La storia che (non) si ripete

L’atteggiamento del partito democratico, se prescindiamo da inutili rivalse dialettiche e da evidenti incompatibilità programmatiche nei confronti del M5S, può essere ricondotto a due ragionamenti politici di fondo: da una parte chi (mi pare che l’antesignano di questa problematica tesi sia Giorgio Tonini) si preoccupa di non regalare definitivamente il grillismo all’antipolitica, ma di risucchiarlo beneficamente nel gioco politico contribuendo alla sua evoluzione e legittimazione democratica; dall’altra chi (soprattutto l’ex segretario Renzi) non vede altra possibilità al di là di un dialogo finalizzato alle riforme istituzionali (in primis una nuova legge elettorale). Meglio la sussiegosa presunzione o lo sdegnoso scarto?

La prima opzione assomiglia molto alla solidarietà nazionale di stampo moroteo, fatte le debite distinzioni di tempo e luogo; la seconda al patto costituzionale di demitiana memoria. Nei giorni scorsi mi sono già esercitato nel ricordo di queste strategie politiche contrapponendole all’insulso e sprezzante discorso tattico del contratto di governo portato avanti dai pentastellati. Probabilmente mi sto sforzando di spremere le rape, ma credo sia un tentativo per verificare se sotto la crosta dei meri tatticismi ci possa essere qualcosa di politicamente serio. Il livello del dibattito in corso, anche per colpa di una odiosa sarabanda mediatica, è decisamente basso e quindi mi sembra opportuno, nel mio piccolo, tentare di alzarlo, guardando avanti o indietro, a seconda dei casi.

Al suo nascere ho concesso al grillismo il merito di dare una qualche rappresentanza politico-culturale alla protesta, pericolosamente deviante verso il qualunquismo. Poi, strada facendo, questo connubio ha finito col ripiegare su una lisciata di pelo alla piazza usando la spazzola dell’antipolitica fine a se stessa. Ne è uscita una deriva protestataria premiata dalle urne, ma sostanzialmente sterile e orientata sostanzialmente alla demagogia di destra o di sinistra, come dir si voglia. Sarà possibile ricondurre alla ragione politica questo andazzo, senza esorcizzarlo, ma tentando di riportarlo sul terreno del dialogo e della collaborazione. Una bella scommessa! Si tratterebbe di ragionare partendo dai presupposti di un’azione di governo moderna: rapporto imprescindibile con l’Europa, rispetto dei vincoli finanziari e di bilancio, progresso sociale legato allo sviluppo economico, etc.

Se invece si dà per scontata l’impossibilità del dialogo politico occorre ripiegare su quello, non meno arduo, di carattere istituzionale: non saprei se venga prima l’uno o l’altro o se siano addirittura le due facce di una stessa medaglia. Sarebbe comunque già un bel passo avanti uscire dalle ripicche e dalle pregiudiziali per affrontare discorsi di strategia. È pur vero che questo Paese ha bisogno di essere governato, non però in senso avventuristico o al buio. Il centro-destra fa melina e ipotizza governi accattoni, di minoranza, che vadano col cappello in mano a raccattare consensi a destra e manca. Di Maio (a proposito, Grillo dove è finito?) vuol andare dal notaio per stendere il rogito delle buone intenzioni. Tutto sommato meglio ragionare di massimi sistemi. Si fa prima infatti a scendere che a salire, salvo scivoloni.

 

Velocisti, scalatori e passisti

I risultati elettorali delle recentissime consultazioni regionali in Molise e Friuli-Venezia Giulia, pur non avendo un grosso significato sul piano quantitativo – si tratta infatti di due piccole realtà territoriali – rispecchiano una tendenza relativamente nuova rispetto alle elezioni politiche del 04 marzo scorso: è in atto una sorta di ballottaggio tra centro-destra a guida leghista e M5S e in esso gli elettori tendono a premiare la Lega di Matteo Salvini, riconoscendo ad essa una sorta di primazia nell’interpretazione e nell’estremizzazione della protesta, colorandola nettamente a destra rispetto alla velleitaria ed equivoca bisessualità pentastellata (né di destra né di sinistra).

Gli italiani sembrano orientati ad abbandonare la scorciatoia grillina per andare sulla strada maestra salviniana. Come dire: quando si fa sul serio e il gioco diventa pesante, bisogna abbandonare il generico “vaffanculo” e puntare decisamente alla precisa e particolareggiata alternativa destrorsa. Gli italiani a furia di scherzare col fuoco stanno rischiando di incendiare politicamente il Paese. I pentastellati si meriterebbero questa lezione, che per ora si intravede soltanto, ma purtroppo l’Italia rischierebbe un bagno reazionario impensato ed impensabile fino a qualche tempo fa.

A destra il comico tentativo berlusconiano di ergersi a diga moderata, sta fallendo miseramente, anche perché Salvini, nonostante tutto, è portatore di un certo non so che di novità, mentre Forza Italia rappresenta il peggior dejà vu della storia recente. Il trionfo della destra estrema ha sempre coinciso col forte bisogno di legalità e sicurezza ed infatti sono questi i cavalli di battaglia della Lega, la quale riesce a cavalcare assieme l’ostilità all’immigrazione con la lotta alla delinquenza, facendo una confusione tremenda in cui tutti i gatti sono bigi e portano al pugno di ferro.

La suddetta pericolosa tendenza elettorale ridimensionerebbe la portata politica del fenomeno grillino ridotto progressivamente a folcloristico e goliardico rito protestatario e confinerebbe la sinistra nel salotto borghese del sociologismo datato e/o nei centri sociali dell’utopismo fragile, riducendola a questione da riciclati benpensanti e/o da rivoluzionari d’accatto. La sinistra deve smetterla di ostentare la puzza sotto il naso e di chiudersi a riccio nelle proprie certezze ideologiche, mentre i grillini dovrebbero capire di non avere nel modo più assoluto il monopolio dell’anti-sistema.

La Lega, per dirla con una similitudine ciclistica, ha il passo del velocista (o sprinteur o sprinter), che predilige gli sprint di gruppo ad altri tipi di arrivo, avendo le caratteristiche necessarie per cimentarsi al meglio in una volata; il M5S è uno scalatore, vale a dire un corridore specializzato nelle corse e nelle tappe in salita, in particolare quando le pendenze si fanno molto ripide; la sinistra riformista può essere assimilata ad un passista, un atleta che ha una particolare attitudine alle gare sui lunghi percorsi pianeggianti, perché è capace di mantenere a lungo un’andatura sostenuta e regolare.

Una prima risposta politica alla volata leghista potrebbe essere la combinazione politica fra scalatori e passisti, vale a dire tra un M5S in vena di faticose salite ed una sinistra in vena di lunghe autocritiche? Certo non bisogna puntare alla diga schematica e polemica (volatona di gruppo), ma dare risposte organiche (corse a tappe). L’errore più grande e grave sarebbe rincorrere il leghismo sul suo terreno preferito. Occorrerà togliere il terreno da sotto i piedi ai Salvini. In Francia è bastato, almeno per ora, Macron per ridimensionare e sconfiggere l’agguerrito lepenismo. In fin dei conti Macron, con il suo raffazzonato partito/movimento non è forse una miscela alla francese fra renzismo e grillismo? Sto vaneggiando? No, sto cercando disperatamente di non berla da bótte, per evitare le trappole in cui sta cadendo la maggior parte degli italiani.

 

La pace dei matti

Quando ho visto il dittatore nord-coreano piantare l’albero della pace, è partito in me un irrefrenabile senso di autocommiserazione: se ci siamo ridotti a puntare e sperare in una pace pilotata da simili personaggi, stiamo proprio freschi. Sembra infatti che stia scoppiando la pace fra le due Coree sotto l’alto patrocinio di Donald Trump.

Intendiamoci bene, i venti di pace sono ben accetti da qualsiasi parte provengano, ma un assetto mondiale messo nelle mani di squallidi personaggi non mi lascia affatto tranquillo. Se la convivenza pacifica è frutto di reciproche minacce e scaramucce, se è conseguenza del terrorismo di stato, se la quiete viene dopo la tempesta, non c’è da rallegrarsi e da tranquillizzarsi.

“Si vis pacem, para bellum” (se vuoi la pace, prepara la guerra) è una locuzione latina di autore ignoto, usata soprattutto per affermare che uno dei mezzi più efficaci per assicurare la pace è quello di essere armati e in gradi di difendersi. Il detto latino citato possiede anche un significato più profondo: quello che vede proprio coloro che imparano a combattere come coloro che possono comprendere meglio e apprezzare maggiormente la pace. Può anche significare, in maniera più sottile, che un espediente per tenere unito e concorde un popolo, e quindi poterlo governare meglio, è di creare un nemico all’esterno o al suo stesso interno (divide et impera).

Gira e rigira credo che la pace che ci stanno confezionando gli attuali potenti del mondo sia proprio una miscela esplosiva di equivoci, perfettamente in linea col paradossale detto latino di cui sopra.  Kim Jong-un sembra essersi improvvisamente stancato di giocare con gli esperimenti nucleari: «Perché dovrei tenere armi nucleari e vivere in condizioni difficili se invece ci incontriamo spesso con gli americani per costruire la fiducia reciproca e se promettono di mettere fine alla guerra e di non invaderci?». Trump vive di minacce a livello internazionale, fa persino la faccia dura agli alleati (vedi Angela Merkel), contesta gli accordi con l’Iran, pompa la strategia antipalestinese di Israele, strizza l’occhio a Putin lasciando intendere un patto di spartizione mondiale per poi bombardare la Siria: schizofrenie da cui difficilmente potrà sgorgare un processo di pace.

L’unico asset concretamente e seriamente pacifico potrebbe essere quello europeo: una comunità (una federazione) di Stati, che, dopo essersi combattuti in guerre disastrose, trovano finalmente un approccio di collaborazione economica e politica. Ma anche qui non mancano i contrasti e le divergenze al punto da mettere in seria difficoltà tutto l’impianto europeo e soprattutto da indebolire la presenza europea nello scacchiere internazionale.

Mia madre usava spesso un (quasi) proverbio dialettale: «Tùtt i matt i gan la sò virtù…». Sono sicuro che lo ripeterebbe davanti ai Kim, ai Trump, ai Putin ed alle loro poco credibili avance pacifiche. Si accontenterebbe cioè degli spiragli di pace che passa lo strano convento dei potenti. Mio padre invece, da antimilitarista incallito e disincantato, non si fiderebbe di questi giochi illusionistici.

La Corea del Nord chiuderà a maggio il sito dei test nucleari di Punggye-ri e lo “farà in pubblico”, attraverso un processo trasparente rivelato a esperti Usa e sudcoreani, con la presenza anche dei giornalisti. Così riferisce l’ufficio di presidenza di Seul. Intanto si apprende che sarebbero Singapore e la Mongolia le due opzioni per la sede del summit tra il presidente Usa, Trump, e il leader nordcoreano. Sembra quasi di sognare. Speriamo non si rivelino fake news.

 

Facciamo finta che…

Le differenze valoriali, politiche, tattiche e strategiche nel centro-destra sono clamorosamente stranote: al liberismo di Forza Italia corrisponde un egosocialismo della Lega, all’europeismo forzista fa da contraltare il sovranismo salviniano e meloniano, al moderatismo berlusconiano si contrappone l’estremismo leghista, dall’insistita smerdata del cavaliere verso i grillini (dai cessi di mediaset al profilo hitleriano, dal deficit democratico all’esproprio proletario) si distingue una testarda ed evidente attenzione di Salvini verso il M5S, dalla preoccupazione di salvaguardare un clima respirabile per le aziende Fininvest alla stravagante e forsennata prefigurazione di un clima rissoso e conflittuale, dall’opzione per un governo del presidente, che consentirebbe a Forza Italia di respirare, a quella per un rapido ritorno alle urne che accentuerebbe ulteriormente l’egemonia leghista sul centro-destra, da una netta preferenza al dialogo col PD, che Berlusconi non esiterebbe pragmaticamente ad aprire, alla stucchevole demonizzazione di Renzi e della sinistra.

In poche parole Matteo Salvini muore dalla voglia di fare il governo con i pentastellati e sacrificherebbe volentieri su questo altare l’alleanza con Forza Italia, considerata un’inutile palla al piede, ma non lo può dire e, tanto meno, fare. E allora si nascondono tutti dietro l’insistenza di un governo, che veda protagonista principale il centro-destra unito, sperando che i grillini si turino il naso ed accettino di scendere a patti col diavolo (leggi Berlusconi). Il cavaliere, con la sua logorroica verve anti-grillina, disfa sistematicamente la tela che Salvini tesse telefonicamente con Di Maio: in realtà è aperto uno scontro sulla leadership del centro-destra, che vede in precario equilibrio i contendenti in attesa della resa dei conti politica ed elettorale.

Se i contrasti del centro-destra emergono con una certa evidenza e vengono maldestramente coperti in faccia ad un elettorato distratto e confuso, quelli all’interno del M5S restano sotto traccia. Esistono due anime: quella barricadiera e protestataria che cavalca lo scontento ed il qualunquismo dilagante, quella cioè dell’anti-politica servita calda al bar sport, e quella in doppio petto istituzionale dei Fico e dei Di Maio, che ritengono giunto il momento di misurarsi nel governo del Paese, anche se la preparazione atletica svolta in periferia li ha resi politicamente gracili ed impreparati ad una simile sfida.  I cinque stelle sono al settimo cielo: hanno vissuto nel solito equivoco tra lotta e governo, tra piazza e parlamento, tra protesta e proposta, ma ora sta arrivando il redde rationem. Non so quanti grillini siano del parere di scendere a patti con “i nemici” pur di provare a governare. In un certo senso il responso elettorale li ha inchiodati ad un consenso troppo basso per assumere in proprio responsabilità di governo e troppo alto per rimanere in stand by contro tutto e tutti. Doveva, prima o poi, arrivare questo momento, forse è arrivato troppo in fretta e li mette in seria difficoltà al di là delle grossolane e trionfalistiche esultanze post-elettorali.

Mentre centro-destra e M5S fanno di tutto per nascondere ed ovattare i loro contrasti interni, nel partito democratico i panni sporchi si lavano in piazza: c’è in atto, fin dal giorno successivo alle elezioni, lo scontro fra la tonificante anima trattativista, impersonificata dagli esponenti della vecchia guardia, e l’opzione rigenerante isolazionista incarnata dalla nutrita e maggioritaria pattuglia renziana. Niente di male e soprattutto niente di nuovo sotto il sole. Che infastidisce è il tono sbracato e ultimativo, la radicalità, al limite dell’ideologia, di certi ragionamenti: da una parte l’ansia di recuperare frettolosamente e superficialmente una verginità identitaria a sinistra o di innescare una rapida rivincita, dall’altra parte la paura di rimanere isolati ed essere emarginati dai giochi della politica e del potere. Questa pregiudiziale diatriba sbattuta in faccia alla gente non accredita il PD come forza autenticamente democratica, che discute e decide apertamente, ma come coacervo di personaggi disperatamente in cerca d’autore, come un partito senza capo e senza coda. Ci sono momenti politici (e non solo politici) in cui il silenzio è d’oro o, almeno, in cui bisogna parlare poco e a tono, soprattutto sforzarsi di stare su questioni precise e trasparenti. La direzione del partito dibatterà animatamente sulla possibilità di aprire un confronto col M5S al fine di costituire un governo, ma sarà una discussione di puro principio. Se si resta ancorati a questo livello, non c’è dubbio che il dialogo coi grillini sia improponibile. Bisogna invece dire un sì o un no su qualcosa di eventualmente più concreto ed articolato. Rimanere inchiodati a scelte pregiudiziali è il peggior modo di (non) fare politica.

 

Dal patto costituzionale al contratto di servizio

Nel 1967, in pieno clima da guerra fredda, il democristiano Ciriaco De Mita elaborava una proposta di “patto costituzionale” al Partito Comunista Italiano: si trattava di cogliere, con il varo delle regioni a statuto ordinario, l’opportunità di distinguere i processi di revisione costituzionale dalle maggioranze parlamentari politiche: una sorta di sdoppiamento su due piani della politica italiana, il piano delle regole fondamentali aperto al dialogo col Pci, il piano governativo circoscritto alle maggioranze di centro-sinistra escludenti il partito comunista.

Non se ne fece nulla, anche perché il discorso del patto costituzionale veniva da una minoranza all’interno della DC, mentre il Pci non era maturo per abbandonare il suo splendido isolamento. Solo nel 1973 Enrico Berlinguer cominciò a parlare di compromesso storico, vale a dire della necessità di perseguire una strategia volta non solo e non tanto a raggiunge una maggioranza parlamentare di sinistra, ma un rapporto costruttivo tra tutte le forze popolari e progressiste del Paese.

Nel 1976 Aldo Moro tradusse il compromesso storico in solidarietà nazionale, vale a dire nella possibilità di sperimentare, seppure transitoriamente, formule di governo che coinvolgessero, in qualche modo, i comunisti, favorendone la piena e totale democratizzazione, per poi arrivare nella cosiddetta terza fase all’alternanza fra i due poli, uno popolar-moderato egemonizzato dalla DC e l’altro social-riformista guidato dal Pci: le due forze politiche fondamentali, che si richiamavano alla cultura, alla storia ed alla tradizione dei cattolici e dei socialisti. Quel processo politico fu disgraziatamente interrotto sul nascere a causa del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro, il quale ne era il garante a trecentosessanta gradi.

Perché questa breve e semplicistica premessa? Perché il Movimento Cinque Stelle sta facendo al PD la proposta di un “contratto politico o di governo”: non un patto costituzionale, non un’alleanza di governo, ma soltanto un accordo sulle cose da fare nell’interesse degli italiani. Al di là della notevole abilità (?) lessicale, faccio effettivamente fatica a comprendere la portata di una simile avance e la sua fattibilità. Qual è infatti la differenza tra un contratto ed un’alleanza: il primo riguarda alcuni specifici ambiti e interessi e tenta di regolamentarli per filo e per segno; la seconda si allarga ad una visione condivisa e solidale di un campo molto più vasto ed impegnativo per le parti in causa. Mi risulta particolarmente difficile configurare un governo sulla base di un contratto limitato, che prescinda dall’alleanza politica, almeno tattica, fra i contraenti.

Ci si può infatti sforzare di individuare ed isolare alcuni problemi e la soluzione programmatica di essi, ma i bisogni della gente, che nella mentalità grillina vengono demagogicamente enfatizzati e considerati la base politica da cui partire e su cui lavorare, non possono prescindere da un contesto di carattere generale e dinamico entro cui bisogna governare quotidianamente affrontando le situazioni nel loro divenire e nei loro collegamenti con tutta la realtà interna, europea ed internazionale. In una ipotesi “contrattualistica” di governo, così come la intenderebbero i pentastellati, il presidente del consiglio sarebbe il capo-comico ed il regista, i ministri gli altri attori di un copione scritto e immutabile nel tempo e nello spazio.

Governare non è interpretare un copione, ma è un’arte da esprimere quotidianamente, tutt’al più ci può essere un canovaccio da condividere e su cui lavorare, ma non tutto può e deve essere previsto e calcolato in anticipo. E allora ogni volta che la situazione muta si ritorna al contratto per rivederlo? Credo si stia farneticando. Anche con tutta la buona volontà e l’apertura a metodi e contenuti nuovi, la politica è altra cosa ed effettivamente i grillini sembrano non averne l’indirizzo. Se questa è la base di partenza non vedo molti spiragli positivi per un governo M5S-PD. Ciò non significa chiudere pregiudizialmente il confronto, ma approfondirlo rigorosamente e seriamente.

 

 

Gli urlatori del PD

Non mi sorprendono affatto le perplessità e le titubanze degli esponenti del Partito Democratico riguardo un’eventuale alleanza di governo con il Movimento Cinque Stelle. Al loro posto ne avrei ancor di più. Che mi infastidisce non sono quindi i dubbi più che legittimi su una simile operazione politica: l’affidabilità di una forza politica, che ha demonizzato il PD in questi anni e che improvvisamente vuol dialogare e scendere a patti col diavolo, è certamente molto discutibile; la compatibilità del programma pentastellato con quello del PD appare decisamente problematica; la concezione della politica e della democrazia non sono affatto omogenee in queste due forze. Aggiungiamo pure che per i democratici una simile operazione appare elettoralmente poco opportuna, se non addirittura controproducente e foriera di ulteriori perdite di consenso.

La gara è certamente molto dura, ma tuttavia non sopporto la smania di protagonismo di tanti piddini, i quali sparano immediatamente i loro “no” a prescindere, scavalcando il già precario gruppo dirigente, peraltro guidato da un segretario molto serio ed equilibrato, Maurizio Martina, al quale in troppi parlano nella mano in attesa di aprire, quanto prima, una nuova fase congressuale, che appare quanto meno precipitosa. In questo senso è molto deludente l’atteggiamento rissoso di Matteo Renzi: l’ex segretario non ha la pazienza e l’umiltà di farsi momentaneamente da parte. Deve imparare dalla storia democristiana in cui il dibattito interno era spesso teso al limite della conflittualità, ma nei momenti topici si sapeva rimanere uniti e chi veniva da una sconfitta aveva il buonsenso di mettersi da parte. Ricordo Aldo Moro: quando la linea del partito si era fatta per lui inaccettabile, seppe andare in minoranza, farsi da parte e per un po’ di tempo fece politica con gli editoriali pubblicati sul “Giorno”. Altri tempi, altra autorevolezza, altro carisma, altro senso politico.

Sì, perché è proprio il senso politico che manca agli urlatori del PD. Si calmino, affrontino la situazione con spirito di servizio verso il Paese, stiano uniti, facciano un passo alla volta e poi ne discutano pacatamente negli organi di partito, senza lacerazioni, e decidano motivatamente sul da farsi. Gli elettori capiranno, anche perché non hanno digerito le divisioni interne, che hanno buttato benzina sul fuoco delle difficoltà di un partito di sinistra, che fa fatica a coniugare solidarietà e sicurezza, uguaglianza e competizione, lavoro e impresa, etc. etc.

Occorre un bagno tonificante per recuperare un disegno politico, che vada oltre la frettolosa, immediata e quindi impossibile riconquista del consenso e punti su una strategia di medio termine. I sì e i no buttati alla viva il parroco non mi convincono. C’è qualcuno che minaccia l’uscita dal partito nel caso in cui si dovesse fare un’alleanza col M5S: non si può stare in un partito con simili atteggiamenti ultimativi. Recuperino tutti la calma e la serenità necessarie, non abbiano fretta, facciano politica senza l’accetta e con il fioretto. Non si facciano contagiare dalla sindrome del “bar sport”. Sappiano fare i calcoli mettendo davanti a tutto gli interessi del Paese: l’elettore capirà e apprezzerà in ogni caso. Nel momento in cui i grillini cominciano, forse, a fare politica, non ributtateli nel ghetto dell’antipolitica, rubando loro il mestiere: si vada almeno a vedere le carte prima di chiudere i giochi.

L’ago della Resistenza nel pagliaio della politica

Quando ero impegnato concretamente in politica, a livello, seppure modesto, di partito e/o istituzionale, in occasione della celebrazione della festa della Liberazione, esprimevo tutta la mia forte sensibilità partecipando alle manifestazioni pubbliche unitarie, promosse da forze politiche diverse, accomunate dal richiamo ai valori della Resistenza, della lotta partigiana, dell’antifascismo. Da quando ho abbandonato l’impegno politico attivo, pur rimanendo sempre attento e partecipe rispetto alle vicende politiche, preferisco approfittare della ricorrenza del XXV aprile per approfondire e riflettere in senso culturale sui valori della democrazia alla luce dell’educazione ricevuta al riguardo. Lo faccio anche oggi, con un forte richiamo a due miei imprescindibili riferimenti familiari: mio padre Ernesto e mio zio Ennio sacerdote.

Di mio padre voglio ricordare gli insegnamenti, che ho peraltro riportato in due pubblicazioni contenute nel sito internet, impartiti quando in ancora tenera età gli chiedevo di spiegarmi cosa fosse stato il fascismo. Mio padre, prima e più che in senso politico, era un antifascista in senso culturale ed etico: d’altra parte era nato e vissuto in oltretorrente (come del resto anch’io e  ne vado orgoglioso), il rione dove si respirava la politica, dove i borghi, gli angoli, gli androni delle case parlavano di antifascismo, dove la gente aveva eretto le barricate contro la prepotenza del fascismo, dove la battaglia politica nel dopoguerra si era svolta in modo aspro e sanguigno, dove il popolo, pur tra mille contraddizioni, sapeva esprimere solidarietà.

Mio padre mi raccontava come esistesse un popolano del quartiere (più provocatore che matto), il quale era solito entrare nei locali ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!” Lo stesso popolano dell’oltretorrente che aveva improvvisato un comizio ai piedi del monumento a Corridoni (ripiegato all’indietro in quanto colpito a morte in battaglia), interpretando provocatoriamente la postura nel senso che Corridoni non volesse vedere i misfatti del fascismo e di Mussolini, suo vecchio compagno di battaglie socialiste ed intervistate.  Ci voleva del fegato ad esprimersi in quel modo, in un mondo dove, mi diceva papà, non potevi fidarti di nessuno, perché i muri avevano le orecchie. Ricordo che, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi diceva: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che…”, se si andava al cinema con i filmati luce “il capo del governo ha inaugurato…”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”. Del fascismo mi forniva questa lettura di base, tutt’altro che dotta, ma fatta di vita vissuta.

Era sufficiente trovare in tasca ad un antifascista un elenco di nomi (nel caso erano i sottoscrittori di una colletta per una corona di fiori in onore di un amico defunto) per innescare una retata di controlli, interrogatori, arresti, pestaggi. Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto, la prepotenza voleva così).

Ascoltavo ancora bambino questi racconti, per me quasi immaginari, ma tutt’altro che fantasiosi. Nell’osteria a due passi dalla casa della mia fanciullezza, si raccoglievano firme per una petizione di carattere politico: fecero firmare anche un ingenuo e sordo amico con l’illusione di sottoscrivere una richiesta di rimozione per un fetido e puzzolente vespasiano della zona. Per fortuna l’iniziativa non creò grane, ma l’oltretorrente era questo: genio e sregolatezza, musica e politica, risate, ma all’occorrenza…….

Il secondo riferimento riguarda le scelte di vita di mio zio Ennio sacerdote, il mio santo protettore. Partecipò, come convinto assistente-scout, al movimento delle aquile randagie, un’associazione cattolica segreta, che fece dell’antifascismo la propria coraggiosa cifra di testimonianza e comportamento. Si impegnò in operazioni delicatissime e rischiosissime di scambio fra prigionieri: i partigiani si fidavano ciecamente di lui e lo portarono in trionfo il XXV aprile del 1945; nascose ebrei mettendo a repentaglio la propria vita; fu addirittura arrestato e dovette trangugiare alcuni bigliettini compromettenti; il vescovo gli consigliò prudenza, ma don Ennio prima della prudenza metteva il coraggio della testimonianza. Non ho avuto la possibilità di conoscerlo, in quanto morì, ancora giovane, di un male tremendo pochi giorni prima della mia nascita.

Mi bastano questi ricordi per onorare quanti hanno resistito al fascismo, combattuto per la libertà e contro l’invasore. Il ricordo dovrebbe farsi politica viva: successe nel dopo-guerra con il patto costituzionale. Poi via via ci siamo un po’ tutti dimenticati della lezione resistenziale ed oggi effettivamente si fa molta fatica a ritrovare quello spirito nella battaglia politica. È il caso di provare comunque a rinverdire i valori e le scelte resistenziali. Sull’antifascismo non si può scherzare, anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna, rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre)  “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “.

 

Trattativa: chi nuotava nell’acqua sporca?

Ho vissuto con una certa angoscia la notizia, con la lettura del dispositivo, della sentenza della Corte d’Assise di Palermo, secondo cui la trattativa fra lo Stato e la mafia all’inizio degli anni novanta c’è stata. Lo Stato, tramite alcuni suoi alti funzionari, avrebbe sondato le cosche mafiose per cercare di interrompere la sequela di loro attentati, che stavano insanguinando e distruggendo il Paese. Non mi sento in grado di esprimere giudizi di carattere legale. Di fronte alla delicatezza di questo tema e di tale vicenda giudiziaria non mi esimo tuttavia dall’esprimere le mie idee: mi limito ad alcune osservazioni di carattere etico-politico, prendendo per buono quanto deciso dalla magistratura, seppure in primo grado di giudizio.

Può lo Stato venire a trattativa con la delinquenza? Su un piano squisitamente etico-giuridico si direbbe di no. E se e quando il rapporto con la criminalità organizzata diventa una vera e propria guerra? In guerra tutto dovrebbe essere possibile pur di evitare mali peggiori e ottenere risultati anche parziali. In guerra si scende a patti col nemico, si fanno armistizi, si tratta, senza riconoscere le pretese del nemico, senza cedimenti definitivi e senza dichiararsi per ciò stesso sconfitti.  Vale anche a livello del funzionamento statuale?

E chi dovrebbe decidere e gestire tali patteggiamenti segreti? Lo Stato medesimo? Qui sta il nodo dell’annosa inchiesta e dell’annoso processo: si è trovato il primo collegamento tra i vertici mafiosi ed alti funzionari statali, ma non si è trovata alcuna prova certa del collegamento tra detti funzionari (carabinieri) e le istituzioni (governo). Di qui la domanda: c’era qualcuno che lucrava su questi contatti, che aveva interessi a portarli avanti? Era un interesse generale dello Stato o erano interessi particolari di chi occupava lo Stato? I condannati tra le fila mafiose avevano un loro preciso disegno criminale, ma i funzionari statali a quale disegno facevano riferimento? Trattavano in proprio o a favore di chi? Non si sa. Si fanno supposizioni o illazioni, anche molto pesanti, ma non esistono dati certi.

Pur con tutto il rispetto e l’ammirazione per l’impegno della magistratura, che ha il coraggio di esporsi a vendette e rappresaglie, viene da chiedersi: ha senso imbastire una vicenda giudiziaria così monca e parziale, che rischia di screditare genericamente le istituzioni buttandole indistintamente nella pattumiera mafiosa? Purtroppo è sempre esistita una mentalità politica, che vive la mafia come una sciagura con cui fare i conti, una realtà da affrontare con pragmatismo al limite del cinismo. Non credo sia un atteggiamento serio e responsabile. Da qui a ritenere che la politica a livello istituzionale sia stata condizionata dalla criminalità e abbia trattato più o meno nascostamente con essa, ci passa molto strada.

Che nella società, politica e istituzioni comprese, ci sia del marcio è sicuro, ma non credo sia giusto e opportuno combattere il marcio spargendone gli effetti a vanvera. Attenzione a non buttare l’acqua sporca in cui nuotava la trattativa con la mafia assieme al bambino delle istituzioni, bisognose di rispetto. Quando si avvalora l’ipotesi che ci sia stata una trattativa tra potere mafioso e potere governativo si rischia grosso. O si dimostra questo teorema o si fa un pessimo servizio all’intero Paese.

 

Di Maio e la foglia di Fico

Non bastava una campagna elettorale lunga, insulsa e mistificatoria, non era sufficiente la stranezza di un voto uscito più dalla fantasia di un umorista prestato alla politica che dalle urne, non bastava la confusa volontà delle forze politiche vincenti ma numericamente bloccate su percentuali minoritarie, non bastava  l’incapacità a cercare e trovare compromessi di governo al più alto livello possibile, non bastavano le reciproche pregiudiziali sulle persone, non bastava l’indegna bagarre  post-elettorale portata fino alle stanze del Quirinale, tutto ciò non bastava, ci voleva la ciliegina sulla torta ed è arrivata.

Dopo il naufragio del presidente del Senato nel mare aperto del confronto tra Centro-destra e Cinque Stelle, si preannuncia un ulteriore passaggio nell’iter delle consultazioni del Capo dello Stato, vale a dire un incarico esplorativo al presidente della Camera Roberto Fico per vagliare le possibilità di un accordo di governo tra M5S e Partito Democratico. Questa verifica prende atto della doppiezza del movimento grillino, più volte dichiaratosi disponibile ad un confronto anche col PD e vuole stringere i bulloni intorno a queste schizofreniche opzioni politiche.

Sul più bello il cosiddetto leader pentastellato Luigi Di Maio rilascia dichiarazioni che sembrano neutralizzare a priori i tentativi di Mattarella e dice: «Io credo fermamente nel fatto che con la Lega di Matteo Salvini si possa fare un buon lavoro per il Paese. Possiamo fare cose molto importanti. Questo è il momento in cui possiamo fare grandi cose. Ma c’è bisogno di venirsi incontro. Io ce la metterò tutta. Deciderà il Presidente Mattarella, ma se mi chiedete di Fico, ho solo cose buone da dire. Guardiamo a lui come una figura di garanzia che è stata in grado in questo momento di assicurare la sua imparzialità». Se questa non è una presa in giro verso il Presidente della Repubblica…

Cosa vuole fare il Movimento Cinque Stelle? Lo dica una buona volta ai suoi elettori, ma anche a tutti gli italiani. Vorrebbe tentare un accordo con la Lega, ma senza interferenze berlusconiane. Come se uno chiedesse la mano di una ragazza purché ripudiasse i propri genitori e parenti: una Lega rinnegata (sarebbe meglio dire rinnegante) e felice, per dirla con Madama Butterfly di Puccini. La ragazza recalcitra, anche perché rischia di essere disonorata e diseredata, ma il pretendente insiste. Il padre (leggi Berlusconi) lo manda a pulire i cessi, lo ritiene inaffidabile, ma quello insiste. Qualcuno molto autorevole (leggi il Presidente della Repubblica) gli sta cercando un altro buon partito al cui fascino il giovanotto (leggi Di Maio) non era del tutto insensibile, ma proprio mentre sta per iniziare la ricerca c’è un ritorno agli impossibili primi amori. Un gioco dell’oca che investe e squalifica le forze politiche, ma che trascina nel ridicolo persino il Presidente Mattarella, che però la sa molto lunga e forse manderà tutti a quel paese: i pretendenti ondivaghi, le ragazze che si specchiano, i genitori possessivi, i cercatori di matrimoni impossibili. Cambierà gioco, tirerà fuori le sue carte e le mostrerà. Il M5S non potrà più nascondersi dietro la foglia di Fico e dovrà finalmente uscire allo scoperto, lasciando la tattica dei due forni a chi se la poteva permettere nel passato. Resta quella ciliegina acida cui facevo riferimento: uno sgarbo istituzionale da parte di chi non ha alcun garbo. Un atto di bullismo verso il Quirinale!

I cessi voltagabbana di Berlusconi

“Nessun accordo con M5S, partito che non conosce la democrazia, formato solo da disoccupati. È un pericolo per l’Italia. È gente che non ha mai fatto nulla nella vita. Nella mia azienda li prenderei per pulire i cessi. Seguo tutto con disgusto. Gli italiani hanno votato molto male”: così si è espresso Berlusconi anche in risposta alle pregiudiziali poste nei suoi confronti e nei confronti di Forza Italia dai pentastellati. Ho già scritto e ribadisco che con l’età il cavaliere forse ha raggiunto la pace dei sensi, non tanto sessualmente parlando, ma politicamente. Quindi, parla senza freni inibitori e senza troppi calcoli.

Lo stigma contro i politici fannulloni o mestieranti è sempre stato il suo cavallo di battaglia, che sotto-sotto ho sempre apprezzato, perché anche a me non sono mai piaciuti i politici senza preparazione ed esperienza professionali, quelli che chiacchierano e nella loro vita personale non hanno combinato niente. Ce ne sono in tutti gli schieramenti politici, a destra, a sinistra, al centro. Indubbiamente la natura estemporanea del movimento pentastellato, la selezione improvvisata della loro classe dirigente, la mancanza di una storia alle loro spalle, hanno accentuato l’ignoranza, l’impreparazione e la sprovvedutezza degli esponenti di questa forza politica. Innovare e ricambiare non vuol dire mettere   dei “buoni a nulla” al posto dei “capaci di tutto”.

Anche la piccata risposta del parlamentare grillino Morra a quanto affermato da Berlusconi con le suddette espressioni colorite, vale a dire “è meglio un pulitore di cessi che si guadagna onestamente da vivere che un colletto bianco amico di mafiosi”, pur nella sua comprensibile verve moralizzatrice, non coglie nel segno: per i politici l’onestà è un prerequisito e, se ad essa non si aggiungono altre doti ed altre qualità, rimane sterile e improduttiva di effetti per gli amministrati ed i governati. A parte il fatto che anche i grillini hanno i loro scheletrucci negli armadi, gli esponenti pentastellati impegnati a certi livelli stanno mostrando la corda. E non mi convince chi li vuole mettere alla prova, nonostante tutto, solo per il gusto di mandare a casa qualcuno o per lo sfizio di provare a mangiare una nuova pietanza, anche se proviene da una cucina poco raccomandabile.

Un altro cavallo di battaglia polemico di Berlusconi è da sempre stato lo sferzare il catastrofismo economico proponendo i bar, i ristoranti, le pizzerie, gli alberghi e i camping stracolmi di gente. Stando alle previsioni nel lungo ponte del 25 aprile si muoveranno quasi otto milioni di italiani, per un giro d’affari che vale 2,85 miliardi di euro. Per il 34,2% dei casi sarà un “super ponte”, che includerà 25 aprile e primo maggio. Limitatamente alla giornata del 25 aprile la spesa media pro-capite per il viaggio, comprensiva di tutte le voci, sarà pari a 385 euro.  Un mio carissimo e simpatico amico sosteneva che, se una persona è a corto di risorse e vuole effettivamente risparmiare qualcosa, non deve mettere nemmeno il naso fuori di casa, deve andare a letto. Bisogna prendere atto tuttavia che l’Italia, secondo i dati Eurostat è penultima in Ue per il livello di occupazione. Quindi le difficoltà ci sono, eccome. Berlusconi esagerava, riduceva il discorso economico ad analisi un tanto al metro, ma un fondo di verità nelle sue considerazioni spannometriche esisteva ed esiste.

Rimane un problema in capo a Berlusconi (magari fosse solo uno…): qualcuno penserà ai rapporti con la giustizia. Quello non è un problema, ma una triste realtà a cui gli italiani non hanno fatto caso per tanti anni, salvo accorgersene improvvisamente sotto l’impulso delle pregiudiziali dimaiane e della concorrenza salviniana: meglio tardi che mai. Il problema cui faccio riferimento è l’inguaribile “voltagabbanismo”. Un giorno i grillini devono pulire i cessi, il giorno dopo possono tranquillamente governare; un giorno si fa la corte al PD, il giorno dopo mai col PD; un giorno si lascia intendere che Salvini ha rotto “i cosiddetti” con il suo estremismo, il giorno dopo è il leader indiscusso del centro-destra. Prima o poi mi aspetto che, a parere di Berlusconi, i bar, i ristoranti, le pizzerie, gli alberghi e i camping diventino miseramente vuoti.

Torno brevemente alle valutazioni berlusconiane sull’attuale situazione politica ed in particolare al giudizio sul comportamento elettorale degli italiani (“hanno votato molto male!”). Per un capo di partito non è certo un bene insolentire gli elettori o mettere in discussione l’esito del loro voto. È un atteggiamento pericoloso e controproducente. Se il responso delle urne è negativo non si può ricorrere al “destino cinico e baro” di saragattiana memoria dopo la sconfitta elettorale del 1953: in un certo senso l’elettore, come il cliente in un negozio, ha sempre ragione. Tuttavia, siccome non sono un esponente politico, posso permettermi di dirlo apertamente: effettivamente gli italiani hanno votato male!