Il funerale della politica

Ho seguito in televisione le sedute di apertura della legislatura alla Camera ed al Senato.  Ho vissuto strane sensazioni: l’impressione che il rito fosse stancamente estraneo alla storia della nostra giovane democrazia, che il Parlamento fosse molto lontano dalla mia sensibilità politica, che le tante facce nuove fossero le comparse di una pessima rappresentazione teatrale, che le facce vecchie fossero stanche ed esauste, che tutto si svolgesse in discontinuità con la nostra storia.

Nemmeno il discorso inaugurale di Giorgio Napolitano, ai limiti della correttezza istituzionale ma pur pieno di contenuti critici, riusciva a dare un senso a quanto stava accadendo e assomigliava a quelle omelie esequiali piene di richiami biblici, ma vuote di agganci alla vita del defunto. Ricordo quanto racconta un sacerdote amico: era stato chiamato a celebrare un funerale in una parrocchia che non era la sua. Ce la mise tutta e infatti alla fine della cerimonia i parenti gli si avvicinarono per ringraziarlo, ma non poterono esimersi dal rivelargli che lui aveva fatto riferimento ad un uomo defunto, mentre il morto era una donna. «Avrei voluto essere in Africa», ammette ancor oggi a distanza di parecchio tempo quel bravo e spiazzato sacerdote. Giorgio Napolitano assomigliava molto a quel prete: non è riuscito, nonostante gli sforzi, a dare un senso all’inizio di una legislatura che si preannuncia a dir poco sconfortante.

Ho avuto solo un brivido di emozione quando Roberto Giachetti, che presiedeva la seduta della Camera, nel suo discorso di apertura, prettamente istituzionale, ha ricordato in chiusura una frase eloquente di Marco Pannella. Per il resto un’aria mesta di circostanza, il funerale della politica! Negli studi televisivi, tra i commentatori dell’evento, teneva banco Paolo Cirino Pomicino, un chiacchierato esponente democristiano della cosiddetta prima repubblica, un personaggio che a suo tempo giudicavo male sul piano etico e su quello politico. Ebbene, a confronto col penoso quadro emergente, mi è parso un colosso.

Sia chiaro: non mi scandalizzo delle scaramucce per arrivare, prima o poi, bene o male, alla nomina dei presidenti dei due rami del Parlamento e nemmeno delle difficoltà quasi insuperabili che si vedono per la formazione del governo. Che mi sconforta e mi preoccupa è la mancanza di spessore culturale e politico dei contendenti, soprattutto di quelli che dovrebbero rappresentare il nuovo che avanza. Non vorrei che in me prevalesse la nostalgia tipica delle persone anziane, le quali aprioristicamente rivalutano il passato e screditano il presente. Può darsi…spero sia così. Se mai dovessi avere un po’ di ragione, si preannuncerebbero tempi duri. In questi giorni mi viene spontaneo tentare parallelismi fra i personaggi emergenti e quelli di un tempo: riscontro sempre e comunque un’abissale differenza in tutti i sensi con uno scarto incolmabile a danno dei parlamentari di oggi. I casi sono due: o la società è molto decaduta e la classe politica la rispecchia oppure la società snobba la politica e lascia fare agli urlatori della campagna elettorale. Ho riascoltato un commento saggio (un luogo comune che comunque può servire): la politica non dovrebbe rincorrere le spinte della società, ma dovrebbe raccoglierle, interpretarle ed orientarle verso il bene comune. Siamo alle aste ed ai puntini della politica e ciò significa che in Parlamento ci sono molti analfabeti.

 

 

L’antimafia viene dal basso

Cos’è la mafia? In senso classico si intende una qualsiasi organizzazione criminale retta dall’omertà e regolata da riti, legami familiari e percorsi iniziatici peculiari, che ciascun appartenente, detto affiliato, è tenuto a rispettare. Il tempo e lo spazio hanno tuttavia allargato il concetto e penso di poter definire la mafia come un modo di intendere il potere, sganciato da ogni e qualsiasi istituzione e capace di imporre un ordine basato sull’intimidazione e la delinquenza.

La recente giornata, dedicata alle manifestazioni in ricordo delle vittime delle mafie e per ribadire l’impegno a combattere la criminalità organizzata, mi ha portato ad alcune riflessioni. Innanzitutto ho provato un senso di debolezza, vedendo Davide (impersonificato da un meraviglioso don Ciotti) a capo di un giovanile esercito, che a gole spiegate ed a mani nude combatte decisamente contro un invisibile ma fortissimo Golia.

Proprio nello stesso giorno emergevano notizie che allargavano il discorso mafioso a livello planetario. Volendo parafrasare le definizioni di cui sopra si potrebbe affermare che la mafia si sta imponendo nel mondo bypassando i poteri istituzionali, istituendo legami fra gli Stati basati sulle mere convenienze, impostando in modo populistico i rapporti con le genti, ricorrendo spregiudicatamente alla guerra, tessendo alleanze puramente tattiche, facendo subdolamente valere la legge del più forte.

Prendiamo Putin e il suo trionfo elettorale in Russia: ha stravinto il sistema di potere mafioso, instaurato da questo macellaio comunista trasformatosi in dittatore populista, a cui (quasi) tutti rendono omaggio, che riesce a profetizzare in patria e a condizionare gli equilibri mondiali. La vicenda delle presunte esecuzioni spionistiche non è che la punta di un iceberg: le reazioni stizzite dei grilloparlanti inglesi ed europei farebbero tenerezza se non puzzassero di fumo negli occhi all’opinione pubblica.

L’ordine mondiale sembra essere manovrato in stile sostanzialmente mafioso: aggressioni, guerre, accordi vengono snocciolati in un clima di potere avvolgente ed opprimente. Donald Trump seduto a trattare familiarmente con i Sauditi: roba che evoca rapporti internazionali senza scrupoli e all’insegna del pelo sullo stomaco. L’indebolimento delle forze politiche democratiche, le ingiustizie e le contraddizioni della globalizzazione, i disastri del socialismo reale, la fine delle ideologie, la mancanza di autorevoli leader autenticamente democratici, i ritorni di fiamma del nazionalismo stanno comportando un progressivo assetto di potere ammantato di populismo e improntato allo stile massonico e/o mafioso.

Se il quadro a livello mondiale è, più o meno, questo, il discorso della lotta alla mafia si fa ancor più arduo. In fin dei conti non è forse un paradossale retaggio della liberazione post bellica la permanenza del potere mafioso nell’Italia meridionale? Gli americani ne presero atto ed in un certo senso utilizzarono quell’ordinamento parallelo per riportare alla normalità la situazione: scesero a patti con la mafia, così come i fascisti si vantavano di averla sconfitta, mentre l’avevano incorporata nel regime. Ecco perché sono convinto che il vero antifascismo sia stato quello dei resistenti, soprattutto quello delle sparute minoranze delle prime ore, quello zoccolo duro che seppe non piegarsi. Con quale convinzione pretendiamo che gli Stati combattano le loro mafie, se nei loro comportamenti internazionali adottano le stesse categorie di pensiero e di condotta!? Chiediamoci il perché di tante vicende rimaste sepolte nei meandri delle ragion di stato.

E allora? La risposta potrebbe essere di lasciar perdere, di rassegnarsi. Invece consiste proprio nel partire dal basso, non solo dalle istituzioni, ma dai giovani, dalle periferie, dalle parrocchie, dai gruppi, dalle scuole, dalla memoria delle vittime (i tanti testimoni, il cui sangue è assai fastidioso per le mafie, in quanto sconfigge la paura  e diventa l’esempio a cui riferirsi), creando un coraggioso  esercito disarmato di tanti piccoli Davide, che provochi e susciti la discesa in campo delle istituzioni sane o risanate dalle loro avanguardie, quelle che hanno pagato e rischiano di pagare un tributo di sangue, mettendole alla punta e  coinvolgendole, e capovolga pacificamente la logica del potere. Una sfida molto difficile che ha come protagonista iniziale e principale la cosiddetta società civile. Non le élite culturali, per lo meno non solo le élite culturali, ma la gente onesta capace di alzare la testa.  Quando sento invocare l’intervento dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata, non mi illudo che possa bastare: non può essere una battaglia calata dall’alto, anche perché la forza delle mafie è quella di insinuarsi nei gangli istituzionali al fine di penetrare tutti gli ambienti e tutti i poteri, rendendoli omertosi osservatori o addirittura complici. Mi sono sempre chiesto: la mafia, per potente, furba e infiltrante che sia, non potrà affiliare tutti i cittadini? Qualcuno disposto a combatterla ci sarà. Non potranno uccidere tutti. Si tratta di partire di lì e di perseverare a questo livello.

Il diluvio universale

In questi giorni in cui la politica italiana si stringe più che mai attorno alle beghe di casa nostra, quella internazionale si allarga alle beghe planetarie, lasciando emergere un quadro sconfortante, caratterizzato da alleanze sommerse e inquinate, da guerre di spie, da notizie comprate. Non sono un esperto di storia, ma in questa situazione inquietante non trovo alla fine nulla di veramente nuovo: stando alla politica internazionale dell’Italia, Camillo Benso conte di Cavour non inviò forse i bersaglieri italiani a morire in Crimea per ingraziarsi Napoleone III ed ottenerne i favori nelle guerre d’indipendenza? Non sfruttò la bellezza e l’ambizione della contessa di Castiglione per penetrare nell’intimità di Napoleone III? I fili degli equilibri a livello mondiale prescindono dalle categorie e dagli schemi ordinari per aggrovigliarsi intorno a interessi inconfessabili, cinici, mutevoli, schizofrenici e lontani mille miglia dai valori e dai bisogni delle genti. Il fine giustifica i mezzi? Ma fatemi il piacere!!!

Nicolas Sarkozy avrebbe avuto finanziamenti illeciti dal dittatore libico Gheddafi, salvo poi a distanza di tempo scatenargli contro una guerra culminata in una vera e propria caccia all’uomo: Sarkozy rideva di Berlusconi, ma non era certamente meglio di lui.  Berlusconi non può ritenersi ripagato dal mal comune mezzo gaudio: forse lui non aveva bisogno dei soldi di Gheddafi, ne aveva abbastanza dei suoi, accumulati con operazioni speculative, con storici appoggi politici e facendosi, con la discesa in politica, protettore di se stesso.

Trump avrebbe brigato con la Russia di Putin per andare al potere: non lo sapremo mai fino in fondo. Lui intanto si diverte a giocare alla playstation con il paffuto dittatore nordcoreano, a corteggiare i sottanoni arabi, a romper le palle all’Europa, a sparare cazzate a salve.  Ora sembra che esista un vero e proprio mercato clandestino di notizie, su cui costruire il consenso, che riguarderebbe tutti i Paesi: una sorta di “grande fratello planetario”, tramite il quale verrebbero direttamente o indirettamente truccate le elezioni.  Mal comune, mezzo gaudio per Trump? Mal comune, intero disastro per tutti!

Vladimir Putin, forse il più grande carnefice spionistico di tutti i tempi, continuerebbe a brigare in tal senso. La Gran Bretagna glielo sta rinfacciando e lui si avvale di questo scandaletto per ancor meglio assestarsi sul trono, istigando la reazione popolare perfettamente in linea con lo storico nazionalismo russo. Mal comune mezzo gaudio per Putin e per il governo inglese sputtanato dalla brexit? Direi piuttosto sputtanata comune, intera sconfitta per la democrazia!

Queste vicende procurano un senso di impotenza nell’uomo della strada e innescano una reazione a catena nel senso della irresponsabilità, della sfiducia e dell’egoismo. Se i governanti si comportano così, che senso ha votare, partecipare, pagare le tasse, combattere per la giustizia, manifestare per la pace?  Se bastano i pruriti di un capo di stato per scatenare guerre, vale la pena battersi per un diverso ordine mondiale? Se basta una fialetta fasulla sventolata al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per dichiarare guerra all’Iraq, cosa valgono tutti i discorsi sull’antiterrorismo islamico? Non finiranno per essere la foglia di fico per coprire i terrorismi di stato? Il terrorismo islamico sta forse diventando il pretesto per scatenare un nuovo colonialismo riveduto e scorretto? Domande che, da uomo della strada, mi sto facendo. Il fatto più grave però consiste nella mancanza totale di leader con un minimo di credibilità e di valori di riferimento condivisi su cui puntare per ribellarsi allo status quo. Se la storia ci ha sempre consegnato equilibri bellicosi e ingiusti, gli ideali ci hanno indotto a combattere, pur tra mille errori, contro quello che può sembrare un destino inesorabile. Passiamo in silenziosa rassegna i personaggi sulla scena mondiale e ci accorgeremo del nulla piegato nella carta planetaria. L’unico appiglio per avere un filo di speranza mi sembra papa Francesco. E dopo di lui? Il diluvio!

 

I valori bolliti

Tutti i giorni mi riprometto di non seguire più il ciarpame dibattimentale del dopo-elezioni. Poi ci casco, anche perché vivo in questa società e devo pur tentare di capire cosa sta avvenendo in essa in chiave politica. Persino i più credibili protagonisti diretti sulla scena nonché i cosiddetti osservatori più acculturati ed impegnati sono comunque caratterizzati da una visione pragmatica, avulsa da ogni e qualsiasi richiamo ideale e valoriale: sembrano quasi aver paura di volare alto e rimangono ancorati alla bassa macelleria.

A destra hanno l’ansia da prestazione: devono cioè dare segnali di continuità rispetto alle promesse sbandierate e quindi, non disponendo nemmeno in prospettiva, se non nella loro fantasia malata, delle armi governative, sono costretti ad alzare i toni demagogici sui soliti temi, che purtroppo fanno presa su un elettorato sprovveduto e pressapochista. I grillini e i loro supporter mediatici in opportunistica crescita non possono prescindere dal loro moralismo, che non ha nulla da spartire con gli ideali democratici. A sinistra si rischia di rimanere imprigionati nello schema “disponibilità sì, disponibilità no”, prescindendo da una seria e critica analisi sull’essere di sinistra in una società cambiata, ripiegando su vecchi arnesi del mestiere o sui richiami della foresta piuttosto disboscata o su un modernismo improvvisato e tattico.

Quando si (s)parla di immigrazione non si parte dal rispetto della persona umana che ha la sventura di vivere in certi paesi; non si pensa che la situazione di grave ingiustizia verso queste popolazioni l’abbiamo creata noi chiudendo gli occhi sulle loro miserie, perché ci conveniva dimenticare che, mentre noi ci arricchivamo (probabilmente fra i più feroci anti-immigrati ci saranno commercianti e artigiani che nei decenni passati, anche non pagando le tasse, hanno realizzato utili tali da comprare un appartamento all’anno), c’era in tante parti del mondo chi si impoveriva; si finge di non capire che la politica dei respingimenti tout court oltre che eticamente inammissibile è praticamente irrealizzabile; si vuole addebitare agli immigrati un problema di delinquenza connaturale alla nostra società (la delinquenza nostrana non ha nulla da invidiare, qualitativamente e quantitativamente a quella d’importazione); si tendono a gonfiare a dismisura i dati di un fenomeno importante ma non esiziale e soprattutto non legato, se non nelle paure immotivate, alle nostre insicurezze esistenziali, sociali ed economiche.

Quando si (s)parla di reddito di cittadinanza non si parte dal diritto della persona ad un lavoro dignitoso e tale da garantirle una vita decorosa; non si ammette che abbiamo costruito un sistema che non riesce a valorizzare il lavoro e che quindi bisogna rivedere certi meccanismi di accumulazione del capitale privato e di impiego di quello pubblico; ci si limita a ipotizzare fantastiche politiche meramente assistenziali che, tra l’altro hanno dato pessima prova e ottenuto pessimi risultati proprio in quel Sud-Italia storicamente fuorviato da promesse non mantenute e da appoggi sprecati.

Mi limito ai due filoni principali di problemi, quelli che, secondo gli esperti hanno comportato il recente clamoroso (?) risultato elettorale.  La carenza di riferimenti valoriali nell’interpretare e fare la politica è purtroppo totale e generale. In questo atteggiamento spaesato mi sento peraltro molto solo. Forse sono un visionario, forse un nostalgico, forse un romantico: di tutto un po’ e non me ne vergono, anzi me ne vanto.

Abbiamo bisogno di tutti

“Merkel e Macron si preoccupino di tedeschi e francesi. Dell’Italia si occuperanno gli italiani. Non abbiamo bisogno di lezioni da altri e tantomeno da loro”. Così dice Matteo Salvini e, dopo aver letto questa dichiarazione, non posso essere che ulteriormente d’accordo col segretario reggente del Pd, Maurizio Martina, il quale afferma che un governo M5S-Lega sarebbe pericoloso.

È inutile nasconderlo, sento nell’aria puzza di orgoglio nazionalista: si tratta di un prerequisito, che, associato all’intolleranza verso gli immigrati e alla qualunquistica sfiducia nella politica e nelle istituzioni, ci può portare dritto-dritto incontro a sciagurate avventure di stampo neofascista.

Penso sia utile ricordare il comportamento di tre personaggi storici, che spiega cosa voglia dire autonomia decisionale e indipendenza di giudizio. Alcide De Gasperi ebbe l’umiltà e la capacità di far accettare l’Italia nel consesso delle nazioni dopo la sciagurata vicenda nazi-fascista, culminata nella disastrosa sconfitta della seconda guerra mondiale (fu addirittura complimentato dal rappresentante inglese e Dio solo sa quanta supponenza abbiano gli inglesi). Aldo Moro seppe avviare una fase di coinvolgimento dei comunisti al governo contro la prevenuta ostilità del governo americano, impersonificata soprattutto da Henry Kissinger (e ne soffrì le conseguenze sulla propria pelle). Sandro Pertini, difendendo la dignità e la serietà del popolo italiano, da Presidente della Repubblica ripeté più volte, con grande autorevolezza e credibilità, ma senza ostilità verso alcuno, che gli italiani non sono primi né secondi a nessuno (lui aveva le carte in regola per poterlo affermare).

Nessuno può dire, a livello personale e tanto meno a livello internazionale, di non aver bisogno di lezioni dagli altri. Tutti abbiamo bisogno di tutti. Non sarà certo Matteo Salvini a cambiare la corretta etica nei rapporti umani. La presunzione e l’arroganza, che vanno sempre d’accordo con l’ignoranza, non possono che isolarci e squalificarci. Nella mia vita professionale ho vissuto la difficoltà nei rapporti, a livello regionale, fra la realtà parmense e quella delle altre province emiliane e romagnole: ho sempre rifiutato lo splendido (?) isolamento di chi si chiudeva di fronte a certi atteggiamenti un tantino prevaricatori. Bisogna confrontarsi, collaborare, ammettere le proprie lacune, impegnarsi, ascoltare, prendere esempio, discutere, partecipare: questa è la democrazia. Così facendo ho sempre trovato accoglienza, disponibilità ed aiuto da chi era più avanti. Lavoravo nel movimento cooperativo e l’Emilia-Romagna ne era ed è tuttora la punta di diamante. Ad un convegno nazionale gli emiliani presentavano le loro esperienze sui vari argomenti. Ad un certo punto, un cooperatore di altra regione sbottò di brutto e manifestò il proprio fastidio. Gli pesava ascoltare e forse anche imparare. Non si fa così. Può darsi che chi è più avanti esprima, volontariamente o meno, un certo senso di superiorità: è umano. I primi della classe a volte sono insopportabili, ma non bisogna esorcizzarli, al contrario bisogna utilizzarli nella loro effettiva superiorità e convincerli a lasciar copiare il compito.

Paolo VI alle “strane” esequie di Aldo Moro, con parole che non finiscono mai di commuovere, lo definì un uomo (prima che un politico) buono, mite, saggio e amico. La cattiveria, l’aggressività, l’invadenza, l’insipienza, la sventatezza e l’inimicizia di questi nuovi e pericolosi salvatori della Patria, che possono anche fare scalpore e ottenere consenso, non ci porteranno da nessuna parte. Ne sono più che sicuro!

 

La sagra degli incapaci

Dalle rievocazioni della vicenda Moro emerge di questo personaggio la (quasi) incredibile capacità, peraltro pagata assai cara sulla propria pelle,  di coniugare le esigenze ideali della politica con quelle pragmatiche dell’esercizio del potere, di credere negli equilibri politici italiani pur tenendo nel debito conto le esigenze di quelli internazionali,  di rispettare la trasparenza istituzionale pur ammettendo il male necessario dei servizi segreti, di conservare la compattezza della sua  e delle altre forze politiche guidandole tuttavia in un progressivo percorso di maturazione e sviluppo democratico, la difesa, a volte addirittura orgogliosa, del primato della politica rispetto alle spinte populiste e giustizialiste, la imprescindibile considerazione del ruolo dei partiti e delle istituzioni pur nell’apertura costante verso i fermenti della società, la difesa del ruolo dei cattolici nella vita repubblicana in una visione laica della politica, il giudizio grave del comunismo associato alla scommessa di aiutare il comunismo italiano ad evolvere ed a maturare pienamente sul piano democratico.

Siamo di fronte ad un autentico capolavoro purtroppo incompiuto. Senza volere nostalgicamente rievocare le altezze della politica morotea, occorre ammettere, in estrema sintesi, che per governare non basta il consenso (DC e PCI avevano circa il 75% dei voti quando votava il 90% dei cittadini): la Democrazia cristiana non si chiuse mai a riccio, aprì la collaborazione prima ai partiti di centro, poi ai socialisti poi addirittura ai comunisti; il partito comunista  accettò per decenni un ruolo minoritario senza assumere iniziative anti-politiche o anti-istituzionali (persino dopo l’attentato a Togliatti).

Non basta raccogliere il consenso, ma occorre saper interpretarlo e gestirlo, bisogna cioè essere capaci di governare. Ed è qui che casca l’asino delle forze politiche uscite vincenti dalle urne del 04 marzo scorso. Hanno raccolto quasi il 70% dei consensi dell’elettorato, ma non sanno utilizzarlo per il bene del Paese, girano a vuoto, si passano la patata bollente, si ha la netta sensazione che non ci saltino fuori. Parlano persino di nuove elezioni, ostentano la certezza di aumentare i loro consensi, ma sotto sotto sanno benissimo di rischiare grosso. Un amico osservava acutamente che forse il problema frenante per la formazione di un nuovo governo è quello della ricerca dei fondi per far tornare i conti pubblici nei parametri fissati dall’Unione Europea. A parole i miliardi di euro fioccano come la neve pre-elettorale, nei fatti trovarli è impresa ardua.

Ho volutamente banalizzato il discorso per rendere l’idea della difficoltà di governare e dell’incapacità a farlo da parte del M5S e della Lega: se si mettessero insieme, sommeremmo due impreparazioni che non consentirebbero comunque di superare l’esame.  La politica si sta avvitando attorno al nulla. Anche il più disponibile e tollerante dei professori non potrebbe assegnare neanche un misero diciotto: temo dovrà rimandare tutti alla prossima sessione d’esami. Nel frattempo? La politica non si ferma in tutti i suoi aspetti: l’economia attende segnali e provvedimenti, l’Europa aspetta un interlocutore affidabile, il mondo esige il nostro protagonismo pena una disastrosa irrilevanza internazionale, i problemi sociali richiedono risposte realistiche ed adeguate.

La campagna elettorale, in un mondo post-ideologico, dovrebbe servire proprio per fare ai partiti i test sulla loro capacità di governo: ad un check up approfondito si è preferita una banale e superficiale visita pseudo-medica. Si è fatto come quando si sta male e si dà tutta la colpa alla stagione. Nel caso si è data la colpa al PD e soprattutto a Renzi. Ho sempre seriamente dubitato di quei professionisti che per conquistare nuovi clienti sparano a zero sul lavoro di chi li ha preceduti e concedono tariffe molto ribassate. Gli utenti spesso ci cascano e dopo qualche tempo si accorgono di essere caduti quanto meno dalla padella alla brace, ma è tardi e i danni sono irreversibili, indietro non si torna e avanti non si va.

I menestrelli dell’anti-storia

In uno dei tanti asfittici dibattiti televisivi sul dopo-elezioni, ne ho sentita una veramente “bella”, sorprendentemente detta da un giornalista di spessore, vale a dire da Vittorio Zucconi. Non ho capito se fosse alla disperata ricerca dell’originalità, quasi a voler battere due a zero l’elettorato che quanto a originalità(?) non è secondo a nessuno, oppure se fosse coinvolto, suo malgrado, nell’autentico casino cultural-politico scoppiato il 04 marzo scorso, una confusione in cui non ci si raccapezza più e tutti, per lo meno molti, sembrano divertirsi.

Quando si vuol esprimere che uno la dice grossa, si dice eufemisticamente che ha bestemmiato in cattedrale. Ebbene Vittorio Zucconi ha bestemmiato su la7 con grande nonchalance. Per avvalorare l’ipotesi di un accordo di governo tra centro-destra (bisognerebbe cominciare a chiamare le cose col loro nome: Lega) e M5S (anche qui sarebbe meglio parlare fuori dai denti e dire: grillini), ha scomodato il compromesso storico tra DC e PCI e gli accordi di governo che lo iniziarono per mai finirlo. Solo uno dei suoi interlocutori ha avuto il buongusto di eccepire la differenza tra le due prospettive politiche, facendo almeno notare la differenza abissale dei protagonisti: da una parte la lungimirante, lucida e costituzionale visione di Moro e Berlinguer, dall’altra la meschinetta, opportunistica e pressapochistica menata di Salvini e di Maio.

Cosa c’entri il compromesso storico con l’eventuale accordo antistorico tra grillini e leghisti in vena di scherzare col fuoco è difficile capirlo: me lo dovrebbe spiegare Zucconi. Nella notte politica in cui siamo sprofondati tutti i gatti sono bigi, più uno la spara grossa e più viene ascoltato, la storia è diventata un optional, la nebbia qualunquista avvolge tutto. Noto da parecchio tempo come ci sia in atto un allineamento dell’informazione, anche quella più culturalmente pretenziosa, all’andazzo protestatario che sta montando e scalando il Paese: si liscia il pelo ai cittadini in vena di buttare tutto all’aria, si segue l’acqua che corre, ci si prepara al peggio, si lega l’asino dove vuole l’ipotetico, nuovo e imprevedibile padrone.

Tutto dovrebbe però trovare un limite invalicabile nella memoria storica di un passato che ci interpella e ci presenta il conto. Generalmente è il presente che chiede conto al passato, ma nel caso della politica italiana è il passato che fa arrossire di vergogna i contemporanei. Se leghisti e grillini avranno l’impudenza di mettersi d’accordo tramite il compromesso più basso possibile ed immaginabile, non cerchino scuse in un passato, che non è certo tutto fulgido, ma nemmeno utilizzabile per una rincorsa verso l’ignoto. Un mio simpatico ma impreparato compagno di classe alla precisa domanda del professore su verso cosa guardasse un personaggio della Divina Commedia (non ricordo quale), rispose: “Verso grandi orizzonti…”. “Sì, ribatté l’insegnante, verso orizzonti di non studiare…vai al posto!”. Ma anch’io non fui da meno e durante un compito in classe di storia, mi trovai alle prese con un preciso quesito: cosa pensa Dante Alighieri di Federico Secondo? Non ci saltavo fuori e bisbigliai una richiesta di aiuto ad un compagno posizionato vicino al mio banco, il quale sentendosi controllato a vista, non poté far altro che suggerirmi un generico “pensa bene” su cui lavorai vergognosamente di fantasia. Vorrei chiedere a Vittorio Zucconi dove guardavano Moro e Berlinguer e dove guardano Salvini e Di Maio e soprattutto cosa pensa di questi improvvisati aspiranti statisti usciti dalle urne. Vorrei tanto sperare che non mi rispondesse con un generico “penso bene”.

 

 

 

Il suicidio è un fatto sconvolgente

Torno con la mente (lo faccio spesso) alla morte tragica di Bianca, una mia indimenticabile zia, rimasta vedova prematuramente, colpita da una malattia senza scampo, che la distrusse psicologicamente portandola alla disperazione ed al suicidio: lei così allegra e gioiosa, decise di farla finita, lasciando tutti nel comprensibile sgomento. Ricordo il dolore pieno di nostalgia di mia madre: si rimproverava di non esserle stata sufficientemente vicina, immaginava la scena del suicidio e della sofferenza precedente al gesto estremo, visse per parecchio tempo con un senso di vuoto attorno a sé e dentro di sé, si sforzava di consolare i nipoti rimasti attoniti e sconvolti dall’accaduto.

Il suicidio è una scelta che tocca sempre i nostri nervi scoperti, che ci mette sempre e profondamente in crisi, che ci pone drammaticamente davanti alla realtà nuda e cruda della nostra esistenza, alla responsabilità sulla nostra ed altrui vita. Quando poi a togliersi la vita è un personaggio pubblico, siamo costretti a rivedere tanti nostri schemi di giudizio. Succede a Parma in questi giorni in conseguenza del gesto estremo dell’ex rettore dell’Università di Parma, Loris Borghi.

Innanzitutto voglio vedere il fatto dal punto di vista umano e religioso. Pensare alla disperazione che avrà provato mi sconvolge. Probabilmente, dopo essere stato indagato e rinviato a giudizio per reati commessi nell’esercizio della sua pubblica ed importante funzione, innocente o colpevole che fosse (in queste vicende, anche in caso di colpevolezza, oltre tutto esiste quasi sempre un miscuglio di ingenuità, di omertà, di opportunismo, di favoritismo, di pressapochismo, in cui è difficilissimo colpire nel segno) era stato o si era sentito abbandonato da tutti. Non da Dio che lo avrà accolto con tanta dolcezza. Senza indagini, senza processo, senza incriminazioni, considerando solo il bene che avrà sicuramente fatto nella sua vita di uomo impegnato soprattutto nella professione medica, nell’insegnamento, nell’università. Guardo con grande rispetto alla scelta di una persona che decide di “farla finita”, non retrocedendo fariseicamente il gesto alla follia di un momento, ma considerandola in tutto il suo drammatico significato, anche religioso: un grido di ribellione al dolore che si fa insopportabile e che solo Dio può capire, dal momento che ha deciso di condividere fino in fondo la nostra sofferenza.

Sul piano etico dobbiamo imparare molte cose: a non giudicare (chi sono io per giudicare?), lasciandolo fare a chi di dovere, a non infierire quando una persona viene colta in fallo, a prendere il meglio dalle persone, a capire i drammi altrui, a pensarci bene prima di squalificare e rottamare, a distinguere fra giudizio politico e condanna, fra critica e dileggio, fra desiderio di fare pulizia e soddisfazione nel buttare tutto all’aria, fra giustizia vera e giustizia sommaria, fra diritto di cronaca, insinuazioni e diffamazioni, fra indagini e condanne, fra avvisi di reato e sentenze.

Il rispetto per la persona non vuol dire assolvere tutto e tutti, coprire la corruzione con una vernice buonista, ma nemmeno esaltarsi al tintinnar delle manette alla ricerca sbrigativa del capro espiatorio. Il marciume nella nostra società è molto presente e diffuso, deve essere scovato e combattuto seriamente, anche andando contro corrente quando necessita, a costo di rimetterci di persona. Ciò non vuol dire, prescindendo dalle vicende giudiziarie di Loris Borghi, dare superficialmente voce e credibilità a subdole ricostruzioni della (non) verità, cedere alla malignità che può condurre a confondere la denuncia delle vere manovre di palazzo con l’invenzione di manovre di palazzo, gettare fango a raffica, farsi prendere dall’ansia del “retroscenismo” a tutti i costi ed ancor meno dal puntiglio di vedere sempre, comunque e dovunque il lato sporco della situazione.

In conclusione cito un episodio (sempre senza fare parallelismi con la vicenda giudiziaria del professor Borghi), riportato da Mattia Feltri e ascoltato nella rassegna stampa di radio radicale, da cui risulta come un vecchio contadino abruzzese, padre di Ignazio Silone, abbia rimproverato aspramente il figlio bambino allorché rise di un cencioso detenuto, che veniva condotto in manette  dai carabinieri: gli disse che non doveva ridere innanzitutto perché quella persona in catene non poteva difendersi, in secondo luogo perché forse era innocente e da ultimo in quanto era un infelice che comunque meritava rispetto. Una mirabile lezione etica sulla differenza tra giustizialismo e giustizia, tra giustizia intesa come scrupolosa ricerca della verità e sbrigativa vendetta populista, tra diritto di cronaca e gogna mediatica, tra pena carceraria e rottamazione del condannato, tra privazione della libertà e tortura, tra detenzione e recupero del detenuto.

 

 

 

Attentato a Moro: una ferita inguaribile

Il 16 marzo 1978 la storia italiana prese una bruttissima piega che condiziona tuttora e condizionerà per sempre la nostra politica: finisce in quel triste giorno l’alta politica iniziata con la resistenza al fascismo e proseguita nel secondo dopoguerra con il patto costituzionale, con il progressivo allargamento dell’area governativa dal centro verso sinistra, con l’assorbimento parlamentare dei fermenti sociali, col dialogo tra cattolici e socialisti prima e comunisti poi. Ho citato quattro passaggi fondamentali della vita democratica del nostro Paese, di cui Aldo Moro è stato profeta, protagonista e vittima sacrificale.

La storia non si fa con i se, tuttavia se Moro non fosse stato rapito ed assassinato, non avremmo avuto il patto tra democristiani di retroguardia e socialisti dall’arrampicatura facile (è il Caf, il patto di potere fra Craxi, Andreotti e Forlani); il Craxismo non avrebbe conquistato la scena politica imprigionando la sinistra in un sinistro gioco di potere; la corruzione non sarebbe arrivata al punto da essere quasi istituzionalizzata trascinando la Repubblica nel gorgo dell’affarismo devastante; non ci sarebbe stato spazio per il berlusconismo e forse nemmeno per il leghismo e via discorrendo.

Perché? Moro aveva varato una strategia, di cui era l’indispensabile garante verso tutti, che puntava alla piena democratizzazione del PCI attraverso successive fasi di coinvolgimento a livello governativo, per arrivare all’alternanza tra le due forze democratiche fondamentali, quella cattolica e quella comunista, capaci di condividere i valori fondanti della nostra democrazia alla luce della Carta Costituzionale, ma in grado di interpretare diversi approcci governativi per una società in evoluzione. Di questa prospettiva strategica Moro era l’insostituibile pilastro: verso la DC ed il suo elettorato di cui intendeva mantenere l’unità e verso il partito comunista a cui voleva allungare in modo credibile e leale una mano di dialogo, condivisione, collaborazione e contrapposizione.

In vita aveva parecchi detrattori che tentavano di squalificarlo con le solite menate del politico ingarbugliato e logorroico, del governante ritardatario e perditempo, del personaggio opaco e fumoso. In realtà sapeva essere lungo nella visuale, paziente nell’ascolto e nel dialogo, complesso nelle analisi, deciso nei momenti topici, netto nei giudizi a costo di essere impietoso, scettico verso le sbrigative e semplicistiche generalizzazioni.

Non sapremo mai chi abbia veramente ispirato e realizzato l’attentato a Moro, certo chi lo fece aveva le idee chiare e intendeva interrompere irreversibilmente la suddetta strategia, che dava fastidio a molta gente a livello mondiale e nazionale: in molti avevano interesse a relegare la DC nella sterile bottega reazionaria e a confinare il PCI nella velleitaria piazza di pura lotta. Raggiunsero direttamente o indirettamente l’obiettivo e la storia prese un indirizzo diverso. Purtroppo il patrimonio fondamentale del cattolicesimo democratico e del comunismo dal volto umano non sono stati messi a frutto: ne sortì un bipolarismo assai imperfetto, che non ha retto alla prova dei fatti e che ci consegna ancor oggi un’Italia divisa e ingovernabile.

Ho un ricordo preciso del 16 marzo 1978: capii che stava succedendo qualcosa di grosso a cui bisognava rispondere rinserrando le fila, partendo dal tessuto civile del Paese, che rischiava una lacerazione profonda e inguaribile. A livello professionale avevo l’incarico di coordinare gli uffici che erogavano servizi amministrativi alle cooperative di ispirazione cristiana. Riunii, con il placet del direttore, tutti i colleghi e, se la memoria non mi tradisce, suggerii di reagire al terribile momento, partendo dal basso, dal lavoro, dallo svolgere al meglio la propria funzione, peraltro inserita in un mondo fortemente motivato dal punto di vista sociale ed economico. Nei momenti più difficili bisogna infatti aggrapparsi alle realtà forti, ai valori fondamentali: il lavoro è certamente questo. Era in gioco la democrazia e la democrazia si difende facendo innanzitutto ed onestamente il proprio dovere. Il resto è storia in cui fortunatamente non andò in crisi la democrazia che ne rimase tuttavia segnata indelebilmente: il cadavere di Moro, rannicchiato in quella Renault di colore rosso, mi dà ancora i brividi, mi commuove nel profondo della mia coscienza democratica e mi conferma nel senso politico che continua a caratterizzare la mia vita.

Salotti e cucine

Sono sinceramente stanco di ascoltare le superficiali analisi sociologiche sulla perdita di consensi della sinistra in tutto il mondo: in poche parole avrebbe rinunciato al proprio ruolo di interprete autentico dei bisogni popolari per rifugiarsi nella comoda e salottiera difesa dello status quo con qualche rigurgito di vitalità orientato solo al discorso dei diritti civili.

In effetti sono saltati molti schemi: quelli ideologici (comunismo e anticomunismo), quelli sociali (proletariato e borghesia), quelli pragmatici (i periodi di crisi alla sinistra che riesce ad imporre sacrifici, i periodi di crescita alla destra che consente gli affari), quelli religiosi (clericalismo e laicismo), quelli etici (onesti e corrotti), quelli culturali (intellighenzie sistemiche e intellettualismo organico), quelli economici (liberismo e statalismo), quelli internazionali (nazionalismo e mondialismo), quelli commerciali (protezionismo e libero mercato).

In mezzo a questo rimescolamento di carte l’elettore è confuso e tende a ripiegare su scelte contingenti, egoistiche e semplicistiche. Ha perso il senso della politica, aiutato peraltro dai fenomeni degenerativi della stessa: corruzione, affarismo, mediatizzazione. Fatica a trovare risposte complessive e strategiche: brancola nel buio e si accontenta pertanto di promesse immediate e roboanti.  Non ha tempo, voglia e strumenti per analizzare criticamente le proposte che gli arrivano e quindi sposa quelle apparentemente più risolutive, senza considerare che anche in politica “presto e bene stanno male insieme”. Le generazioni più attempate si creano le proprie opinioni sotto la guida televisiva (un finto pluralismo informativo fine a se stesso quando non prezzolato o pesantemente condizionato), le giovani generazioni giocano coi social e corrono a destra e manca senza valori di riferimento.

Il tutto avviene in un quadro globale o globalizzato, dove tutto sembra passare sulla testa delle persone che non riescono più a capire assetti e strutture e dove diventa spontaneo perdere la bussola dietro opachi equilibri internazionali, guerre continue, terrorismo dilagante, separatismi e nazionalismi risorgenti, disastri climatici. Dulcis in fundo la crisi economica che ha precarizzato il lavoro, automatizzato le produzioni, scombussolato le aziende e le loro localizzazioni, imposto sacrifici, divaricato ulteriormente la posizione di ricchi e poveri, creato il panico.

In questa situazione così complicata è normale che trovino udienza le forze politiche estremiste (quelle che propongono cambi sistemici) e populiste (quelle che strumentalizzano le pulsioni emotive della gente), mentre vanno in crisi i partiti tradizionali (i socialisti riformisti e simili nonché i liberal-conservatori). Il problema quindi non sta nella distrazione socialista, che guarda in alto anziché sporcarsi le mani in basso, ma nella difficoltà a recuperare il governo dei processi dando prospettive credibili alla gente. Non sarà un cammino in discesa e tanto meno breve: a livello mondiale si sta instaurando un regime, quello populista alla Trump, e per abbattere un regime occorre tempo, non si recupera il consenso in un batter d’occhi, cambiando frettolosamente le leadership e vendendo aria fritta (c’è già chi la vende a un prezzo imbattibile). Occorre che le persone ritornino a ragionare, riprendano il filo della politica da dove lo avevano abbandonato, tocchino con mano la debolezza del nuovo che non cambia nulla e ritornino ai valori fondanti e storici della democrazia rappresentativa (miglior sistema non esiste).

Per la sinistra non regge nemmeno l’illusione del recupero quasi ideologico: tornare ai vecchi schemi per mobilitare gli elettori di un tempo. I vecchi schemi sono saltati e gli elettori di un tempo chissà dove sono finiti. È la sciocca scorciatoia di libertà e uguaglianza (LeU), che non ha portato da nessuna parte, anzi ha creato ulteriore confusione e smarrimento. Non c’è quindi un problema di salotti da smantellare e di piazze da riempire, ma semmai di cucine da rimettere in funzione, di luoghi di dialogo da inventare, ossia di una mentalità da cambiare e di una politica da rifondare a livello di domanda e di offerta. Quando la mia famiglia si trasferì all’inizio degli anni sessanta del secolo scorso in una nuova abitazione, mio padre voleva prendersi qualche rivincita psicologica e annetteva importanza al salotto (stanza inesistente nelle abitazioni del tempo andato), mentre mia madre stava più coi piedi per terra e desiderava comunque una cucina comoda ed abitabile. Il tempo diede ragione a lei, perché la vita familiare si svolse soprattutto in quella stanza. Ma il problema non stava e non sta nella scelta della stanza: vale anche per l’appartamento della politica, senza illudersi che basti cambiare stanza per stare meglio. I sociologi si mettano il cuore in pace, occorre una nuova città, un nuovo quartiere, una nuova costruzione, una nuova abitazione.