Salvini, lo “zaretto” di periferia

Se la politica italiana nel secondo dopoguerra ha indiscutibilmente qualcosa di cui vantarsi, lo deve alle scelte fondamentali di campo a livello internazionale. L’opzione occidentale, l’adesione alla Nato, la progressiva costituzione dell’Europa, l’apertura verso i Paesi Arabi, la disponibilità al dialogo con tutti nella chiarezza e nel rispetto dei diritti umani rappresentano un curriculum di altissimo livello per un Paese, oltre tutto, uscito sconfitto e distrutto da una guerra, scatenata quale ultimo anello delle nefandezze nazifasciste. Merito soprattutto della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati di governo.

La cosiddetta seconda repubblica cominciò a sbandare per le zigzaganti e demenziali tattiche berlusconiane verso Putin e Gheddafi, per gli assurdi protagonismi di un centro-destra alla ricerca del freddo per il letto in Europa e nel mondo. Messo finalmente a tacere Berlusconi, che ci aveva trascinato nel ridicolo, si sperava in un ritorno alla normalità nei rapporti internazionali e in effetti i cinque anni di governo guidato da uomini del PD hanno restituito all’Italia considerazione e ruolo.

Secondo i politologi (come i meteorologi non ne azzeccano una), sarebbe iniziata, con le elezioni del marzo scorso, la terza repubblica, ancora tutta da scoprire con l’ansia e la preoccupazione del caso. I vincitori usciti dalle urne, in qualsiasi modo riescano a trovare la quadra, si presentano in modo equivoco di fronte agli scenari di politica estera. Non si capisce quale sia la linea nei confronti dell’Unione Europea, che oscilla tra un deciso antieuropeismo, un oscuro scetticismo, un assurdo orgoglio nazionalista, un formale e debole possibilismo. Vi è poi un acritico ed ammiccante appiattimento populista sulle strategie trumpiane, che non riesce a guardare molto più in là dell’identità del proprio naso.

Il punto più inquietante è tuttavia l’atteggiamento simpatizzante verso la Russia di Putin, o meglio sarebbe dire, verso Putin. Salvini e Le Pen si accreditano come interlocutori populisti di questo macellaio comunista, riciclato in salsa autoritaria. Ho ascoltato autorevoli esperti di storia contemporanea definirlo non tanto populista, ma zarista, vale a dire un personaggio che governa come monarca assoluto in patria, come imperatore a livello internazionale, come spietato e autoritario leader a vita, come capo di una vera e propria mafia di potere.

Cosa ci possa essere di interessante e di positivo nei rapporti con questo “zar” non è dato capirlo: fatto sta che Salvini, nel suo folle ed ignorante protagonismo, ammantato di vuoto pragmatismo, non perde occasione per dare autentiche “leccate” a Putin e per distinguersi al riguardo dagli altri Paesi Europei. I grillini, a livello internazionale e non solo, ci hanno abituato ai loro irresponsabili traccheggiamenti spacciati da pacifismo strisciante, mentre in realtà sono soltanto opportunistiche e squallide posizioni omertose. Un tempo esistevano dei punti irrinunciabili nella politica estera, oggi tutto sembra in discussione, non tanto per i profondi cambiamenti avvenuti con la globalizzazione del sistema, ma per le faziose incertezze di aspiranti governatori.

Vorrei capire cosa c’entri l’incidente diplomatico creato dallo sconfinamento della dogana francese con il durissimo scontro Russia-Occidente in materia spionistica. Eppure Salvini sostiene che piuttosto di espellere eventualmente i funzionari dell’ambasciata Russa, sarebbe meglio espellere l’ambasciatore francese. Si dichiara sbrigativamente contrario a sanzioni verso Mosca, ritenute assurde e foriere di danni alla nostra economia, senza un minimo di considerazione per i Paesi alleati, che stanno portando avanti una politica di duro scontro con Putin. Non esistono regole ed alleanze, ognuno, come sostiene Trump pensa per sé.  Il tutto si potrebbe interpretare come il delirio di un politicante da strapazzo, se questo signore non fosse in predicato di governare, solo o in pessima compagnia, lo Stato italiano.  Forse gli elettori italiani hanno confuso l’Italia con una penisoletta padana ad ispirazione elvetica. Forse gradiscono una “zaretto” purchessia, che dia loro la triste illusione di fare grande il Paese, secondo schemi tragicamente superati dalla storia

La tempesta nel bicchiere razzista

Venerdì 30 marzo 2018, intorno alle ore 21, la Polizia doganale francese ha fatto irruzione in un centro migranti di Bardonecchia, in provincia di Torino: quattro agenti sono entrati nel centro, che si trova nei locali della stazione ed è gestito dalla ong Rainbow for Africa, accompagnando un uomo nigeriano per fargli produrre un campione di urina in bagno. Gli agenti sospettavano che si trattasse di uno spacciatore, ma il campione è risultato negativo e l’uomo è stato rilasciato. Secondo Rainbow for Africa, entrando nel centro, gli agenti armati hanno intimidito un medico, i mediatori e gli avvocati.

Non sono un esperto di diritto internazionale e non conosco le norme comunitarie inerenti la materia, non mi sento quindi di dare un giudizio sull’eventuale sconfinamento della polizia francese e sulla regolarità o meno dell’intervento. L’episodio mi sollecita tuttavia alcune riflessioni di carattere etico e politico. È innegabile una tendenza a trattare i migranti come individui senza diritti e ad intervenire su di essi con una certa disinvoltura di carattere poliziesco: tutto ciò è conseguenza di un clima ostile, che raggiunge talora punte di vero e proprio atteggiamento razzista. Risulta quindi ipocrita la scandalizzata reazione della pubblica opinione: chi semina vento raccoglie tempesta.

Ancor più curiosa è la polemica innescata da certe forze politiche italiane, le quali, dopo aver predicato contro gli immigrati, assimilati, più o meno, a barbari invasori da cui difendersi, si ergono a difensori del diritto, soffiando sul fuoco dell’incidente diplomatico, approfittando dell’occasione per attaccare la Francia e l’Europa. Della serie: l’immigrato è mio e lo gestisco (?) io. Certo la Francia non brilla per accoglienza e l’Europa scarica il problema sui Paesi geograficamente più esposti. Probabilmente questa polemica diventerà l’armadio dentro cui nascondere i cadaveri di una politica meschina verso il fenomeno migratorio.

C’è chi vorrebbe espellere gli ambasciatori francesi anziché quelli russi (in conseguenza della vicenda spionistica), chi vorrebbe fare dell’episodio un’occasione per fare la Ue ladra, chi, per non sapere né leggere né scrivere, dà tutta la colpa alla sinistra. Se c’è stato uno sconfinamento della polizia francese, probabilmente uno dei soliti atti della “stronzaggine transalpina”, c’è anche una vergognosa strumentalizzazione politica dell’accaduto. Il M5S si indigna (ti pareva…), la Lega non accetta lezioni da Macron (anziché Lega Nord la chiameremo Lega dei Bravi), Fratelli d’Italia sposa la causa a livello nazionalistico (è il minimo che potesse fare…), Forza Italia, per recuperare verginità a destra, attacca la sinistra (uniti sì, ma contro il PD), il governo italiano, chiamato in causa da tutti, alzerà la voce (giusto, ma non alziamola troppo, per amor di Dio e di patria).

Il sindaco di Bardonecchia dice: «Gli agenti francesi non avevano alcun diritto di introdursi dentro questo centro. Sono molto arrabbiato e amareggiato per ciò che è successo. Adesso è il momento di tornare a fare il nostro lavoro di medici, infermieri, mediatori, avvocati». La questione di diritto mi interessa poco e non mi sembra il caso di cavillare più di tanto. Anch’io sono arrabbiato e amareggiato, non tanto per l’episodio in sé, che mi sembra piuttosto marginale, ma per quanto sta a monte e a valle di questo incidente. Sono d’accordo sia meglio tornare tutti a lavorare per affrontare al meglio un fenomeno, che ci riguarda e che non possiamo coprire con la polvere di ridicole polemiche diplomatiche.

Al bar sport della sicurezza

In questi giorni pasquali, per i cospicui movimenti di gente a livello turistico, nonché per gli inquietanti risultati di indagini sul fenomeno terroristico, è venuto ancor più alla ribalta uno dei temi che condizionano l’approccio degli italiani alla politica, quello della sicurezza. Non è da sottovalutare, ma nemmeno da enfatizzare trasformandolo in vera e propria nevrosi da paura del delinquente in agguato. Il fenomeno della delinquenza va affrontato con lucidità e serietà. Attualmente i cardini su cui poggia l’analisi pressapochista da bar sport riguardano innanzitutto l’equivalenza “immigrato=delinquente”; in secondo luogo abbiamo la presunta impunità del delinquente, difficile da scovare e, una volta scovato, frettolosamente lasciato in libertà e, se mai incarcerato, trattato con i guanti e liberato con eccessiva magnanimità; in terzo luogo la mancanza di controllo e difesa a livello territoriale da parte delle forze dell’ordine e la conseguente necessità di allargare le maglie della legittima difesa.

Come noto, in campo meteorologico esistono la temperatura reale e quella percepita, che non coincidono quasi mai: la prima è oggettivamente rilevabile, mentre la seconda è influenzata da fattori più impalpabili, che tuttavia influiscono decisamente sulla sensazione complessiva. Questo discorso, almeno in parte, può essere riferito al tema della sicurezza, in cui mi pare giochino elementi assai poco reali, ma condizionanti.

I dati statistici sul fenomeno delinquenziale, visti nel loro andamento temporale e spaziale, se non erro, non giustificano assolutamente l’allarmismo dilagante. La tendenza a delinquere da parte degli immigrati sembra perfettamente in linea con quella degli italiani: a parità di reato, percepiamo però come più grave e devastante il comportamento di un delinquente africano rispetto ad un delinquente toscano.  Se proprio vogliamo andare su due terreni in cui la delinquenza degli immigrati prolifica, vale a dire la droga e la prostituzione, dobbiamo ammettere che la droga spacciata dagli africani è comprata e consumata da noi, che le prostitute di colore non sono sfruttate solo da loro connazionali senza scrupoli ma anche da italiani e soprattutto che sono italiani i loro clienti. E che dire delle condizioni di vita in cui releghiamo certe fasce di lavoratori immigrati, vittime di veri e propri racket organizzati e gestiti da italiani in doppio petto: se questi poveri diavoli finiscono per delinquere non è certo solo per colpa loro.

Non è vero che il carcere sia quel luogo di ricreazione che molti pensano, basti pensare a quanti suicidi avvengono dietro le sbarre. Una certa qual inerzia della magistratura è più percepita che reale: il magistrato infatti non può e non deve amministrare la giustizia facendosi guidare dalle paure dei suoi concittadini, ma dalla scrupolosa osservanza della legge. Non si può sbattere in galera il sospettato per stare tranquilli. Se andiamo poi sul discorso carcerario, dobbiamo sfatare un luogo comune: mettiamo la gente in galera e poi gettiamo via la chiave. Ho recentemente ascoltato un’acuta analisi di un avvocato penalista, il quale affermava come paradossalmente il discorso del carcere quale deterrente verso la delinquenza, funzionerebbe a condizione di condannare tutti all’ergastolo; diversamente, prima o poi il carcerato ritorna in libertà e, se non rieducato e recuperato, tornerà a delinquere con maggiore convinzione e spregiudicatezza. Si è sempre saputo e detto che il carcere è una scuola teorico-pratica di delinquenza. Bisogna quindi lavorare sul dettato costituzionale e puntare sulle pene alternative, sulle misure di rieducazione, su un sistema che non trasformi la certezza della pena in tortura del condannato.

E vengo al discorso della legittima difesa: vediamo negli Usa, dove il ricorso alle armi da parte dei privati cittadini è molto facile, cosa succede. Non possiamo trasformare le nostre abitazioni in fortini impenetrabili, diventeremmo noi per primi prigionieri di una simile impostazione. Non dobbiamo e non possiamo dare al cittadino una sorta di licenza di uccidere, ma solo la possibilità di difendersi in modo efficace ed equilibrato. Sono sicuro che chi è costretto all’autodifesa estrema porti comunque nella propria coscienza un segno: uccidere un nostro simile, anche il peggiore dei delinquenti, non è come sputare per terra. Cerchiamo di essere seri!

Usciamo quindi dal bar sport dove due più due fa cinque e torniamo alla realtà e alla politica, laddove so perfettamente che due più due non fa quattro, ma può solo cercare di avvicinarsi a quattro. Chi la racconta diversamente sa benissimo di mentire e chi la crede sa benissimo di sfuggire alla realtà e di illudersi sulla capacità degli asini a volare.

 

Lo strabismo dei politologi

La presente fase politica italiana, ma forse non solo italiana, è caratterizzata da una strana divaricazione di analisi tra l’acritica e banalizzante accettazione della prevalenza di una politica sostanzialmente di destra e la sofisticata e complicata ricerca sui motivi della debolezza della politica di sinistra. Assistiamo cioè, anche da parte degli stessi soggetti, alla quasi gossipara e fatalista presa d’atto di una deriva populista e, contemporaneamente, alla problematica e inesorabile critica verso il progressivo indebolimento della proposta politica riconducibile alla sinistra.

Si dà per scontato cioè che una visione reazionaria della politica possa essere vincente, mentre una politica progressista e riformista debba sudare quattro camice per trovare consenso e successo. In parte il motivo può essere ricondotto alla natura umana di per sé portata a privilegiare interessi particolari rispetto a quelli generali, a rinchiudersi nel proprio immediato tornaconto anziché aprirsi a prospettive di equità, giustizia e uguaglianza. Esiste però anche una sorta di schematismo di comodo in cui è scontato prendere atto della prevalenza della destra, per scaricare tutte le colpe sulla debolezza e incoerenza della sinistra.

Faccio un esempio. La destra cavalca l’opinione e lucra la reazione in tema di sicurezza. A nessuno viene in mente di contestare seriamente le motivazioni a monte di questa assurda e pretestuosa paura dell’immigrato/delinquente, si preferisce scaricare la colpa sulla sinistra, che non sarebbe in grado di coniugare socialità e sicurezza e quindi meriterebbe di essere punita da un elettorato che si rifugia all’ombra di illusori ed anacronistici pugni di ferro. Alla destra si riserva una omertosa, se non benevola, considerazione; alla sinistra si fa un contraddittorio pelo e contropelo: ora le si imputa la mancanza di pragmaticità progettuale e concretezza gestionale, ora la si vede lontana dai principi ed in perdita di identità ideale.

Due pesi e due misure adottati dai commentatori in genere ed anche dai politologi più autorevoli. Quanta poca critica viene rivolta all’impasse politica dei vincitori delle ultime elezioni e quanta eccessiva critica viene riservata alla ritrovata debolezza degli sconfitti. Tutti a fare i maestri alla sinistra ed a subire il discreto fascino della destra, si chiami leghismo, grillismo, post-berlusconismo, rinverdito nazionalismo, antipolitica, populismo e roba del genere. Tutti vogliono insegnare al PD a fare la minoranza, a interpretare il ruolo di opposizione, quasi a nessuno viene voglia di sottolineare la penosa recita di grillini e leghisti combattuti fra la ricerca dell’ignobile connubio e la corsa alle urne per giocare i tempi supplementari della partita contro il fantomatico sistema dei partiti tradizionali. Ricordiamoci che da sempre il neofascismo si è legittimato e coperto sotto le insegne della guerra alla partitocrazia ed ai poteri forti.

Si preferisce dare la colpa di tutto a Matteo Renzi ed alla sua esasperante sinistra di governo piuttosto che approfondire spietatamente i motivi reali di una schizofrenica virata a destra dell’elettorato italiano. Il partito democratico è oltre tutto nella situazione del soggetto perdente, che, qualunque cosa faccia o dica, sbaglia. Non si comprende il gravissimo rischio che si corre condannando culturalmente la sinistra all’irrilevanza e non si capisce come non ci sia in ballo il futuro di Renzi e del partito democratico, ma quello della democrazia italiana, messa in mano ad un coacervo di dilettanti della politica e professionisti della protesta, di ignoranti della storia ed esperti di tecniche per la raccolta del consenso, di onesti blateratori del nulla e disonesti mestatori del tutto.

 

 

 

Vóti o vòti

Se mia madre, più o meno convintamene e seriamente, usava mettere in discussione le proprie scelte matrimoniali dicendo: “Sa tornìss indrè…”, mio padre la stoppava immediatamente ribattendo: “Mi rifarìss còll ch’ j ò fat, né pu né meno”.  E giù a ridere ironicamente delle ipotetiche fughe con l’amante, con i due che scappano e cominciano a litigare scendendo le scale.

Mi è tornata alla mente questa ipotetica scenetta osservando i preliminari dell’ipotetica fuga d’amore fra Di Maio e Salvini: sono alla frutta prima di cominciare il pranzo. Si rinfacciano la mancanza di voti: a te ne mancano 90…pensa per te che ne devi raccattare 50. Il bue che dà del cornuto all’asino oppure, se volete, due bambini che giocano a figurine.

Si torna sempre al punto di partenza: per governare, oltre ai consensi della gente, oltre ai voti del Parlamento, occorre esserne capaci e tale capacità non si inventa da un giorno all’altro e non si acquisisce a dispetto dei santi. Ho notato come, quando si profila un minimo di dialogo sui contenuti, immediatamente si ripieghi sulla polemica delle pregiudiziali: io parlo con te solo se tu riconosci i tuoi errori del passato…io non mi seggo al tavolo con te perché rappresenti il vecchio regime…io propongo le mie idee, ma lascio a te solo la possibilità di prendere o lasciare…o comando io o non se ne fa niente…

Devo ammettere che fra i due contendenti/litiganti chi è maggiormente in debito d’ossigeno democratico è il M5S. La Lega un certo qual “abc” della politica dimostra di possederlo ancora, merito forse di Umberto Bossi, che aveva dato a questo strampalato movimento padano una dignità di partito politico. I grillini non riescono invece a rinunciare alla loro stucchevole identità antipolitica e quindi sono costretti a difendersi da ogni e qualsiasi provocazione metodologica e contenutistica rifugiandosi in corner.

Si sta consumando una vicenda che di politico ha ben poco, sembra infatti un duello psicologico fra due complessati: gli uni condizionati da quello di superiorità (solo noi siamo onesti!), gli altri da quello di italianità (padroni in casa nostra!). Rischia di essere, a dir poco, un dialogo fra sordi. A volte mio padre, per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, si alzava di soppiatto dalla poltrona e, quatto-quatto, se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Mio padre con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?”.  L’altro risponde:” No vagh a lét”.  E l’altro ribatte: “Ah,  a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

Visto che siamo in tema di sordità, vi racconto come nel bar frequentato abitualmente da mio padre ci fosse qualche persona un po’ dura d’orecchi, uno in particolare dotato di apparecchio acustico. Gli amici, i primi tempi di utilizzo dell’aggeggio, chiedevano al ringalluzzito compagnone: “Gh’ät piè la radio? Parchè s’a te gh’la zmors a t’ podèmma där dal stuppid”. Salvini e Di Maio, già questa squallida personificazione della vicenda la dice lunga, tendono a spegnere le rispettive radio per darsi, più o meno elegantemente dello stupido.  Al solo pensiero, che possano, dopo simili menate, mettersi finalmente insieme per governare il Paese, mi vengono i brividi. A quel punto non mi resterebbe che alzarmi in piedi di soppiatto e, quatto-quatto, andarmene a letto, come faceva papà.

 

Buzzurri e grida

Per entrare in Parlamento, oltre che presentare il “biglietto” elettorale vincente, bisognerebbe sostenere con esito positivo un esamino articolato su alcune materie inerenti la politica: diritto costituzionale, storia moderna, storia dei partiti e simili. Questo eviterebbe ai parlamentari di sciorinare castronerie dovute a faziosa ignoranza. Il movimento cinque stelle, per bocca del suo leader (?) Luigi Di Maio e dei suoi esponenti di maggior spicco, continua ad affermare che gli spetti esprimere il presidente del consiglio o premier come dir si voglia: l’aver ottenuto un consenso elettorale del 32% assegna ai pentastellati questo diritto per volontà popolare.

Dove è scritto? Nella Costituzione no. Nella legge elettorale nemmeno. Nella prassi costituzionale neanche. Era un discorso vigente di fatto in regime di bipolarismo strisciante, quando cioè si pensava il sistema politico polarizzato su due schieramenti alternativi fra cui l’elettore doveva scegliere: il tal caso era quasi automatico che capo del governo fosse il leader dello schieramento vincente. Per come è impostata la nostra Costituzione (prevede un regime parlamentare e non presidenziale), per come dispone la legge elettorale attuale  (buona o cattiva, è stata approvata a larga maggioranza da precedente Parlamento), per come hanno votato gli italiani i quali hanno distribuito il voto su tre poli senza dare a nessuno dei tre la maggioranza assoluta, siamo ripiombati, volenti o nolenti, in un sistema proporzionale in cui la scelta del governo e del suo capo è demandata politicamente ai partiti ed ai loro gruppi parlamentari e costituzionalmente al Presidente della Repubblica con la consacrazione di un voto di fiducia nelle due Camere.

D’altra parte la storia repubblicana è piena di presidenti del consiglio espressione di partiti privi di grandi consensi elettorali: si pensi a Giovanni Spadolini, a Bettino Craxi, a Giuliano Amato, per non parlare dei cosiddetti tecnici come Ciampi e Monti. È quindi perfettamente inutile e fuorviante continuare a menare il can per l’aia della volontà popolare: l’elettorato non poteva votare per Di Maio premier e non ha votato nemmeno per un M5S maggioritario. Quindi la parola passa ai partiti i quali dovrebbero trovare accordi politico-programmatici tali da offrire un governo al Paese. Gli equilibri all’interno del Parlamento e della compagine governativa sono tutti da inventare. Paradossalmente se al 32% dei grillini si contrapponesse una combinazione fra centro-destra e PD con oltre il 50% dei voti (i conteggi per la verità andrebbero fatti sui numeri in Parlamento), l’alto consenso elettorale ottenuto dal M5S relegherebbe comunque tale partito al solo ruolo, seppure forte, di minoranza e di opposizione.

È giunta l’ora di lasciare perdere i conteggi e le percentuali, di passare cioè dalla democrazia dei numeri a quella dei contenuti. Invece di incartarsi in assurde pregiudiziali dal sapore populista, scendano dal pero e facciano un governo di programma e non di chiacchiere elettorali. Si tratta di un salto difficile da fare: per governare infatti occorrono i voti, ma anche una cultura di governo, che non si può improvvisare sbraitando nelle piazze e in parlamento. In questi ultimi anni grillini e leghisti hanno fatto opposizione in questo modo ed ora che non bastano più striscioni e grida si trovano a mal partito. Gli italiani hanno ascoltato queste proteste e in gran parte le hanno condivise. Ora penso che aspettino il passaggio dalle proteste alle proposte.

All’osteria di Palazzo Chigi

Sembra (ben) avviata la ricerca dell’intesa programmatica per la formazione del nuovo governo tra M5S e Lega (o centro-destra come dir si voglia). I punti da cui partire sarebbero: la diminuzione delle tasse, l’eliminazione della legge Fornero, l’abolizione dei vitalizi per i parlamentari. Il massimo della demagogia sintetizzato in tre slogan: meno tasse, più pensioni e taglio netto al costo della politica. Tutti d’accordo e tutti contenti, con un piccolo particolare: per fare questo occorrerà una “baracconata” di miliardi che si aggiungerebbe alla già consistente somma necessaria per migliorare il deficit di bilancio già esistente, mentre il taglio ai vitalizi dei politici comporterebbe il risparmio di una manciata di milioni.

Si tratta di fare i conti senza l’oste o meglio, come direbbe mio padre, in stile osteria: «I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…». Stiamo arrivando alla farsa.

Chi non è d’accordo sull’alleggerimento della tassazione? Il problema non è quello, ma di verificare la compatibilità a livello di conti pubblici. Sta per nascere il governo dei sogni con un compromesso onnicomprensivo al rialzo: metteranno dentro anche il reddito di cittadinanza. Sono sinceramente curioso di vedere come andrà a finire. L’aspetto più penoso per me, volete sapere qual è? Nonostante la pessima considerazione che nutro di Silvio Berlusconi, mi dispiace vederlo ridotto a fare il parente povero (si fa per dire) di Salvini e ad ingoiare il rospo di Grillo.

La tentazione di buttarla in ridere è forte. Infatti vado avanti su questo tono e riporto cose già note a chi ha la bontà di seguire questa rubrica. Parto da una una simpatica gag più volte richiamata, a cui mia nonna si riferiva frequentemente.

Due supponenti ingegneri, di fronte ad una porcilaia che avevano costruito senza badare a spese e col massimo delle concezioni moderne, al termine dei lavori, mentre si scambiano i complimenti, sentono una vocina fuori campo che gela loro il sangue: «Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?».  Si erano soltanto dimenticati l’uscio.

Aggiungo anche una barzellettina paterna sul vezzo dei politici a promettere l’impossibile. Durante un comizio il candidato di turno arringava la folla: «Vi daremo questo, vi concederemo quest’altro, vi offriremo ciò che vorrete…». «E l’afta epizootica?», chiese timidamente un agricoltore della zona interessata. «Vi daremo anche quella!», rispose gagliardamente il comiziante. La politica sta diventando un comizio elettorale perpetuo e la gente non è alla ricerca di proposte serie e fattibile, ma si accontenta di ascoltare quel che vuol sentirsi dire.

Io non so cosa chiederà ai suoi interlocutori il Presidente della Repubblica durante le consultazioni al Quirinale dei gruppi politici e delle personalità. Non so se sia dotato di humor. Lo vedo peraltro molto sereno e sicuro di sé. Spero riesca a smontare le assurde velleità di chi non ha filo per tessere la tela. Non ho dubbi che tratterà la pratica con molta correttezza, anche se forse gli potrebbe scappare da ridere. Ma lui è molto ma molto più serio di me.

 

 

 

Il Travaglio fra Caselli e Casellati

Nel 2005 Maria Elisabetta Alberti Casellati era sottosegretario al Ministero della Salute (ministro era il tecnico Girolamo Sirchia) e immediatamente fu nominata a capo della segreteria del Ministero sua figlia Ludovica (che peraltro si autodifese con forza) con le conseguenti accuse di familismo e clientelismo. Roba da far impallidire le più recenti questioni sollevate a carico di altri esponenti politici (penso ad esempio all’orologio per il figlio dell’allora ministro Maurizio Lupi).

Da parlamentare strettamente legata a Silvio Berlusconi, la Casellati fu in prima linea nell’elaborazione delle famigerate “leggi ad personam” e fu impegnata nella difesa politica di Berlusconi nel caso Ruby. Come sostiene, fuori dai denti Gian Carlo Caselli, si è sempre schierata contro la magistratura “libera” e c’è chi ricorda uno scontro fortissimo sui problemi della giustizia (fu sotto-segretaria alla giustizia dal 2008 al 2011) con Marco Travaglio con tanto di minaccia di abbandono dello studio televisivo de La7. Infine, dulcis in fundo, ha brillato, si fa per dire, nella radicale opposizione alle Unioni civili.

Ho colto queste notizie dai pochi commenti critici pubblicati sulla stampa quotidiana, non sul Fatto quotidiano, impegnato col suo direttore a pontificare sulla strategia grillina, dando amorevoli consigli ai pentastellati da tempo eletti a suo prototipo politico e nella sua qualità di simpatizzante e sponsor (forse il maggiore a livello mediatico). Non ho nulla contro la senatrice Casellati, non sposo aprioristicamente le malevole ricostruzioni sulla sua carriera politica, non mi sono mai entusiasmato per la schematica contrapposizione fra giustizialisti e garantisti, ho sempre avuti dubbi e perplessità sulla politicizzazione di certa magistratura: non squalifico quindi in partenza una donna chiamata a ricoprire la seconda carica dello Stato.

Mi permetto soltanto di ipotizzare le reazioni grilline e dei fans pentastellati se la nomina della Casellati fosse uscita da un accordo tra Berlusconi e il PD, magari con la contropartita di un democratico alla presidenza di Montecitorio. Cosa girerebbe sui social? Cosa direbbe Beppe Grillo? Cosa scriverebbe Marco Travaglio? Invece probabilmente Luigi Di Maio ha il carisma pasquale di rimettere o meno i peccati. Resta da capire il perché non abbia assolto Paolo Romani da un peccatuccio veniale e abbia santificato la Casellati: mero tatticismo della misericordia.

Se devo essere sincero non mi sorprende lo stile dei due pesi e delle due misure, già ampiamente adottato dal movimento cinque stelle, anche se fino ad oggi era applicato a favore degli esponenti pentastellati ed ora tende ad allargarsi a trecentosessanta gradi ed insinuarsi su tutta la classe politica. Non mi scandalizzo di questi improvvisati censori, che in poche ore si sono convertiti all’aborrito patteggiamento. Non mi stupisce che chi cavalca l’antipolitica sia incapace di intendere e di volere la politica. Non inorridisco di fronte all’improvviso idillio tra M5S e Lega: mi hanno sempre insegnato che ogni simile ama il suo simile. Metto nel conto che, sull’altare di un eventuale nuovo governo, i populisti del cavolo rinuncino ad alcune loro fantasiose proposte elettorali. Sono allarmato da due fatti: dalla politica ridotta al dilettantismo, assai più deleterio dell’affarismo; dal potere mediatico che si sta precipitosamente riposizionando, accreditando opportunisticamente personaggi fino a ieri sottovalutati o addirittura derisi. Così va il mondo: anche il presidente di Confindustria Boccia, non boccia questi assurdi pionieri del nulla. Chi si contenta gode!

 

 

Il miglior Fico del bigoncio

Stando alle “battute” di Beppe Grillo, alla Camera dei Deputati soffia una brezza nuova che ha portato Roberto Fico alla presidenza: il sistema è crollato e questa nuova presidenza ne è un segnale. Nessuno dice niente, tutti stanno ad ascoltare e prendono sul serio questo “incantatore di italiani”, che pontifica e non sa quel che dice, o meglio lo sa benissimo e pretende di prendere “per il culo” i suoi connazionali. Passi per chi lo ha votato (direttamente o magari indirettamente), sono in tanti purtroppo, ma il sottoscritto non ci sta.

Il movimento cinque stelle ha ottenuto la presidenza della Camera trattando con il centro-destra o, peggio ancora, con l’esponente più estremista e più di destra della coalizione: lo avesse fatto il PD sarebbe stato un inciucio, un accordo di potere, un bacio al rospo, un patto contro natura. Hanno salvato la forma, ma hanno perso la faccia: hanno rifiutato Paolo Romani in quanto non immacolato nella fedina penale, non si sono seduti al tavolo con Berlusconi, lo psiconano del regime, fin qui la forma. Poi hanno trattato con Salvini e tutto è diventato diverso: una berlusconiana di stretta osservanza (con tutto il rispetto per la persona e per il curriculum che vanta) a presiedere l’assemblea di Palazzo Madama in cambio del massimo scranno di Montecitorio per il miglior Fico del bigoncio, che, stando alle premesse, dovrebbe quindi coprire e non scoprire i peggiori frutti del sistema.  Mi spieghino cosa ci sia di nuovo e di interessante in vista di un ipotetico cambio della politica italiana.

Veniamo al carisma delle persone: Fico presidente della Camera sarebbe il simbolo del nuovo che avanza. Proviamo a vedere chi lo ha preceduto su questa poltrona istituzionale: Giovanni Gronchi (dal 1948 al 1955); Giovanni Leone (dal 1955 al 1963); Brunetto Bucciarelli Ducci (dal 1963 al 1968); Sandro Pertini (dal 1968 al 1976); Pietro Ingrao (dal 1976 al 1979); Nilde Iotti (dal 1979 al 1992); Oscar Luigi Scalfaro (1992); Giorgio Napolitano (dal 1992 al 1994); Irene Pivetti (dal 1994 al 1996); Luciano Violante (dal 1996 al 2001); Pier Ferdinando Casini (dal 2001 al 2006); Fausto Bertinotti (dal 2006 al 2008); Gianfranco Fini (dal 2008 al 2013); Laura Boldrini (dal 2013 al 2018). Non mi sembra che questi presidenti siano stati arnesi di regime o grancasse di sistema o possano rientrare nella frettolosa classificazione operata dai grillini e “bevuta” da milioni di italiani. Andiamo quindi adagio nelle curve.

Se bastasse un grillino a Montecitorio per promuovere un salto di qualità etica, istituzionale, politica e sociale per il Paese…Fossi in Beppe Grillo, sarei molto cauto con le ventate di aria fresca. Non vorrei che si applaudisse al primo acuto, peraltro assai poco squillante e timbrato, senza aspettare il resto della recita, ancora tutto da scoprire e tale da far tremare le vene ai polsi. O questo accordo sulle presidenze camerali è un fatto significativo o è un bluff. Nel primo caso dovrebbe preludere ad un accordo di governo tra grillini e Lega, una sorta di automezzo con la carrozzeria nuova fiammante (promesse elettorali), con le gomme a terra (clamorose contraddizioni programmatiche e intuibili incapacità di governo), con una ruota di scorta (Silvio Berlusconi: in campagna elettorale non ha fatto che sparare contro i grillini ed ora si potrebbe trovare a farne la stampella) e poca benzina (la voglia matta di tornare presto alle urne per incassare un ipotetico dividendo). Una gita breve, ma anche troppo lunga e tutta da scoprire: appuntamento fra qualche tempo e… auguri di cuore.

Nel secondo caso, quello del molto fumo nuovista e del poco arrosto populista, gli italiani avrebbero preso un clamoroso abbaglio e bisognerebbe fare come nei giochi tra ragazzi: “mortus” e tutto da capo. Senonché nel giochino grillino in molti avranno fatto in tempo a sbucciarsi le ginocchia e forse anche a rompersi qualche gamba: magari ci vorrà una “Fornero bis” per rimettere le cose a posto. Ma Beppe Grillo avrà sicuramente pronto un rilancio: non bastava una brezza, ci voleva un ciclone. Forza e coraggio e andiamo a votare: chissà che la prossima volta…

 

Guai ai vincitori

La storia politica è piena di grandi personaggi provenienti da piccoli partiti e movimenti, quantità e qualità non vanno sempre d’accordo, i larghi consensi non significano automaticamente capacità di governo e nemmeno la garanzia di rappresentatività dell’elettorato. In democrazia, si dice, contano i voti; i voti si contano, ma si devono anche pesare; i voti vanno e vengono, ci vuole molta fatica e abilità per conquistarli, ma basta poco per perderli.  Se è vero che alle piazze piene spesso corrispondono urne vuote, è altrettanto vero che le urne piene possono portare a istituzioni vuote e inconcludenti.

In questo periodo, dal 04 marzo in avanti si è fatto un gran parlare di vincitori e vinti delle ultime elezioni politiche. I primi sono i leghisti e i grillini, i secondi i democratici e, per certi versi, i forzisti. Hanno vinto Di Maio e Salvini, hanno perso Renzi e Berlusconi: siamo poi proprio sicuri che le cose siano andate così? In politica due più due non fa quattro. La permanenza, a livello istituzionale, di un bicameralismo imperfetto e il sostanziale ritorno, a livello elettorale, ad un sistema proporzionale, complicano maledettamente le cose, privilegiano la rappresentatività rispetto alla governabilità, costringono a ragionare in termini di partiti e non di coalizioni.

I pentastellati col loro trenta e rotti per cento sono numericamente la prima forza politica, seguiti a notevole distanza dalla Lega con oltre il 18%, seguita a ruota dal Pd e più a distanza da Forza Italia. Il resto è paccottiglia di destra e di sinistra. Smaltita la sbornia dei dati elettorali, è cominciata la ricerca di equilibri politici a livello istituzionale, parlamento e governo. E qui sta cadendo l’asino. I grillini sono chiusi nella loro identità di primi della classe, non si vogliono contaminare, hanno raccolto consensi contro tutto e tutti; i leghisti fanno la voce grossa con i loro alleati, ma quando escono di casa si devono ridimensionare immediatamente; il PD si lecca le ferite con una certa fatica e tende naturalmente ad estraniarsi, puntando su una opposizione rigenerante; Forza Italia c’è rimasta male, ha sbagliato i conti, rischia la sudditanza verso i presuntuosi leghisti. Trovare la quadra è quasi impossibile. I partiti sono ormai in una logica identitaria e non sono in grado di cercare compromessi di livello in campo programmatico e non riescono nemmeno a spartirsi il potere. Si parla insistentemente di nuove elezioni a breve termine: i cani grossi pensano di mangiare i piccoli. E chi l’ha detto? Non sarebbe la prima volta che l’elettorato si pente e cambia voto, dopo aver visto e verificato sul campo il disastro provocato.

Le eventuali future e ravvicinate elezioni si terrebbero dopo un periodo di decantazione e di incertezza governativa, con i problemi che potrebbero infittirsi e ingigantirsi, con l’Europa alle porte che busserebbe a denari, con governi provvisori dalla stangata fiscale facile. Altro che flat tax e reddito di cittadinanza! Certe promesse elettorali troverebbero un brutto risveglio. La gente sarebbe costretta ad aprire gli occhi. Se non ci sarà sbocco di governo il tempo per rivedere il tutto a livello elettorale potrebbe essere di sei mesi e magari gli attuali vincitori riuscirebbero ancora salvarsi. Se diversamente ci sarà un governo con una maggioranza stramba e variegata, dominata da leghisti e grillini, ci vorranno due anni per mandare il Paese in malora e per scuotere gli elettori. Non mi sembra una passeggiata per i vincitori. Non vorrei fare l’uccello del malaugurio, applicando alla contingente politica italiana la storiella della ricottina, ma…