22/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

1Pietro 5,1-4; Salmo 22; Matteo 16,13-19.

 

Riflessione personale

 

Oggi si celebra la Cattedra di s. Pietro. Interpreto questa ricorrenza non come deferente omaggio all’autorità papale e gerarchica in generale, ma come richiamo al fatto che nella Chiesa l’autorità (sarebbe meglio dire l’autorevolezza…) dipende dalla fede in Cristo e dallo spirito di servizio con cui, da buoni pastori, si serve il gregge (non per forza, ma volentieri, non per vile interesse, ma di buon animo, non spadroneggiando sulle persone, ma facendosi modelli).

Gesù, tramite un primordiale ma efficace sondaggio, appura che la gente ha di lui un’idea piuttosto vaga, nostalgica ed opportunistica, mentre Simon Pietro, nella sua travolgente ma traballante generosità, lo riconosce come il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Era relativamente facile per questo pescatore, ce lo aveva tutto il giorno davanti, lo ascoltava, lo osservava, gli parlava, lo interrogava. Poi messo alle strette…

Io dove mi colloco? Spesso sono tra la gente a riconoscere che Gesù è il più grande personaggio della storia, un profeta, un testimone perfetto. Ricordo che un mio caro amico definiva il vangelo come il più bel libro mai scritto, lasciando intendere grande ammirazione, ma anche una perplessità di fondo.

A volte sono vicino a Pietro, a parole mi lancio in atti di fede spontanei e decisi, ma poi davanti alla prima serva, che mi interpella e mi fa l’esame, balbetto e mi defilo vigliaccamente. Ai suoi discepoli Gesù ordinò di non dire ad alcuno che egli era il Cristo. Con me può fare a meno di sprecare questa raccomandazione, ci penso già io a non testimoniare che lui è il Cristo: la mia fede è ondivaga, è volatile, è soprattutto incoerente. Eppure ho usufruito di tanti insegnamenti, di tante testimonianza, di tanti fulgidi esempi, di tanti aiuti. Ciononostante devo ammettere umilmente che il mio cristianesimo vacilla e pregare: «Io credo Signore, aumenta la mia fede».

 

Il PD, tanto Gentiloni e tanto onesto pare

Francesco Cossiga con la sua linguaccia biforcuta, volendo parlar male di Francesco Rutelli, tesseva le lodi si sua moglie, la giornalista Barbara Palombelli. Gli autorevoli endorsement guadagnati da Paolo Gentiloni mi sembrano piuttosto pelosi e maliziosi: Romano Prodi e Giorgio Napolitano lo stanno elogiando sicuramente per concedergli i meriti peraltro conquistati sul campo, ma gatta ci cova, e molti pensano, magari senza ammetterlo apertamente che lo stiano facendo per ingombrare ulteriormente la strada a Matteo Renzi senza formalmente ed ufficialmente toccare il partito democratico.

“Paolo Gentiloni è divenuto punto essenziale di riferimento per il futuro prossimo, e non solo nel breve periodo, della governabilità e della stabilità politica dell’Italia”. Così ha affermato il presidente emerito della Repubblica in occasione della consegna a Gentiloni del premio Ispi in ricordo dell’ambasciatori Boris Biancheri, aggiungendo: «Un’attitudine all’ascolto e al dialogo e uno spirito di ricerca senza preclusioni sono doti decisive di Gentiloni da ministro degli Esteri e poi da presidente del Consiglio. Con lui più influenza dell’Italia in tutte le sedi internazionali in cui ha saputo conquistare fiducia». Di analogo significato il giudizio espresso da Romano Prodi, allorquando a dichiarato il suo appoggio al centro-sinistra seppure tramite una lista di contorno.

Ricordo le perplessità espresse da tanti nei confronti di Gentiloni allorché gli venne consegnato il testimone da Matteo Renzi: veniva considerato un assonnato e pigro ventriloquo del leader Pd caduto in disgrazia col referendum costituzionale. Un personaggio di transizione, messo lì per tenere caldo il posto a Renzi mentre si disintossicava per poi rilanciarsi nell’agone politico e governativo.  Adesso è diventato, anche in prospettiva, l’uomo giusto al posto giusto. Non mi sento di esprimere un giudizio compiuto su Paolo Gentiloni: mi sembra un politico equilibrato, serio e misurato, e Dio sa quanto ce ne sia bisogno. Da qui a farne un personaggio decisivo per il futuro dell’Italia ci passa parecchia strada.

Il partito democratico ha un suo leder votato e riconosciuto, non ha tuttavia ritenuto di esprimere una candidatura ufficiale, per motivi costituzionali (non si vota per il premier), per motivi elettorali (si vota per i deputati e i senatori), per motivi di opportunità (si vota in un contesto molto confuso), per non bruciare i propri possibili candidati nel tritacarne mediatico. Anche i battitori liberi, seppure autorevoli come appunto Prodi e Napolitano, dovrebbero capire e rispettare queste preoccupazioni e non lanciarsi in spericolate operazioni pre-elettorali, che rischiano soltanto di creare scompiglio nel centro-sinistra e nel PD. Tra l’altro anche Silvio Berlusconi non nasconde qualche simpatia per Gentiloni, seppure in vista di un’operazione di forzata intesa transitoria tra partiti avversari. C’è in atto una gara a parlare nella mano del Presidente della Repubblica, a suggerirgli nomi e combinazioni parlamentari, a prefigurargli scenari politici. Un ex-presidente e un presidente mancato giocano a fare i protagonisti, a fare i padri nobili del centro-sinistra, creando ulteriore confusione. Si parla a nuora-Gentiloni perché suocera-Renzi intenda. Non sono mai stato e non sono un tifoso renziano: di lui riconosco qualità e difetti, meriti ed errori. Ma indebolirlo con surrettizie manovre elettoralistiche mi sembra un altro suicidio, che si aggiunge a quello del dalemian-bersaniani.

Che Renzi sia un personaggio invadente e malato di protagonismo è fuori discussione, ma mi sembra che Napolitano, Prodi, Bersani, D’Alema e compagnia bella non siano da meno. Gentiloni non lo è e allora lasciamolo in pace e non tiriamolo in ballo solo per il gusto di insegnare a Renzi ad essere più equilibrato, moderato, possibilista e dialogante: Renzi è Renzi, Gentiloni è Gentiloni, il Pd è, fino a prova contraria, il partito di entrambi. Questa insopportabile politica è malata di dualismo: siccome a destra si scontrano Berlusconi e Salvini, dal momento che i grillini sono incasinati più che mai, proviamo a far litigare Renzi e Gentiloni… Se insistono ancora un po’, forse ci riescono.

21/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Giona 3,1-10; Salmo 50; Luca 11,29-32.

 

Riflessione personale

 

Il segreto per catturare la simpatia di Dio sembra essere la conversione sincera. Dio ammette l’errore, anche il più grave, ed è pronto a perdonarlo purché l’uomo ne prenda atto, lo riconosca e si converta. Per giungere a questa decisione non occorre andare alla ricerca di segni clamorosi, basta porre attenzione ai veri profeti e soprattutto al profeta per eccellenza, quello che li batte tutti, a Gesù. In tutti i vangeli le persone accolte ed esaudite da Gesù sono quelle che credono in Lui, che gli riconoscono il primato, che capiscono la grandezza della sua missione. Il segno che offre Gesù non è costituito dai miracoli, il vero segno di salvezza è la sua passione, morte e risurrezione: i tre giorni, come quelli di Giona nel ventre del pesce. Il prototipo della conversione è infatti quello del ladrone, messo in croce di fianco a Gesù: prende atto della propria criminalità, riconosce che Gesù è il Giusto, si converte a Lui e gli chiede il perdono. Gesù lo santifica seduta stante e gli garantisce il Paradiso immediatamente. Gesù non smette mai di stupirci con le sue provocazioni: i pastori, i maghi, i samaritani, i lebbrosi, i pubblicani, le prostitute, i ladri. Il nostro perbenismo è sovvertito. Il Padre preferisce il figlio prodigo, che riconosce di avere sbagliato, al figlio perbene, che pretende di essere giusto. Convertirsi vuol dire cambiare mentalità, adottare i parametri di Gesù, andare contro corrente, rifiutare la logica mondana. Le tentazioni sono sempre in agguato: anche il ladrone fu tentato dal suo collega, che esigeva il miracolo. Seppe stringere i denti,  resistere e fu santo.

 

Vive mal chi vive al Sud

Mi ha fatto una certa impressione leggere quanto rileva l’Osservatorio nazionale della Salute nelle Regioni, con un focus dedicato alle diseguaglianze di salute: un laureato può sperare di viere fino a 82 anni, contro i 77 di chi è meno istruito; l’aspettativa di vita nel Sud-Italia è decisamente inferiore rispetto a quella del Nord-Italia: a Napoli, ad esempio, è minore di 4 anni rispetto a Firenze e Rimini.

Il diverso livello di vita tra le due Italie è cosa nota, ma vederselo sbattuto in faccia in modo così provocatoriamente evidente deve farci riflettere. Il ritardo meridionale ha profonde e complesse motivazioni, che affondano nella storia, non solo del nostro Paese, ciò tuttavia non ci esime dall’affrontare seriamente questo problema. La prima immediata e, per certi versi, semplicistica ragione riguarda lo spreco di risorse pubbliche perpetrato sull’altare dello sviluppo meridionale: è innegabile che i corposi stanziamenti di fondi non abbiano sortito i risultati sperati per cattiva gestione (clientelare) o addirittura per distrazione (mafiosa).  Anche il supporto degli aiuti europei non è riuscito a imprimere la necessaria accelerazione allo sviluppo dell’Italia meridionale.

Non sono assolutamente d’accordo con chi ne deduce questa drastica e fatalistica considerazione: concediamo larga autonomia e si arrangino… Troppo comodo! Qualcuno arriva addirittura a considerare le stragi mafiose, i regolamenti di conti, le faide famigliari come problemi di un territorio da abbandonare a se stesso. Qualche buontempone maledice Giuseppe Garibaldi, altri vagheggiano il muro di Firenze in conseguenza del quale il Nord-Italia diventerebbe una sorta di Paese di Bengodi, una seconda Svizzera. Sciocchezze dure a morire!

Il problema meridionale è il problema dei problemi, da esso non possiamo prescindere. Dobbiamo entrare però in una logica diversa da quella di un puro travaso di risorse per capire come lo sviluppo del Sud sia un’opportunità per tutto il Paese da ogni punto di vista. Parafrasando la storica frase di Garibaldi si potrebbe dire: «Qui si sviluppa il sud o si muore tutti».

I sondaggi elettorali prevedono in Meridione, oltre la scontata e forte astensione, una propensione al voto grillino e un certo ritorno al voto di destra: l’antipolitica e il populismo. Gli sforzi fatti dai governi riconducibili al centro-sinistra non vengono riconosciuti e premiati. Peraltro l’inquinamento corruttivo continua ad imperversare e l’influenza mafiosa non abbandona l’osso, anzi tende ad allargarsi anche al Nord. Un quadro sconfortante e condizionante. Non so se sia nato prima l’uovo della sfiducia e della rassegnazione periferiche o la gallina della trascuratezza e dell’emarginazione centrali. Non ho sinceramente idea di quanto la mafia possa influire sulle prossime elezioni: si tratta solo dell’ultimo atto di una intromissione socio-culturale radicata e profonda.

Abbiamo davanti un processo lungo, difficile e pericoloso: forse varrebbe la pena che nel preparare le nostre intenzioni di voto partissimo da questo nodo cruciale, vagliando le forze politiche sulla base delle loro proposte al riguardo. Non dimentichiamo che larga parte della responsabilità politica è però degli enti pubblici territoriali, regioni e comuni, e lì, in un certo senso, il discorso si fa ancor più difficile perché esposto all’influenza dei potentati e delle clientele locali. Concludendo il ragionamento, cercherò di votare con un occhio disincantato, attento e critico alla questione meridionale, senza prevenzione alcuna, ma con spietato realismo politico abbinato ad un forte afflato etico.

 

20/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Isaia 55,10-11; Salmo 33; Matteo 6,7-15.

 

Riflessione personale

 

Un giorno mio padre, davanti allo strazio di una tremenda malattia che stava divorando suo cognato sacerdote (mio zio Ennio, santo protettore), osò formulare una critica al Padre Eterno: dava una forza inesauribile a Gino Bartali (in quei giorni aveva trionfato al tour de France), mentre mio zio era progressivamente paralizzato in carrozzina. Penso non avesse niente da ridire sul valore etico e sportivo di Bartali per cui nutriva ammirazione e simpatia. Intendeva fare un altro ragionamento umanamente spontaneo. Fu rimproverato bonariamente: «Lascia perdere…Dio sa perfettamente quanto deve fare, non vorrai insegnarglielo tu…».

Dice Gesù: «Pregando, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate».  E allora a cosa serve la preghiera? A stare in compagnia con Dio! Quando amiamo intensamente una persona non ci stanchiamo di esserle vicino, di dichiararle il nostro amore, di mostrarle il nostro affetto: non gli chiediamo dei favori, al contrario ci mettiamo a sua totale disposizione, siamo pronti a ringraziarla e a confidarle i nostri sentimenti. Penso che la preghiera, a maggior ragione, possa essere così: senza pretese assurde, ma con il cuore aperto e con la certezza di essere ascoltati ed aiutati in tutto.

Il Padre Nostro, lo schema per il nostro modo di pregare, non prevede una sfilza di domande, parte dalla volontà di Dio e dalla sua Parola efficace che ci trasforma, chiede solo tre cose fondamentali, che presuppongono nostri precisi impegni: il pane da condividere, il perdono da concedere, l’aiuto per vincere il male col bene. Il resto lo potremmo definire “fuffa orante”.  Dio ha già fatto tutto: ci ha creati, ci ha redenti, ci aspetta per la vita eterna. Ci crediamo o no!? È pur vero che sa compatire la nostra debolezza, la nostra pochezza, la nostra testardaggine. Guai a noi se non fosse così.  Saprà sicuramente sciacquare in Paradiso le nostre indegne e vuote preghiere. Non approfittiamone però e cerchiamo di essere seri.

In piazza…ma per dialogare

Non ho capito se i moti di piazza che stanno scoppiando in varie città italiane ad opera di gruppi e frange giovanili siano una reazione impulsiva ai rigurgiti fascisti, siano una protesta sociale per i tanti problemi irrisolti, siano una ribellione totale verso la società: forse di tutto un po’, un pericoloso mix riveduto e scorretto che la storia ci riconsegna. Provo ad esaminare criticamente le tre suddette ipotesi.

Combattere il risorgente e stupido sentimento fascista scatenando la violenza che arriva a sfogarsi contro le forze dell’ordine sembra un ingenuo ma colpevole errore da tutti i punti di vista: cadere nella trappola di portare la rissa ideologica sulle piazze è sbagliato ed è il modo per mettere impropriamente fascismo ed antifascismo sullo stesso piano violento, riducendo la democrazia a mero scontro tra nostalgie di segno opposto.

La protesta di fronte alle palesi ingiustizie del nostro sistema e verso la politica che non riesce a interpretare le istanze giovanili non può scadere a questo livello di violenza gratuita: il ribellismo sociale, confusamente e genericamente inteso e praticato, non porta da nessuna parte, serve solo a esorcizzare il rinnovamento e a sprofondare ancor più la società nel qualunquismo populista.

La contestazione globale ha fatto il suo tempo ed ha combinato seri disastri illudendo, rovinando e deviando le ansie giovanili sul terreno del terrorismo fine a se stesso. Quindi non serve indulgenza, ma precisa ed inequivocabile condanna verso atteggiamenti e comportamenti inammissibili ed inaccettabili.

Detto questo i problemi rimangono: esiste una risorgente simpatia per le scorciatoie nazifasciste davanti alle quali non so se la nostra democrazia sia attrezzata culturalmente  e politicamente a fare il doveroso argine; la politica fa molta fatica a interpretare le ansie di rinnovamento ed è più portata ad alimentare e cavalcare le paure e le sfiducie; le nuove generazioni oscillano fra l’apatia e la violenza e non trovano riscontri positivi sul piano sociale e politico.

Torno col pensiero alla mia giovinezza: anche allora i problemi non mancavano, anzi erano maggiori di quelli attuali. Tuttavia la politica, seppure imprigionata nel gioco ideologico, riusciva a scaldare i cuori; la protesta, seppure presuntuosamente globalizzata, aveva un senso culturale; il dialogo politico, seppure condizionato dagli schieramenti politici, sapeva allargarsi e volare alto. Le degenerazioni ci furono e ne soffriamo ancor oggi le tristi conseguenze. Nella mia classe si discuteva della guerra nel Vietnam, del rapporto tra cattolici e comunisti, di una scuola aperta al mondo, di pace e giustizia, di valori divisivi e condivisibili.

Il mondo è cambiato: stiamo meglio dal punto di vista economico, ma siamo a terra dal punto di vista culturale. Siccome la cultura non è erudizione, ma capacità di porsi di fronte alla realtà, siamo in gravissime difficoltà. In passato la violenza diventò lo sbocco politico di una cultura impazzita, oggi rischia di rappresentare lo sfogo antipolitico di una cultura inesistente. Togliamo di mezzo quindi ogni e qualsiasi tentazione violenta, rimbocchiamoci le maniche e ricominciamo a discutere e dialogare, a riscoprire la piazza come luogo di incontro culturale e non di scontro politico.

 

19/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Levitico 19,1-2.11-18; Salmo 18; Matteo 25,31-46.

 

Riflessione personale

 

Proiettiamoci alla scena finale della nostra esistenza o meglio alla scena iniziale della nostra vita eterna, al giudizio a cui saremo sottoposti: roba da far tremare le vene ai polsi. Un termine ricorrente nella predicazione di papa Francesco è quello della misericordia: un Dio misericordioso che ci concede e chiede misericordia. Stando a quanto dice Gesù nel Vangelo, in una prospettazione strabiliante nella sua semplicità, saremo giudicati sulla misericordia che avremo usato verso i nostri fratelli bisognosi di aiuto: affamati, assetati, stranieri, nudi, malati, carcerati. Ci sono tutti e non la possiamo scappare. È questo il contrappasso divino: Dante Alighieri nella travolgente genialità della Divina commedia aveva previsto il meccanismo, ma non il parametro.

Da una parte mi sento sollevato perché non sarò chiamato a rispondere meramente delle trasgressioni commesse, dall’altra parte mi preoccupo perché sono tanti coloro che mi hanno teso e mi tendono la mano, mentre io faccio finta di non vederli, volto la faccia, mi giustifico con “l’avere già dato”, mi creo l’alibi di latta del “non poter aiutare tutti”. Sono atteggiamenti che davanti agli uomini vanno benissimo, ma davanti a Dio mi costeranno cari. Anche perché Dio non chiede l’impossibile, ma si accontenta di poco: un bicchiere d’acqua, un piatto di minestra, una parola buona, una visita, un piccolo aiuto. Tutte cose che possiamo fare: ce le chiede Lui in persona.

Tutta la sequela di comandamenti, regole e prescrizioni ce la siamo costruita noi per divagare rispetto al nocciolo della questione e confondere le acque della religione. Bisogna andare al sodo. È tutto talmente chiaro che non potremo accampare scuse, il giudizio ce lo potremmo dare da soli. Non c’è regolazione dei flussi di immigrati che tenga, non scarichiamo sull’assistenza sociale e sugli enti di volontariato, non nascondiamoci dietro lo Stato che non funziona, non pensiamo che le carceri siano la soluzione dei problemi, non difendiamo solo la nostra sicurezza. Siamo interpellati personalmente e dobbiamo rispondere a chi ci chiede aiuto, altrimenti comunque ne risponderemo davanti a Dio.

I candidati premier coperti e scoperti

La Costituzione italiana, nel caratterizzare parlamentarmente la nostra democrazia, non dà direttamente al popolo il potere di nominare il capo del governo e quindi anche dopo il 04 marzo prossimo sarà il Presidente della Repubblica ad affidare l’incarico di premier e, su proposta di quest’ultimo, a formare la compagine di governo, che poi dovrà ottenere la fiducia dalle due Camere. Fin qui il dettato costituzionale alla faccia di quanti vorrebbero che le elezioni politiche riguardassero anche la scelta del Presidente del consiglio tra i candidati proposti dai partiti politici e/o dai loro raggruppamenti: una finzione mai come ora destinata fortunatamente ad essere ribaltata dal Quirinale prima e dal Parlamento poi.

Nella bagarre elettorale, tra la tanta confusione sparsa a piene mani, si sta giocando al toto-premier in modo assurdo e paradossalmente ingannevole. Partiamo dal partito che si presenta solo soletto e che quindi dovrebbe avere, almeno in teoria, meno problemi a formulare la sua candidatura a premier: lo ha fatto investendo frettolosamente Luigi Di Maio e assegnandogli la parte di un allievo corridore ciclista che vuol scalare le Alpi e i Pirenei. Oltre a fare i conti con un’incredibile inadeguatezza culturale e politica, gli stanno scoppiando in mano alcune bombette puzzolenti: non so se arriverà sano e salvo al 04 marzo, forse dovrà prendere in mano il pallino il fintamente defilato Beppe Grillo, il salvatore della patria pentastellata che, con un colpo di teatro, potrebbe essere il deus ex machina pre e/o post elettorale (speriamo solo pre…).

Il centro-destra è monco a livello di leadership dal momento che Silvio Berlusconi non può ricoprire, salvo clamorosa sentenza della Corte Europea, incarichi pubblici per condanna penale. Si è aperta quindi una gara interna alla coalizione: chi voterà uno dei partiti del centro destra indicherà indirettamente il premier della coalizione, una sorta di elezioni primarie all’interno della consultazione elettorale vera e propria. Ma non è finita qui perché Forza Italia gioca a carte coperte con un candidato di cui si conoscono le qualità e non il nome: un pizzico di giallo per un partito azzurro e per una gara grigia.

Il centro-sinistra dovrebbe puntare per motivi statutari e politici sulla candidatura di Matteo Renzi. Sta prendendo tuttavia corpo una candidatura di riserva assai gettonata a livello interno e internazionale, quel Paolo Gentiloni ritenuto l’uomo giusto per il governo in uno strano e tardivo endorsement di Romano Prodi, improvvisamente riapparso sulla scena elettorale dopo aver fatto per diverso tempo lo schizzinoso gioco della suocera bisbetica e non domata.  Anche questa coalizione non avrebbe un candidato secco, ma un titolare in super-allenamento con una panchina di riserve di lusso (Gentiloni ed altri).

Il pretenzioso partito di Libertà e Uguaglianza tende a giocare la gara per suo conto tenendo coperti alleanze e uomini per la prossima legislatura: punta in alto, ha nomi di un certo sinistro spessore (?), ma assomiglia, con licenza parlando, a quel bambino che voleva imitare il padre nel pericoloso sfogo della pernacchia e finì col riempire le proprie mutande di…

Non sarebbe meglio se partiti e coalizioni facessero un atto di umiltà verso la Costituzione, riconoscessero le proprie debolezze, ammettessero le loro carenze di leadership, curassero i loro programmi, aspettassero il responso elettorale e rimettessero al Quirinale e al Parlamento il discorso del nuovo governo? Ecco perché ho scritto sopra che è una fortuna che la finzione – tale è come abbiamo visto la gara partitica elettorale per il premier – non conti nulla, dal momento che dovrà entrare il gioco il Capo dello Stato, il quale, sulla base dei dati elettorali, della conseguente configurazione parlamentare e del quadro politico complessivo, farà le sue scelte. Non lo invidio, ma lo stimo e sono sicuro che non si farà condizionare da questa insulsa preventiva partita a poker.

 

18/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Genesi 9,8-15; Salmo 24; 1Pietro 3,18-22; Marco 1,12-15.

 

Riflessione personale

 

“Venga il tuo Regno” preghiamo nel Padre nostro. Ma il Regno di Dio non si è già instaurato con la venuta di Gesù, la sua Passione, Morte e Risurrezione? L’antica alleanza, simboleggiata anche dall’arcobaleno, non ha trovato pieno e totale compimento nella Risurrezione e nel nostro Battesimo che ci salva?
Come scrive Pietro nella sua lettera, il Battesimo però non è una pulizia una tantum, ma l’inizio sacramentale di un cammino continuo di conversione. Dice Gesù all’inizio della sua predicazione: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al vangelo». Ogni volta che mi accosto al sacramento della confessione ho la logorante e stressante impressione di dovere ricominciare tutto da capo: ciò che ho fatto fino a quel momento non varrà nulla? Son forse un cristiano alla Penelope? Da una parte sono condizionato dal mio innato perfezionismo, frutto di orgoglio, presunzione e superbia: sotto sotto penso di potermi salvare con le mie forze e allora, quando mi accorgo che la situazione è assai diversa, mi scoraggio, tendo a lasciare perdere.
Dall’altra parte mi riprometto continuamente di essere perseverante, di camminare e di rialzarmi dopo le cadute, ma non ci riesco e non capisco che senza di Lui non posso fare nulla. Forse è questa la tentazione di fondo che mi tormenta e infatti l’invocazione del Padre nostro che sento molto mia è: non indurci in tentazione, da intendersi non abbandonarci nella tentazione, aiutaci a vincerla. Sarebbe già tanto, visto che le cadute si ripetono nel tempo, riuscire a rialzarsi immediatamente, non restare sui colpi, non fermarsi e ancor meno andare indietro. Il dono della perseveranza, una qualità della mia Madre celeste e della mia madre terrena: me la ottengano loro, perché io rischio di soccombere e di rovinare tutto. Il tempo passa e invece di avvicinarmi al Regno di Dio, temo di allontanarmene. Quel poco di buono che posso aver fatto e che farò, non per merito mio ma per grazia di Dio, Lui non lo dimenticherà, mentre le mie colpe saranno cancellate. Il mio bilancio spirituale è in profondo rosso, solo Dio è un ragioniere che riesce a quadrarlo. Ciò non toglie che la mia aziendina fallimentare debba cercare di rimettersi in sesto.

 

Le sciarade politiche

“Mi chiedo se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze, a fascismo finito, non sia un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per veicolare il dissenso”: così scriveva, nella sua spietata lucidità, Pier Paolo Pasolini nel 1973 in una lettera ad Alberto Moravia.

Ebbene Matteo Salvini sull’antifascismo dice di pensarla come Pasolini. A parte la comoda e scorretta estrazione di una frase dal contesto ampio di un ragionamento provocatoriamente articolato e complesso, a parte la strumentale trasposizione nel tempo di un giudizio legato ad un certo periodo storico, a parte la differenza incolmabile fra questi due personaggi, a parte il fatto che Pasolini contestava un certo antifascismo in senso antifascista e non in chiave revisionista, ho provato anch’io (scorrettezza per scorrettezza) a fare un esercizio politico-lessicale, sostituendo alcune parole nella frase presa a riferimento dal leader (?) leghista, in un curioso copia incolla quasi demenziale, ma, tutto sommato, significativo.

“Mi chiedo se questo razzismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze, a razzismo finito, non sia un’arma di distrazione che la destra populista usa sulla gente per veicolare la paura”: questa parafrasi pasoliniana ci starebbe a pennello. Non si può infatti sostenere che nel 2018 l’antifascismo sia una finta battaglia per poi cavalcare a più non posso tutti gli “ismi”, che del fascismo furono elementi costitutivi e alimentativi: razzismo, populismo, nazionalismo etc.

Non è possibile e non ha senso sostenere, come fa Salvini, che “l’antifascismo del 2018 sia la battaglia di una sinistra che parla di passato perché non ha un’idea di futuro”, quando il passato riverbera spaventosamente i propri fantasmi su un presente pieno di incognite e rischia di proiettarsi in un futuro angosciante e ripetitivo.

Che la sinistra faccia una certa fatica a coniugare passato, presente e futuro è la sacrosanta verità, ma ciò non avviene per lo stucchevole richiamo ai valori dell’antifascismo, ma per l’incapacità di tradurli in una visione avanzata e moderna. L’antifascismo non è una pagina scolorita e logora da voltare, è ancora un’imprescindibile risorsa valoriale a cui attingere e da cui partire.

Che la lezione storica su fascismo e antifascismo debba venire da Matteo Salvini, un demagogo passato per caso nel nostro Paese e financo nel suo partito, è il massimo. D’altra parte l’attuale fase politica italiana, e non solo italiana, è caratterizzata dalle lezioni impartite da nani a un’opinione pubblica smemorata e ballerina. Berlusconi fa il verso a De Gasperi (europeismo), Salvini a Pasolini (antifascismo), Di Maio a Berlinguer (questione morale). Seguendo i bei programmi di Rai storia mi viene continuamente spontaneo fare un parallelismo fra i personaggi politici del passato e quelli attuali: un esercizio accademico, ma istruttivo. Stiamo facendo la vignetta alla politica.

Pensiamo alla sbandierata battaglia moralizzatrice grillina. Questi simpatici (?) amici si ritrovano con liste piene di voltagabbana, di profittatori e di massoni: non hanno capito come la democrazia sia una conquista lenta e faticosa, che non può essere improvvista con un clic su internet. Così come Salvini non ha capito che sull’antifascismo non si può scherzare e che tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna si rischia grosso, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “. Cosa abbia o non abbia capito Berlusconi, non l’ho mai capito (la ripetizione è voluta); di una cosa sono certo: ha ben presenti i suoi interessi privati e li vuole camuffare da interessi pubblici. In conclusione siamo in balia di molte trappole e continuiamo a caderci dentro.