Un voto costituzionale a rischio astensione

Ci siamo. La parola andrà finalmente alle urne. Dico “finalmente” non tanto perché nutra un’incommensurabile fiducia nel voto degli italiani, ma perché termina una deprimente kermesse elettorale. Le tentazioni possono essere diverse e bisogna vincerle con ragionamenti democraticamente seri. Innanzitutto l’impulso all’astensione: il diritto di voto è stato conquistato a caro prezzo con la vita e il sangue di tanti nostri connazionali, astenersi sarebbe un insulto alle loro battaglie democratiche, sarebbe un affronto alla storia del nostro paese e del mondo intero. Bisogna ammettere però che a questa consultazione elettorale si è arrivati nel peggiore dei modi e dei tempi: con una legge elettorale che quasi tutti hanno votato, ma che tutti giudicano inadeguata; dopo un affrettato scioglimento delle Camere, le quali avrebbero potuto e dovuto lavorare ancora almeno un paio di mesi per vuotare i loro cassetti; in piena stagione invernale con evidenti rischi e difficoltà di condizioni atmosferiche avverse soprattutto per certi territori e per certe persone; a conclusione di una campagna elettorale che sembrava fatta apposta per incoraggiare i cittadini a starsene a casa. Anche il presidente Mattarella, che stimo immensamente, ha le sue responsabilità: si è lasciato condizionare troppo dalla smania elettoralistica dei partiti, non ha saputo “costringere” il Parlamento a lavorare ancora smaltendo provvedimenti legislativi importanti, rinviati a chissà quando, non ha valutato che il nostro Paese non comincia e non finisce in piazza del Quirinale, ma comprende vaste aree montane e territori segnati da eventi disastrosi, che l’elettorato attivo è formato anche (e soprattutto) da persone anziane, cagionevoli in salute, e che quindi un voto invernale avrebbe potuto mettere a dura prova i cittadini. Se qualcuno aveva una mezza intenzione di astenersi, la neve e il gelo lo hanno convinto (e non mi si dica che non si potevano prevedere: all’inizio di marzo si è ancora in pieno inverno e bisogna votare in primavera avanzata per prevenire i rischi del cattivo andamento stagionale).

Poi arriva la tentazione di votare con lo spirito di quel marito che, con licenza parlando, si taglia i coglioni per fare dispetto alla moglie: nel caso sarebbe meglio dire “votare i coglioni” per fare dispetto alla politica. Non ho capito cosa significhi l’antipolitica, sarebbe come vivere in una famiglia ripromettendosi di distruggerla. Diffido totalmente di coloro che, come diceva mio padre, “all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed fär un o con un bicer…”.

Siamo alla tentazione di insistere con le ricette scadute. Il giorno dopo il trionfo elettorale del 1994, l’Economist, se non erro, uscì con un titolone a tutta prima pagina: “Burlesconi!”. La tentazione dell’autoburla, ridando fiducia a chi ha dato pessima prova di sé a tutti i livelli: “Arridateci er puzzone”, magari in salsa verde e/o in un piatto tricolore.

Il voto deve essere ragionato, non si può votare d’impulso. E allora ci sono due approcci pragmatici, ugualmente validi, uno in negativo ed uno in positivo: scegliere il meno peggio oppure sforzarsi di capire che la politica è mediazione e occorre quindi testare il proprio voto, abbandonando il ginepraio di promesse impossibili e attaccandosi al poco o tanto emergente dalla prova dei fatti.

Ci sarebbe un altro metodo, che peraltro non è assolutamente in contrasto col bagno di concretezza: votare sulla base, non tanto delle ideologie superate, ma dei valori di fondo del vivere civile e democratico, come vuole la nostra Costituzione. Non sarebbe male: invece di ascoltare gli appelli elettorali, che nell’imminenza del voto raggiungono il massimo della loro sfacciata demagogia o della loro opportunistica e finta moderazione, rileggere la Carta costituzionale. Lo dovremmo fare spesso, a maggior ragione prima di recarci alle urne.

Matteo Salvini, durante un comizio, ha giurato sul Vangelo. Evidentemente non l’ha mai letto, altrimenti saprebbe che in materia di giuramenti Gesù afferma: «Ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la citta del gran re: non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno».

Il mio grande amico don Luciano Scaccaglia, quando battezzava un bambino, metteva sull’altare il Vangelo e la Costituzione, risolvendo alla grande il rapporto tra scelta religiosa e scelta politica. Lasciamoci guidare dalla Costituzione: in essa sono contenuti tutti i sì ed i no. Meditiamola un attimo e poi…andiamo a votare.

 

 

 

04/03/2018

Domenica 4 Marzo 2018

 

Esodo 20,1-17; Salmo 18; 1Corinti 1,22-25; Giovanni 2,13-25.


Riflessione personale

Con Gesù si passa dalla legge dei “no” a quella del “sì”: mentre infatti il decalogo si accontenta (si fa per dire) di inanellare una sfilza di divieti, il Vangelo sovverte l’ordine religioso cacciando i mercanti dal tempio. Nel tempio Gesù individua la sua vita e forse anche la nostra. Noi tendiamo a fare della nostra esistenza un vero e proprio mercato: lavoriamo per guadagnare un salario, facciamo regali per averne un contraccambio, ogni nostra azione, oserei dire ogni nostro respiro, ha un risvolto economico. La gratuità non esiste, nemmeno a livello squisitamente sentimentale. La distruzione del tempio e la sua ricostruzione in tre giorni sono una metafora della morte e risurrezione del Cristo, ma sono un invito pressante a distruggere la nostra mentalità sparagnina per sostituirla con una impostazione di vita basata sul dono gratuito e sulla condivisione.

Gesù sa quello che c’è in ogni uomo e quindi, pur rispettando la nostra libertà, ci propone un cambiamento radicale: dalla stoltezza del nostro egoismo dobbiamo passare a quella della Croce, perché in essa consiste la sapienza e la potenza di Dio. Mi sento molto lontano da questa logica autenticamente cristiana, fino al decalogo ci posso arrivare e su di esso rischio di inaridirmi; anche la Chiesa nei suoi duemila anni di vita si è intestardita a parafrasare pappagallescamente i dieci comandamenti e non si è accorta che nel tempio succedeva di tutto e, ancor peggio, che il tempio diventava un mercato. Non voglio scaricare le mie colpe sulla Chiesa. A volte mi lamento del dogmatismo, del ridurre la religione a un insieme di regole: mi sembra giusto. Ma andare oltre le regole è molto impegnativo, perché vuol dire passione, morte e risurrezione: i tre giorni lunghissimi del nostro cambiamento radicale.

03/03/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Michea 7,14-15.18-20; Salmo 102; Luca 15,1-3.11-32.

 

Riflessione personale

 

La parabola del “padre misericordioso” (tradizionalmente detta del “figliol prodigo”) mi concede due consolazioni. La prima è molto umana e istintiva: non penso di assomigliare all’antipatico e presuntuoso figlio maggiore. Non ho velleità di primazia, né mi arrabbio perché Dio è troppo buono (è tutto grasso che cola, anche e prima di tutto per me). La seconda è che mi sento rappresentato dal figlio minore, quello trasgressivo e ribelle. La mia preoccupazione è di approfittare troppo della comprensione del Padre, di fare una sorta di “viavai” tra la casa paterna e il lontano paese della dissolutezza, di costringere il Padre a fare una strage di vitelli grassi e magri (in fin dei conti che colpa ne hanno loro se io torno a casa pentito?).

Quante volte nella mia vita mi sono alzato e sono tornato da mio Padre per dirgli: “Ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio…”. E Lui finora non si è stancato di venirmi incontro, di gettarmi le braccia al collo e di baciarmi. Non ho avuto fortunatamente fra i piedi fratelli rompicoglioni, che si sentano giusti e puntino il dito contro di me. Il timore è di non riuscire più a trovare la strada di casa e di rimanere un porco tra i porci.

Quando in confessione recito “Propongo col tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato”, mi sento, con licenza parlando, una merda; cerco di sillabare queste parole per imprimermele nel cervello e nel cuore. Ma quanta paura di ricadere e di allontanarmi da casa, a volte per insana abitudine al peccato e al perdono.

Mio padre, quello terreno, quando osservava un ragazzo che si comportava male in libera uscita, auspicava un intervento paterno di questo tipo: «Vè, bélo, ven a fär al stuppid in ca». Che Dio mi conceda la grazia di fare lo stupido in casa, per essere almeno più vicino a Lui quando e se mi vorrà perdonare.c

Ironia sul filo di lana e…del rasoio

Beppe Grillo non manda più nessuno affanculo (“Forse è finita l’epoca del vaffa” dice in extremis); Silvio Berlusconi spende e spande il volto presentabile del centro-destra (candida ufficialmente a premier l’europeista Antonio Tajani, a nome di Fi, ma si legge in filigrana che, pur digrignando i denti, anche Salvini chinerebbe la testa); Matteo Renzi si dice pronto a sostenere ogni autorevole candidato di espressione PD (un chiaro endorsement finale al gettonatissimo Paolo Gentiloni).

In coda alla campagna elettorale non ci sarebbe quindi il veleno, ma lo zucchero della moderazione politica e personale. In questa svolta c’è sicuramente del tatticismo, anche piuttosto smaccato, ma forse anche un pizzico di ragionevolezza, che non guasta mai. E l’elettorato come reagirà? Potrebbe succedere come avvenne qualche volta ai soldati che continuavano a combattere perché non avevano percepito la tregua intervenuta: i grillini potrebbero continuare imperterriti a mandare tutti affanculo, i leghisti a puntare sulla rivoluzione salviniana, i Fratelli d’Italia a farsi spaventare per il caos che scoppierebbe se non vincesse il centro-destra, i renziani a tifare per il loro leader considerandolo un uomo solo al comando e trascurando il fatto che sta emergendo, a detta di molti, il candidato della continuità europeista e sviluppista.

In effetti la gente potrebbe sentirsi presa per i fondelli: dopo essere stata fortemente aizzata, vede svanire la vis polemica, unico elemento di una campagna elettorale giocata sulla violenza aculturale e apolitica. Qualcuno, deluso da questa comica finale, finirà con l’ingrossare le fila degli astensionisti: tutti i protagonisti elettorali si sono probabilmente accorti di avere esagerato ed in extremis buttano qualche secchiata di acqua gelida per smorzare i bollenti spiriti di un’insopportabile campagna elettorale. Dai brividi di caldo ai brividi di freddo in un capovolgimento dei sintomi di una grave febbre politica.

Se a Luigi Di Maio togliamo le gag polemiche da avanspettacolo di Beppe Grillo, cosa rimane? L’ignoranza e la presunzione di un ragazzino capitato per caso in Parlamento, che ha cominciato a giocare ed è diventato un giochino-dipendente al punto da puntare tutto alla roulette elettorale. Se al centro-destra togliamo le farneticanti promesse di Matteo Salvini, cosa resta? La penosa e caricaturale riproposizione della minestra scaldata berlusconiana. Se al centro-sinistra togliamo l’esagerata, incontenibile e logorroica verve di Matteo Renzi, cosa rimane? La flemmatica e pigra immagine di una sinistra moderata nei toni e tiepida nei contenuti.

Mi sono preso la libertà di ironizzare su questa equivoca e tardiva conversione moderata. I politologi probabilmente la motiveranno con l’ansia della stabilità e della continuità di governo. Vado avanti trasformando l’ironia in sbracato sarcasmo. Vuoi vedere che stanno preparando il governissimo del compromesso astorico? Presidente del coniglio (è un lapsus freudiano): Paolo Gentiloni. Vice-presidente dell’inciucio: Antonio Tajani. Ministro dei casini in piazza: Matteo Salvini. Ministra delle buone intenzioni mondiali: Emma Bonino. Ministro della diseconomia: Luigi Di Maio.  Ministro della pseudo-cultura: Giorgia Meloni. Ministro del giustizialismo: Marco Travaglio. Etc. etc. A quel punto Sergio Mattarella si dimetterebbe e il nuovo pirlamento (altro lapsus freudiano), dopo avere introdotto l’elezione diretta del presidente della Repubblica, indirebbe la consultazione elettorale populista per la nomina del nuovo capo-dello Stato: due i candidati, Silvio Berlusconi opportunamente riabilitato, Beppe Grillo rubato definitivamente al mondo dello spettacolo. Oggi sono in vena di scherzare, domani farò la persona seria.

02/03/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Genesi 37,3-4.12-13a.17b-28; Salmo 104; Matteo 21,33-43.45-46.

 

Riflessione personale

 

Gesù non manca occasione per spiegare, in modo più o meno allegorico, il violento rifiuto a cui andrà incontro. Nel brano evangelico odierno si parla di un padrone (Dio) che pianta una vigna e la affida a dei vignaioli (il popolo eletto di Israele); poi manda i suoi servi (i profeti) a ritirare il raccolto e vengono uccisi dai vignaioli; fa un estremo tentativo e manda suo figlio (Gesù), ma uccidono anche lui dopo averlo cacciato fuori della vigna (fuori delle mura di Gerusalemme). A quel punto il padrone consegna la vigna ad altri vignaioli (i pagani).

Può essere tranquillamente considerata come l’allegoria della vita personale del cristiano infedele. A chi consegnerà la vigna questo paziente vignaiolo, dopo averle provate tutte? A quelli che nel nostro perbenismo consideriamo persone disprezzabili, peccatori incalliti, gentaglia da evitare accuratamente. “I pubblicani e le prostitute vi precederanno nel Regno dei cieli”. Va bene, ma Gesù forse ha esagerato, voleva solo rendere l’idea, spaventarci, fare dei paradossi. Non credo! Voleva dire quel che ha detto. Andiamo quindi molto adagio a squalificare chi vive fuori dai nostri canoni.

Gesù, alla sua nascita, ha trovato accoglienza nei pastori, persone ritenute immonde, dei poco di buono, degli “sporcaccioni”, che vivevano da animali con gli animali a cui si univano persino sessualmente.  Alla fine tragica della sua vita, quando agonizzava sulla croce, trova solidarietà in un centurione romano, un nemico per antonomasia, e in un ladrone, uno squallido delinquente. E noi stiamo a sottilizzare, ci sentiamo a posto, migliori, perché pratichiamo il tempio, biascichiamo frettolosamente qualche preghiera, osserviamo le regole che abbiamo costruito a nostro uso e consumo. Buttiamo i nostri fratelli, i prediletti del Padre, nella cisterna e poi li vendiamo, li giudichiamo perduti, noi gli eredi (come successe a Giuseppe ad opera dei suoi fratelli), come successe a Gesù. Basti pensare all’idea che abbiamo del carcere e dei carcerati: hanno quel che meritano! Ne siamo proprio sicuri?

Gli “apericena” della crisi

Nel maggio del 2009 il finanziere americano Zachary Karabell (come riporta Federico Rampini nel suo libro “Le dieci cose che non saranno più le stesse”) lanciava questa domanda provocatoria sulle colonne del settimanale “Newsweek”: «Se siamo vicini a una Grande Depressione, perché tutti i bar che frequento a New York e Dallas sono pieni di giovanotti che prima della cena si scolano Martini-cocktail da 17 dollari l’uno?».

Nel gennaio del 2018 Ennio Mora, un semplice e modesto laureato in economia, lancia una domanda analoga e ugualmente provocatoria dal suo sito internet: «Se siamo in crisi e manca il lavoro soprattutto per i giovani, perché i bar di Parma (come penso delle altre città italiane) sono pieni di giovani alle prese con i cosiddetti “apericena”, che non so quanto costino, ma certamente non poco?».

Il discorso si potrebbe allargare agli ingorghi di traffico per i ponti delle festività natalizie, alle presenze negli alberghi e sugli impianti sciistici, alle città spopolate dall’esodo festaiolo, etc. etc.

Io li chiamo i “misteri della crisi”: da una parte si piange miseria e dall’altra si ostenta ricchezza. Forse che aveva ragione Berlusconi quando esorcizzava e giubilava le difficoltà economiche con  i ristoranti pieni in cui non si riesce neppure ad entrare?

Nella nostra società la crisi economica fortunatamente non si ripercuote immediatamente e tragicamente sulle persone, grazie alle protezioni sociali, grazie agli ammortizzatori pubblici e privati, grazie alle riserve accumulate negli anni positivi. Sul caso della spensieratezza dei giovani italiani influisce molto l’appoggio economico di genitori e nonni, i quali foraggiano i bamboccioni di turno (non so fino a quando…). Non è un caso che il presidente Mattarella nel suo saluto augurale per il 2018 abbia fatto un vero e proprio appello al senso di responsabilità dei giovani ed alla loro partecipazione al prossimo voto elettorale.

Temo che, al di là di tutto, il tasso di crescita e sviluppo della nostra società sia fortemente condizionato dal tasso di irresponsabilità di molta gente: la nostra società ha accumulato molti torti nei confronti delle nuove generazioni e probabilmente se li vuole far perdonare, consentendo ai giovani di vivacchiare bene (poco studio, molto divertimento, insensata spensieratezza) in attesa di tempi migliori.

Una seconda osservazione riguarda la stratificazione sociale in atto: si allarga sempre più la distanza tra i ceti abbienti, peraltro in calo numerico, ed i ceti più disagiati, peraltro in crescita numerica. La società nel suo modo di vivere viene tarata sui primi e i secondi sono probabilmente sempre più invisibilmente emarginati e affatto rappresentati.

Tornando ai giovani, tra i tanti errori commessi a livello educativo nei loro confronti, vi è sicuramente quello di non avere trasmesso il senso del dovere e del lavoro. Conversando con amici e parenti spesso mi ritrovo a criticare i nostri genitori per la severità con cui ci formarono: “non ci hanno lasciato godere la nostra giovinezza”, diciamo con un pizzico di rimpianto. In parte è vero, ma avevano ragione: la vita non è un divertimento, ma un impegno. È il concetto che a molti giovani odierni manca: chi lo chiama provocatoriamente bamboccionismo, chi lo definisce fuga dalla realtà, chi spera in una automatica e improvvisa maturazione intellettuale.

Mio padre aveva un suo modo di rapportarsi coi giovani, non era assolutamente implacabile nelle critiche verso di loro, ma non gliele risparmiava: intendeva ricondurli al senso di responsabilità, senza inutili accanimenti più o meno terapeutici. Di fronte a certe intemperanze giovanili, tipicamente maschili, non si scandalizzava, ma era solito commentare: «Quand al gh’arà la moróza, chil robi chi al ne j a fà pu…». Una bella fiducia nel ruolo della donna, alla faccia dei maschilismi di ieri e di oggi.

 

 

01/03/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Geremia 17,5-10; Salmo 1; Luca 16,19-31.

 

Riflessione personale

 

“Uno” è risuscitato dai morti, ma io non sono persuaso. Continuo imperterrito a banchettare lautamente davanti ai Lazzaro che giacciono alla mia porta. Il problema non sta tanto nella ricchezza in sé, ma nel fatto che ci ottunde la mente, ci fodera gli occhi e ci precipita nell’indifferenza. “Sono come un tamerisco nella steppa, quando viene il bene non lo vedo; dimoro in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere”.

Ma io in fin dei conti non sono ricco, sono solo un benestante e mi metto a posto la coscienza guardando i veri ricchi, coloro che hanno patrimoni colossali, i conti in banca che scoppiano. Ci sono due modalità per essere ricchi: avere il portafoglio pieno e il cuore vuoto. Certamente i due elementi si influenzano a vicenda, ma si può essere ricchi anche possedendo poco e tenendo quel poco tutto per sé. E oltretutto il possesso non riguarda soltanto il danaro, ma tutti i beni materiali e immateriali che ci sono stati donati. Si può essere ricchi della propria intelligenza, della propria cultura, del proprio prestigio, della propria posizione sociale, della propria salute, financo dei propri sentimenti.

Non mi accorgo di essere annoverabile nella categoria degli anonimi e indifferenti ricchi. Cosa aspetto per scrollarmi di dosso questo egoismo che mi attanaglia? Ho Mosè, i profeti di un tempo e quelli di oggi, ho soprattutto Gesù che è risuscitato dai morti…Nonostante ciò “confido nell’uomo, pongo nella carne il mio sostegno e il mio cuore si allontana dal Signore”. Non mi resta che sperare nei poveri Lazzaro, i quali, anziché starsene buoni alla mia porta, alzino la voce, si facciano sentire, mi provochino, mi tolgano la finta serenità, mi scuotano e mi salvino in nome di Dio.

La cartina di “tornabuio” di CasaPound

Nel 1994 gli italiani si fecero incantare dalla combinazione di un riccone, di un nordista (leggi Bossi) e di un revisionista (leggi Fini). Oggi rischiano di farsi imbrogliare dal solito riciclato e invecchiato riccone con una compagnia di nostalgici, di nazionalisti e di populisti: non v’è dubbio che la situazione sia mutata. In peggio!

Ne è una prova l’endorsement di CasaPound a favore di Matteo Salvini: un’affinità scomoda, smentita timidamente da Salvini, rifiutata sdegnosamente da Berlusconi, accolta in silenzio dai Fratelli d’Italia. Sono certo che il centro-destra non abbia cercato questo appoggio elettorale, ma il fatto che sia spontaneamente arrivato è forse ancor più grave e la dice lunga su una tacita sintonia con queste frange carognesche, che, anziché entrare in Parlamento, dovrebbero finire nelle fogne, come si urlava un tempo.

“Non ho bisogno dei voti di altri, né mi interessano i voti di Tizio e Caio”. Così il leader leghista in riferimento a CasaPound, pronta a sostenerlo. Che a un politico in campagna elettorale non interessino i voti suona piuttosto strano e paradossale. Quanto a Tizio e Caio Salvini dovrebbe meglio precisare e chiamare le persone con il loro nome e cognome e avere il coraggio di prendere le distanze con precisi e chiari argomenti politici e non con presuntuose battutine.

“La nostra coalizione non ha nulla a che fare con CasaPound o coi loro programmi. Né ora né dopo il voto”. Così Silvio Berlusconi, piuttosto distratto dal giochino a nascondino dietro la candidatura a premier di Tajani. Un po’ meglio rispetto a Salvini, ma sempre poco o niente.

Come interpretare il silenzio di Giorgia Meloni? È un personaggio che, parli o stia zitto, proprio non mi interessa. E forse interessa poco anche a CasaPound, dal momento che avrebbero scelto come referente la Lega, abbandonando l’ideologia e sposando la tattica.

Bisognerebbe essere comunque grati a questo movimento fascistoide per avere indirettamente scoperto qualche altarino al centro-destra: chi è orientato a votare così, non si farà certo scandalizzare e condizionare, ma un poco di chiarezza si è indirettamente fatta. Non c’è bisogno di usare i luoghi comuni (ogni simile ama il suo simile, dimmi con chi vai e ti dirò chi sei, etc.) per arrivare a certe conclusioni politiche.

Saranno camerati che sbagliano? I voti si contano e non si pesano? Saranno manovre di disturbo? Dalli all’untore? Tutto fa brodo? Il fascismo non fa più paura? Tra CasaPound e i centri sociali non si sa chi scegliere? La Lega non è estremista, visto che c’è qualcuno ancor più a destra? Si tratta di quattro gatti che fanno casino? Nei bar si sprecheranno simili argomentazioni.

«Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!». Così diceva don Andrea Gallo a chi lo voleva imbrigliare in questioni di lana caprina nei rapporti tra religione e politica. A proposito dei contenuti del centro-destra e del suo fascismo di ieri e di oggi, parafrasando don Gallo (in modo strumentale, lo ammetto e gli chiedo umilmente scusa, anche se lui ne riderebbe di gusto e sarebbe oltremodo d’accordo) si potrebbe dire: “Non mi curo di certe sottigliezze politiche. perché mi importa solo una cosa: che la Repubblica Italiana sia antifascista!”.

 

28/02/2018

Letture bibliche nella liturgia del giorno

 

Geremia 18,18-20; Salmo 30; Matteo 20,17-28.

 

Riflessione personale

 

Gesù tenta di spiegare agli apostoli la sua prospettiva di passione, morte e risurrezione, ma loro non capiscono e addirittura si mettono a litigare su chi di essi possa meglio piazzarsi nell’assetto di potere dell’imminente Regno del Cristo. A posteriori appaiono indisponenti. Abbiamo però poco da sorprenderci. Non ci comportiamo forse così anche noi?  Dopo duemila anni di cristianesimo, la Chiesa è ancora ferma al palo e ciascuno di noi si illude di sgattaiolare al di fuori della logica della Croce.

Non è questione di dolorismo o di fanatismo, ma di testimonianza e servizio inevitabilmente oggetto di sofferenza per incomprensione, emarginazione, discriminazione e persecuzione. I martiri cristiani, a differenza dei terroristi islamici, non si uccidono per uccidere, ma vengono uccisi perché testimoniano la loro fede e prestano il loro servizio fino alle estreme conseguenze.

Il profeta Geremia viene colpito in quanto considerato un fastidioso mestatore: i sacerdoti, i sapienti e i profeti tramano insidie contro di lui in difesa dei loro ruoli e del loro status di categorie privilegiate. Il sommo sacerdote Caifa nel suo cinismo religioso afferma in riferimento a Gesù: «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera». Siamo tutti schierati in difesa dello status quo. Il giusto disturba, è scomodo, va eliminato. E ci guardiamo bene dall’essere giusti perché faremmo una brutta fine.

Non sono emarginato e maltrattato, non perché sia bravo, ma perché sono un cristiano di comodo, che non dà fastidio, che non tocca nel vivo, che non esita nello scendere a compromessi con la propria coscienza, con la propria fede, con il potere civile e religioso. Nella mia tiepidezza posso stare tranquillo: nessuno mi disturberà, non rischio nulla, sono al coperto. Sono un auto-raccomandato di ferro. La madre di Giacomo e Giovanni, seppure ingenuamente, inaugura nella Chiesa il metodo della raccomandazione, del privilegio, dei primi posti. La logica della Croce è dura da accettare, lo fu anche per Gesù. Ma non c’è via di scampo: «Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra e alla mia sinistra, ma per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio».

La neve che cade dal basso

Non vedo sinceramente cosa ci sia di straordinario nell’ondata di gelo che ha colpito l’Italia in questi giorni, semmai era straordinario che durante questo inverno non facesse freddo: siamo tornati alla normalità, quell’ordinarietà che, nell’epoca in cui ero giovane, comportava nevicate frequenti, gelate con temperature ampiamente sotto lo zero, partendo da Santa Lucia fino a San Giuseppe.

Nessuno allora si sognava di chiudere le scuole, di lanciare allarmi, di “emergenziare” la situazione. E pensare che non c’erano i mezzi tecnici che esistono oggi, la società era più disorganizzata, le previsioni del tempo erano affidate al mitico Ferri, capo-stazione di Vicofertile, la cui moglie si diceva aspettasse il giorno in cui la previsione del marito metteva burrasca per fare e stendere il bucato.

Tutto deve fare notizia, anche il fatto che nevichi in inverno. In questi giorni, durante i quali son si possono divulgare i risultati dei sondaggi elettorali, si è ripiegato su quelli in base ai quali la maggioranza degli elettori si creerebbe un’opinione politica seguendo la televisione: i giornali cartacei non contano più nulla al riguardo e i social sono un riferimento solo per le fasce giovanili. D’inverno quindi nevica e la gente si informa guardando la televisione: due scoperte dell’acqua calda, che stanno andando di pari passo.

Proprio in questi giorni a commento di una campagna elettorale squallida ed in previsione di un risultato sconvolgente in libera uscita dalle urne, un caro amico mi ha inviato un allarmato e profondo messaggio telefonico: «Riscoprire le “radici” della politica, della cooperazione, del Vangelo, le nostre radici. Questo è il segreto di ogni rinnovamento. Le radici! Infatti si dice dei giovani d’oggi che sono “sradicati” cioè senza radici. Questa è la radice del problema!».

Fiocca la neve ed è un qualcosa di bello, utile e salutare; fioccano le cazzate dei grillini e si prendono per buone, mentre la televisione enfatizza il tutto e ce lo somministra facendolo cadere dall’alto. La neve effettivamente cade dall’alto, ma le sciocchezze pentastellate vengono dal basso. Il succo comunque sta nel vuoto in cui cade l’informazione drogata: la mancanza di radici che ci espone anche ai più evidenti equivoci. Un tempo per definire un atteggiamento credulone si parlava di “credere agli asini che volano”: oggi di asini in giro ce ne sono parecchi e li fa volare la televisione tra una nevicata e l’altra.

Si dovrebbe reagire! In giro si sente gente che dice sconsolatamente: «Io non me ne intendo di politica, quindi provo a votare per chi non se ne intende di politica». Ogni simile ama il suo simile. A volte forse il non intendersene sta per fregarsene. Dalla politica non si può prescindere, è necessaria come il pane, non è un optional. Dopo essermene interessato, pretendo di affidarla in senso istituzionale a chi è preparato. Meglio correre il rischio dei mestieranti piuttosto di quello degli ignoranti.