Al governo col placet dello psiconano

Mentre a Firenze il presidente Mattarella tesseva un alto elogio dell’Unione Europea, Matteo Salvini e Luigi Di Maio confabulavano su come tradurre il loro sostanziale antieuropeismo a livello di un (im)presentabile accordo di governo, raggiunto in extremis dopo aver farneticato di elezioni ferragostane e di finti ballottaggi. Devono aver capito che votare in Parlamento contro il Presidente della Repubblica per tornare alle urne in piena estate, dopo aver fallito completamento la mission, poteva essere un rischio troppo grosso da correre anche per chi si sente salvatore della patria a tutti i costi.

Sta probabilmente nascendo il più paradossale dei governi, che sintetizza tutte le contraddizioni della cattiva politica: clamorose divergenze programmatiche superate con lo specchietto delle allodole di un accordicchio populista al ribasso; contrasti ritenuti insanabili per mesi, superati in un baleno sull’altare delle mere convenienze reciproche; gli sbandierati interessi del Paese ridotti a merce di scambio al mercato dell’antipolitica. Come svolta innovativa non c’è male…Gli italiani se la sono voluta e adesso se la tengono.

C’è però un aspetto che mi diverte: il governo nasce dopo un’autentica gag recitata dal cavaliere in vena di scherzare. Silvio Berlusconi non si smentisce mai, la sua imprevedibilità non ha limiti. Ricordo quando decise improvvisamente e individualmente di votare la fiducia al governo Letta, il quale non credeva ai suoi occhi e rideva sotto i baffi, lasciandosi andare ad un commentino captato dal labiale: “Incredibile!”. Oggi, dopo aver demonizzato il movimento cinque stelle per tutta la campagna elettorale, dopo averne insolentito gli esponenti, ridotti a pulitori di cessi o a epigono hitleriani, dopo avere sdegnosamente respinto le censure politiche rivolte alla sua persona ed al suo partito, dopo essersi sprofondato in elogi verso Sergio Mattarella, dopo aver detto ripetutamente “mai con i grillini”, ritorna sui suoi passi, la beve da botte, e, con quel faccione sempre più simile ad una maschera di carnevale, trova il modo di concedere il via libera al tanto vituperato accordo tra Lega e Cinquestelle. Al governo con il nulla osta dello psiconano: il massimo per Beppe Grillo. Mi sembra sia il suggello ad un’operazione, che non segna la fine della seconda repubblica, ma forse la fine della politica. E qualcuno, spiazzato dallo slalom dimaiano, sta a sottilizzare, aspettando di vedere se il nuovo (?) governo avrà il coraggio e l’autonomia di programmare e adottare provvedimenti contro il cavaliere.

Siamo alla fiera delle incoerenze in nome del popolo italiano, che guarda, paga e tace, come il più sciocco dei mariti. Il bello però deve ancora venire. È solo l’inizio. Chi presiederà questo governo, chi ne saranno i ministri? Come verrà accolto dalla Ue e dai mercati finanziari? Mi ha colpito nei giorni scorsi un commento di un autorevole giornalista, Federico Rampini, il quale, alla domanda su cosa pensassero all’estero dell’Italia politica, ha risposto candidamente che non pensano niente, nella misura in cui il nostro Paese è perfettamente in linea con la deriva politica in atto, più o meno, in tutto il mondo.  In effetti cosa volete che ne dica Trump? Assomigliamo a lui sempre più. Cosa pensate che dica Putin? Assomigliamo a lui sempre più. Cosa pensate che ne dicano gli inglesi? Presto potremmo seguirli fuori dall’Europa? Cosa pensate che ne dica Macron? Ha già i suoi abbondanti grattacapi. E la Merkel? Le basta liberarsi alla svelta di Mario Draghi. E gli altri Paesi europei? Sono messi politicamente peggio dell’Italia.

Di Berlusconi risero, inevitabilmente e maleducatamente, la Merkel e Sarkozy. Oggi ci sarebbe da sbellicarsi dalle risa, se non che Sarkozy non ha più alcuna voglia di ridere, e Angela Merkel deve stare sotto traccia. Non c’è più Obama a cui accendere una candela. Resta solo Mattarella. Non lasciamolo solo!

 

Il martire del dialogo

In questi giorni in cui ho letto, ascoltato, visionato tanti ricordi su Aldo Moro in corrispondenza del quarantesimo anniversario della sua tragica morte, ma anche in concomitanza con le squallide vicende di una sconfortante contingenza politica, mi ero ripromesso di non cedere alla tentazione della nostalgia e di evitare l’impietosa lettura politica del presente sulle ali della rivalutazione storica del passato. Ho provato a resistere, ma, lo confesso, non ci sono riuscito.

Risparmio i facili e paradossali raffronti tra i leader odierni e quelli del passato, non mi avventuro in analisi comparate tra prima, seconda, terza, quarta repubblica, perché la Repubblica è una, è nata dalla Resistenza, è democratica e fondata sul lavoro, è frutto della coerenza, della sensibilità e della lungimiranza di esponenti politici cattolici e laici, democristiani, socialisti e comunisti, di cui purtroppo si è perso lo stampo umano e culturale.

Mi limito a due riflessioni. In un tempo in cui i rapporti sono freneticamente e presuntuosamente impostati sul clamore del nulla fatto identità, emergono grandiosamente lo stile e la cifra dell’opera di Aldo Moro, riconducibili sostanzialmente al “dialogo”, presupposto irrinunciabile nei rapporti tra gli uomini, tra le generazioni, tra le classi sociali, tra cultura e politica, tra partiti, tra Stati, tra religioni. Il dialogo con gli studenti, anche i più ribelli, con i lavoratori, anche i più rivoluzionari, con i partiti, anche i più incollati alle ideologie, con gli Stati, anche i più chiusi nella loro logica di potenza. Il dialogo, che, durante la prigionia di Aldo Moro, diventa probabilità di trattativa, come avviene durante le guerre per tenere aperto lo spiraglio della pace.

Sì, il dialogo! Che non è mai fine a se stesso, perché è onesto e attento ascolto delle ragioni altrui. Lui ne era il paladino e ne diventò il martire. Sono sicuro che tentò di dialogare anche con i suoi carcerieri, con i brigatisti, che non ci diranno mai cosa sia effettivamente successo in quei giorni: troppo grande la distanza abissale tra la cattiveria di un’assurda rivoluzione e la mitezza di una problematica riforma. Lo Stato in quei difficilissimi giorni non provò nemmeno a seguire Moro sulla strada del dialogo/trattativa, preferendo attestarsi sul primato assoluto del diritto dello Stato rispetto alla spasmodica ricerca dello Stato dei diritti. Non era paura, non era debolezza psicologica, non era puro spirito di conservazione, era uno stile di vita portato fino alle estreme conseguenze. Moro, vittima del dialogo, o meglio, vittima della mancanza di dialogo. Moro non muore disperato, basta leggera la lettera di addio alla moglie, in cui chiude in modo grandioso il cerchio della sua vita, mettendo ogni cosa al suo posto (la verità tutta intera, come dice il Vangelo).

La seconda riflessione mi viene suggerita dalla memoria che ne fece, a caldo, Amintore Fanfani, allora Presidente del Senato, portatore di una visione politica diversa, ma ugualmente apprezzabile nella sua profondità di pensiero e nella sua coerenza di comportamento.   Non a caso fu il democristiano che cercò di trovare qualche appiglio moroteo durante i giorni della prigionia, non a caso fu l’unico personaggio politico accolto alle esequie promosse dalla famiglia in forma drasticamente privata, non a caso era considerato, rispetto a Moro, l’altro cavallo di razza della leadership democristiana. Andò a prestito dalle parole che lo stesso Moro usò per ricordare il tragico attentato a John Kennedy. I giganti della storia passata che “si danno voce”, mentre i nani della storia presente “si danno nella voce”.

Il bis elettorale a rischio stecca

In questi travagliati giorni della politica italiana, dal momento che si avvicina con sempre maggiore probabilità una nuova ravvicinata consultazione elettorale con una campagna propagandistica ancora peggiore di quella da cui non siamo ancora totalmente usciti, ci si interroga sul grado di comprensione dell’elettore medio rispetto a quanto è avvenuto e sta avvenendo: perché si ritorna alle urne, chi ha la responsabilità dell’ingovernabilità, cosa vogliono fare i partiti al di là delle promesse, quali prospettive ha di fronte l’Italia, qual è il futuro del Paese nei rapporti con l’Unione Europea, quali problemi sono prioritari per l’interesse nazionale e via discorrendo.

Molti autorevoli commentatori temono che l’elettorato si possa fare ulteriormente sviare dalla rissa populista che sta montando: i partiti usciti vincitori (?) dalle urne del 04 marzo sosterranno di non essere stati messi in grado di  governare perché il sistema non vuole saperne di cambiare, giocheranno allo scaricabarile (prima hanno giocato a fare i primi in classifica, adesso cominceranno a  darsi reciproche colpe di immobilismo), chiederanno ulteriore forza per poter prender in mano la situazione, arriveranno quasi sicuramente a dare colpe al Presidente della Repubblica, ai poteri forti annidati a Roma e Bruxelles, a papa Francesco che continua a predicare accoglienza agli immigrati.

Non è sicuramente facile districarsi nella baraonda parolaia e quindi in molti sono portati ad assolvere l’elettore, smarrito tra ideologie morte e sepolte e un mondo in rapido e continuo cambiamento, dando la colpa alla politica sempre più difficile da capire e giustificando quindi il ripiegamento elettorale del cittadino su risposte troppo semplici a problemi troppo difficili. Non la penso così. Non bisogna avere la laurea in giurisprudenza per capire che, stante il nostro sistema istituzionale, si va ad eleggere il Parlamento, che dovrà poi legiferare ed esprimere un governo: non si vota per il premier, non si vota per un governo, si vota per eleggere i propri rappresentanti nelle due Camere e sono loro che dovranno mettere in moto tutto il discorso.

Non occorre un provetto giurista per sapere che il nostro sistema elettorale (salvo modifiche assai improbabili) è sostanzialmente proporzionale e quindi garantisce una certa rappresentatività, ma non l’automatica governabilità, e quindi chi esce premiato dalle urne non potrà automaticamente governare salvo il raggiungimento di alte percentuali di voti (allo stato attuale piuttosto improbabili).  Non è necessaria la laurea in economia con tanto di master per comprendere che per governare decentemente bisogna avere i conti in ordine, non perché lo esige la UE ma perché lo impone la diligenza del buon padre di famiglia, e che quindi certe sbandierate riforme sono irrealizzabili se non accompagnate da precise e realistiche coperture finanziarie.

Non ci vuole un esperto di rapporti internazionali per rendersi conto che l’Italia non è un’oasi in cui fare e disfare quel che si vuole, ma un vaso, forse di coccio, in mezzo a vasi, forse di ferro, e che quindi bisogna pensare di fare quel che si può. Non è necessario essere un sociologo per capire che il nostro sistema pensionistico deve necessariamente alzare l’età pensionistica in corrispondenza dell’aumento dell’età media delle persone e che quindi le promesse di mandare tutti in pensione il più presto possibile assomigliano a quelle di quel comiziante che arringava le folle con la prospettiva di lavorare un mese all’anno (al che il solito pierino chiese quando si sarebbero fatte le ferie…). Non necessita un esperto in materia demografica per prendere atto che i flussi migratori sono inevitabili e che non possono essere esorcizzati, non solo per motivi umanitari ma per ragioni oggettive: un conto è impegnarsi a governare questi fenomeni un conto illudersi di chiudere le frontiere, alzare muri, rimpatriare sic et simpliciter migliaia e migliaia di immigrati.

Non occorre un criminologo di fama per comprendere che il discorso della sicurezza, pur essendo una sacrosanta esigenza dei cittadini, non può trovare soluzione tramite la indiscriminata criminalizzazione degli immigrati, con la licenza di uccidere per il cittadino a rischio, con il semplice inasprimento delle pene, con le carceri ridotte a lager, con le ronde padane o con lo stato d’assedio. Il problema esiste, eccome, ma deve essere affrontato in un quadro realistico e non sui tavoli dei bar sport.

Per votare con buon senso e saggezza basterebbe mettere a frutto in positivo un decimo dell’acume che gli italiani dimostrano di possedere quando fanno la dichiarazione dei redditi o quando, comunque, aggirano con grande abilità e padronanza diversi obblighi di legge. Ritengo quindi che il voto pressapochistico non sia dovuto alle tecnicalità, alle lusinghe ed alle complicanze della politica, ma alla comoda e sbracata protesta, che oltre tutto, molto spesso, non viene da chi ne avrebbe veramente i motivi.  La gente deve capire che i problemi non si risolvono con una croce sulla scheda elettorale senza capire cosa sta dietro i problemi, dietro la scheda elettorale e quel che viene dopo le elezioni. Parole, parole, parole, diceva quella bella canzone di Mina. Votare, votare, votare, dice l’inconcludente refrain dei finti tonti dell’antipolitica.

 

L’incompiuta di Mattarella

Giudico un autentico capolavoro di realismo e diplomazia la soluzione proposta e messa in atto dal Presidente della Repubblica per uscire dal pantano in cui ci hanno sprofondato i cosiddetti vincitori delle recenti elezioni politiche. È riuscito a combinare l’esigenza di intervenire nella sua qualità di rappresentante e garante dell’unità nazionale e degli interessi del popolo italiana pur nel rispetto dei risultati elettorali e del ruolo dei partiti politici: varerà un governo definito di servizio, garanzia e neutralità, che dovrebbe rimanere in carica fino alla fine dell’anno in corso per far fronte agli impegni di carattere istituzionale, finanziario ed internazionale, formato da persone super partes e che non si dovranno candidare alle elezioni da tenere nei primi mesi del prossimo anno. Qualora il Parlamento non dovesse concedere la fiducia a questo governo, lo stesso guiderà il Paese alle immediate elezioni da tenere presumibilmente il prossimo autunno, considerata come demenziale l’ipotesi temporale del mese di luglio su cui i maggiori partiti sembrano scriteriatamente orientati.

Basterebbe questa richiesta del voto a luglio per squalificare l’atteggiamento irrazionale e testardo dei partiti, preoccupati soltanto di svuotare populisticamente al più presto il cassetto elettorale, che pensano si stia ulteriormente riempiendo di protesta e di antipolitica. Essi si sono già frettolosamente espressi contro le proposte del Colle e puntano a respingerle in Parlamento assumendosi la (ir)responsabilità di trascinare a forza il Paese verso l’incognita delle elezioni bis, che loro considerano una sorta di ballottaggio fra centro-destra a guida leghista e movimento cinque stelle: sì, un ballottaggio non fra due proposte politiche, fra due programmi di legislatura, fra due visioni politiche, ma fra l’estremismo facilone del “ghe pensi mi” e la generica protesta del “tutti ladri e tutti stupidi al di fuori di noi”.

Non sono convinto che il centro-destra e il M5S voteranno pregiudizialmente contro il governo messo in campo dal Capo dello Stato il cui profilo si preannuncia piuttosto elevato e garantista per l’Italia e l’Europa. Voglio vedere come giustificheranno dai banchi del Parlamento questo autentico sgarbo istituzionale, questa irrazionale rivincita, questo sclerotico modo di fare politica. Alla delicatezza presidenziale che tiene persino aperta la finestra verso eventuali accordi politici, dando la garanzia dell’immediato passo indietro del governo di garanzia, risponde la rozzezza di una classe politica ignorante e presuntuosa. Sono pertanto soprattutto curioso di vedere come reagiranno gli elettori di fronte a tanta impazienza nei loro confronti, considerati come un pallottoliere da maneggiare freneticamente, come una riserva di caccia da svuotare il più in fretta possibile, come una massa di pecoroni da trascinare verso il baratro. Spero in un risveglio di capacità critica da parte del popolo italiano. Tutto infatti ha un limite e penso che i fracassoni della politica lo stiano ampiamente superando.

Attendo con ansia di conoscere chi sarò chiamato a presiedere il governo e chi saranno i ministri, che dovrebbero condurci per mano nei prossimi pochi ma delicati e impegnativi mesi. Continuo ad aver fiducia in Sergio Mattarella. Sono sicuro che avrà altre frecce al proprio arco e le scoccherà al momento opportuno. Alle sue frecce ben mirate risponderanno le bombe gettate dai partiti alla viva il parroco. In mezzo c’è il popolo italiano. Riuscirà a capire da che parte sta la ragione? Spero di sì, anche se non ne sono affatto sicuro. Il rammarico sta comunque nel fatto che la sinfonia, composta con vena politicamente artistica dal Presidente, possa rimanere alquanto incompiuta. Un vero peccato!

Il tête-a-tête fra Salvini e Di Maio

Quando decisi, dopo sofferta valutazione, di dimettermi dal posto di lavoro che ricoprivo, per sopravvenute e comprovate incompatibilità di vedute, all’ultimo minuto, in zona-Cesarini per dirla con linguaggio calcistico, mi giunsero delle proposte da personaggi che, in buona fede tentavano di trattenermi senza averne l’autorità e il potere: ero tentato di ascoltarli, ma per fortuna mi venne in soccorso la saggezza di una collega, che mi stimava veramente e mi voleva molto bene, la quale mi consigliò di lasciare perdere e di decidere di testa mai senza farmi fuorviare da proposte confuse e illusorie. Seguii il consiglio e andai per la mia strada.

Mi è venuto spontaneo questo riferimento personale ascoltando la proposta di Luigi Di Maio, sparata, per continuare ad usare metafore calcistiche, nei minuti di recupero, forse addirittura quando l’arbitro ha il fischietto in bocca per chiudere la partita della formazione del nuovo governo. Si tratterebbe di un patto tra M5S e Lega, basato su due punti: evitare governi tecnici, che nascano al di fuori delle logiche di partito e che quindi non abbiano connessione col Paese reale, mettendo in campo “gente che metta testa e cuore in quello che fa”; scegliere il Presidente del Consiglio in un summit tra Salvini e Di Maio con disponibilità a ripiegare di comune accordo su terzi personaggi.

Ammetto che la più bieca abilità dialettica non faccia difetto al presunto leader grillino: la racconta bene, e fin qui niente di strano, il problema è piuttosto che una larga fetta di italiani ci crede e lo vota. Ma torno rapidamente ai punti di cui sopra. Sul fatto che per governare, così come per svolgere qualsiasi incarico professionale, serva testa e cuore, non ho alcun dubbio, ma mi sembra una fandonia bella e buona che questo prerequisito sia monopolio di Salvini e Di Maio e che sia oggettivamente da escludere in capo a personaggi non provenienti dalla politica in senso stretto ed eventualmente incaricati dal Capo dello Stato di dar vita ad un governo al di fuori della ristretta logica delle alleanze politiche.

Per fare un esempio: è connesso con gli elettori chi mette superficialmente e velleitariamente in discussione, a corrente alternata, l’appartenenza dell’Italia alla UE e/o all’Euro oppure chi può lavorare con preparazione, esperienza e competenza per rimanere agganciati in tutto e per tutto alla logica europea? Lasciamo quindi perdere questi richiami demagogici e populistici “alla testa ed al cuore”. Per poter mettere testa e cuore in quello che si fa, bisogna averli personalmente a disposizione e siccome non esistono apparecchi atti alla misurazione di questi elementi, meglio lasciar perdere…

Vengo al secondo punto: la scelta a tavolino del capo del governo, in un inquietante tête-a-tête fra Salvini e Di Maio. Qui andiamo decisamente fuori del seminato costituzionale e della conseguente e consolidata prassi: l’incarico è una prerogativa del Presidente della Repubblica che, a sua totale discrezione, sente al riguardo i rappresentanti delle forze politiche presenti in Parlamento. Quanto prefigura Luigi Di Maio suona oltre tutto come una provocazione bella e buona al Capo dello Stato, una sorta di paradossale inversione dei fattori che tende a cambiare il prodotto: anziché essere il presidente che mette i partiti di fronte alle loro responsabilità (cosa peraltro fatta ripetutamente con stile e misura indiscutibili), sono gli inconcludenti partiti a parlare sguaiatamente nella mano del presidente e ad ostacolarne e condizionarne le mosse.

Siamo proprio agli sgoccioli della democrazia, prigionieri dei tatticismi di chi non sa nemmeno dove sta di casa la politica. L’articolo uno della Costituzione recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. A proposito di forme e limiti non scritti recupererei a questo livello il criterio suggerito da Di Maio: per partire col piede democratico giusto, quando si vota, bisognerebbe usare la testa e il cuore. Non sono per nulla sicuro che gli italiani abbiano votato facendo funzionare gli organi suddetti, mi auguro recuperino quanto prima il pieno possesso delle loro facoltà mentali e sentimentali.

Il latte alle ginocchia

Non è il fatto del giorno, infatti è successo a Parma circa una settimana fa. Soprattutto non è un fatto rilevante. Una mamma allatta il suo bambino in uno spazio pubblico, il chiostro dell’Università, e viene invitata da una “solerte” addetta alla vigilanza a tenere un atteggiamento più discreto, vale a dire a coprirsi il seno o ad appartarsi per non urtare la sensibilità dei passanti. Scoppia il caso che diventa addirittura di carattere nazionale.

Bisogna proprio dire che a Parma e in Italia abbiamo tempo da perdere. Ci sono questioni che andrebbero risolte col buon senso e in questo caso mi sembra che tutti i protagonisti non l’abbiano usato: la studentessa che ha segnalato il caso come imbarazzante (cosa ci sia di imbarazzante nel vedere una donna che allatta suo figlio non mi è dato di capirlo); la vigilante che rimane interdetta (sono sempre sue parole) di fronte ad una mamma che, a petto scoperto, concede la poppata al suo bambino (facciamo tanto gli emancipati e poi ci scandalizziamo di fronte ad una donna che allatta: consiglio al riguardo di andare ad ammirare la Madonna della Steccata); i genitori che si sono rivolti alla “Gazzetta di Parma” per raccontare l’episodio di cui si sono sentiti vittime (forse più alla ricerca di facile pubblicità che di giustizia); la “Gazzetta di Parma” che ci ha fatto sopra i paginoni (i media non si smentiscono mai…).

La mamma colta in “flagrante allattamento” si è sentita discriminata; la vigilante colta in “penoso eccesso di zelo” si è sentita logorata da un’assurda polemica; l’associazione “Futura” che da trent’anni lavora per diffondere la cultura dell’allattamento al seno ha espresso «il rammarico per una mentalità che ancora persiste nella nostra società, che fatica ad accettare l’allattamento come una pratica naturale e spontanea, espressione della salute e dell’amore tra mamma e bambino» e la vicinanza alla coppia che ha subito la discriminazione. Reazioni sopra le righe! Meno male che è intervenuto in punta di piedi il rettore dell’Università, dando una lezione di sensibilità, stile e misura a tutti.

Che mi fa sorridere è la sottolineatura del fatto che questa donna allattasse a seno scoperto: vorrei tanto che qualcuno mi spiegasse come si potrebbe fare ad allattare a seno coperto. Probabilmente si intenderebbe esigere la scopertura di una mammella alla volta e magari di ogni mammella solo il capezzolo. Altro che mutandoni per le ballerine in televisione negli anni della più feroce censura… Cerchiamo di essere seri. Siamo accusati di essere mammisti e poi ci scandalizziamo per una mamma che fa la mamma a pieno titolo e a seno scoperto (e dalli…).

Quando mi hanno segnalato il clamore suscitato dal caso, non volevo crederci. Poi mi sono documentato e mi sono chiesto: vale la pena che lo annoveri tra i miei fatti del giorno?  Ho ceduto alla tentazione, anche se, come noto, non dovrebbe fare notizia un cane che morde un uomo, ma un uomo che morde un cane. Nel nostro caso avrebbe fatto, forse, notizia un padre che allatta suo figlio a seno nudo. Una cosa è certa: mentre quel bambino si sarà goduta la poppata, a me è venuto il latte alle ginocchia.

 

 

 

I salotti televisivi e le soffitte istituzionali

Ricordo che mio padre, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi diceva: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che…”, se si andava al cinema con i filmati luce “il capo del governo ha inaugurato…”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”.

Il mondo è bello perché è vario e perché cambia, si capovolgono le situazioni anche se purtroppo la sostanza rimane abbastanza immutata. I media, quando non hanno l’obbligo, imposto dall’alto, di incensare il potente di turno, se lo vanno magari “liberamente” a cercare o addirittura si autoincensano al punto da tendere a sostituirsi al potere politico. È, più o meno, quanto sta succedendo durante la fase propedeutica alla formazione del governo italiano post-elettorale. Il cittadino ha ormai la pericolosissima impressione che i tempi e le scelte politiche siano dettati dagli studi televisivi in cui imperversano cronisti, editorialisti e politologi, in una sarabanda in cui le istituzioni sono relegate in un angolo e sembrano muoversi a bacchetta rispetto agli input mediatici. Come ha sottolineato acutamente Piero Fassino, un politico serio ed equilibrato, viene tristemente accreditata l’idea di una politica talmente mediatizzata al punto da prescindere dai poteri e dalle prassi costituzionali.

Tutti sono intenti a dare lezione di diritto costituzionale al Capo dello Stato, su come e cosa fare a livello di prassi, sulle scelte da operare nell’interesse del Paese. In Italia da tempo siamo tutti commissari tecnici della nazionale di calcio, ora stiamo diventando tutti presidenti della repubblica istigati da un sistema informativo drogato, autoreferenziale e fuorviante. Siamo arrivati a questo punto: votiamo sotto dettatura mediatica e poi aspettiamo il governo suggerito dai talk show televisivi. Questa è democrazia? Io direi piuttosto videocrazia!

Non se ne può più, anche perché gli studi televisivi sono zeppi di personaggi che tirano esclusivamente l’acqua al loro mulino. Ai due poli mediatici tradizionali, Rai e Mediaset – il   primo, sempre più confusa espressione dei partiti politici, l’altro, sempre più furbesco portavoce del berlusconismo e del suo impero – si è aggiunto quello concertato da La7 in combutta col Fatto quotidiano, aggregante gli scontenti del renzismo e i tifosi del grillismo, sotto la perbenistica copertura di un certo culturame e di un petulante passatismo. Non si capisce dove vogliano parare, se non, per dirla in modo triviale, a “pararsi il culo”, puntando opportunisticamente sui nuovi fantomatici equilibri e tentando di condizionarli se non di cavalcarli. Siccome il presidente Mattarella è, per sensibilità, competenza, esperienza coerenza e correttezza, fuori dai giochini politico-mediatici, sta diventando il bersaglio di quanti temono che la politica possa, in qualche modo, recuperare il proprio ruolo al di là ed al di fuori del circo equestre in cui tutti trovano pane e companatico.  Spero che il Capo dello Stato riesca a resistere a questa subdola opera di sgretolamento istituzionale: gode di molto consenso a livello popolare e mi chiedo come mai. Forse la gente, quando si allontana dal video e guarda direttamente la faccia pulita delle istituzioni, recupera un po’ di lucidità.

 

Il Fico secco del moralismo politico

In quel di Napoli la collaboratrice familiare di Roberto Fico, novello presidente della Camera dei Deputati, darebbe una mano alla compagna dell’esponente grillino asceso alla terza carica dello Stato, ma lavorerebbe in nero in quanto amica di famiglia. L’interessata avrebbe invece confermato un vero e proprio contratto di lavoro con orari e turni. La “strabiliante notizia” delle Iene non mi sorprende e non mi scandalizza, non mi fa né caldo né freddo, non diminuisce e non aumenta la mia (disi)stima verso il M5S ed i suoi rappresentanti, non è una questione né di destra né di sinistra (ormai oltre alle mezze-stagioni i luoghi comuni si sono portati via anche le differenze fra destra e sinistra).

Il problema sta nel fatto che gli specialisti dell’anti-politica pongono una irrinunciabile pregiudiziale alla politica nel rigoroso rispetto delle regole etiche: se manca quello casca tutto il castello. E allora, come la mettiamo? Ammesso e non concesso che l’indiscrezione scandalistica corrisponda al vero, Roberto Fico, stando al moralismo di matrice grillina, dovrebbe dimettersi o almeno difendersi pubblicamente. Lo farà? Probabilmente finirà tutto in una bolla di sapone; resta il dubbio, non tanto sull’inquadramento previdenziale della colf in questione, ma sull’immacolata concezione del nuovo Presidente della Camera.

Se devo essere sincero non ne posso più di questo scandalismo da quattro soldi. Anche perché, dal momento che è palesemente pretestuoso e fazioso, si applica con cattiveria solo contro certi partiti mentre fa il mero solletico ad altri. Pensate cosa sarebbe successo a parti invertite: se alla Presidenza di Montecitorio fosse salito un esponente del Pd e fosse stato colto con le dita nella marmellata, cosa e quanto avrebbero sbraitato i cinquestelle, arrivando magari a chiedere una commissione d’inchiesta sulle colf di tutti i parlamentari di vecchia e nuova nomina.

Oltre tutto a volte si fa una certa confusione tra il sacrosanto diritto/dovere di un parlamentare ad occuparsi di certe questioni – vedi il salvataggio di un istituto di credito, di un’azienda, di un ente – che toccano comunque gli interessi dei cittadini elettori, e il lobbismo o addirittura l’interesse privato in atti d’ufficio o, ancor peggio, lo strisciante conflitto di interessi. Abbiamo tollerato contraddizioni pazzesche, abbiamo fatto finta per anni di non vedere la trave nell’occhio berlusconiano e oggi, improvvisamente, ci appassioniamo alle pagliuzze di tizio e caio.

Non intendo sottovalutare la questione morale, la pulizia etica, la trasparenza, la correttezza: esigenze giustamente sentite e sbandierate. Non sopporto tuttavia il tenere la politica sotto l’insistente ed insistito scacco e ricatto moralisteggianti. La questione morale si risolve alzando il livello della politica, non facendone un esercizio retorico di perbenismo formale. La vigilanza sul comportamento dei politici non si esercita con il qualunquistico pregiudizio e le gogne piazzaiole, ma facendo funzionare seriamente le istituzioni e gli organi di controllo.

Diverso tempo fa, quando stava emergendo alla grande il marciume della politica, un mio conoscente mi pose un quesito piuttosto retorico e provocatorio, ma comunque serio: è più qualunquista il politico che ruba o il cittadino che di fronte a certi comportamenti si schifa della politica in genere? Grande è la responsabilità di quanti svolgono pubbliche funzioni, ma grande è anche la responsabilità del cittadino, che giudica e non può e non deve farsi fuorviare dalla smania di fare d’ogni erba un fascio.   Attenti a non votare solo con le fedine penali in bella vista: a un politico si chiede di avere il certificato penale in perfetto ordine, ma anche di essere preparato, competente, capace, impegnato, esperto. Il governo degli onesti non è una utopia per imbecilli, come sosteneva Benedetto Croce. È soltanto una pregiudiziale esigenza su cui innestare tutti gli altri requisiti della classe politica.

 

 

Il bruco e la lumaca

Se l’idillio tra Salvini e Di Maio sembrava esploso con l’elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento, si è ben presto rivelato illusorio, si è trasformato addirittura in una rissa da cortile con pesanti e reciproche basse insinuazioni, con gli stracci che volano, con le carte bollate che fanno capolino, con risentimenti e minacce: sono bastati due mesi per mettere in crisi il paradossale matrimonio suggerito dagli elettori in vena di scherzare. Altro che divorzio breve!  Un’unione di fatto tra Lega e grillini? Una convivenza (in)civile? Non se ne fa niente! Si litiga di brutto prima ancora di cominciare a convivere.

Si tratta di un’ulteriore dimostrazione di come in politica due più due non faccia quattro, di come la politica, tutto sommato, sia una cosa seria ed assomigli molto di più ad una gara di trotto che non a un rodeo o, se preferite, al Palio di Siena. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere, ma, siccome il latte lo hanno versato gli elettori, è inutile piangere. Si dirà che la politica italiana, e non solo italiana, ha dato tristi rappresentazioni di sé anche in passato, che non è la prima volta in cui assistiamo a teatrini dell’assurdo. Anche questo è vero, tuttavia un esile filo per uscire dal labirinto si intravedeva. Oggi non lo vedo. Fin dalla nascita del movimento pentastellato dubitavo che dietro la verve di Beppe Grillo non ci fosse niente: molto fumo protestatario e niente arrosto propositivo, tutti i difetti della politica senza alcun pregio dell’anti-politica, molte promesse e poche premesse, la botte strapiena di professionismo sarcastico e la moglie ubriaca di dilettantismo politico, sotto il vestito dell’onestà il nulla della capacità.

E che dire della lega post-bossiana: andava meglio quando andava peggio. Rimpiango e rivaluto la schietta e genuina spinta padana della Lega-nord, che aveva qualcosa di nuovo con cui provocare la politica, rispetto all’odierna deriva sovranista e filo-fascista, che guarda ad un triste passato per affrontare i problemi di oggi. Sul berlusconismo meglio stendere un velo pietoso: è fallito su tutti i fronti meno quello dell’impero economico del cavaliere.

Con tali premesse non poteva farsi nemmeno un matrimonio di interessi: troppo scanzonati i potenziali sposi. Figuriamoci un matrimonio d’amore… E allora siamo al punto di partenza, dopo che gli atleti sono stati squalificati per falsa partenza. Uno spettacolo indecente di fronte ad un elettorato sempre più svergognato. Se questa triste esperienza potesse servire?! Ma non sarà così. Anche perché il partito democratico ci sta aggiungendo del suo. Di fronte al rompete le righe di destra e cinquestelle, davanti ad una colpevole confusione dei vincitori (?) delle urne, i piddini non trovano di meglio che mettersi a litigare di brutto al proprio interno, quasi a voler lanciare un masochistico messaggio all’elettorato del tipo “meglio male accompagnati dai fanfaroni anti-sistema che soli con i piagnoni del sistema”. Nella bagarre interna al PD c’è poco di strategico e molto di ennesima conta interna, c’è tutta la vecchia politica che reagisce come una lumaca alle picconate dell’antipolitica e rischia di assistere impotente alla ingannevole trasformazione del bruco in farfalla. Invece di accreditarsi come lenti ma inesorabili protagonisti del nuovo con cui fare i conti, stanno riuscendo a presentarsi come testardi epigoni del vecchiume da scartare a priori. Un perfetto assist per rimettere in partita chi è “scoppiato” subito dopo il calcio d’inizio.

 

 

Il vuoto in cui siamo sprofondati

Non so quale sia la scaletta del Presidente della Repubblica in merito alla soluzione del governo per il Paese: starà seguendo sicuramente una sua logica costituzionale ed istituzionale. Mi fido ciecamente. Gli abbiamo consegnato una situazione post-elettorale da brivido e non possiamo pretendere il miracolo; abbiamo rotto il sistema politico e pretendiamo che Mattarella rimetta insieme i cocci? Sarà una gara dura. Vedo esaurirsi uno dopo l’altro i suoi passaggi e comincio a dubitare del suo asso nella manica, di quel governo del presidente in cui tanto speravo. Mi pare eloquente il suo discorso del primo maggio: «Non mancano le difficoltà nel nostro cammino. Tuttavia, dove c’è il senso di un destino da condividere, dove si riesce ancora a distinguere il bene comune dai molteplici interessi di parte, il Paese può andare incontro con fiducia al proprio futuro».

C’è il senso di un destino da condividere? Si riesce a distinguere il bene comune dagli interessi di parte? Nutro seri dubbi al riguardo. Che spaventa dell’attuale situazione politica italiana non sono i contrasti, le divergenze programmatiche, le visioni diverse. Guai se non fosse così. L’Italia, per dirla con Alcide De Gasperi, è zeppa di politici che guardano alle prossime elezioni, ma è sprovvista di statisti che guardano alle prossime generazioni. Qui sta il punto dolente, la piaga in cui il Capo dello Stato sta mettendo il dito.

Se i partiti ed i politici non riescono a guardare oltre il proprio naso, tutte le soluzioni governative rischiano di infrangersi contro un muro di reciproci veti o di cadere nel vuoto ideale e programmatico in cui siamo sprofondati. Provo a fare un esempio. Mettiamo il caso che Mattarella, finite le frecce al proprio arco rivolte ai partiti, tiri fuori la sua arma migliore: un governo di altissimo profilo tecnico-istituzionale per affrontare i rapporti con l’Europa e con il mondo, per impostare una politica di bilancio rigorosa ed equilibrata  tra risanamento dei conti pubblici e ripresa economica, per dare una spinta alla ripresa dell’occupazione legata alla crescita economica, per una gestione oculata del fenomeno migratorio, per un’attenzione fattiva ai problemi della sicurezza, per una riconsiderazione della legge elettorale.

Ammettiamo che riesca ad incaricare in tal senso un personaggio di grande livello e credibilità interna ed internazionale: tanto per non fare nomi, Mario Draghi, il quale riesca a mettere in piedi una squadra di governo all’altezza della situazione. Ne sarebbe capace. Ammettiamo che questo governo ipotetico governo si presenti in Parlamento e chieda la fiducia su un programma preciso e chiaro. Cosa succederebbe?

Il buon senso vorrebbe che la proposta fosse presa sul serio, mettendo da parte gli interessi di bottega, le vittorie e le sconfitte elettorali, i veti contrapposti, le pregiudiziali personali, i risentimenti e le vendette. Non lo credo possibile. Di Maio dirà che il Paese vuole il cambiamento e non un governo tecnico. Salvini sosterrà che si tratta dell’ennesimo attentato alla democrazia. Berlusconi si limiterà a chiedere un posto per Tajani. Il PD ricorderà il 2011 e non si vorrà svenare ulteriormente. Tutti avranno mille motivi per dire no al “governo del presidente”. L’elettore medio avrà il timore che dietro un tale governo ci siano pronte le solite stangate.  Mia sorella usava spesso un’espressione dilettale, che tento di tradurre: “Quando non ce n’è, non se ne può spendere”. Credo che Mattarella se ne stia rendendo conto e, a meno di miracoli, dovrà tenerne conto e dovrà ripiegare su soluzioni di basso profilo e di breve termine. Poi andremo alle elezioni: ci arriveremo arabi e ne usciremo turchi. Comunque un grazie di cuore al presidente Mattarella, che ce la sta mettendo tutta.