17/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Isaia 58,9-14; Salmo 85; Luca 5,27-32.

 

Riflessione personale

 

Dal momento che Gesù non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi, mi sento addosso quel perentorio “Seguimi!” che Egli disse al pubblicano Levi. Con una piccola differenza: mentre Levi ebbe il coraggio di abbandonare il suo banco delle imposte lasciando tutto per seguire Gesù, io non ho avuto finora la volontà di cambiare radicalmente il mio modo di pensare, di essere e di agire. Tutti i giorni sento questo invito: a volte lo ignoro, a volte mi entra da un orecchio e mi esce dall’altro, a volte lo prendo sul serio, ma poi mi perdo. Levi dopo avere risposto alla chiamata preparò un gran banchetto nella sua casa: ha vissuto con grande e condivisa gioia il suo cambiamento.
Forse è questo che mi manca: continuo a concepire l’impegno cristiano come una rinuncia, come un costo da pagare, mentre invece è un investimento sicuro, un gioioso cambio di passo, che coinvolge e fa bene anche gli altri.  Dio, tramite il profeta Isaia, snocciola una serie di “se” al comportamento degli Ebrei: fa loro capire che avranno tutto da guadagnare. Gesù arriva a sedersi a tavola coi pubblicani ed i peccatori, non si lascia condizionare da giudizi e pregiudizi: in mezzo a questa folla ci sono anch’io. Quando in certe occasioni liturgiche si prega per i peccatori scatta in me una riserva mentale, una sorta di invertito egoismo del peccatore: meglio se prego per me, ho troppi peccati per pensare a quelli altrui, ne ho a sufficienza dei miei.
Seduto fra i peccatori, vicino a Gesù, mi sento a casa mia. Poi dovrebbe venire il resto. Dopo essere stati dal medico, bisogna seguire le sue prescrizioni altrimenti… L’importante, che mi concede speranza, è la disponibilità del medico a tutte le ore, anche le più impensate e insensate, è sempre pronto a riprendere la terapia, ma il malato deve voler guarire: è così per le malattie del corpo, a maggior ragione per quelle dello spirito.

Da ex capitale a capitale il passo è lungo

Frequentavo la quarta classe dell’istituto tecnico commerciale: in questa scuola c’era l’usanza di iscrivere in un albo d’onore (sic!) gli allievi che si distinguevano per il loro profitto. Alla fine del primo trimestre avrei avuto i requisiti per quella iscrizione (nessuna insufficienza), ma avevo un voto basso in condotta (eravamo stati nella mia classe tutti puniti per alcune marachelle) e quindi persi “l’onorificenza”, per la verità senza grosso dispiacere da parte mia. Quando l’insegnante, che nutriva grande stima nei miei confronti, mi diede con un certo rammarico questo annuncio di fronte a tutti i miei compagni di classe, non esitai ad esprimere una sostanziale indifferenza alla questione: un mio compagno, volle dire ironicamente la sua e rivolto verso di me chiese, provocatoriamente e ad alta voce affinché la professoressa potesse sentire: «Si prendono soldi ad essere iscritti nell’albo d’onore?». Lo disse in uno sguaiato dialetto parmigiano per rendere ancor più ficcante la battuta. Fu immediatamente redarguito dall’insegnante, lui si scusò e la cosa finì così.

Credo e spero che la nomina di Parma a capitale italiana della cultura per il 2020 abbia uno spessore ben più consistente rispetto all’iscrizione nell’albo di cui sopra, non solo e non tanto per i fondi messi in palio per stimolare lo sviluppo culturale. È certamente un onore per la nostra città avere ottenuto questo riconoscimento a livello ministeriale su indicazione di una autorevole giuria, che ha valutato positivamente i progetti  presentati per lo scopo dal “sistema Parma”. A proposito di onore può essere opportuno citare testualmente la famosa aria del Falstaff di Giuseppe Verdi presa dal libretto di Arrigo Boito, nel suo forte senso dissacrante: «Può l’onore riempirvi la pancia? No. Può l’onore rimettervi uno stinco? Non può. Né un piede? No. Né un dito? No. Né un capello? No. L’onor non è chirurgo. Che è dunque? Una parola. Che c’è in questa parola? C’è dell’aria che vola. Bel costrutto. L’onore lo può sentir chi è morto? No. Vive sol coi vivi? Neppure. Perché a torto lo gonfian le lusinghe, lo corrompe l’orgoglio, l’ammorban le calunnie. E per me non ne voglio, no!».

Non annettiamo quindi a questo riconoscimento una forza d’urto che non ha, né un significato eccessivo, né un assurdo effetto miracolistico. Non facciamone l’occasione per continuare a vivere di ricordi, ma lo spunto per guardare avanti e concretizzare i progetti togliendoli dalla cartolarità. Qualcosa forse si sta muovendo? È presto per dirlo e sempre tardi per metterlo in atto.

Non voglio fare il disfattista, ma sono convinto che questo riconoscimento prescinda dai vizi e dalle virtù delle amministrazioni comunali succedutesi e dalle qualità, peraltro piuttosto scarse, della classe dirigente parmigiana considerata nel suo complesso. Forse tutto viene dalla sedimentazione dell’humus culturale che da sempre ci caratterizza e ci distingue. Siamo un po’ tutti protagonisti e vittime di questo fascinoso alone che ci “perseguita”.

Riporto ancora l’aria di Fastaff, il quale si rivolge ai suoi aiutanti, che si trincerano dietro l’onore per non prestarsi ai suoi giochetti: «Ma, per tornare a voi, furfanti, ho atteso troppo, e vi discaccio. Olà! Lesti! Al galoppo! Il capestro assai bene vi sta. Ladri! Via di qua!». Il ministro Dario Franceschini non avrà certo detto parole così dure al sindaco Pizzarotti investendo Parma del titolo prospettico di capitale della cultura, anche se, come parmigiani, ce le meriteremmo, seduti da troppo tempo sul comodo divano della nostra ex capitale.

 

 

16/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Isaia 58,1-9; Salmo 50; Matteo 9,14-15.

 

Riflessione personale

 

Non voglio giudicare, anche perché non sono esperto in materia, tuttavia alcune religioni prevedono una serie di norme, che altro non sono se non regole igieniche, sicuramente raccomandabili, ma che poco hanno a vedere con un’autentica fede in Dio.
Anche l’ebraismo scivola su queste bucce di banane: non era così ai tempi del profeta Isaia, il quale viene invitato a gridare a squarciagola a nome di Dio in materia di digiuno: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?».
Dove stanno di casa coloro che accusano direttamente o indirettamente papa Francesco di confondere la religione con la politica e/o la sociologia? Forse sarebbe il caso che si andassero a nascondere! Se bastasse digiunare e continuare nel frattempo a fare i propri affari, fregandosene di chi soffre e di chi digiuna perché non ha di che nutrirsi…
Gesù era considerato un mangione ed un beone: amava la tavola e ad essa si sedeva addirittura con pubblici peccatori. Provocava i benpensanti, scandalizzava i farisei, metteva in crisi persino i rigorosi discepoli di Giovanni Battista: «Verranno giorni in cui i miei seguaci digiuneranno, ma con ben altro digiuno rispetto alla pura e semplice astensione dal prendere cibo». Si tratterà di riandare a quanto profetizzava Isaia, pagando di persona per una fede concreta, che sconvolge gli equilibri e le mentalità mondane. Gesù seppe farlo talmente bene da guadagnarsi la morte in croce.
Mi sento un cristiano all’acqua di rose. Quando mi chiedono se sono un cattolico praticante, formalmente dovrei rispondere di sì, ma in realtà pratico una mia religione assai lontana dal dettato evangelico. Leggendo la vita dei Santi, si ha spesso la sensazione che fossero esagerati, esagitati, dei mezzi matti: no, erano semplicemente persone, che credevano veramente e soprattutto vivevano alla lettera il dettato evangelico, senza se e senza ma. Quanta strada mi resta da fare! Fosse solo questione di mangiare poco, me la caverei alla grande, viste le difficoltà digestive e la necessità di seguire una dieta alimentare parca e magra. Per quanto riguarda il digiuno, così ben definito da Isaia, mi sento in grave difetto. Sono come quei soggetti diabetici, che durante il pasto mangiano e bevono di tutto e di più, poi, alla fine del pasto, si convertono e prendono il caffè senza zucchero.

Durezza della politica e tenerezza del cuore

Ho seguito, seppure parzialmente, la pacata e scialba intervista a Silvio Berlusconi di Bianca Berlinguer durante la trasmissione in onda su Rai3, che si intitola “Carta bianca”, giocando appunto sul nome della conduttrice.  Ho prestato scarsa attenzione ai contenuti del discorso emergente dalle parole del leader di Forza Italia, peraltro politicamente scontati, deboli e contraddittori.
Mi sono lasciato invece guidare da sensazioni di carattere umano: mi sentivo davanti ad un uomo pateticamente ma testardamente egocentrico, che non aveva più nulla da dire ma continuava a pontificare, che insisteva a tirare fuori dal cilindro conigli inesistenti, che ostentava ridicoli legami a livello europeo dopo essere stato sepolto in quella sede alcuni anni oro sono con una risatina, che si dava arie da statista citando Alcide De Gasperi a cui assomiglia sì e no nel “pisciare”, un uomo ridotto alla vignetta di se stesso.
Devo dire la verità: mi sono lasciato impietosire dall’uomo vecchio, sostanzialmente solo, incapace di abbandonare il campo in modo dignitoso. Qualcuno avrebbe potuto dirgli con un po’ di cattiveria “va’ al canäl”, espressione parmigianissima utilizzata per mandare qualcuno a quel paese in cui si fanno appunto cose inutili ed assurde, come durante l’occupazione nazista. In quel triste periodo ritornò a cantare al teatro Regio il grande tenore Francesco Merli, che aveva mietuto allori negli anni precedenti a Parma e nel resto del mondo. Quando ritornò alla ribalta del Regio, però, Francesco Merli, piuttosto anziano, non era più in grande forma vocale e non venne trattato con i guanti. In modo pesante ed inaccettabile, dettato più da cattiveria che da inesorabile atteggiamento critico, il loggione nei confronti del grande tenore, reo di essersi presentato sul palcoscenico del Regio, nei panni di Manrico nel Trovatore di Verdi, con voce ormai piuttosto traballante, usò la suddetta pesantissima espressione: “va’ al canäl”. Con la differenza che Berlusconi non è mai stato un grande tenore della politica, ma semmai un corista che stonava e cantava fuori dal coro.
Un tempo con l’inquietante uomo di Arcore mi innervosivo, ora non più, prevale in me un senso di pietoso compatimento e, come sempre mi succede, quando vedo un grande o, nel caso berlusconiano, un sedicente grande, cadere in basso, non riesco ad infierire neppure mentalmente e, tanto meno, verbalmente. Anche la politica deve trovare un limite nella tenerezza del cuore.

Ho recentemente riscoperto come Pietro Nenni l’indomani della brutale esecuzione di Benito Mussolini fosse profondamente turbato e commosso, pur avendo dettato il forte titolo di “giustizia è fatta” per il giornale di partito “Avanti”, anche perché ne era stato amico, politicamente e umanamente, almeno fino al 1919: erano infatti due spiriti rivoluzionari, incarcerati per avere sobillato le folle contro la guerra in Libia, interessati dalle teorie sorelliane. Poi i due destini politici si separarono nettamente e drammaticamente, salvo ritrovarsi, per opposti motivi, confinati all’isola di Ponza nel 1943.  Ebbene sembra che Nenni abbia addirittura speso una pietosa parola di commento: “povrén” disse tra sé, in dialetto romagnolo, dopo l’esposizione del corpo in piazzale Loreto. Qualcuno strumentalizzò questo antico legame amichevole con Mussolini e magari si scandalizzò per questo inghippo sentimentale. Io, al contrario, mi sono commosso. In politica bisogna saper dare l’onore delle armi a chi non lo merita, lasciando parlare il cuore anche nei momenti più impensati e più inopportuni. Anch’io, abbandonando la visione dell’intervista a Berlusconi, con un tantino di presunzione e superbia, lo ammetto, ho detto tra me e me una parola sola: povrètt. Da estendere a quanti avranno l’ardire di votarlo o rivotarlo.

15/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Deuteronomio 30,15-20; Salmo 1; Luca 9,22-25.

 

Riflessione personale

 

La scelta di fede è radicale, non ammette mezze misure, non consente tiepidezze e tentennamenti. Al suo popolo, ritornato dall’esilio, Dio propone le due vie: la vita, il bene e la benedizione da una parte, la morte, il male e la maledizione dall’altra.
Gesù rincara la dose: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?». Un Dio estremamente esigente, apparentemente implacabile. Un tempo si diceva che in Paradiso non ci si va in carrozza: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prende la sua croce ogni giorno e mi segua», così Gesù, che pone le condizioni per la sua sequela e non ci addolcisce certo la pillola.
Ci vengono proposte scelte difficili, ma non fini a loro stesse: in palio c’è la vita, la benedizione di Dio, un premio inimmaginabile nell’eternità, che però comincia già ora, assaporando la gioia immensa dell’amore cristiano. Siamo soliti considerare la vita di fede come una sequela di rinunce, di sacrifici, di sofferenze: la certezza della croce, che tocchiamo con mano, contro la speranza della Risurrezione, che intravediamo?
Umanamente parlando, quando si ama veramente una persona non si è forse disposti a sacrificarsi per lei fino a dare la vita. E la cosa non ci pesa più di tanto, anzi, lo facciamo con entusiasmo! Portiamo questo discorso all’ennesima potenza, trasferiamolo nella logica esistenziale cristiana e in un Dio che ha dato la vita per noi…saremo comunque in difficoltà se Dio non ci terrà per mano. Sì, perché la croce non si può scansare, ma la si può portare con l’aiuto di un Dio che l’ha portata prima di noi. Sono convinto che quando sarò nell’aldilà e capirò fino in fondo il mistero della vita, rivedrò gli errori commessi usando male la mia libertà e mi batterò una mano sulla fronte: come ho potuto essere così meschino da non capire la grandezza della proposta che mi veniva fatta? Speriamo che il Padre Eterno, dopo l’arringa dell’avvocato difensore (Gesù seduto alla sua destra), mi conceda una prova d’appello (il Purgatorio?) e mi recuperi. Non oso sperare di più. Sarebbe già tanto, altrimenti…

Chi si loda, s’imbroda

I grillini stanno facendo una campagna elettorale all’insegna della loro biodiversità politica rispetto a tutti gli altri partiti, si autopromuovono a censori e puntano a distinguersi in tutto e per tutto dai loro concorrenti. Quando ci si mette in questa logica, bisogna essere veramente e totalmente inattaccabili, altrimenti si perde facilmente credibilità e si rischia addirittura di suscitare ilarità. Il caso più clamoroso, anche se giudiziariamente inesistente, è quello dell’autoriduzione dello stipendio dei parlamentari con versamento ad un fondo di sostegno alle imprese: si è scoperto che alcuni grillini avrebbero eluso questa regola e si sarebbero intascati quei soldi a cui dicevano di rinunciare.
Non c’è materia penale, ma, diciamolo in modo brutale, si tratta di una figura di merda. Non c’è persona più antipatica di uno che vuole accreditarsi come primo della classe senza esserlo. Chi si spaccia per tale, ma lo è veramente, può anche essere sopportato, ma, se non lo è, diventa insopportabile e oggetto di scherno. Non so quanti italiani avranno la freddezza di valutare criticamente questo aspetto che sta emergendo: dovrebbero e potrebbero aprire gli occhi e capire di rischiare di prendere lucciole per lanterne.
Già la scelta era piuttosto demagogica: più che ridursi lo stipendio bisognerebbe guadagnarselo fino in fondo. Se poi si scopre che la sparata è diventata una bufala demagogica, arriviamo al massimo della presa in giro. Il problema purtroppo non è solo quello di rendere mera fuffa le speranze, peraltro assai ridimensionate, verso i grillini; questa sputtanata rischia di rilegittimare anche coloro che effettivamente hanno compiuto dei reati o che comunque sono stati scorretti nell’adempimento del loro mandato. Una sorta di “tana per tutti”, servita su un piatto d’argento da chi voleva spaccare il mondo politico in quattro.
Forse sarebbe il caso di capire come l’onestà e la correttezza siano una pregiudiziale, ma non il requisito sufficiente per puntare a ricoprire incarichi pubblici. Qualcuno dirà: almeno questi non sembrano disonesti…proviamoli…tanto peggio di così… La politica non è un gioco d’azzardo in cui si può anche provare l’ebrezza del rischio. Non si può giocare. Fra il votare turandosi il naso, come una volta consigliò il grande Indro Montanelli, e il votare puntando alla roulette, preferisco, tutto sommato, turarmi il naso.
Un tempo si diceva: chi si loda, s’imbroda. Potrebbe essere il caso di rispolverare anche questo vecchio adagio, prima di entrare in cabina elettorale.

14/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Gioele 2,12-18; Salmo 50; 2Corinti 5,20-6,2; Matteo 6,1-6.16-18.

 

Riflessione personale

 

Inizia la lunga Quaresima. Preghiera, digiuno ed elemosina: tre impegni sostanzialmente collegati fra di loro, interdipendenti; se ne togli uno, diventi zoppo durante il cammino di conversione. Il loro massimo comune divisore è l’assoluta discrezione.  La vanagloria deve essere bandita dal nostro atteggiamento interiore ed esteriore. In una società egocentrica, che punta alla meritocrazia, cura l’immagine, cerca il lusso, risulta oltremodo difficile impegnarsi sui tre fronti quaresimali. Il digiuno, assieme all’astinenza dalle carni, un tempo era imposto in modo rigoroso. Ha senso?  Solo se viene vissuto non con l’atteggiamento del fariseo, ma con quello del pubblicano. Non quindi per assolvere ad un obbligo e mettere a posto la coscienza, ma per andare in crisi di coscienza. Non per acquistare dei meriti, ma per riconoscere i propri limiti. Non per aderire ad una religiosità chiusa e malinconica, ma per professare e testimoniare una fede aperta e gioiosa. Sì, perché la Quaresima non è un tempo di tristezza e angoscia, nonostante inizi col rito delle Ceneri poste sul capo: è un periodo di presa di coscienza della caducità dell’esistenza umana, che ci dovrebbe portare a viverla non per noi stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per noi. Per diverso tempo mi accostai al sacramento della confessione tramite un anziano padre cappuccino: questo frate mi colpiva per la serenità con cui si comportava. Glielo feci notare. Lui mi rispose: «Dobbiamo renderci conto che Gesù non è venuto in terra per fare una passeggiata, ma per salvarci a caro prezzo: noi siamo salvi, destinati ad una vita meravigliosa e quindi dobbiamo essere felici, sempre, anche nei momenti più difficili».

A carnevale ogni coalizione vale

Strano Paese l’Italia. Per anni si chiedono le elezioni politiche anticipate al fine di chiarire il quadro politico, poi, quando le elezioni finalmente arrivano, si tende a prescindere dai loro risultati e si cominciano a vagheggiare equilibri di emergenza e addirittura a prevedere un ulteriore ricorso alle urne, una sorta di tempi supplementari.

Si dà per scontato che gli elettori non saranno in grado di esprimere un orientamento decisivo e quindi ci si esercita a ipotizzare combinazioni parlamentari e governative: la più gettonata risulta essere la cosiddetta “grande coalizione”. C’è chi tace, chi la esorcizza, chi la strumentalizza, chi la esclude, chi la prende in qualche considerazione.

Non ci sarebbe nulla di scandaloso se, di fronte ad un quadro politico frammentato, emergesse la necessità di varare una maggioranza parlamentare ed un governo di emergenza, che garantissero un minimo di continuità e stabilità. I governi della legislatura che si sta concludendo sono stati più o meno formati e appoggiati in questa logica e, tutto sommato, non hanno demeritato, anzi…

Il ministro Franceschini (Pd) afferma: «La grande coalizione in Italia non sta in piedi. Non è come in Germania, dove ci sono delle trattative, un accordo programmatico e poi al governo si realizza il programma». A parte il fatto che in Germania non possono ancora dire “gatto” perché l’accordo tra popolari e socialisti non è ancora nel “sacco”, è tuttavia vero che nel nostro Paese i presupposti per un simile sbocco politico sono deboli se non inesistenti.

Un tempo in Italia vigeva l’anomalia comunista, il fattore K che rendeva impossibile un’alternanza pacifica e complicava maledettamente le cose: ciononostante si fecero governi compromissori che coinvolgevano in qualche modo i comunisti.

Oggi esiste l’anomalia berlusconiana: è quella la vera variabile impazzita, con la quale non si riesce a quadrare il cerchio. Il problema non è Salvini con le sue “sparate”, ancor meno Meloni con le sue “romanate”. Il gran busillis è il “cavaliere” che non si toglie dai piedi, gioca a fare il leader, dice e disdice in continuazione, agita lo spauracchio grillino (forse è l’unica freccia seria al suo arco), ha perso consenso, ha perso la faccia, è condizionato dalle sue imprese, ha intorno troppi signor nessuno (i signor qualcuno se ne sono andati), ha una voglia matta di accordi spregiudicati ma non ne ha il coraggio, ha una credibilità europea, internazionale e nazionale tendente a zero, è interdetto ai pubblici uffici e non ha ancora finito la sequela di procedimenti giudiziari a suo carico, sembra una maschera di carnevale,  non tace un attimo, vorrebbe mandare i suoi alleati a quel paese ma non ne ha la forza e non riesce più a condizionarli neanche col portafoglio, gode come un pazzo ad essere al centro dell’attenzione, ma fa ridere i polli.

Mi chiedo: sarà possibile fare accordi seri con un personaggio simile? La diga al grillismo, argomento da non sottovalutare, è un’arma a doppio taglio (a furia di esorcizzare il M5S fanno sempre più venire voglia alla gente di votarlo), e poi non basta a giustificare conventio ad excludendum.

Alla fine della fiera mi sembra che abbia ragione Dario Franceschini, non per ragioni ideologiche (come sostiene LeU), non per motivi costituzionali (il Parlamento è libero di cercare maggioranze), non per ragioni elettoralistiche (non credo si rischi di perdere voti prefigurando questi accordi), ma per questioni di realpolitik.

Diamoci quindi un taglio e andiamo a votare. Chi avrà più filo, farà più tela…

13/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Giacomo 1,12-18; Salmo 93; Marco 8,14-21.

 

Riflessione personale

 

“La tentazione non viene da Dio. Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce”. Quando pensiamo alla concupiscenza, per deformazione proibizionistica, risaliamo al sesto comandamento, perché siamo stati inopportunamente abituati a individuare il peccato nella trasgressione sessuale. La mia mentalità mi porta invece a partire dalla prevalenza delle preoccupazioni materiali, che ci chiudono la mente e il cuore e ci isolano nel nostro egoismo. Abbiamo il cuore indurito e la mente annebbiata! Se ci isoliamo, soccombiamo inesorabilmente, se invece ci apriamo possiamo farcela. Come scrive Giacomo nella sua lettera, il necessario ci arriva in dono dall’alto, a noi spetta il compito di accogliere il dono. Quando riceviamo un regalo, ci precipitiamo a liberarlo dal pacco che lo avvolge, lo ammiriamo, lo collochiamo in un posto tranquillo e sicuro, facciamo progetti sulla sua utilizzazione, lo proteggiamo e lo valorizziamo, siamo soddisfatti, ci sentiamo meglio. A maggior ragione dovremmo comportarci così con i doni che ci arrivano dal “Padre della luce”, doni che non ci distraggono, ma ci illuminano e ci guidano. Purtroppo invece li banalizziamo o li trascuriamo: a caval donato guardiamo in bocca e magari pensiamo che siano inutili o almeno superflui, perché siamo tutti presi dalle nostre preoccupazioni. Abbiamo gli occhi foderati di prosciutto. Non c’è peggior ceco di chi non vuol vedere o peggior sordo di chi non vuol sentire…Per uscire da questo egoistico imbuto, bisogna pensare agli altri, aprirsi ai bisogni degli ultimi, giocare fuori casa, solidarizzare, condividere, perché il dono non è solo per noi, ma anche e soprattutto per gli altri. È lì che casca il mio asino!

 

Le colpe dei genitori ricadono…sugli insegnanti

Trenta giorni di prognosi al vicepreside di un istituto superiore di primo grado a Foggia per le percosse subite dal padre di un alunno rimproverato. Il genitore si è scagliato come una furia contro il professore sferrandogli un pugno al volto e all’addome. Il vicepreside non ha reagito. L’uomo non aveva richiesto alcun colloquio per chiedere spiegazioni sul rimprovero che era stato fatto dal docente al figlio perché “spingeva e rischiava di far cadere le compagne in fila davanti a lui”.  Questa la scarna notizia inerente un fatto di non grande rilevanza assoluta, ma emblematico di un clima negativo esistente nei rapporti tra scuola e famiglia.

Siamo ben lontani dalla regola che mio padre si è sempre imposto: “Mo vót che mi digga quél a un profesór, par poch ch’al nin sapia al nin sarà sempor pu che mi”. Gli insegnanti sono uomini come gli altri, soggetti a sbagliare, con i loro difetti che, a volte, possono anche portarli a commettere gravi ingiustizie. Un tempo avevano sempre e comunque ragione, il loro giudizio non si discuteva e i genitori ne prendevano atto. Oggi si è capovolto il discorso: gli insegnanti hanno sempre torto e i genitori si schierano pregiudizialmente dalla parte degli alunni, creando un cortocircuito pericolosissimo a livello educativo. I giovani infatti, già portati a non accettare i rimproveri dei loro insegnanti, si sentono spalleggiati e quindi ancor più refrattari rispetto alla disciplina scolastica.

Ricordo di aver involontariamente ascoltato, su un bus che portava a scuola alcune ragazzine, il concitato dialogo fra due di esse: parlavano di una loro insegnante, a loro dire piuttosto bisbetica, e una delle due riportava quanto detto al riguardo dalla propria madre:  «Sai perché la tua insegnante ti sta addosso con i suoi continui rimproveri? Perché lei è brutta e tu sei molto carina! Tutto è frutto dell’invidia…». Risatine compiaciute.

Può darsi benissimo che l’insegnante fosse bruttina. La ragazza sinceramente non la ricordo. Il personaggio veramente “brutto” era però la scandalosa genitrice: mi chiedo cosa avesse nel proprio cervello per arrivare a simili insinuazioni. Siamo alla pura follia. Anche ammettendo che il comportamento della professoressa fosse veramente improntato all’invidia e alla rivalsa, mai e poi mai una madre dovrebbe sputtanare in tal modo un’insegnante di fronte alla propria figlia. Semmai chieda un incontro, apra un dialogo, anche serrato, ma dire scemenze del genere…

Ebbene quel padre ha fatto più o meno la stessa cosa, passando addirittura alle vie di fatto.  Non è tanto questione di riconoscimento dell’autorità costituita, ma di buon senso educativo. Riporto un fatterello accadutomi parecchi anni or sono (gli stupidi ci sono sempre stati).

Ero alla fermata di un autobus ed attendevo con la solita impazienza l’arrivo del mezzo pubblico; accanto a me stavano un giovane padre assieme a suo figlio bambino, ma non troppo. Sfogliavano un giornale sportivo e leggevano i titoloni: il più eclatante diceva della pesante squalifica comminata a Maradona per uso di sostanze stupefacenti. Si, il grande Maradona beccato con le dita nella marmellata. Il bambino ovviamente reagì sottolineando la gravità della sanzione ed espresse, seppure un po’ nascostamente, il suo rincrescimento per l’accaduto. Qui viene il pezzo forte, la reazione del padre che vomitò (non so usare un verbo migliore): “Capirai quanto interesserà a Maradona con tutti i soldi che ha!!!” Il bambino non replicò e l’argomento purtroppo si chiuse così.

Non so ancora darmi ragione del mio silenzio, ma forse fu dovuto al fatto che una bestialità simile non me la sarei mai aspettata da un padre: ci fosse stato “mio padre” non avrebbe taciuto. In poche parole quel signore aveva lanciato un messaggio negativo, diseducativo all’ennesima potenza. Era come dire al proprio figlio: “Ragazzo mio, nella vita conta solo il denaro, delle regole te ne puoi fare un baffo, della correttezza fregatene altamente”. Arrivò finalmente l’autobus, il tutto finì lì, ma ringraziai mio padre perché non ragionava così.