esperienza. Mio padre diceva argutamente: «Se un ragas al gaviss al sarvél ‘d n’omm, al ne sariss miga un ragàs…». D’altra parte, facendo riferimento al brano evangelico odierno, i Nazaretani non si scandalizzavano di Gesù al punto che Egli, forse considerato un giovane fuori dagli schemi, non poté profetizzare nella sua patria? Papa Francesco dice: «Se i giovani fanno sognare gli anziani, vi assicuro che gli anziani faranno profetizzare i giovani».

 

A puttane con Robin Hood

La Flat tax, tassa forfetaria, è un sistema fiscale proporzionale ad aliquota costante. La Costituzione Italiana all’art. 53 recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

Mi sembra che il contrasto sia piuttosto evidente e quindi i casi sono due: o chi propone la flat tax fa una delle tante promesse da marinaio, oltre tutto assai problematica a livello di quadratura dei conti pubblici, oppure intende stravolgere lo spirito e la lettera della Costituzione. Ci si è strappate le vesti per molto meno in occasione delle riforme costituzionali sottoposte al referendum di fine 2016.

Il ragionamento (?) di quanti inseriscono questa novità nel programma elettorale si basa su due discorsi: pagheremo tutti meno tasse e le faremo pagare a quanti non le pagano (ammorbiditi nel loro intento evasivo); meno tasse, più investimenti, più sviluppo economico, più lavoro, più benessere.

Il primo punto sembra una versione ancor più demagogica del famoso intento di Robin Hood “togliere ai ricchi per dare ai poveri”. Si tratterebbe, detto come va detto, di togliere ai poveri per dare ai ricchi. Il mondo cambia, le regole vanno riviste, ma i ricchi e i poveri ci sono ancora e non riesco a capire come si possa mescolarli in questa equivoca ricetta tributaria.

Il secondo punto assomiglia molto alla storiella della ricottina sulla testa della contadinella illusa di diventare regina: la consequenzialità economica miracolistica finisce nel nulla realistico del “chi ha dato ha dato”.

Si tratta della più grossa “balla elettorale” mai ascoltata. Temo che gli Italiani possano cascarci: nel 1994 e seguenti pensarono ingenuamente (?) che votare per un soggetto capace di arricchirsi in proprio avrebbe garantito una politica capace di arricchire tutti. Se è stato bravo nel costruire una ricchezza per sé, lo sarà anche per noi… Provare per credere. La prova diede esiti disastrosi.

Oggi il meccanismo si ripete: un soggetto, che è stato fra l’altro condannato per frodi fiscali ed a cui viene conseguentemente inibita l’assunzione di cariche pubbliche, propone di pagare tutti meno tasse. Provare per credere.

Mi aspetto che prima della fine della campagna elettorale Silvio Berlusconi proponga un bunga-bunga generale: se lui se l’è saputa spassare, perché noi no? Provare per credere.

Il discorso, a giudicare dai sondaggi, è paradossale fino a mezzogiorno.

Un simile personaggio, in discreta compagnia con gli estremisti della sua parte, sta quadrando il cerchio del centro-destra: tu dai l’europeismo a me, io do a te meno tasse e più pensioni. Alla fine andremo tutti a…puttane.

 

 

30/01/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

2Samuele 18,9-10.14.24-25.30-19,4; Salmo 85; Marco 5,21-43.

 

Riflessione personale

 

Continuiamo a leggere le disavventure del re Davide. Il figlio Assalonne, che lo tradiva cospirando contro di lui, muore a causa di un incidente, ma soprattutto per la sbrigativa vendetta dei “solerti” seguaci del re. Davide non tira un sospiro di sollievo per essersi liberato di uno scomodo concorrente, ma piange e fa lutto e la sua vittoria in quel giorno si cambia in lutto per tutto il popolo. Viene spontaneo fare un parallelismo con la vicenda di tutti noi, uomini, figli-degeneri di un Padre, che piange per le nostre disgrazie pur dovute alla nostra cattiveria: Dio non può e non vuole bloccare la nostra libertà di tradirlo, ma ne soffre immensamente al punto da sacrificarsi per noi nel suo Figlio. Ci possiamo anche stupire della tremenda sofferenza a cui viene sottoposto Gesù. Non poteva il Padre trovare un modo meno cruento per salvarci e redimerci? Evidentemente sono talmente gravi le nostre malefatte ed è tanto forte il Suo dolore per i nostri assurdi comportamenti da giustificare un sì grande sacrificio redentivo. A estremi mali, estremi rimedi.  “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”: con queste parole ci scusa il Figlio di Dio, dopo che noi lo abbiamo messo in Croce. Ci vuole evitare persino i sensi di colpa. Il grande Avvocato chiede la nostra assoluzione per totale incapacità di intendere e di volere, ma, siccome non siamo incapaci ma cattivi, sconfigge e cambia sulla sua pelle la nostra cattiveria in amore. Più di così…

Amarcord Carlo Buzzi

La inevitabile bagarre pre-elettorale sulle candidature a deputato e senatore mi porta inevitabilmente ad aprire il libro dei ricordi per andare alla fulgida pagina del mio unico e grande leader politico: Carlo Buzzi.

Fu deputato prima e senatore poi per lunghi anni. Ricordo l’entusiasmo con cui aveva accettato l’ultima candidatura: era contento come se fosse la prima volta che provava ad entrare in parlamento. Ebbi occasione di percorrere insieme a lui un tratto della centralissima Via Mazzini e fra i tanti saluti cordiali che raccoglieva ve ne fu uno molto significativo, che recitò più o meno così: “Non preoccuparti Carlo se sei in parlamento da tanti anni, le persone come te è meglio che ci rimangano, magari per tutta la vita”. A dimostrazione che le regole dei due mandati e roba del genere lasciano molto a desiderare: dipende sempre tutto dal valore e dallo spirito di servizio della persona.

Quando venne il momento accettò l’esclusione con grande eleganza. Qualcuno disse che non era stato capace di creare un ricambio, che aveva personalizzato troppo la leadership: le solite cavolate dei grilloparlanti. Buzzi, lo dico per esperienza diretta, non ha mai chiuso od ostacolato la carriera politica a nessuno, semmai a volte eccedeva nel mettere in discussione la sua leadership. In questa città, che dorme fra due guanciali, nessuno è stato in grado di raccogliere il testimone di Buzzi.

La fine della sua vita parlamentare – dovuta a calcoli politici faziosi (un ostacolo in meno per l’imperante doroteismo democristiano e non) o a considerazioni socio-politiche di maniera (ricambio generazionale) – fu un fatto molto negativo per la politica parmense e non solo parmense e fu sostanzialmente per me la fine dell’impegno nella D.C. e nella sinistra D.C., preludio all’abbandono del partito allorquando si instaurò la segreteria nazionale di Arnaldo Forlani: ero stato facile profeta di un degrado del partito democristiano che portò alla debacle.

Ma vorrei spingermi oltre per ribadire, quasi con spietatezza, l’essenzialità della leadership buzziana nella sinistra D.C. parmense: riconosco come il suo tramonto abbia segnato la fine della sinistra DC a Parma, la sua perdita di mordente e di incisività, il suo sostanziale snaturamento, il suo inserimento in una linea di moderatismo possibilista e perbenista, rispettabile ma assai lontano dalle sue spinte ideali.

Ammetto di vivere queste memorie con tanta nostalgia, ma anche con rinnovata, seppur problematica, fiducia nella politica intesa come servizio. Le candidature vanno scelte e sostenute in base a questo criterio: un mix tra competenza, preparazione, esperienza, dedizione, impegno, senso politico, capacità di legiferare. A pelle e senza sottovalutare i profili delle candidature emergenti, credo siano volte più a stupire che a “servire”: ricordiamoci che il Parlamento non è un’accademia scientifica e nemmeno una passerella di big della cosiddetta società civile: non è detto infatti che un luminare della medicina sia capace e disponibile ad organizzare la sanità, che un grande giornalista riesca a garantire un sistema informativo autenticamente democratico, che un importante magistrato sappia riformare la giustizia e via discorrendo. Non voglio fare un assist agli ignoranti, ma ai candidati disponibili a rimboccarsi le maniche senza inutili protagonismi ed eccellenze fini a loro stesse.

Al di là del sistema elettorale, che forse non incoraggia ad una scelta oculata delle persone da mandare in Parlamento, bisogna sforzarsi di partire proprio dalle persone, che vengono prima dei partiti, nonostante siano questi ultimi, come prevede la Costituzione, a concorrere democraticamente a determinare la politica nazionale. Non mi stupiscono le code polemiche rispetto alle scelte operate all’interno dei partiti: non c’è metodo selettivo che tenga…. D’altra parte meglio la polemica per i troppi candidati che il conformismo sui pochi: direi quindi “molti, ma buoni”.

Ho iniziato ricordando il mio padre-politico, finisco con mio padre a tutto tondo. Devo dire ad onor del vero che non ebbe mai in tasca tessere di partito: da quanto diceva al riguardo ho dedotto che non fosse assolutamente una scelta qualunquistica, ma al contrario un modo per mantenere intatto il suo incontenibile spirito critico e per dare sfogo al suo libero pensare. Non era fatto per il gioco di squadra, non accettava schemi precostruiti, non era un militante. Temeva (aveva quasi un complesso al riguardo) i fanatismi, forse perché ne aveva visti troppi, e quindi riteneva di non rischiare non aderendo ad alcun partito politico. Questo non gli impediva di elaborare le proprie scelte, di esprimere le proprie idee e di partecipare al voto (cosa che aveva fatto con coraggio anche con gli addomesticati referendum del regime fascista, votando regolarmente “no”). Critico sempre, ma non disfattista, anzi. Forse a chi fa tante storie sulle candidature calate dall’alto e sulla tendenza all’astensione dal voto, risponderebbe alla sua maniera: “ As fäva prima ai temp dal fascio e in Russia, it devon la scheda dal sì e basta! “.

 

29/01/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

2Samuele 15,13-14.30; 16,5-13; Salmo 3; Marco 5,1-20.

 

Riflessione personale

 

Il re Davide si dibatte tra la ragion di Stato e le ragioni del suo Dio: tradimenti e vendette scandiscono la vita del suo regno in contrasto perenne con la volontà di un Dio giusto che lascia intravedere la legge del perdono. I Gerasèni, contemporanei di Gesù, mettono le loro ragioni economiche prima della sua azione salvifica. Meglio difendere l’allevamento dei porci (morti affogati per essere diventati lo strano rifugio di una legione di demoni) e lasciare gli indemoniati al loro destino: gli fanno capire che è opportuno un suo allontanamento da quel territorio. Il Vangelo è il più bel libro mai scritto, Gesù il più grande uomo di tutti i tempi fin tanto che non vengono toccati i nostri interessi. Diversamente tutto viene accantonato. Il vero indemoniato non è il Geraseno liberato e guarito, ma i suoi conterranei prigionieri di una mentalità chiusa. Anche la nostra fede è spesso indemoniata dall’opportunismo, dal formalismo, dalle convenienze e dalle convenzioni. Anche noi tendiamo, come i Geraseni, a fare i nostri porci comodi.

La clonazione delle scimmiette e…di Mimì

Ambarabà ciccì coccò tre scimmiette sul comò che facevano l’amore con la figlia del dottore, il dottore si ammalò, Ambarabà ciccì coccò. La filastrocca si presta ad introdurre un commentino etico alla sbandierata novità scientifica della clonazione delle scimmiette, dopo quella delle pecore.

Da una parte questi fatti, come ha detto il teologo e scrittore Vito Mancuso, ci rendono orgogliosi delle conquiste scientifiche di cui siamo capaci, dall’altra ci deve preoccupare l’uso che sapremo fare di queste scoperte, rischiando purtroppo di prescindere da qualsiasi limite etico.

Non dobbiamo avere paura della scienza vivendo in modo oscurantista la sua evoluzione, ma stiamo attenti a ritenerci onniscienti e onnipotenti: più progrediamo nella conoscenza e più dovremmo capire i nostri limiti. Abbiamo in mano degli strumenti importantissimi che ci impongono di rispettare ed utilizzare al meglio la natura e non di stravolgerla. Ci sentiamo forti, intelligenti, capaci di tutto e tendiamo conseguentemente a sovrapporci a quanto circonda la nostra vita.

Questo avviene in campo scientifico, ma anche, ad esempio, in quello artistico. Rai cinque, il canale televisivo culturale, con una sorta di lapsus freudiano, ha annunciato la messa in onda di Bohème come opera di Graham Vick: ho fatto un salto sulla seggiola e mi sono precipitato su internet per verificare questo strano annuncio. Non mi risultava infatti che esistesse un tale compositore e tanto meno una sua opera lirica intitolata Bohème. Sono rimasto a quella di Giacomo Puccini.

Mi ci è voluto poco a capire che trattavasi del regista a cui veniva attribuita la Bohème andata in scena con successo al teatro comunale di Bologna: una rappresentazione piuttosto “innovativa”. Dopo qualche incertezza ho seguito la trasmissione, incerto tra il seguirla chiudendo gli occhi o ad occhi sbarrati: ammetto infatti, come già scritto ripetutamente, di non sopportare queste fastidiose ed inutili operazioni pseudo-culturali. Ogni tanto, mi chiedevo, ma cosa sto guardando? Ad un certo punto ho gettato la spugna e me ne sono andato sconsolatamente a letto.

Cosa c’entra la Bohème di Vick con le scimmiette clonate: non so, ma mi è venuto spontaneo fare questo ardito parallelo. Stiamo forse sovvertendo il nostro patrimonio con l’intento di sfruttarlo a fini quanto meno discutibili ed equivoci? Stiamo perdendo il senso della misura in nome della novità a tutti i costi?

Tra l’altro esiste il rischio di dare fiato alle trombe reazionarie a cui non voglio minimamente unirmi. Stiamo attenti a non esagerare perché ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria e alla fine si salvi chi può.

Cloniamo le pecore, poi le scimmie, poi arriviamo a clonare anche Puccini, facendolo diventare quello che noi vorremmo fosse? Ricordo con emozione, in uno sceneggiato Tv sulla vita del compositore, come lui piangesse sulle creature femminili delle sue opere o come chiedesse conto incredulo di certi fiaschi subiti alle prime rappresentazioni. Non penso potesse minimamente immaginare che le sue opere avrebbero un giorno rischiato di essere clonate da scenografi e registi senza troppi scrupoli.

 

28/01/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Deuteronomio 18,15-20; Salmo 94; 1 Corinti 7,32-35; Marco 1,21-28.

 

Riflessione personale

 

Mia madre, così come era rigorosa ed implacabile con gli anziani, era portata a giustificare chi delinqueva, commentando laconicamente: “Jén dil tésti mati”. Allora mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ätor di l’à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”.

Matti o delinquenti? Indemoniati o malati mentali? Poco importa! Gesù li guarisce, ci guarisce tutti. Non tanto coi miracoli, ma col miracolo dei miracoli che è la sua morte in Croce. Quando abbiamo qualche grosso problema proviamo a pensare a Lui, quando ha detto, prima di morire, “tutto è compiuto”. In quel “tutto” ci sta sicuramente anche la nostra sofferenza, c’è l’antidoto ai nostri mali: non spariscono, ma trovano una spiegazione, l’unica possibile.

Magra consolazione? Quando qualcuno definiva assurda ed illusoria la risposta della fede ai misteri della vita, della morte e dell’aldila’, mio padre, che peraltro non era un cattolico praticante, era solito rispondere: “Alóra, catni vùnna ti !!!”.