Le velleitarie e chiccose frecce della sinistra

Parecchi anni or sono Massimo D’Alema, con la sua solita verve dialettica, definì la Lega nord (allora si chiamava così) una costola della sinistra, una sorta di “voce dal sen fuggita poi richiamar non vale: non si trattien lo strale, quando dall’arco uscì” (aforisma di Pietro Metastasio). Me ne sono ricordato dopo aver verificato di persona come parecchie persone storicamente legate alla resistenza, ideologicamente ispirate al comunismo, tradizionalmente elettori di sinistra, lo scorso 04 marzo abbiano scelto quasi istintivamente di votare la destra estrema (Lega) o il M5S.

Un fenomeno apparentemente inspiegabile dal punto di vista qualitativo e quantitativo. Riflettendoci sopra e parlandone con amici ho trovato però due spiegazioni plausibili sul piano ideologico e politico. L’estrema sinistra ha inculcato nella mentalità dei suoi sostenitori, soprattutto i più accaniti e fegatosi, l’idea che per essere di sinistra occorra porsi in una pregiudiziale posizione conflittuale: la massa non può scalare gradualmente la difficile montagna del riformismo, ma deve rimanere con i piedi saldamente ancorati alla protesta, alla lotta ed alla conflittualità sociale. Se la sinistra abbraccia una strategia di governo si fa fatica a seguirla ed allora, in certi passaggi e periodi particolarmente difficili, viene la tentazione di spostarsi drasticamente a destra: quando si dice che gli estremi si toccano, non si è lontani dalla verità. La scelta “pazza” può andare verso destra, ma può anche prendere la direzione del movimentismo anti-politico ed anti-sistema: quando si ipotizza un governo tra Lega e Cinquestelle, anche sulla base di una comunanza di pulsioni elettorali, non si è lontani dalla verità.

Prendendo spunto dall’aforisma di Metastasio, si può dire che lo strale velleitario dell’anti-sistema non si può trattenere una volta che sia uscito dall’arco di una sinistra parolaia e barricadiera. Se questo può essere un motivo ideologico, ve n’è anche uno politico, vale a dire la ritrosia della sinistra ad affrontare certi nodi programmaticamente scomodi per rifugiarsi in una logica salottiera, la preferenza cioè verso una impostazione intellettualmente chiccosa a danno dei problemi reali sentiti dalla gente sulla propria pelle. Mi riferisco soprattutto ai temi dell’immigrazione e della sicurezza, che hanno favorito il travaso elettorale verso la Lega di Matteo Salvini, nonché ai temi dell’affarismo, della corruzione e della povertà, che hanno spinto un certo elettorato di sinistra verso il M5S.

Il frettoloso e velleitario tentativo di recuperare la situazione, affidandosi pretestuosamente al richiamo della foresta ideologica, perpetrato da Bersani, D’Alema e c., non ha fatto altro che creare ulteriore confusione, anche perché questi esponenti si sono nel tempo burocratizzati, hanno cioè imbalsamato la sinistra senza riuscire a portarla sul vero terreno del riformismo. Il renzismo, al di là degli errori e delle carenze di Matteo Renzi, è stato bloccato in questo delicato bivio: non è riuscito a dare l’idea di una vera e definitiva scelta riformista nella capacità di governo, rimanendo a metà del guado col cerino acceso in mano, finendo col non convincere i “riformisti” e irritando i “rivoluzionari”.

Nel linguaggio, nel metodo, nel centralismo, nel velleitarismo, nell’ambiguità ritroviamo parecchie analogie tra Lega, M5S e PCI: non sono mai stato un anti-comunista, ma devo riconoscere come gli errori storici di tale partito continuino a ripercuotersi sulla politica dei giorni nostri.  Non si riescono a richiamare le frecce del passato e non si riescono a scoccare quelle del presente. Un bel guaio!

 

La quiete di Mattarella dopo la tempesta grillo-salviniana

Mi hanno fatto decisamente sorridere le scandalizzate e grilloparlantesche reazioni di gran parte della stampa allo stallo, conclamato nelle trattative di governo tra centro-destra e M5S ancor prima che partissero. Tutti a certificare la incapacità e impreparazione delle forze politiche uscite vittoriose dalle urne a far seguire alle urla elettoralistiche una proposta di governo plausibile per il Paese. Stavano tutti in attesa: qualcuno aveva già il piede sul predellino del nuovo treno, qualcuno vi era salito da tempo, altri traccheggiavano per andare a vedere in mano a questi nuovi giocatori d’azzardo.

Dopo la corsa ad accreditarsi come amici dei nuovi eventuali futuri governanti, assistiamo alla precipitosa retromarcia per prendere le distanze da un’accozzaglia di incapaci, che hanno tutti i difetti delle cosiddette prima e seconda repubblica, senza ereditarne alcun pregio. Ci voleva ben altro della Casellati, la replicante berlusconiana promossa inopinatamente a ricoprire la seconda carica dello Stato, per ricucire la tela di Penelope (di giorno Salvini la tesse e di notte Di Maio la disfa). Il primo grande merito che potrà essere riconosciuto a Lega e M5S sarà quello di aver portato alla presidenza del Senato una indefessa seguace del cavaliere: per emarginare il “demonio” hanno cooptato una “demonessa”. Sull’altro massimo scranno parlamentare hanno portato il grillino Roberto Fico: un personaggio che un tempo avrebbe sì e no presieduto una sezione periferica di partito. Non c’è che dire, la terza repubblica è partita molto bene; se, come si dice, il buon giorno si vede dal mattino, il pomeriggio sta già segnando una ridicola impasse, per la sera non è dato fare previsioni, mentre la notte si preannuncia molto oscura.

Sia chiaro che non sto faziosamente gufando, ma solo verificando, in tempi ancor più brevi di quanto immaginassi, la pochezza di forze politiche, che si spacciano come innovative e portatrici di profondi e benefici cambiamenti epocali.  Cosa succederà dopo che la presidente del Senato ha esplorato su incarico del Capo dello Stato il campo di un eventuale accordo senza alcun risultato? Credo che il presidente Mattarella abbia capito fin dall’inizio la criticità della situazione, ma, a scanso di equivoci, la voglia far constatare da personaggi istituzionalmente sopra le parti, ma politicamente molto di parte (Casellati e Fico). Sono altrettanto convinto che finirà col puntare ad un governo del presidente (chiamiamolo così), molto autorevole nel premier e nei ministri fondamentali, capace di affrontare i maggiori problemi sul tappeto interno, europeo ed internazionale: un governo di fronte al quale, anche le forze politiche più recalcitranti avranno difficoltà a defilarsi o a nascondersi dietro atteggiamenti populistici.

E i grillini, i leghisti ed i loro elettori? Potrebbe succedere come nell’opera di Verdi Simon Boccanegra, composta su libretto di Francesco Maria Piave. Quando a Genova viene proposto Simone per la massima carica di Doge, molti si chiedono quale sarà la reazione. Il corsaro all’alto scranno… e i Fieschi (la potente famiglia nobile genovese)? Taceranno! Fu la risposta. La scelta si rivelò azzeccata, anche se il doge Simone ci lasciò le penne fra congiure di palazzo, vendette amicali e vicende familiari. Non penso possano esservi analogie politiche significative con l’attuale situazione politica italiana. Mi intriga soltanto quel “taceranno”, che potrebbe significare la quiete popolare indotta da Mattarella, dopo la tempesta populista scatenatasi nelle urne.

 

La cucina d’evasione o d’invasione

Prima o poi bisognerà smaltire la sbornia elettorale e speriamo di uscire indenni(?) dalla problematica del dopo-voto, che è fortunatamente nelle affidabili mani del presidente Mattarella.  Dall’indigestione elettorale passo quindi a quella che ogni giorno si rischia guardando i programmi televisivi: una girandola di trasmissioni dedicate al cibo e alla cucina, talmente insistenti e ripetitive da far passare l’appetito.

La televisione sembra darci uno stimolo eticamente riprovevole: vivere per mangiare! La buona tavola è certamente un valore da tutti i punti di vista: Gesù stesso non era un digiunatore di vocazione, amava mangiare in compagnia e per questo era considerato un beone e non si faceva scrupolo di pranzare con personaggi equivoci e chiacchierati.

Ricordo il gusto e la soddisfazione con cui mio padre al termine di una giornata lavorativa poteva sprofondare nella sua poltrona, accendere la lampada, inforcare gli occhiali e dedicarsi alla lettura del giornale con un’attenzione ed una concentrazione tali da fare invidia al fior fiore degli intellettuali. Mia madre si lamentava della sua eccessiva dedizione a questo rito culturale, ma lui non si distaccava dalla giusta e succulenta abitudine: solo il richiamo della cena pronta in tavola era in grado di interrompere il collegamento. Sì, perché il mangiare insieme per mio padre era la concretizzazione dell’unità della famiglia: su questo punto vigeva una sorta di intransigente regola, che solo a distanza di tempo ho potuto comprendere ed apprezzare appieno. “Magnèmma insèmma, po’ se vón al gh’à d’andär fóra al va”: unità nella diversità, insieme ma non legati, una concezione quasi religiosa del condividere il pasto, del sedere alla stessa tavola. Anche quando dopo parecchio tempo fu introdotta in casa Sua Maestà la televisione, il tubo catodico fu sempre tenuto rigorosamente lontano dalla cucina, dal locale dove si consumavano i pasti: se in TV trasmettevano un evento proprio irrinunciabile, si raggiungeva l’onorevole compromesso di anticipare l’ora del pasto per poi potersi trasferire in salotto ed assistere al programma televisivo. Altri tempi.

Oggi si parla di cibo, si cucina e si mangia continuamente in televisione. Evidentemente questi programmi di carattere culinario avranno alti indici di ascolto: una sorta di scacciapensieri, che va per la maggiore. Poi, per chi ingrassa ci sono le trasmissioni dietetiche; per chi fa indigestione ci sono i programmi di approfondimento medico-scientifico. Tutti affamati, tutti grassi, tutti malati, tutti spensierati, tutti perditempo intenti ad ascoltare le chiacchiere propinate da insulsi e penosi dibattiti ed a subire l’invadenza opprimente della pubblicità.

Tv pubblica e tv private, unite appassionatamente per addormentarci e trattarci da aspiranti coglioni. Ricordo come un caro amico, ai tempi della contestazione, si fosse giustamente scandalizzato dell’enorme spiegamento di forze di polizia a difesa delle “cagone e dei cagoni”, che si recavano alla prima del Regio. Aggiunse: «Togliamo la scorta ai politici e ad altri personaggi che rischiano la vita, per proteggere dal lancio di uova e ortaggi le scorribande dei finti melomani in abito scuro e lungo…». Il mio spirito sessantottino ogni tanto ritorna e me ne scuso. Si tratta di un parallelismo sottile, ma pertinente: ho richiamato questo episodio perché magari, dopo la stupida sarabanda televisiva di cui sopra, ci lamentiamo per i programmi “barbosi”, quelli culturali e storici e non esitiamo a sacrificarli sull’altare della ricreazione continua. Il dilettevole che soffoca l’utile. Non soccombono i programmi politici, perché anche la politica è finita nel tritacarne vanesio e ciarliero funzionale al sistema, compreso più che mai, a livello comunicativo e non solo, anche il trionfante M5S: evasione totale di cui quella fiscale è solo un aspetto.

 

 

 

 

I cocci alla vetrata

Durante il lungo conclave per l’elezione del papa che sfociò nell’elezione di Roncalli quale Giovanni XXIII, in caffè dal televisore si poteva assistere al susseguirsi di fumate nere e qualche furbetto non trovò di meglio che chiedere provocatoriamente a mio padre, di cui era noto il legame, parentale e non, con il mondo clericale (un cognato sacerdote, una cognata suora, amici e conoscenti preti etc.): “Ti ch’a te t’ intend s’ in gh’la cävon miga a mèttros d’acordi cme vala a fnir “.  Ci sarebbe stato da rispondere con un trattato di diritto canonico, ma mio padre molto astutamente preferì’ rispondere alla sua maniera: “I fan cme in Russia, igh dan la scheda dal sì e basta! “.

Questo succedeva nel 1958, ma dieci anni prima molti italiani si posero il problema e preferirono non rischiare la Russia del diritto di voto ed esercitarono il diritto di voto in senso garantista, vale a dire per non tornare indietro rischiando di andare troppo avanti: scelsero di affidare il Paese alla Democrazia Cristiana, in quanto partito che segnava l’appartenenza dell’Italia al blocco occidentale, all’area democratica e prometteva seriamente e credibilmente  il rispetto assoluto delle libertà conquistate dopo la caduta del fascismo. Dall’altra parte, Pci e Psi uniti in una folle alleanza di sinistra (al Pci non conveniva svenarsi per aiutare i socialisti, al Psi non faceva gioco appiattirsi politicamente sulla discutibilissima e pericolosissima strategia comunista) vennero sonoramente e storicamente sconfitti, in quanto portatori di una visione avventuristica del futuro dell’Italia.

Non voglio celebrare l’anniversario delle elezioni del 18 aprile 1948, anche se la storia meriterebbe di essere rivisitata con attenzione, ma fare un triste parallelo tra la prova di maturità degli italiani nel lontano 1948 e la performance dello scorso quattro marzo in cui gli elettori hanno dimostrato, a dir poco, una certa avventatezza, che a distanza di quaranta giorni sta già dando frutti negativi in termini di governabilità del Paese e affidabilità delle sue istituzioni. Non si può votare sull’onda emotiva dell’antipolitica o della protesta populista.

In data odierna il Capo dello Stato ha conferito un mandato esplorativo alla Presidente del Senato per verifica ed approfondire le possibilità di un accordo programmatico di governo tra il centro-destra e il M5S, le forze politiche uscite premiate dallo sconclusionato voto di marzo. Qualcuno fa risalire la situazione di stallo alla legge elettorale, sostanzialmente proporzionale, che ha creato i presupposti per un tripolarismo inconcludente e paralizzante. Certo il vigente sistema elettorale non è un toccasana per la nostra politica, ma anche nel 1948 vigeva un proporzionalismo addirittura puro e ciononostante i cittadini italiani seppero scegliere e dare la forza necessaria per innescare una governabilità basata sulla DC, che ebbe la lungimiranza di non chiudersi a riccio sugli allori, ma di scegliere la collaborazione con i partiti minori compatibili con la sua visione. La politica quindi non si risolve con le regole e queste non vengono prima della politica, ma dovrebbe essere l’esatto contrario.

Staremo a vedere cosa appurerà il Presidente del Senato di recente nomina: penso sia un passaggio obbligato, ma non risolutivo. Ci vorrà del bello e del buono per uscire indenni dal disastro combinato dagli italiani nelle urne. Abbiamo rotto senza pagare e ci illudiamo che i cocci siano di Mattarella. Anche le forze politiche hanno fatto di tutto per fuorviare gli elettori insinuando esagerate paure, infondate promesse e facili illusioni, ma alle elezioni bisogna che chi vota abbia capacità critica e buon senso, ciò che gli italiani sembrano avere smarrito.

 

 

Prodi aveva Bertinotti, Berlusconi ha i cretinotti

I casi sono due: o la politica ha raggiunto un livello talmente basso da consentire a Berlusconi di giganteggiare, oppure Silvio Berlusconi oltre al ridicolo lifting corporale è riuscito a farsene uno mentale. Sta dicendo e scrivendo cose di buon senso, che, in mezzo allo sbraitare degli altri, assumono una inopinata valenza. È vero che nella vita arrivano insegnamenti e lezioni spesso anche da persone verso cui non si nutre stima e considerazione: è così forse in politica dove mutano le situazioni e chi sembrava il diavolo rischia di diventare improvvisamente una spruzzata di acqua santa.

Alla battutaccia sulla precaria affidabilità democratica dei pentastellati, ha fatto seguito una breve analisi storica della propria azione politica: prima combatteva i comunisti e, aggiungo io, dopo essersi accorto che non esistevano, ha ripiegato sui populisti. Questi ultimi ci sono sempre stati e sempre ci saranno e però non sono solo nel M5S, sono anche e soprattutto nella Lega con cui Berlusconi è costretto a fingere di essere alleato, oltretutto di minoranza. Mi sembra un naufrago che lotta contro le onde populiste e tenta disperatamente di uscirne vivo. L’altro giorno, se devo essere sincero, ho solidarizzato con lui, relegato in un angolo da due cretinotti, Salvini e Meloni, suoi compagni di delegazione al Quirinale. Si sarà chiesto: ma chi me lo fa fare? Me lo sono chiesto anch’io e non ho trovato risposta se non nell’ego spropositato del cavaliere e nei suoi interessi aziendali che lo costringono a tenere botta. Un tempo c’erano i Bertinotti che creavano casino e imbarazzo a sinistra, oggi esistono i cretinotti che scompigliano i giochi della destra. Un parallelismo assai impietoso per Bertinotti: tutto sommato non lo merita, lo faccio solo per rendere l’idea.

Poi, tra una nuotata e l’altra, il cavaliere è arrivato all’auspicio di un governo autorevole, capace di mediare tra Usa-Mosca-Ue. In una lettera aperta al Corriere della Sera ha scritto: «L’Italia ha bisogno al più presto di un esecutivo nel pieno dei suoi poteri. I nostri alleati avrebbero il dovere e l’interesse di ascoltare. Di fronte a una situazione così complessa e drammatica non si tratta di schierarsi da una parte o dall’altra, ma di ragionare e di agire su una possibile soluzione. Per questo serve un governo autorevole sul piano interno e internazionale, interlocutore riconosciuto e capace di farsi ascoltare dalle maggiori potenze».

Credo che Berlusconi stia pensando a un governo di unità nazionale in cui lui e il suo partito troverebbero un ruolo politico al di là dei numeri. In questa logica diventerebbe un dato interessante quello che sembrava un altolà sprezzante: la presidenza del Senato alla Casellati, berlusconiana di ferro. Non so se stia lavorando alacremente per far fallire ogni residua possibilità di governo con i cinquestelle o se stia cercando il modo di eclissarsi elegantemente da una simile eventualità. Resta comunque un dato di fatto: non è in confusione mentale, forse non è mai stato così lucido, riesce ad esprimere concetti sensati in un clima da rissa verbale.

Dal momento che ha fatto sessanta, sarebbe opportuno tentasse di fare sessantuno. Ritirandosi dalla scena? In questo momento direi proprio di no, ma continuando a tenere un atteggiamento coerentemente ed obiettivamente volto a sostenere un governo serio. Il prerequisito posto continuamente dai grillini alla politica è l’onestà. Io preferisco la serietà: se ne sente un bisogno enorme e il fatto che Berlusconi faccia ragionamenti seri non è da disprezzare e nemmeno da sottovalutare. Forse ha solo fiutato l’aria e cerca di salire sul carro mattarelliano in procinto di partire? Può darsi, ma è sempre meglio un’opportunistica mossa equilibrata piuttosto di una testarda ed intransigente sparata.

La politica sotto attacco

Il 16 aprile 1988, esattamente trent’anni or sono e a dieci anni dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro, le Brigate Rosse uccidevano il senatore democristiano Roberto Ruffilli, costituzionalista, studioso, consulente e intimo amico dell’allora segretario democristiano e presidente del consiglio Ciriaco De Mita. Dopo Moro, il quale preparava politicamente l’evoluzione del sistema partitico verso l’alternanza DC-PCI, anche tramite una propedeutica e transitoria collaborazione tra queste due forze politiche, che superasse lo scontro ideologico, Roberto Ruffilli stava portando avanti l’idea di una riforma costituzionale, soprattutto elettorale, che consentisse di creare i presupposti per una obiettiva scelta elettorale fra due blocchi, il cosiddetto bipolarismo, che togliesse al Psi, partito di minoranza, lo storico e sciagurato potere di interdizione rispetto ai due blocchi, che avevano funzionato e potevano continuare a funzionare come autentici pilastri ideologici e post-ideologici della democrazia italiana.

Le Brigate Rosse, anche nel caso della macabra esecuzione del forlivese Ruffilli, dimostrano una lucidità strategica che induce persino a dubitare della sua autenticità: le prime BR avevano la forza politica e militare per un attentato al cuore delle istituzioni impersonificato da Aldo Moro; le seconde BR hanno minore forza organizzativa, minore radicamento sociale, minore capacità militare e quindi ripiegano su figure poco difese e molto aggredibili, ma comunque emblematiche di una mediazione culturale verso il progredire della nostra democrazia nel senso del dialogo e del riformismo. Sarà veramente stata tutta farina del sacco delle BR? Sarà proprio un caso che, quando il sistema politico si evolve e si allarga, spuntano da una parte il terrorismo di matrice filo-comunista e dall’altra quello stragista di matrice filo-fascista, per interrompere, condizionare, rovinare questi passaggi delicati e complessi della nostra democrazia?

Di queste interruzioni storiche soffriamo le conseguenze anche oggi: dopo la morte di Ruffilli e dopo la fine del progetto demitiano, si è verificato il ritorno all’interno della DC di un blocco di potere e una saldatura conservatrice tra la Democrazia Cristiana e il Partito socialista, il cosiddetto CAF (patto di potere tra Craxi, Andreotti e Forlani), che portò il sistema politico e partitico a galleggiare sulla corruzione e l’affarismo, sganciandosi sempre più da ogni e qualsiasi controllo democratico dentro e fuori dai partiti.

Il bipolarismo, senza la terza fase ipotizzata da Aldo Moro e senza i riferimenti costituzionali ed elettorali studiati da Roberto Ruffilli, è sbucato all’improvviso, a metà circa degli anni novanta, dalle ceneri della corruzione del sistema partitico ed è stato cavalcato dal berlusconismo dilagante a cui si è tardivamente e sporadicamente contrapposta una sinistra divisa e rissosa. Più o meno siamo ancora lì, con il bipolarismo finito nel tritacarne dell’anti-politica, vale a dire spiazzato dalla novità devastante del sorgere o del progredire di forze populiste, che stanno ulteriormente bloccando o deviando il percorso della democrazia.

Se le BR volevano prima suscitare la pretenziosa insurrezione armata dei comunisti veraci e poi limitarsi a rovinare l’evoluzione democratica del sistema, sono riusciti quanto meno a pesare non poco sulla storia politica italiana, accentuando ed allargando quella frattura tra politica e popolo che ci sta tuttora condizionando.  In questo momento di stallo a livello politico italiano sarebbe opportuno lasciar fare al Presidente della Repubblica, che, guarda caso, non è lontano dal filone storico-culturale di matrice cattolica a cui appartenevano Moro e Ruffilli. Chissà che non abbia la capacità politica e la saggezza democratica di riprendere, a distanza di tanto tempo, un percorso virtuoso interrotto, anche con gli attentati brigatisti, e mai portato avanti seriamente. Come? Non lo so, ma sotto-sotto ci spero ancora.

 

 

Le sconfitte che fanno storia

Oggi andiamo al bar sport, non per parlare di politica, come ormai fanno sistematicamente gli italiani, ma per parlare di…sport, ma non proprio e solo di sport. Esso è pieno di eventi storicamente rilevanti, che registrano sconfitte clamorosamente ingiuste, le quali hanno assunto un significato, che va ben oltre l’esito squisitamente tecnico. Tutti ricordano, per averlo letto, sentito raccontare o visto nelle sbiadite immagini d’epoca, il fatto della squalifica di Dorando Pietri alla maratona olimpica di Londra del 1908 (arrivò in testa alla corsa stremato in vista del traguardo e fu sostenuto dai giudici di gara e per questo escluso dalla graduatoria): la coppa d’oro offertagli dalla Regina Alessandra fu molto più importante della medaglia d’oro conquistata dal suo avversario Jonny Hayes, le immagini della sua impresa e del “drammatico” e commovente epilogo fecero il giro del mondo ed egli entrò nella storia dell’atletica leggera e dello sport in genere.

Rammento un vergognoso verdetto in un match di pugilato olimpionico: lo sconfitto, un simpatico atleta italiano di cui non ricordo il nome (non sono riuscito a recuperarlo), si aggirava sul ring e diceva sconsolatamente e piangendo: ho vinto io! In effetti aveva vinto per tutti, meno che per la disonesta commissione giudicante. Quell’episodio fece il giro del mondo e quel pugile, messo KO dall’ingiustizia sportiva, divenne un personaggio di successo.

E che dire della cosiddetta “Battaglia di Santiago”, l’incontro fra le nazionali di Cile e Italia ai campionati mondiali di calcio del 1962: il famigerato Ken Aston, col suo scandaloso arbitraggio, causò l’eliminazione dell’Italia, ma la nazionale italiana ottenne lustro e considerazione da questa famosa sconfitta, mentre quel poveraccio in giacchetta nera diventò l’emblematico zimbello di tutta la categoria arbitrale.

Analoga situazione si ebbe ai mondiali di calcio del 2002 con la partita Corea del sud-Italia vinta dalla nazionale di casa per 2 a 1, arbitrata da un ecuadoriano, che ne fece di tutti i colori per mandare a casa l’Italia, rendendosi protagonista (non unico) di un vero e proprio scandalo sportivo.

La vittoria del Real Madrid sulla Juventus, segnata da un assurdo rigore concesso nei minuti di recupero, passerà alla storia come ingiusta sconfitta della Juventus, già protagonista di una rimonta clamorosa che aveva ammutolito lo stadio Bernabeu. Gli spagnoli, gente seria, hanno esultato poco per questa vittoria “rubata”, al punto che Cristiano Ronaldo li incitava a festeggiare dopo avere trasformato il rigore, regalato da un arbitro in evidente stato di subordinazione psicologica rispetto all’importante club madrileno. Non c’era la Var, ma, se anche ci fosse stata, il rigore sarebbe stato confermato, non perché evidente, ma perché deciso “politicamente”: questa azione la si può guardare mille volte, ma restano infiniti dubbi e, a parti invertite, non avrebbe sortito l’effetto di un calcio di rigore (si chiama “di rigore” e si dice “c’erano o non c’erano gli “estremi” per concedere un calcio di rigore: quindi va assegnato con rigorosa certezza nei confronti di tutti). Non esce sconfitta la Juventus, ma la classe arbitrale che non rinuncia mai a schierarsi dalla parte del più forte: storia vecchia, che non riguarda peraltro solo lo sport.  Non vince il Real Madrid, ma la ragion di calcio.

La Juventus, dopo questa paradossale eliminazione dalla Coppa dei Campioni, è diventata più simpatica (almeno a me, che non sono certo un tifoso juventino): aveva quasi fatto un’impresa storica, recuperare tre gol in trasferta contro una squadra blasonata e zeppa di grandi giocatori, fra cui l’antipatico fuoriclasse padreterno Ronaldo, messo a tacere dopo l’exploit di Torino, ma sul più bello è stata zavorrata da un arbitro, che invece del cervello ha usato il sedere (non mi è mai stato molto simpatico Luigi Buffon, ma l’altra sera ha detto la verità in faccia a questo assurdo signore e davanti alle telecamere di tutto il mondo).

In cauda venenum. Ora la Juventus si renderà conto del danno fatto allo sport dalle tante ingiustizie arbitrali perpetrate a suo favore. Forse il club bianconero non era abituato a soffrire simili discriminazioni: in un certo senso, chi la fa l’aspetti. A proposito ricordo la prima partita del Parma in serie A allo stadio Tardini, nel 1990 proprio contro la Juventus: vinsero immeritatamente i bianconeri (2 a 1) con un rigore letteralmente inventato dall’arbitro Lanese per un inesistente fallo su Roberto Baggio. Era quasi inevitabile che la matricola Parma fosse immediatamente penalizzata. Seppe rifarsi, ma quella è una storia molto bella sul piano sportivo, ma sporcata dalle vicende giudiziarie del patron Tanzi, che non comprava gli arbitri, ma, senza voler infierire su di lui, faceva di peggio.

 

 

…e le bombe cadenti sulla Siria

“L’Italia non ha partecipato a questo attacco militare (…), con gli Usa la nostra alleanza è molto forte; a loro forniamo tradizionalmente supporto logistico, ma in questo caso abbiamo insistito che il supporto non poteva significare che dal territorio italiano partissero azioni direttamente mirate a colpire la Siria. Quella di stanotte è stata un’azione circoscritta, motivata dall’uso di armi chimiche (…), non può e non deve essere l’inizio di un’escalation”. Così ha dichiarato il premier italiano Gentiloni, informato immediatamente dell’attacco alla Siria, portato avanti dagli Usa in stretta collaborazione con Francia e Inghilterra, il quale si tiene in contatto con Esteri e Difesa e con i vertici militari.

La mia opinione è nettamente e pregiudizialmente contraria agli interventi armati comunque giustificati: non servono a nulla, se non a chi fabbrica e vende armi, a chi vuole mostrare muscoli e faccia dura a livello internazionale, a chi intende recuperare il favore popolare a livello nazionale. L’intervento armato in Iraq fu motivato dalla presenza di armi atomiche, poi fu dimostrato che tali arsenali non esistevano, Saddam Hussein fu spazzato via, ma l’Iraq è un paese distrutto anche e soprattutto dall’attacco dell’Isis. In Libia fu fatto un intervento clamorosamente esagerato e intempestivo, promosso dalla Francia per ragioni di recupero di prestigio e consenso a livello interno: la Libia è nel caos totale.  Siamo al repetita non iuvant. La storia non insegna nulla, ogni volta si sostiene che le condizioni sono diverse rispetto ai disastri precedenti, ma stringi-stringi le situazioni sono analoghe e gli errori si ripetono all’infinito. Al di là delle sporche motivazioni economiche, esiste l’illusione che gli attacchi militari possano scoraggiare il potenziale nemico dal prendere iniziative di guerra: è esattamente l’opposto in quanto scattano spirali incontrollabili e partono processi di intensificazione e diffusione della guerra.

E l’Italia? Costituzionalmente parlando, ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Fin qui la drastica scelta di principio contro la guerra. Poi vengono le alleanze internazionali e la ragion di stato e allora bisogna fare i salti mortali per saltarci fuori. La dichiarazione di Gentiloni sopra riportata è un capolavoro di diplomazia: l’Italia non ha partecipato all’attacco contro la Siria, non ha fornito nemmeno basi logistiche al riguardo (meno male…); l’alleanza con gli Usa è forte (ma non c’è mai il coraggio di dissentire apertamente e preventivamente da certe iniziative improvvisate e sconclusionate sul piano diplomatico e inqualificabili dal punto di vista etico); l’azione contro la Siria è circoscritta (che sia circoscritta è tutto da dimostrare, bomba chiama bomba, si comincia a parlare di attacchi iraniani a Israele, mentre la Russia dice, un po’ stucchevolmente, che l’attacco non rimarrà impunito); i bombardamenti sono motivati  dall’uso di armi chimiche e chirurgicamente volti alla distruzione degli arsenali (le bombe intelligenti esistono solo a tavolino o, se volete, a computer); la botta contro la Siria non può e non deve essere l’inizio di una progressiva intensificazione del conflitto (buttare la benzina sul fuoco non può che aumentare le fiamme).

In buona sostanza l’Italia non è d’accordo con Trump e con i suoi precipitosi cobelligeranti (Francia e Inghilterra), ma…è come quella ragazza che era incinta appena un pochettino, oppure come quel marito che stava sotto il letto per far valere le proprie ragioni. Dovrei disturbare mio padre e citarlo, ma l’ho già fatto tante volte. Mi limito ad una battuta polemica: l’Italia di fronte alle situazioni più incasinate non riesce a prendere posizioni nette e coerenti (è difficile ma bisognerebbe almeno provarci), ma per dirla in dialetto parmigiano manda questo messaggio agli alleati: va’ avanti ti che a mi am scapa da riddor. Questa volta poi abbiamo persino la scusante di non avere un governo nel pieno dei suoi poteri: per questo, potrebbe essere anche meglio, viste le prospettive che abbiamo dinanzi (Salvini fa il penoso anti-americano, ma soprattutto filo-russo, Di Maio gioca a fare il fragile statista in chiave Onu, Berlusconi fa il saputello pesce in barile).

I macigni pendenti sulla Casa Bianca…

Ho letto le agghiaccianti anticipazioni del libro in cui James Comey, ex capo del Federal Bureau of Investigation, l’Fbi, dà giudizi sul presidente americano Donald Trump, dopo essere stato da esso licenziato in tronco nel maggio 2017 per non essersi piegato al suo volere, quello di chiudere in fretta le indagini sul Russiagate. Ammettiamo pure che questo altissimo funzionario abbia il dente avvelenato, ma le cose che scrive sono di una gravità eccezionale.

Comey paragona l’atteggiamento di Trump per ottenere lealtà nei suoi confronti a quello di un vero e proprio boss mafioso: “un boss in completo controllo”, circondato da una cerchia di persone che lo assecondano in silenzio, vincolati a un giuramento di fedeltà. “La sua leadership è guidata esclusivamente dall’ego”, scrive l’ex capo del bureau investigativo, spiegando come fin dal primo incontro che ebbe col tycoon, alla Trump Tower nel gennaio 2017, Trump sembrò “ossessionato” da un dossier in particolare: quello in cui l’ex spia britannica Christopher Steel afferma come Mosca abbia in mano materiale per ricattare il presidente americano.

Materiale che scotta, come incontri con prostitute in un hotel di Mosca nel 2013. In particolare, spiega Comey, Trump gli chiese di indagare sul presunto video in cui il tycoon veniva ripreso nella camera d’albergo dove alcune prostitute urinavano sul letto dove avevano dormito Barak e Michelle Obama. Squallide questioni.

Sia chiaro non mi scandalizzo, posso immaginare che sia quasi un fatto di galateo offrire ai capi di stato ospiti la compagnia di prostitute di alto bordo: ciò può essere avvenuto in Russia prima ancora che Trump diventasse presidente. Il problema non è la moralità di Trump, ma il fatto che sia così facilmente ricattabile da una potenza straniera, che addirittura pare abbia brigato per farlo eleggere presidente, potendo poi avere più di un appiglio per condizionarlo.

Questo signore è presidente Usa pur avendo ottenuto due milioni di voti in meno della sua avversaria: non mi si dica che ciò è frutto del sistema elettorale americano. Sarà così, ma se uno viene eletto grazie ad una simile stortura antidemocratica, avrebbe l’obbligo di dimettersi e andare a casa in fretta. Su di lui pesano come macigni, dubbi in merito alla correttezza nei rapporti internazionali, ogni giorno si apprendono notizie che accreditano la Casa Bianca come un covo di trafficanti e mestieranti, che vanno e vengono a seconda degli umori presidenziali. La politica americana è diventata un tira e molla su importantissimi argomenti di politica interna e internazionale.

“Vi sembra che sia un ragazzo che ha bisogno di andare con le prostitute?”, avrebbe detto Trump. Poi cominciò a parlare di tutti i casi in cui diverse donne lo accusavano di molestie sessuali, al punto che Comey lo interruppe per tranquillizzarlo al riguardo. Le molestie sessuali sono molto più gravi degli eventuali rapporti con le prostitute. Resta il fatto che un personaggio di tale livello non può essere invischiato in simili avventure, ricattabile a destra e manca, costretto a pressioni su funzionari titolari di inchieste giudiziarie. Stupisce la bonarietà con cui il popolo americano sopporta simili situazioni: eravamo abituati a ben altro rigore al limite del bigottismo. Gli americani non mi piacevano quando giocavano a fare i moralisti, non mi piacciono quando si divertono a seguire i populisti. Evidentemente hanno voluto (una minoranza…) questo presidente e se lo tengono stretto.

Il problema è che lo hanno regalato anche a noi. Non mi entusiasma la vendetta di Comey, avrebbe dovuto prendere immediatamente le distanze senza attendere l’esonero d’imperio: le sue dichiarazioni sono infatti indebolite dalla posizione poco limpida tenuta in tutta la vicenda. Trump però dovrebbe avere il buongusto di chiarire fino in fondo la propria situazione: lo deve agli americani, ma anche a tutto il mondo, così fortemente condizionato dall’esercizio del suo potere. Bill Clinton fu messo in croce per molto meno. Richard Nixon al confronto fu costretto alle dimissioni per peccati veniali.  È inutile negarlo, ci sono analogie notevoli con la storia di Silvio Berlusconi. Stiamo facendo storia. Forse l’abbiamo sempre fatta: Mussolini ispirò Hitler. Berlusconi ha anticipato Trump. Magari la moglie Melania farà come Veronica, gli darà il ben servito. Non ho la vocazione a rovistare sotto o sopra le lenzuola di alcuno, men che meno di questi personaggi pubblici, di cui mi interessano ben altri profili di carattere politico. Sarebbe infatti assai meglio che il ben servito glielo dessero gli Americani, rinsaviti dopo il loro penoso avventurismo, aiutati da un impeachment di cui si torna insistentemente a parlare.

 

Il nonno in mutande

Durante l’ultima fase politica della vita di Francesco Cossiga, quella di “picconatore”, improntata alla disinibita, simpatica, acuta, ma sconclusionata e logorroica, denuncia dei mali della politica, Marcello Dell’Utri, con una delle sue celebri frasi, diede una definizione folgorante dell’ex presidente della repubblica: «Ormai Cossiga può dire quello che vuole. È come il nonno di casa: fai finta di niente anche se esce in mutande».

Dell’Utri, personaggio per il quale, nonostante tutto, non riesco a nutrire che simpatia, è probabilmente rimasto impigliato nel lavoro sporco di alto livello fatto per Berlusconi, con la piccola differenza che lui è in carcere anche se gravemente ammalato, mentre il suo storico leader è ancora in pista, più bello e più superbo che pria, per dirla con Ettore Petrolini. Probabilmente, se avrà la forza di osservare televisivamente il comportamento di Berlusconi, ripeterà anche per lui l’impietoso e colorito giudizio speso per Cossiga.

Che dire infatti dell’estemporanea uscita berlusconiana quale chiosa alle dichiarazioni del centro-destra al termine del colloquio con il Presidente della Repubblica? Berlusconi è stato protagonista, a suo modo. Si è seduto accanto al Capo dello Stato; è stato il primo a presentarsi davanti ai microfoni all’uscita della Vetrata, relegando il capo-delegazione Salvini a mero lettore di una dichiarazione scritta sotto dettatura; ha tenuto platealmente il conteggio dei paragrafi del velleitario programma di governo, ma soprattutto è stato l’ultimo ad andarsene dopo aver attaccato frontalmente i Cinquestelle, senza citarli direttamente, irritando Salvini, tutto compreso nel ruolo dialogante con il M5S e col suo leader di cartone Luigi Di Maio.

Berlusconi ha detto, rivolto ai giornalisti: «Fate i bravi, sappiate distinguere chi è democratico da chi non conosce l’abc della democrazia. Qualcuno dovrà pur spiegare queste cose alla gente…». Era o almeno ricopriva il ruolo del nonno in mutande del centro-destra, che dice quel che pensa a costo di rovinare la festa. Non saprei dire se in mutande ci sia Berlusconi o la coalizione del centro-destra dilettantescamente allo sbaraglio. Fatto sta che i nonni in mutande, anche se un poco sclerotici, hanno il coraggio di sputare certe imbarazzanti verità, mettendo spudoratamente in crisi tutta la famiglia.

Il cavaliere si è preso la libertà di dire quel che molti, compreso il sottoscritto, pensano: il M5S è inaffidabile dal punto di vista democratico e inconsistente sul piano politico. Il fatto che questo movimento abbia mietuto un largo consenso non lo toglie dal pericoloso limbo in cui è imprigionato. Certo la predica viene da un pulpito paradossalmente non credibile e squalificato, ma per Berlusconi potrebbe valere la parafrasi del detto riferito ai preti: pensate a quel che dico e non guardate a quel che ho fatto… Davanti ai giornalisti si è presentato in mutande, se ne è fregato altamente del galateo di coalizione e di quello quirinalizio, non si è preoccupato di rompere le uova nel paniere salviniano, ha avuto un colpo di reni per ritornare in pista. A suo modo è riuscito a riconquistare il centro della scena. Se il più credibile della famiglia è il nonno in odore di arterio-sclerosi, immaginiamoci cosa saranno e faranno gli altri. Di fronte al centro-destra del 1994, quello di Dell’Utri e c., Massimo D’Alema dichiarò apertamente in Parlamento di rimpiangere la tanto osteggiata e vituperata Democrazia Cristiana. Oggi, nel mio piccolo, davanti al nuovo centro-destra di Salvini e c., ammetto onestamente di rimpiangere il berlusconismo prima maniera, quello autentico. Puzzava di fascismo, ma almeno se ne avvertiva l’odore. Oggi non ci si capisce più niente.