12/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Giacomo 1,1-11; Salmo 118; Marco 8,11-13.

 

Riflessione personale

 

Uno dei miei tanti difetti consiste nel volere precipitare le cose, nel non avere pazienza, nel pretendere di finirle ancor prima di cominciarle. Mi sento quindi appartenente alla casta dei farisei, quando chiedono a Gesù un segno dal cielo per metterlo alla prova e pretendono di bruciare le tappe della rivelazione. E Gesù li ripaga non dando ad essi alcun segno e loro rimangono con un palmo di naso.

Giacomo, nella sua lettera di cui apprezzo l’estrema concretezza, capovolge il discorso dei farisei: prima bisogna accettare le prove della fede, che producono la pazienza, e la pazienza porta alla perfezione, alla sapienza, alla perseveranza, alla fiducia in Dio, all’umiltà, alla consapevolezza dei propri limiti.

Per Giacomo, solo apparentemente in contrasto con i messaggi paolini, la fede deve sfociare nelle opere, in un certo stile di vita, ma con la pazienza di essere dei “buoni a nulla” e non con la presunzione di essere dei “capaci di tutto”.

Difficilissimo! Ma Giacomo ci viene in soccorso: «Se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data». Non mi resta che seguire questo prezioso consiglio, anche se spesso chiedo e non ho risposta. Giacomo aggiunge: «La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento; e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni». Mi ritrovo nella fotografia critica di Giacomo: sono impaziente ed allo stesso tempo oscillo, sono instabile. Quanta strada mi rimane da percorrere…e c’è poco tempo, perché ne ho perso parecchio. Per fortuna Alessandro Manzoni fa dire a Lucia: «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia». Non mi resta che essere manzoniano anche perché Giuseppe Verdi lo chiamava “il santo” e io sono verdiano, manzonian-verdiano…

 

L’antifascismo unificante

Il fascismo è stato una gravissima malattia da cui l’Italia è guarita dopo enormi sofferenze   e terapie assai invasive. Non si è trattato di una devastante infezione virale, che ha tuttavia il vantaggio di formare gli anticorpi, i quali immunizzano il fisico evitando che ricaschi nella stessa malattia.

Il fascismo è stato una malattia infettiva di carattere microbico: i microbi sono rimasti in circolazione, il corpo è più o meno esposto ad essi e, quando attraversa periodi di debolezza e di crisi, può essere intaccato e ricadere, magari con sintomi e manifestazioni diversi, nella malattia originaria. La similitudine usata, sicuramente imprecisa dal punto di vista sanitario, non richiede ulteriori spiegazioni dal punto di vista culturale.

La fine delle ideologie, che ha trascinato nel dimenticatoio anche i valori, la crisi ideale, la debolezza del sistema democratico, l’enorme problema dell’immigrazione, sovrapposto alle già presenti difficoltà economiche, rendono il nostro Paese un soggetto a rischio razzismo, nazionalismo e populismo, tradizionali presupposto dei regimi riconducibili al fascismo.

Non bisogna drammatizzare, ma nemmeno sottovalutare questi discorsi. Le malattie approfittano dei momenti di debolezza per attaccare e quindi occorre rafforzare le difese e prevenire l’infezione.

Quando facevo politica attiva, non c’era documento che non aggiungesse all’aggettivo “democratico” quello di “antifascista”: la nostra democrazia è antifascista per sua natura costituzionale, quindi, contro natura non si può andare. I sorrisetti omertosi, le alzate di spalle fatalistiche, le dichiarazioni rassicuranti non convincono. E allora? Non occorre certo farsi prendere dal complesso del rinascente fascismo, ma combattere culturalmente e politicamente le “buone battaglie”, che permettono di conservare la “fede”.

È una questione educativa: i giovani sanno cos’è stato il fascismo o ne osservano solo i simboli, pensando che il loro sbandieramento sia solo sintomo di nostalgia o goliardia?

È un fatto culturale: la realtà va capita ed affrontata, non fuggendo da essa con le scorciatoie del ritorno alle medicine del passato rivelatesi ben peggiori del male.

È una battaglia democratica: la prassi sistemica deve comportare metodi e contenuti, che non devono mai rinunciare ai valori su cui è fondata la nostra Repubblica.

Il discorso è molto importante ed imprescindibile e dovrebbe essere condiviso da tutte le forze politiche e sociali. Purtroppo non è così e la vigilanza deve quindi essere ancora maggiore. Servono al riguardo le manifestazioni di piazza? Un tempo avrei risposto di sì senza esitazioni e/o condizioni, quando c’era una battaglia politica molto accesa, ma quando la condivisione di certi valori era altrettanto forte. Oggi non vorrei che le pubbliche manifestazioni antifasciste diventassero il pretesto per dividere anziché unire le forze democratiche, per fare frettolosi esami di antifascismo, che nella storia hanno portato a disastri, a eccidi, a guerre civili (discorso foibe docet).

Manifestare pubblicamente le proprie idee non è mai sbagliato, confessare la propria fede nella democrazia aiuta a capire meglio se stessi e la democrazia, ribadire l’antifascismo quale irrinunciabile componente del DNA repubblicano è utile. Tutto se non si fanno passerelle datate e divisive all’insegna “dell’io sì che sono antifascista, mentre tu…”.

A livello religioso il demonio e il male da esso impersonificato sono considerati il fatto rovinosamente “divisivo”. Anche il fascismo e i suoi rigurgiti tendono a dividere per imperare. Opporsi al neofascismo richiede paziente e costruttiva opera unificatrice, senza soffiare sul fuoco . Sarà più facile e serio individuare chi è direttamente o indirettamente fuori da questa virtuosa logica.

11/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Levitico 13,1-2.45-46; Salmo 31; 1Corinti 10,31-11,1; Marco 1,40-45.

 

Riflessione personale

 

Più che guarire i lebbrosi Gesù guarisce la religione dal suo storico ed endemico vizio di emarginare. Il malato di lebbra era il più emarginato fra gli emarginati: portava vesti strappate e il capo scoperto, si copriva la barba e la bocca, andava gridando “Immondo! Immondo!”, se ne stava solo e abitava fuori dal villaggio.

Questo vizio non è solo della religione, ma anche della società in genere: pensiamo ai malati mentali ed alle condizioni inumane in cui erano costretti a vivere (e anche oggi non è del tutto finita questa discriminazione).

Ma non bisogna scaricare sugli altri! Io, con la mia mentalità e i miei atteggiamenti, discrimino ed emargino certe persone? Spesso confondo il sacrosanto diritto/dovere della critica con quello di condannare chi a mio giudizio sbaglia. Nel momento in cui giudico una persona parte già la discriminazione. Cosa ne so io di quanto passa nell’animo di una persona?

Gesù non giudica, guarisce e salva! Dal momento che io ho bisogno di essere guarito e salvato non posso permettermi di giudicare e condannare alcuno. È un vizio molto brutto che dovrei riuscire a togliermi di dosso: è una, forse la più pericolosa, delle lebbre che intaccano la mia pelle. Pericolosa in quanto molto spesso prego “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” e quel “come” è senza via di scampo e diventa condizione imprescindibile per essere perdonato.

 

La democrazia cliccata

Che i partiti al loro intero non brillino per partecipazione e democrazia è un dato di fatto difficilmente contestabile. I motivi sono tanti: la sfiducia generalizzata dei cittadini verso la politica, la corruzione e la disonestà di troppi esponenti politici, la perdita di credibilità sia a livello governativo che di opposizione, l’eccessiva personalizzazione delle leadership, l’incoerenza e la contraddittorietà dei comportamenti, la mancanza di ideali e di valori nella società, la fine delle ideologie che garantivano comunque un’adesione forte, la scomparsa dei meccanismi selettivi, che un tempo, seppure brutalmente o correntiziamente, consentivano un vaglio nell’assegnazione di incarichi e candidature, la crisi economica, che preoccupa e distoglie l’attenzione dai meccanismi istituzionali, e via discorrendo.

Anche le recenti candidature al Parlamento non sono state frutto di partecipazione, anche se un po’ tutti si sono preoccupati, in vista delle elezioni, di “improvvisare” rappresentanze della cosiddetta società civile.

Il dato che però mi ha più impressionato, strappandomi persino qualche amara risata, è quello del movimento cinque stelle: costoro si spacciano per paladini della democrazia e della partecipazione, cavalcano l’onda del web, si ergono a fautori del ripristino della legalità democratica, fanno i grilli parlanti ed i primi della classe. Ebbene, alle parlamentarie, vale a dire alle consultazioni informatiche tenute dai grillini, hanno partecipato meno di 40.000 persone con la conseguenza che i più cliccati sono stati proposti e sono entrati in lista con poche centinaia di voti, alcuni addirittura con poche decine di segnalazioni.

E questa sarebbe la nuova versione della democrazia partitica? Preferisco di gran lunga le candidature partorite dalle direzioni dei partiti, almeno rimane un minimo di vaglio politico da parte di una dirigenza nominata dagli iscritti al partito, nel caso del PD addirittura con milioni di voti per la scelta del segretario. Ammettiamo pure che Matteo Renzi abbia usato il pugno di ferro nella scelta dei candidati piddini, ma almeno lui è stato votato da parecchia gente, ha intorno un gruppo dirigente, ha una minoranza interna con cui deve fare i conti.

Lo spontaneismo grillino è la versione riveduta e scorretta dell’assemblearismo sessantottino. L’ho vissuto, seppure marginalmente nelle battaglie universitarie, laddove si votava e si sceglievano i rappresentanti per sfinimento, dopo interminabili e logorroiche riunioni in cui si discuteva di tutto, da Adamo ed Eva in avanti, per contestare tutto e combinare ben poco. Allora però c’era un forte pathos ideologico, una forte disponibilità all’impegno, una notevole preparazione politico-culturale. Di tutto ciò non vedo nulla nelle ridicole consultazioni grilline e nemmeno nella vita interna di un movimento, dilaniato al proprio interno, impreparato, inesperto, rissoso nei toni e vuoto nei contenuti.

Non lo dico con soddisfazione, anzi…

 

10/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

1Re 12,26-32; 13,33-34; Salmo 105; Marco 8,1-10.

 

Riflessione personale

 

La tentazione di adorare il vitello d’oro è sempre presente: vale per Geroboamo, che si illudeva così di mantenere il controllo sul suo regno ed invece lo mandò in rovina, vale per tutti. Il vitello d’oro è sinonimo di potere, ricchezza, successo, di ricerca sfrenata di beni e soddisfazioni materiali. Gesù è sceso sulla terra, non è andato sulla luna e quindi conosce perfettamente le esigenze degli uomini: per la folla che lo seguiva da tre giorni e non aveva da mangiare compie il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Poi però siccome volevano farlo re, si eclissò, scegliendo il primato delle cose dello spirito rispetto a quelle materiali.

Non ho mai, fortunatamente, vissuto nell’abbondanza, anzi sono stato cresciuto ed educato in un clima di povertà. Poi è arrivato un certo benessere, ma senza inutili e pericolosi eccessi, senza anelare alla ricchezza, al lusso, al successo fine a se stesso.

Un caro amico affermato professionista mi chiese un giorno quanto guadagnavo. Non ebbi difficoltà a rispondergli. Mi guardò e mi chiese sbalordito: «Sei matto?». Per lui guadagnavo infatti troppo poco. A me bastava non per spirito pauperistico, ma per mentalità e carattere: niente merito, solo qualche rischio in meno rispetto al discorso del vitello d’oro.

Gesù però, con un giovane che gli chiedeva consiglio, andò oltre i comandamenti e gli suggerì di lasciare tutto e di seguirlo. Lui, dal momento che aveva molti beni, se ne andò sconsolato e scoraggiato. A me forse non chiede di spogliarmi di tutto, ma di condividere il più possibile. Io, che non ho molti beni (anche se la quantità di beni e un fatto relativo, perché anche le mie modeste ricchezze possono essere notevoli rispetto al poco o niente di tante persone), ma tendo a garantirmi una certa sicurezza per il presente e per il futuro, ho timore che mi possa essere chiesto di fare un passo in più. La domanda me la sento addosso e la risposta non è pronta e generosa come dovrebbe essere. Ho anch’io il mio vitellino d’oro? Può darsi…

Le olimpiadi del finto disgelo

Ripercorrendo in modo pressapochistico, per non dire spannometrico, la storia delle Olimpiadi, si fa molta fatica a capire fino a qual punto la più grande e importante manifestazione sportiva abbia influenzato la politica o sia stata condizionata e strumentalizzata dalla stessa.

In premessa bisogna precisare che di sportivo in senso classico e di spirito olimpico vero e proprio rimane ben poco: il dilagante e inarrestabile professionismo degli atleti, l’affarismo indotto dagli inevitabili interessi economici esistenti a livello di allestimento e gestione di questo enorme evento, la spinta mediatizzazione delle gare seguite con un’attenzione che va ben al di là dello sport, la spettacolarizzazione che ha soppiantato completamente l’agonismo partecipativo a vantaggio della ricerca della vittoria a tutti i costi (leggi doping e fenomeni annessi e connessi) hanno comportato un notevole snaturamento delle Olimpiadi al punto che certi Paesi (tra cui purtroppo anche l’Italia) preferiscono non offrire ospitalità a questo evento, ritenendolo fonte di inutili spese e di pericolosa corruzione.

Fatta questa doverosa premessa ritorno al dunque: al rapporto fra sport e politica. Dirò subito che non sono entusiasta dei venti di pace che sembrano partire dalle olimpiadi invernali coreane. Sempre meglio di una loro coniugazione in chiave squisitamente nazionalistica.

Tuttavia si tratta di un disgelo calato dall’alto, del mero sfruttamento di un occasione unica per riallacciare rapporti diplomatici e individuare qualche spiraglio di dialogo internazionale fra le due Coree, ma anche tra i loro referenti più o meno diretti.

Non è una spinta che sale dal basso, dalla rispolverata fratellanza tra atleti e sportivi delle più diverse nazionalità, etnie, razze e lingue: questi rischiano di ricoprire il ruolo di pedine sullo scacchiere politico internazionale seppure in senso pacificatorio. Spero che le olimpiadi coreane possano passare alla storia come l’inizio di un processo di pace in Asia e nel mondo intero, ma ciò e avverrà non sarà per la loro forza d’urto bensì per il loro facile palcoscenico.

Allora la distensione che ne potrà sortire non sarà forte e radicata, ma soltanto tattica e provvisoria, una sorta di armistizio fra Stati e non un ritrovato dialogo fra popoli: forse esigo troppo, ma temo che da uno sport, che non è più tale, possa derivare solo una pace che non è degna di tale nome.

Mio padre credeva molto nel significato e nella portata degli eventi sportivi, soprattutto delle olimpiadi al punto da scandire la propria esistenza sulla quadriennale ripetitività dell’appuntamento olimpico. Al termine di un’olimpiade chiedeva a se stesso: «Ci sarò alle prossime? Le potrò seguire e vivere come si deve?». Era più interessato ad essere presente alle olimpiadi che non al momento in cui l’uomo sbarcò sulla luna o sbarcherà su Marte. Un atto di fede nella natura umana e nelle sue inesauribili risorse a servizio della pace e dello sviluppo.

Assai curiosi erano i pulpiti da cui mio padre impartiva le sue lezioni di vita: i più improbabili, i più strani ma forse i più credibili. “Da che pulpito viene la predica” si è soliti dire per screditare l’imbonitore di turno.   Nel mio caso, o meglio nel caso di mio padre, il pulpito, per la sua immediatezza di postura e per la sua semplicità di struttura, conferiva credibilità proprio perché incastrato nella vita di tutti i giorni, nella quotidianità più assoluta, garantendo l’enfasi del vissuto e l’autorevolezza dell’esperienza diretta. Il pulpito più spontaneamente praticato era lo stadio, quale sede fisica dell’evento sportivo, per meglio dire lo sport quale positiva e accattivante metafora della vita a livello individuale e sociale, quale capacità di coniugare competizione e rispetto reciproco, quale viatico per un’esistenza vivace ma pacifica.

09/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

1Re 11,29-32; 12,19; Salmo 80; Marco 7,31-37.

 

Riflessione personale

 

“Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti”, così la gente di Sidone esprime il proprio stupore di fronte al miracolo operato da Gesù con la guarigione di un sordomuto. Quante volte nella mia vita mi sono comportato da sordomuto: sordo alle necessità ed ai bisogni degli altri, muto davanti alle ingiustizie di questo mondo. E pensare che Gesù anche a me dice continuamente: “Effatà” cioè “Apriti”. Ma i miei orecchi tendono a rimanere chiusi e il nodo della lingua non si scioglie, anzi gli orecchi ascoltano sirene e la lingua snocciola sciocchezze. E pensare che, con il battesimo che ho ricevuto, dovrei essere anche “profeta”, non un mago che predice il futuro, ma un testimone nel presente. Come il profeta Achia: lacerò in dodici pezzi il suo nuovo mantello per dire a Geroboamo che avrebbe ereditato il potere di Salomone sulle tribù di Israele, tranne una a significare la continuità del regno di Davide. Le azioni simboliche dei profeti sono gesti non solo espressivi, ma già efficaci. Anch’io non dovrei solo predicare bene con la lingua, già meglio degli omertosi silenzi, ma razzolare bene con la testimonianza e con i fatti concreti.

Pane e Sanremo

Come ben si sa, non fa notizia che un cane morda un uomo, ma che un uomo morda un cane. Il fatto del giorno non è l’alto indice di ascolto televisivo del Festival di Sanremo. Che stupisce e fa notizia è la sbandierata soddisfazione della Rai e della sua dirigenza per gli 11,6 milioni di spettatori davanti al video. L’ente radiotelevisivo canta vittoria, ha preparato con un impegno incredibile questo evento e adesso enfatizza in modo spudorato il risultato ottenuto. La Rai ha sostanzialmente trasmesso il Festival di Sanremo a reti unificate, vista la scarsità qualitativa dei programmi alternativi; ha pubblicizzato per giorni e giorni questo spettacolo, con una insistenza ed un’attenzione degne di miglior causa; per una settimana Sanremo ha letteralmente monopolizzato la televisione pubblica.

Si tratta della vittoria di Pirro: grande share per la kermesse sanremese che accredita una Rai ricreativa a danno delle reti e dei programmi culturali. Ho notato come regolarmente nella presentazione dei programmi serali televisivi, Rai cultura e Rai storia non vengano nemmeno citati e pensare che dovrebbero essere il fiore all’occhiello della Tv pubblica.

Mio padre, che era un dissacratore nato, prevedeva, ai suoi tempi, che il popolino avrebbe facilmente osannato un divo dello spettacolo e probabilmente snobbato, se non pernacchiato, uno scienziato: il classico evento capace di distrarre l’opinione pubblica dai problemi reali, creando lo spazio per far passare sotto silenzio anche le più brutte situazioni. Diceva testualmente: «Se a Pärma ven Sofia Loren, i fan i pugn pr’andärla a veddor; sa vén Alexander Fleming i ghh scorezon adrè’…». Cosa contano infatti le morti scampate per merito dell’inventore della penicillina di fronte ad una sfilata divistica, come quella di Sanremo.

Non pretendo che la gente rinunci al divertimento, ammesso e non concesso che il Festival di Sanremo lo possa essere, vorrei che chi programma e gestisce la Rai si elevasse un tantino rispetto al piattume aculturale che caratterizza la nostra società.

In Italia non si può parlar male di Garibaldi (anche se qualcosa si è cominciato a dire…), né del festival di Sanremo (qui non è possibile mettere lingua). Ebbene ho “coraggiosamente” provato a sfidare mamma Rai, non basandomi su dissertazioni snobistiche, ma su eloquenti battute paterne.

Potrebbe capitarmi quanto succedeva, seppure in casi diversi ma analoghi, per le scorribande provocatorie di un simpatico amico di mio padre. Non era appassionato di calcio e amava ridicolizzare il tifo calcistico. A volte arrivava e vedeva tutta la clientela del bar schierata religiosamente davanti al video per seguire in diretta con enorme trasporto le partite, soprattutto quelle della nazionale. Li guardava, fingendosi sorpreso, e li apostrofava a suo modo: «Mo guärda quant cojón davanti a la televizjon…». E poi spegneva improvvisamente l’apparecchio: in quel periodo occorreva del tempo perché il televisore rientrasse in funzione e quindi tutti, privati della visione per qualche istante, magari decisivo, si incavolavano e gli urlavano improperi. Lui, dopo il misfatto, senza nulla aggiungere, se ne andava nella stanza attigua.

 

 

 

 

08/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

1Re 11,4-13; Salmo 105; Marco 7,24-30.

 

Riflessione personale

 

A Salomone non bastò la saggezza, in vecchiaia fu attirato dal culto verso dei stranieri e fu punito a livello della sua discendenza: a suo figlio fu tolto quasi tutto il Regno, consegnato a un suddito. Pur in una strana concatenazione di trasgressioni e punizioni, Dio dimostra la sua pazienza, concede sempre una via di fuga rispetto allo smarrimento della strada maestra.

Se non fosse così saremmo tutti spacciati. Una sera guardando il telegiornale in compagnia di mia sorella, tra le tante notizie deleterie ad un certo punto venne fuori un fatto di bontà e altruismo. Mi fu spontaneo commentare: «Dio sa che, tutto sommato e in fondo in fondo, non siamo cattivi, altrimenti ci avrebbe già spazzati via…».

Se nell’antico testamento la pazienza di Dio trova, a livello educativo, narrativo e divulgativo, qualche limite e qualche condizionamento, in Gesù, tolta ogni parafrasi, la pazienza diventa infinita. Con la donna greca, di origine siro-fenicia, Egli sembra però spazientirsi, discriminare questa invadente e insistente straniera: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». In realtà vuole solo testare le fede di questa donna, indipendentemente dalla sua etnia. Infatti la esaudisce dopo averla lodata per la sua convinzione a prova di bomba.

A volte, soprattutto quando mi accosto ai sacramenti con eccessiva spigliatezza scantonante nella superficialità, temo di praticare la fede come se fosse un distributore automatico in cui si introduce il gettone e si ritira quanto cliccato sul monitor. Forse prendo troppo sul serio la risposta minimalista della donna straniera: faccio la parte del cagnolino e mi accontento delle briciole che cadono dalla tavola dei figli. Dio però, anche se si accontenta di poco, vuole tutto, esige che crediamo veramente in Lui. Con la scusa della sua pazienza e bontà infinite, non vorrei finire col prendere in giro il Padre Eterno.

La ragion di stato mutila lo stato di diritto

Nel mondo sono 200 milioni le donne che hanno subito mutilazioni genitali e 3 milioni le bambine e ragazze che ogni anno rischiano di esservi sottoposte. Questi i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, diffusi nella giornata mondiale “Tolleranza zero”. Le mutilazioni si concentrano soprattutto in 30 Paesi africani, dell’Asia e nel Medio Oriente e riguardano in maggioranza ragazze sotto i 15 anni. I numeri sono in calo, ma tra il 2014 e il 2016 la tendenza si è invertita.

Siamo di fronte ad una colossale vergogna e non siamo capaci di fare nulla per rimuoverla. In una delle tante e belle trasmissioni di Rai Storia ho sentito un autorevole esperto esprimere un concetto: bisogna stare attenti a non farsi condizionare dall’etica nell’impostare la politica internazionale. Capisco, ma non sono assolutamente d’accordo e capovolgerei la preoccupazione: non ci si deve fare influenzare dagli equilibrismi politici di fronte alle questioni etiche.

Vedendo un servizio televisivo sul processo ad Adolf Eichmann, il famigerato gerarca nazista, ho potuto ascoltare alcuni passaggi della requisitoria del procuratore, in cui   affermava di non essere in presenza di una persona, ma di una creatura che non aveva più niente di umano, una bestia, forse ancor peggio di una bestia.

Se uno Stato ammette la mutilazione genitale delle ragazze si mette su un piano animalesco a prescindere dalle motivazioni. Il male trova sempre qualche scusa: i nazisti eseguivano gli ordini, i comunisti difendevano il proletariato, i terroristi islamici combattono i senza-Dio, i mutilatori difendono l’onore e la purezza delle donne.

Con uno Stato che ha questa considerazione primitiva della donna non si può bere nemmeno un caffè, altro che farci affari e tenere rapporti diplomatici. Certo c’è un rischio: sono talmente tanti i Paesi in cui si ledono i diritti umani, non ultima la Turchia di Erdogan, che si rischia di scartare più di mezzo mondo, lasciando magari al proprio destino una parte considerevole dell’umanità.

L’imbarazzo del Papa, del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio, che hanno concesso udienza ad Erdogan, era palpabile, si notava un clima di cordialità piuttosto forzata. Prevale sempre però la cosiddetta ragion distato.

Bisogna dare atto al partito radicale di avere promosso diverse importanti iniziative su questo scottante fronte, partendo dalla constatazione che l’uso sistemico della Ragion di Stato ha trasformato circa 150 dei 193 Stati nazionali in “democrazie reali”, laddove le norme giuridiche formali positive vengono calpestate e si va contro lo Stato di diritto, contro i diritti umani, contro il diritto alla verità e il diritto umano alla conoscenza di ciò che lo Stato fa in nome della legge e della legalità e per conto dei cittadini nel cui nome governa.

Solo quando sapremo subordinare gli affari e i rapporti internazionali al rispetto delle persone, potremo pensare di vivere in un mondo civile. Diversamente continueremo a bluffare, a metterci a posto la coscienza con pianti coccodrilleschi, a separare il piano etico da quello politico, ad ammettere nel consesso internazionale Paesi che trattano le donne come esseri inferiori, ad accettare il rapporto storicamente schizofrenico tra il potere de facto delle “democrazie reali” e il sistema del diritto positivo sulla base dei diritti umani, dei trattati e delle convenzioni delle Nazioni Unite.

Chi fa politica porta questa enorme responsabilità sulle proprie spalle e non potrà essere tranquillo finché in alcune parti del mondo si calpesteranno anche i più elementari diritti della persona umana. Vediamo di ricordarlo ai politici, invece di chiedere loro una parziale e settaria difesa dei nostri particolari diritti. Oltre tutto ci illudiamo di stare al coperto quando c’è chi vive allo sbaraglio.