Chi semina bullismo raccoglie ingovernabilità

Fra i tanti commenti, letti ed ascoltati, sui risultati elettorali, mi ha molto colpito e coinvolto quello, peraltro indiretto ma assai centrato, del cardinal Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura contenuto nell’incipit di un suo articolo pubblicato su Jesus, il mensile dei Paolini, e intitolato “Una virtù impolitica”. Non mi piace mischiare sacro e profano, ho una concezione indiscutibilmente laica della politica, tuttavia mi pare che quanto scrive Ravasi sia profondamente, perfettamente e culturalmente azzeccato.

Egli così si esprime: “Hai un bel dire con Benedetto Croce che ‘la violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere creativa di cosa alcuna ma soltanto distruggitrice’. Eppure la tentazione del ricorso alla forza non è solo nel fondamentalismo o nella guerra, lo è anche nell’aggressione verbale di alcuni politici, nel bullismo, nello stalking, nel femminicidio, nella quotidianità delle relazioni personali, familiari e sociali. (…) Il filosofo Norberto Bobbio nel suo Elogio della mitezza (1993) aveva celebrato questa virtù come la più «impolitica» e si può comprendere questa sua posizione nel contesto della gestione di una certa politica che ignora ogni compassione e si fonda sul potere e spesso sull’arroganza. In una visione più alta della politica la mitezza avrebbe invece uno spazio rilevante. Essa, infatti, non è né codardia né mera remissività, come osservava lo stesso filosofo: «La mitezza non rinuncia alla lotta per debolezza o per paura o per rassegnazione». Anzi, essa vuole essere come un seme efficace piantato nel terreno della storia per il progresso, per la pace, per il rispetto della dignità di ogni persona. Ma aspira a raggiungere questo scopo rifiutando la gara distruttiva della vita, la vanagloria e l’orgoglio personale e nazionalistico, etnico e culturale, scegliendo la via del distacco dalla cupidigia dei beni e l’assenza di puntigliosità e grettezza”.

Vedo in queste parole una fotografia nitida e implacabile della campagna e dell’esito elettorali. Chi semina il vento della vuota e bullistica politica raccoglie la tempesta della conclamata e disastrosa impossibilità a legiferare e governare. Qualcuno può dire che il discorso del cardinal Ravasi è di carattere etico: certo, ma proprio per questo mette sotto accusa il modo di far politica risultato vincente alle ultime elezioni. Qualcun altro osserverà come nella battaglia politica non possa trovare posto il monito evangelico del «porgere l’altra guancia»: la correttezza, la sincerità, la lealtà sono prerequisiti di qualsiasi proposta politica.

Qualcuno confonde la mitezza mediatrice politica con un atteggiamento salottiero, aristocratico e inconcludente, che sarebbe tipico di una sinistra radical chic, ben lontana dai problemi reali della gente, tutta compresa nella difesa dei diritti civili e lontana dai diritti sociali: occuparsi di testamento biologico, di unioni di fatto, di ius culturae vuol dire snobbare i bisogni popolari? Ma fatemi il piacere! Imporre gradualità e compatibilità alle riforme significa trascurare le esigenze dell’elettorato ruspante a favore di quello benestante? Promettere la luna al popolino è sempre stato il modo migliore per lasciare le cose come stanno a beneficio di chi vive nella bambagia. Affrontare i problemi con ragionevolezza e senso della misura squalifica la politica comportandone l’inerzia e l’irresponsabilità? Non è forse sbandierando e perseguendo l’orgoglio personale (tutto è legittima difesa), nazionalistico (prima noi poi gli altri), etico (immigrazione=delinquenza e terrorismo) e culturale (difendiamo prima di tutto la nostra identità) che si confina la politica al retrobottega della più retriva demagogia?

“Beati i miti perché erediteranno la terra” dicono le beatitudini evangeliche. Siccome la mitezza viene considerata debolezza e inconcludenza, mi permetto di parafrasare ironicamente e politicamente la beatitudine di cui sopra: “Beati gli arroganti perché erediteranno il potere…e non riusciranno nemmeno gestirlo”.

 

Il pope Rano

Durante i raduni giovanili dell’Azione Cattolica, ai miei tempi si raccontava una simpatica e innocua storiella a metà strada fra l’anticlericale ed il giallo. Nello scompartimento di un treno viene ammazzato un viaggiatore. Gli investigatori appurano che in quello scompartimento viaggiavano anche due sacerdoti greco-ortodossi, due popi, il pope Runo e il pope Rano. La storiella, per farla breve, finiva con il quesito riguardante l’assassino. Chi era? Il pope Rano! E perché? Perché un pope Runo (un po’ per uno) non fa male a nessuno.

Pope è anche la traduzione inglese di papa. Ragion per cui devo ammettere che Francesco non è certamente un pope Runo, in quanto ha fatto male a molti, ha inciso e sta incidendo nelle carni religiose del nostro tempo. Nei cinque anni dal 13 marzo 2013, giorno della sua nomina, sono cambiate molte cose nella mentalità della Chiesa cattolica. Non faccio il verso ai tanti esperti e studiosi, che in questi giorni stanno analizzando questo ormai lungo scorcio del pontificato bergogliano e francescano. Mi basta attestare come ogni qual volta mi trovo a vedere ed ascoltare l’attuale papa, mi sento messo in discussione assieme a tutta la Chiesa: ogni sua uscita è una provocazione di stampo squisitamente evangelico. Ha cominciato immediatamente dopo la sua elezione e non si è mai interrotto. Sta spargendo a piene mani semi evangelici: non so quanto frutto abbiano portato finora, so comunque che ne porteranno.

Con tutto il rispetto per i suoi predecessori, sta trasmettendo una carica innovativa che tocca profondamente nel vivo della Chiesa. Il discorso fondamentale è riconducibile alla riscoperta della fede in chiave areligiosa, vale a dire anteponendo l’amore misericordioso di Dio ai dogmi, alle regole ed ai precetti. Ogni volta che affronta un argomento e/o una situazione riesce sempre ad operare quel salto che lo allontana dagli schemi tradizionali per avvicinarlo al cuore dell’uomo bisognoso di perdono e di cura. Ci stiamo abituando a questo stile e, in un certo senso, non lo stiamo aiutando: accanto ai sussiegosi e irriducibili istinti restauratori esiste purtroppo anche una routine filo-francescana, che finisce col depotenziare il suo messaggio adottandone una lettura aneddotica, banalizzandone i contenuti, svuotandone la carica provocatoria.

Molti, più di quanti possano sembrare, lo osteggiano apertamente (sono quelli che meno preoccupano) o subdolamente (prima o poi sono costretti a venire allo scoperto); molti lo applaudono opportunisticamente (sembra piacere quasi a tutti); molti lo apprezzano superficialmente (è simpatico, sa comunicare con le persone, è un toccasana per la Chiesa); molti lo considerano un rompicoglioni di stampo comunisteggiante ( una storia vecchia come il cucco); molti lo vedono come il personaggio scelto al fine di recuperare credibilità per una Chiesa rovinata da scandali  e compromissioni col potere. Non mi sento iscritto a nessuna di queste categorie. Gli voglio semplicemente molto bene: per il coraggio che mette in campo, per il carisma che dimostra di possedere, per la convinzione con cui si schiera. E poi, la dico tutta, sono sempre stato e sono tuttora in polemico contrasto con quel po’ di gerarchia cattolica con cui sono venuto e vengo in aspro contatto. Ebbene finalmente ho un papa con cui vado d’accordo e non è poco. Che Dio me lo (ce lo) conservi a lungo.

 

I vincitori che pagano dazio

Siamo talmente presi dalle vicende di casa nostra da trascurare quanto sta avvenendo nel mondo. Donald Trump non si accontenta di incassare la disponibilità del leader nord-coreano a dialogare dopo le scorribande nucleari, ma ha dichiarato aperta la guerra dei dazi, facendo incazzare Europa, Giappone, Cina, un po’ tutti insomma, preoccupati delle ripercussioni economiche di un atteggiamento protezionistico americano, che dalle parole sembra passare ai fatti.

Prima o dopo doveva succedere: o Trump ha scherzato in campagna elettorale prendendo in giro tutti oppure mantiene le promesse di un ripiegamento commerciale a illusoria e nazionalistica difesa della produzione e del lavoro statunitensi. Credo che la scienza economica, la coscienza politica e l’esperienza storica dimostrino ampiamente l’insensatezza di un tale approccio; se la globalizzazione va riformata e corretta non è certo così che si può tentare di farlo, con iniziative unilaterali, bellicose, drastiche e demagogiche. Ammetto che il popolo possa reagire criticamente soffrendo le conseguenze di una globalizzazione spericolata e senza regole, ma alle preoccupazioni popolari non si deve rispondere con misure populiste, vale a dire cavalcando vergognosamente e strumentalmente le ansie della gente. Il confine tra popolarismo e populismo è proprio questo: qualcuno gioca sull’equivoco, ma, come si suol dire, le balle stanno in poco posto.

L’Europa sta reagendo a livello diplomatico e non è escluso che debba reagire anche a livello commerciale, rispondendo a tono e suonando le proprie campane. Penso e spero che non si arriverà ad aprire una vera e propria guerra dei dazi: sarebbe un clamoroso passo indietro. Da Trump non c’è da aspettarsi niente di buono, nonostante abbia sostenitori, più o meno palesi, anche in Europa ed anche in Italia.

Mi viene spontaneo chiedere: come si comporterebbe in sede europea il trionfatore Matteo Salvini, di fronte all’attacco protezionista americano? Starebbe al gioco trumpiano dell’ognuno guardi in casa propria o si farebbe coinvolgere dal vento liberista europeo? Farebbe coerentemente il populista o guarderebbe pragmaticamente agli assetti commerciali mondiali? Sarà anche questo il banco di prova dei nuovi governanti italiani. Per non parlare di manovre correttive chieste dall’Europa sui conti pubblici italiani. A tale riguardo il prode Salvini ha rassicurato che ridurrà il deficit senza sacrifici, anzi abbassando comunque le tasse. E quindi faccia in fretta il Presidente Mattarella ad affidargli l’incarico: non perdiamo queste miracolose opportunità. Magari Salvini sarà in grado persino di   trovare accordi commerciali con Trump. Si sta cercando la giusta sede per aprire un tavolo di trattativa fra Stati Uniti e Corea del Nord? Ebbene ospitiamoli in Italia: in via Bellerio? Facciamo addirittura a palazzo Chigi, con Salvini a fare gli onori di casa. Meglio di così!

 

 

 

Adda passà ‘a sbornia

Si dice che quando Berlusconi lanciò dal nulla culturale il suo partito di Forza Italia, puntando quasi tutto sull’ancora vivo e vegeto “anticomunismo senza comunismo”, gli esperti di marketing, che lo tenevano per mano, gli dissero come la sbornia elettorale sarebbe durata alcuni mesi, dopo di che la gente si sarebbe svegliata. Il primo governo Berlusconi effettivamente andò in crisi dopo alcuni mesi, implose ad opera soprattutto di Umberto Bossi, per lasciare spazio ad un governo tecnico. La vita politica berlusconiana non finì purtroppo lì: il berlusconismo seppe riciclarsi, arrivò ad un passo dal diventare un vero e proprio regime, ebbe una seconda caduta clamorosa nel 2011 (partì un governo tecnico), ma seppe galleggiare ed ora si è ripresentato vestendo gli scomodi panni del leghismo riveduto e scorretto.

Chi ha messo una barriera istituzionale allo strapotere berlusconiano? I presidenti della Repubblica: prima Scalfaro, poi Napolitano. Quando lui, straparlando, fa riferimento ai colpi di stato subiti, credo pensi anche a questi sbarramenti. In realtà era lui che tentava colpi di stato sotterranei e fortunatamente ci fu chi ebbe l’ardire di fermare le sue avventure, non tanto quelle sessuali, ma quelle politiche.

Nutro quindi due speranze. Una riguarda il successo strepitoso degli anti-tutto, si chiamino M5S o Lega. L’infatuazione non dovrebbe durare molto, purché ci possa essere dopo il test elettorale quello governativo: sarebbe opportuno che questi bastian contrari della politica si misurassero con i problemi reali per evidenziare la loro inadeguatezza con brevi ma clamorose inadempienze. Un esperimento molto pericoloso, ma forse necessario. Indro Montanelli giudicava il berlusconismo una malattia che andava patita in attesa di creare gli opportuni anticorpi. Potrebbe essere così anche per il grillismo e il leghismo. Non bisogna però avere fretta altrimenti esiste il rischio letale delle ricadute.

Una seconda speranza è da me riposta nel presidente della Repubblica e nella sua capacità di sbarrare il passo ad avventure che possano mettere a repentaglio la democrazia: questa viene prima delle elezioni e deve sussistere anche dopo le elezioni. A lui probabilmente toccherà il capolavoro di combinare assieme i due discorsi di cui sopra: mettere alla prova i vincitori, evitando che possano creare disastri irreversibili, mettere in sella fantini pazzi su cavalli calmi. E che l’Europa ce la mandi buona!

Non credo sia possibile una grande coalizione di programma, bisognerà accontentarsi di una “piccola” combinazione, magari tecnica, per evitare il drammatico ed immediato ricorso alle urne. Tutti gli schieramenti non hanno interesse a puntare verso una simile scriteriata prospettiva. Ci si arriverà, ma con un po’ di anticorpi, dopo la malattia e dopo la conseguente convalescenza. Sarebbe necessario che la politica rispondesse alla grande ai cambiamenti in atto nel mondo, ma bisognerà accontentarsi di molto meno, di quel che passa il convento per evitare il peggio. Quando ascolto in questi giorni i discorsi politici di chi si candida a governare e le compiaciute analisi dei commentatori del piffero, provo un senso di impotenza. Se mi è consentita una similitudine piccante, è come trovarsi di fronte ad una bellissima, affascinante ed ammiccante fanciulla e doversi accontentare di farle un buffetto sulla guancia per tenerla in tempo e darle la speranza che prima o poi, come nelle fiabe, arriverà il principe (di rigore non azzurro a scanso di equivoci) e allora…

Le elezioni non politiche

Un conto è parlare di morte, un conto è morire. Un conto è parlare di governo, un conto è governare. È quanto emerge dai primi pronunciamenti leghisti e pentastellati alle prese con la formazione del nuovo governo, impresa a dir poco ardua, visti i risultati elettorali. Il popolo ha consegnato all’Italia un Parlamento rigidamente diviso in tre tronconi numericamente non autosufficienti, politicamente incomunicabili fra di loro, idealmente contrapposti, usciti da una campagna elettorale violenta, vissuta rissosamente nei modi e nei contenuti. Erano mesi, per non dire anni, che si invocavano elezioni, nelle quali siamo entrati arabi e dalle quali usciamo turchi.

Le urne, al di là degli entusiasmi degli apparenti vincitori, hanno dato due messaggi fortemente negativi per chi li vuole onestamente capire. Innanzitutto hanno consacrato la sfiducia della gente nella politica intesa come risposta ragionata, graduale e concreta ai problemi ed hanno ripiegato nella spericolata e illusoria scommessa sulle soluzioni facili e immediate. Sono state elezioni non politiche! In secondo luogo hanno dimostrato come la politica “della zappa e del badile” sia capace solo di dividere e quindi finisca col rendere ingovernabile Il Paese.

Sono bastati due giorni per rendersi conto che, una volta terminata la rissa di cortile, bisogna raccattare i pezzi e ritornare a ragionare. A volte dopo i litigi si riesce a trovare un modus vivendi, ma, quando essi sono frutto di una totale divergenza di base, l’eventuale armistizio prelude inevitabilmente alla ripresa dei combattimenti ancora più aspri e disastrosi. Quale credibilità possono avere le avances di un Di Maio, a cui probabilmente qualcuno sta abbassando la cresta? Quale attendibilità può trovare un Salvini che si nasconde nella trincea democratica del governo di alcune regioni e di parecchi comuni?

Il movimento cinque stelle è quello barricadiero, sbracato, apocalittico e ultimativo di questi anni (complimentato dai fautori della brexit, con cui si è imparentato a livello europeo) oppure solo un provocatorio e prepolitico messaggio per innescare un generico e velleitario cambiamento del Paese? La Lega è un partito estremista, euroscettico, nazionalista (legato ai populisti europei e non solo europei) oppure è solo il garzone della bottega del centro-destra, incaricato di fare il gioco sporco, di rompere per poi lasciare il negozio a chi può raccogliere i cocci e pagare?

Mettendola sul piano squisitamente personale, solo per capire meglio, dopo Di Maio arriverebbe un nuovo Rodotà? Dopo Salvini c’è pronto Tajani? Grillo da una parte e Berlusconi dall’altra stanno lavorando sotto traccia? Berlusconi nel suo solito delirio di onnipotenza ha detto che si sente comunque il regista del centro-destra. Grillo non ha bisogno di farsi riconoscere come il padrone, ideologico e non solo, di un movimento da lui inventato. In mezzo a questo equivoco marasma si trova, suo malgrado, anche il PD. Se fossi il leader del partito democratico, in questa fase mi cucirei la bocca e aspetterei al varco il Presidente della Repubblica: solo in risposta positiva alle sue mosse si potrebbe eventualmente ragionare.

Il ministro uscente Carlo Calenda ha chiesto la tessera del PD. Non mi interessano eventuali suoi secondi fini, non voglio giudicare il suo apparente atteggiamento messianico (peraltro già abbondantemente ed efficacemente sfoderato nella sua interessante attività ministeriale), mi limito a prendere atto che qualche autorevole personaggio con spiccato senso governativo ritiene, nonostante tutto, il PD l’unico strumento politico agibile. Non deve però buttarsi “generosamente” in campo e, al primo pallone che gli capita di giocare, entrare a gamba tesa. Non può aderire a un partito e poi non accettarne aprioristicamente certe scelte tattiche: il diritto/dovere di critica è cosa diversa. Ha detto simpaticamente che potrebbe trattarsi della più breve militanza partitica, qualora il PD decidesse di collaborare in qualche modo col M5S. In questo momento più che mai vale il detto “il più bel tacer non fu mai scritto”. Hanno parlato i cittadini, hanno straparlato i vincitori; almeno i perdenti, i quali potrebbero essere l’ago della bilancia, provino a tacere, a giocare di rimessa, in attesa che parli chi deve parlare: il Presidente della Repubblica (chi ha detto che il Capo dello Stato si farà dettare il compito a seconda dell’esito della nomina dei nuovi presidenti delle Camere? Nomine che dovrebbero avere tutt’altro carattere rispetto alla ricerca di una maggioranza di governo) ascolterà e chiederà.

Un mio carissimo e cattolicissimo amico mi ha inviato il seguente messaggio riferito alle scelte tattiche che bollono nella pentola PD: «Come non farsi soffiare il proprio popolo dai cinque stelle, come non ridursi ai minimi termini? Stando all’opposizione o governando? Ci vuole la luce dello Spirito Santo per non fare passi falsi…». Probabilmente la terza persona della Santissima Trinità avrà questioni più importanti da illuminare. Sono un assertore convinto della laicità della politica, ma ammetto che un aiutino così autorevole non farebbe male al PD e all’Italia. Mio padre direbbe sarcasticamente che forse era meglio che lo Spirito Santo ci pensasse prima, parlando, a modo suo, nella mano agli elettori. Meglio tardi che mai!

Le pirriche vittorie elettorali italiane

I cambiamenti epocali che stanno avvenendo imporrebbero alla politica di volare alto, non per eludere la realtà, ma per affrontarla in una visione complessiva nello spazio e prospettica nel tempo. Invece la risposta politica italiana emergente dalle ultime elezioni si pone in una logica strumentalmente di piccolo cabotaggio e demagogicamente di breve respiro.

Il mondo, lo si dice spesso, è cambiato ancor prima della crisi economica degli ultimi anni, che ne ha registrato le conseguenze. Si è passati da un’economia manifatturiera ad una finanziarizzazione dell’economia stessa, si è passati da ambiti economici ristretti ad una situazione globale, si è passati da assetti economici in cui il fattore lavoro aveva addirittura la “pretesa” di essere una variabile indipendente ad un mercato in cui il lavoro è costretto a coprire gli spazi residuali offerti da un’economia sempre più automatizzata e sempre più competitiva.

La gente non ha percepito o fa finta di non aver capito che la situazione è cambiato in modo clamoroso e continua a ragionare in termini asfittici e ristretti. La classe politica sta dimostrando limiti gravissimi in quanto non riesce a trasferire scelte valoriali e programmi di governo nel mutato calderone in cui siamo inseriti. La sinistra è in gravi difficoltà perché non riesce a ricuperare le sue originali idealità – uguaglianza, giustizia sociale, solidarietà – tentando di coniugarle con efficienza produttiva, sviluppo economico, gradualità di cambiamento, riforme sistemiche, europeismo e globalizzazione: si dibatte nella storica incertezza tra tentazioni di lotta ed esigenze di governo. La destra non è in grado di proiettare il liberismo economico nel variegato e moderno contesto socio-economico e finisce col ricadere nei fantasmi del nazionalismo, del protezionismo, del populismo, del rigorismo, dando risposte di retroguardia ai problemi emergenti.

La sinistra riformista lascia quindi spazio ai movimenti protestatari anti-sistema e la destra liberale apre autostrade pericolose all’estremismo, confusionario ma attraente, dei nazionalisti più o meno riveduti e corretti. Tutto il mondo occidentale è invischiato in questo stallo politico, che aumenta in proporzione alla debolezza dei partiti tradizionali di sinistra e destra. È successo in Gran Bretagna con la brexit e dopo la brexit; è successo in Francia dove però Macron, con un abile mossa del cavallo, ha avuto il coraggio di superare gli schemi e di prendere in mano la situazione, anche se il suo tentativo è ancora tutto da valutare e verificare; è successo negli Usa con la paradossale vittoria di Trump, che ha buttato all’aria tutto e sta cavalcando tutti i peggiori “ismi” della storia, trascinando nel gorgo gli sbalestrati ceti popolari americani; è successo in Germania dove però la situazione è meno drammatica in quanto popolari e socialisti mantengono una certa forza elettorale, ma soprattutto sembrano ancora in grado di compromettersi in un’alleanza transitoria utile a governare, anche tramite una certa egemonia europea, il cambio epocale di cui sopra.

A ben pensarci questa involuzione politica è accaduta anche in Russia: il riformismo di Gorbaciov ha perso, lasciando il campo al radicalismo di Eltsin, a sua volta preparatorio del populismo putinista. In Cina invece la classe dirigente è riuscita a gestire una drammatica e fenomenale riscossa economica, mantenendo saldo il sistema politico di vecchio stampo comunista.

Per tornare precipitosamente in Italia dobbiamo volare basso che più basso non si può: Salvini e Di Maio a rapporto davanti al mondo che cambia. Molti evocano il governo di unità nazionale che sta nascendo in Germania, ma lì tra i due partiti c’è un minimo di condivisione ed un massimo di convenienza. In Italia non vedo alcuna condivisione significativa fra i tre blocchi e non vedo nemmeno quel minimo di freddezza e lungimiranza necessaria a mettere l’interesse generale oltre quello di bottega.  L’indebolimento notevole del PD, salutato scriteriatamente da tanti come una sorta di liberazione dal sistema, potrebbe essere una immediata buccia di banana per i vincitori: se cadono Salvini e Di Maio non è un dramma, anzi, purché non ci trascinino tutti in un lungo e mortale precipizio, davanti ad una situazione che non si ferma ad aspettarci.

Il dubbio poco amletico del PD

Negli anni sessanta la parola d’ordine che tutti abusavano era “discorso”, oggi è maniacalmente e fastidiosamente adottata la parola “ovviamente”. Tutte le mode, dagli abiti alle parole, rispecchiano, in un certo senso, la cultura del tempo: da quella problematica e contorta della protesta giovanile a quella superficiale e mediatica del populismo moderno. Un tempo si cercavano risposte complesse e complessive ai problemi semplici, ora si esigono soluzioni immediate e definitive per questioni di enorme portata.

Due esempi eloquenti. Se ad uno studente andava storto un esame si faceva risalire la causa al sistema scolastico tutto da rifondare e riformare; se oggi uno studente viene rimproverato si preferisce aggredire e malmenare l’insegnante. Se un tempo si incontrava per strada un accattone si era portati a bollare il sistema, che permetteva diseguaglianze e ingiustizie sociali; se oggi ci si imbatte in un extra-comunitario, che tende la mano per chiedere aiuto, si pensa che sia giunta l’ora di alzare un muro per evitare l’arrivo di questi poveracci.

Oggi non è ammesso avere dubbi, sono richieste certezze: un altro insopportabile vezzo lessicale è il rispondere sì o no con l’aggiunta di “assolutamente”, quasi a rimarcare che non si può e non si deve minimamente titubare di fronte alla realtà. Il discorso vale anche per la politica. Il grande Mino Martinazzoli, segretario del partito popolare, nato dalle ceneri della Democrazia Cristiana, durante una intervista televisiva, disse apertamente e ironicamente di invidiare chi spacciava certezze, mentre lui si sentiva così pieno di dubbi.

Alle recenti elezioni politiche ha vinto chi ha saputo sparare proposte nette e dirimenti: nel Sud Italia, impoverito dalla crisi, ha fatto breccia il “reddito di cittadinanza”, una risposta campata nell’aria di una impossibile copertura finanziaria, ma vincente rispetto al discorso di aiutare la ripresa economica in modo da consentire un reddito da lavoro a chi ora non ce l’ha; al Nord, preoccupato e insicuro per il fenomeno delinquenziale, sbrigativamente e razzisticamente associato a quello dell’immigrazione, ha fatto breccia il messaggio del “mandiamoli a casa: prima noi e poi loro”, rispetto al ragionato e complesso discorso della gestione internazionale ed interna del problema immigrati.

Il partito democratico, al di là dei possibili errori commessi dalla sua classe dirigente, è vittima di questo cambio culturale nella mentalità corrente: propone la gradualità riformista che si scontra con la immediatezza populista richiesta dalla gente. In Parlamento avremo due vasi di ferro (il centro-destra a egemonia leghista e il M5S) populisti con in mezzo il vaso di coccio riformista del PD. In base alla similitudine manzoniana è facile prevedere per il centro-sinistra una collocazione difficile al limite della sopravvivenza. E allora anziché ristudiare e riprogettare con pazienza una proposta che sappia coniugare la irrinunciabile dottrina riformista con l’urgenza dei problemi percepiti dalla gente, il PD è tirato per i capelli nello stucchevole e povero dubbio, tutt’altro che amletico, se dialogare o meno con gli avversari, soprattutto con i grillini, al fine di consentire un governo al Paese.

È già partito questo tormentone che presumibilmente caratterizzerà i prossimi mesi della vita politica. Cosa farà Tizio? Cosa farà Caio? Cosa farà il PD del dopo-Renzi? Ma ancor prima, Renzi se ne andrà veramente e chi gli potrà succedere? In questi giorni si è aperto il toto-governo, peraltro già ampiamente prefigurato in campagna elettorale. Cercherò di non lasciarmi trascinare in questa trappola e mi sforzerò di continuare, nonostante le sirene populiste, a ragionare di politica, a fare “certi discorsi”, lasciando perdere “ovviamente” gli “assolutamente sì” e gli “assolutamente no”.

I ripescati di ferro

I dati elettorali evidenziano una sfilza di candidati trombati e…ripescati: sono stati cioè bocciati dagli elettori a livello di sistema maggioritario nei collegi uninominali, ma, siccome erano inseriti in pole position anche nel sistema proporzionale, vale a dire nei collegi plurinominali su liste bloccate, si sono salvati in corner e andranno in Parlamento, alla faccia di chi pontificava sul garantire la possibilità di scelta agli elettori. Si tratta di una ventina di candidati, personaggi politici di primo piano soprattutto del Pd, ma anche di LeU, del centro-destra e persino del M5S. Sarebbe interessante scorrerne l’elenco, non è mia abitudine tuttavia sparare a casaccio, ma, come si vedrà, intendo solo fare un certo ragionamento. I partiti hanno offerto ad alcuni loro esponenti una sorta di scialuppa di salvataggio (non mi si racconti che le pluricandidature volevano catturare consensi): un meccanismo che, seppure in modo diverso, è sempre esistito ed è sempre stato praticato a copertura del rischio personale di bocciatura da parte dell’elettorato.

Non mi scandalizzo più di tanto di questi giochetti e di questa rete protettiva concessa dai partiti a loro dirigenti ritenuti meritevoli di elezione a prescindere dai voti raccolti dalla gente: un tempo le preferenze erano l’antidoto rispetto a questi meccanismi partitocratici, ma nel tempo si scoprì che la cura era peggiore della malattia. Le preferenze innescavano infatti gare truccate, accordi opachi, mercanteggiamenti vari e brogli elettorali: la loro eliminazione, tramite un referendum, diede la stura al discorso del cambiamento del sistema politico. Poi ci si è accorti che togliere la preferenza voleva dire dare troppo potere ai partiti che potevano scegliere l’ordine di precedenza delle candidature nel chiuso delle loro stanze. Tutti questi discorsi cominciano e finiscono nel gran busillis della legge elettorale e dei suoi meccanismi più o meno democratici. Negli ultimi anni ha costituito uno degli argomenti principali di discussione, legato alle riforme istituzionali, al rispetto della legittimità costituzionale, alle garanzie di rappresentanza, governabilità e stabilità.

Tra i bocciati a livello di uninominale c’è un mio caro amico, Giorgio Pagliari, candidato per il Pd nel collegio Parma 7, che comprendeva anche il territorio reggiano. Una sconfitta imprevista e, per certi versi, inspiegabile. Al di là del suo inevitabile coinvolgimento nella debacle del partito anche nei territori considerati un tempo vere e proprie roccaforti della sinistra, la ragione credo stia tutta nel fatto che il senatore Pagliari, giustamente, ha lavorato molto e si è fatto intervistare poco. I suoi numeri in Parlamento parlano chiaro: 95,4% di presenze, 21 disegni di legge presentati come primo firmatario, 138 interrogazioni, 464 emendamenti proposti sempre come primo firmatario. Pagliari ha fatto cioè in modo egregio il suo dovere, quello che gli richiedeva la Costituzione, vale a dire impegnarsi soprattutto nella funzione legislativa propria del Parlamento. Secondo l’ultimo rapporto OpenPolis è stato il parlamentare più produttivo della scorsa legislatura, tra Camera e Senato. Una pagella invidiabile, ma non gli è bastata. In questo paese di merda (scusate, ma quando ci vuole…) che valgono sono le chiacchiere, le stronzate sparate alla viva il parroco, la ossessiva cura della propria immagine, la risonanza mediatica, le balle, la scorrettezza verbale nei confronti di avversari e amici, le sgomitate, le leccate di piedi a tizio e caio e l’opportunismo.

Mi si dirà che sto spezzando una lancia a favore di un mio amico. A parte il fatto che lo faccio a elezioni (mal) celebrate, l’amicizia mi impone di dare a Pagliari quel che è di Pagliari. A lui sono mancate le precondizioni (negative) di cui sopra e la sua rigorosa e sdegnosa lontananza dai giochi della politica politicante, gli ha impedito paradossalmente la sacrosanta rielezione e financo il ripescaggio ai tempi supplementari. Il miglior parlamentare italiano bocciato dall’elettorato e trattato malissimo dal suo partito: per lui niente doppia candidatura e niente ripescaggio, la rete protettiva era bucata. Per Pagliari esistono dei precedenti, forse ancor più clamorosi: nel 2012 gli venne negata dal Pd la candidatura a sindaco di Parma, ritenuta da tutti una scelta imprescindibile, valida e vincente; e fu una catastrofe elettorale ed amministrativa per la nostra città. Allora segretario nazionale del Pd era Bersani (oggi un ripescato di LeU). A gestire le candidature politiche di quest’anno è stato Matteo Renzi. Ebbene, per Pagliari non è cambiato molto.  Un comune amico sacerdote di lui ha sempre detto: “è troppo bravo per essere vincente”.

Poi stiamo a chiederci perché i partiti hanno perso il contatto con i cittadini, perché la sinistra è in crisi, perché stravincono i grillini, perché ritorna a galla Berlusconi, perché gongola Salvini. Bisogna però anche avere il coraggio di rispondere che, oltre il sistema politico balordo, abbiamo un corpo elettorale che vota con la pancia (piena o vuota che sia) e, in molti casi, col paraocchi mediatico o social come dir si voglia.

 

Dalle stelle del sistema alle stalle dell’anti-sistema

Non ho saputo resistere e mi sono lasciato coinvolgere dalle maratone televisive del post-voto, durante le quali ho visto personaggi perdenti di grande spessore etico, culturale politico, come Piero Fassino, subissati dal vuoto e arrogante clamore dei vincenti, grillini e leghisti. Mi sono chiesto cosa stia capitando in Italia e confesso di avere la tentazione di voltarmi dall’altra parte, considerata la mia anzianità, il mio impegno conseguentemente ridimensionato, il mio legame con un passato fulgido della politica, il mio ormai scarso interesse diretto nelle questioni politiche del paese: largo ai giovani mi sono detto, stiamo a vedere quel che succede, lasciamo fare e lasciamo passare.

Non riesco però a chiudermi in uno splendido isolamento culturale, forse non è nemmeno giusto e allora ho pensato di prendere la rincorsa dal passato remoto per arrivare a interpretare il presente e guardare al futuro. Parto con tanta nostalgia dai fitti e vivaci dialoghi che, alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, intessevo con un indimenticabile amico, un anziano comunista tutto d’un pezzo, col quale avevo collaborato a livello di base seppure da opposte sponde. Capivamo come la politica si stesse allontanando dalle ideologie, ma anche dai valori e dalle idee, che erano state il collante dell’anti-fascismo, della Repubblica nata dalla resistenza, dei rapporti politici impostati a livello alto sulla scia del patto costituzionale. Registravamo, con una certa apprensione, come la politica si stesse incamminando sulla strada del confronto pragmatico sui programmi di governo, lontano dalle tensioni ideali e dagli ancoraggi valoriali, dopo un compromesso storico interrotto prematuramente dalla morte di Aldo Moro e dopo la degenerazione craxiana. Eravamo rassegnati.

Poi arrivò tangentopoli che mise in crisi il sistema partitico, ma il berlusconismo, il leghismo padano e il revisionismo post-fascista riuscirono a riciclare in qualche modo questo sistema: si formarono nuovi partiti in un certo rimescolamento di carte, sparirono i partiti tradizionali ed emersero nuovi schieramenti. Si aprì un periodo di oltre un ventennio di alternanza destra-sinistra, che avrebbe potuto finalmente incarnare quel pragmatismo governativo della politica da me tanto temuto, sommerso purtroppo dall’anomalia berlusconiana, dalle difficoltà economiche e dai cambiamenti epocali a livello europeo e mondiale. Arrivo rapidamente e semplicisticamente ai giorni nostri in cui in un certo senso si è tornati indietro, ma nel peggiore dei modi, non per riscoprire ideali e valori, ma per impostare una sbrigativa crociata anti-sistema, capace di accarezzare la pancia alle spinte ed ansie di un paese cambiato, che non riesce a coniugare con la realtà dei fatti i capisaldi dell’età moderna: europeismo, globalizzazione e immigrazione. Un ritorno di fiamma del nazionalismo, del protezionismo, della protesta fine a se stessa, del populismo: tutti i connotati di un paese irriconoscibile e mutato, interpretato dalle forze che sono risultate vincenti alle ultime elezioni, il M5S e la Lega. Non so se si tratti di una svolta epocale, ma certamente qualcosa di importante è successo.

Matteo Renzi aveva capito l’esigenza di impostare una forte riforma del sistema politico-istituzionale e vi si è buttato anima e corpo: purtroppo non è stato capito e il sistema è finito in pasto alle derive protestatarie del rinnovato leghismo e dell’improvvisato grillismo.   I cambiamenti nel sistema, obiettivamente bisognoso di profonde riforme, rimangono a livello epidermico, ma incontrano il favore degli arrabbiati e danno risposta al malcontento generale (soprattutto dei cittadini del sud, dei giovani e di quanti si sentono insicuri). Si resta sulle parole, si vota sui proclami, si trascurano completamente i comportamenti governativi: tutti stupidi e tutti ladri.

Prima o poi dalle parole si dovrà pur passare ai fatti, trascorrerà forse molto tempo e intanto non si capisce cosa possa capitare. Questa spinta antisistema non è solo italiana, ma americana (Trump) ed europea. Negli altri paesi europei però i partiti tradizionali, pur essendo in grave crisi a livello di consenso, per ora riescono a contenere questa spinta. In Italia la debacle del partito democratico mette in seria difficoltà il sistema al limite della sua tenuta. Probabilmente a questo partito, uscito malconcio dal turno elettorale, si porrà il problema se allungare una mano sistemica agli anti-sistema o se lasciare che la situazione marcisca nella ingovernabilità e nella confusione politica e parlamentare. Non basteranno la saggezza e l’abilità di Mattarella. Probabilmente ne dovremo vedere delle belle: siamo solo agli inizi.

Mattarella deve togliere il prete dalla merda

Ieri, giorno delle elezioni, scrivevo di tre tentazioni in cui i cittadini italiani potevano cadere. Hanno evitato la prima, quella dell’astensionismo, nonostante le solite complicazioni ed inefficienze ai seggi elettorali: le file ai seggi, dovute ai ritardi nelle operazioni di voto, erano comunque un’immagine eloquente della volontà degli italiani di partecipare alla consultazione.

Sono però caduti clamorosamente nella seconda, vale a dire nella sindrome del marito che per fare dispetto alla moglie…Ebbene, ha vinto l’antipolitica, la protesta anti-sistema con l’affermazione quantitativamente notevole del movimento cinque stelle, il primo partito, cui deve essere aggiunto il risultato della Lega, che diventa il terzo partito e, superando l’alleato di Forza Italia, conquista la guida del centro-destra.

Anche la terza tentazione, quella delle ricette scadute o delle ministre scaldate, ha colto gli italiani, che hanno ripiegato sul centro-destra, la coalizione premiata complessivamente da ben oltre un terzo dell’elettorato.

Il centro-sinistra esce fortemente punito: il suo modo di governare non è piaciuto, i risultati del suo governo non sono stati percepiti, le sue divisioni interne lo hanno indebolito, anche se il risultato degli scissionisti di “Liberi e uguali” è vergognosamente insignificante.

È successo però anche quanto si temeva da tempo, vale a dire che la composizione numerica delle due Camere non lascia spazio a precise e coerenti maggioranze di governo con il rischio dell’instabilità dietro l’angolo. Questo spauracchio, sventolato con fastidiosa insistenza in faccia agli italiani, non ha avuto l’effetto desiderato, anzi ha convinto gli elettori a rischiare, a buttare, come si suol dire, “il prete nella merda”, fregandosene altamente e irrazionalmente della continuità, della governabilità, della stabilità.

È già cominciato, di conseguenza, il toto-maggioranza. I grillini, che si ergono ad asse fondamentale del Parlamento e lasciano intendere di voler giocare, seppure presuntuosamente e con la puzza elettorale sotto al naso, il ruolo di playmaker, vorranno strizzare l’occhio programmatico a qualcuno? E chi starà al loro gioco? La Lega, molto rafforzata, forse sarà indotta a considerare con un certo interesse l’ipotesi di un governo anti-sistema, dialogando con il M5S e lasciando al loro destino i cannibalizzati alleati di un centro-destra duro a morire, ma politicamente spiazzato e schiacciato sull’estremismo populista? Il centro-sinistra, messo sgarbatamente dietro la lavagna, cercherà il bagno rigeneratore dell’opposizione o valuterà qualche possibilità di accordo transitorio con parte del centro-destra o addirittura una parziale intesa programmatica con i grillini liberati dal peso dell’ormai superata strategia del “vaffa”?

Domande che sono girate, in modo deviante, anche durante la campagna elettorale e che ora si fanno ancor più insistenti alla luce dei risultati delle urne. Il quesito di fondo è: riuscirà l’antipolitica a dismettere, seppure parzialmente, i suoi panni per rivestire quelli della nuova politica? La protesta potrà diventare proposta? Tutto sommato gli italiani hanno pensato che questo possa avvenire: li credo meno sprovveduti e più intelligenti di quanto si possa pensare. Hanno votato, si sono espressi in modo numericamente chiaro anche se politicamente equivoco e pericoloso. Dovrà essere il presidente della Repubblica a verificare se possa succedere questo mezzo miracolo o se invece il sistema politico, come è successo in altri paesi europei, ultima la Germania, abbia ancora gli anticorpi per resistere al virus populista, che sembra aver compromesso le difese dei cittadini italiani. Non lo invidio, ma gli auguro, di cuore, un buon lavoro.