Molti nemici, molto (dis)onore

Il regime fascista usava parecchi slogan per accalappiare il consenso popolare. Uno di questi diceva paradossalmente: “Molti nemici, molto onore”. Questa frase, che per la verità può essere interpretata in vario modo, per il fascismo voleva significare come la politica della fermezza, portata fino alle estreme conseguenze, paghi anche se rischia l’isolamento. Siamo all’opposto della coesistenza pacifica, una sorta di celodurismo e bullismo internazionali tornati molto di moda tramite il trumpismo, il putinismo, il sovranismo, il populismo e tutti gli ismi del genere, che altro non sono se non l’applicazione dell’egoismo a livello nazionale.

La nascita del nuovo governo Lega/M5S sta coltivando un atteggiamento conflittuale nei confronti dell’Europa, improntato al rivendicazionismo, al risentimento, alla messa in discussione dei patti. Logicamente queste prese di posizione, tradotte in modo equivoco nel programma di governo, suscitano irritazione e preoccupazione nei partner europei e negli organismi dell’Unione. I pronunciamenti in tal senso, a loro volta, suscitano piccate reazioni italiane che li bollano come inaccettabili intromissioni, accrescono momentaneamente ed orgogliosamente il consenso e scuotono strumentalmente la pubblica opinione, ma alla lunga allontanano dal nostro Paese l’opinione pubblica europea, portandolo ad uno sterile e insensato isolamento.

I rapporti con l’Unione Europea possono essere impostati e vissuti in due modi: mostrando i muscoli, peraltro piuttosto flaccidi, per strappare, a dispetto dei santi, un rafforzamento della posizione italiana oppure partecipando con pazienza e convinzione alla vita delle istituzioni europee e cercando di rinegoziare eventuali nuovi equilibri, che aiutino l’Italia a risolvere i suoi problemi in un contesto di integrazione e collaborazione. Dal momento che nessuno può ritenersi autosufficiente, men che meno l’Italia, la strada è obbligata salvo esercitarsi in un demagogico duello senza capo né coda. È questa la principale incognita che accompagna la nascita del nuovo governo, alla luce dello “stranoto” euroscetticismo leghista e dell’inquietante cerchiobottismo pentastellato. Il contratto di governo non può che rispecchiare queste contraddizioni ed a nulla serve tranquillizzare al buio i partner europei; si sa benissimo che, quando l’interlocutore è agitato ed inquieto, è perfettamente inutile e addirittura controproducente invitarlo alla calma.

Abbiamo motivazioni e ragioni per essere critici: basti pensare all’inerzia europea sul problema dell’immigrazione, basti fare riferimento al rigorismo fine e a se stesso dei Paesi nordeuropei, al sussiego transalpino, al carrozzone burocratico invadente e prevaricante. Non sono sufficienti però a giustificare pericolose prese di distanza. Non è serio scaricare provocatoriamente sui conti pubblici le impraticabili promesse elettorali. Se si comporteranno così, non so quanta credibilità avranno i futuri governanti italiani quando si siederanno ai tavoli europei, da non snobbare o aggredire perché è su di essi che si gioca gran parte del nostro avvenire.

La parola prevalente a livello europeo verso il futuro governo è “preoccupazione”, soprattutto per l’eventuale inosservanza degli impegni assunti in materia di riequilibrio dei conti pubblici. Non saranno tutti stupidi o in mala fede coloro che lanciano questi allarmi. Potrà esserci un po’ di spocchia, ma sarebbe meglio rispondere con modestia e umiltà. Facciamoci molti amici, ci serviranno nel momento del bisogno e Dio sa quanto bisogno abbia l’Italia di essere aiutata.  Non ci serve un governo altero e presuntuoso, ma dignitoso e modesto, capace di collocare i nostri interessi in ambito europeo.

 

 

 

Un governo a rischio pirandelliano

Una delle gratificazioni presenti nel mio lavoro era quella di poter combinare la preparazione tecnica e l’esperienza professionale con la sensibilità dal punto di vista sociale (la cooperazione) e con l’impegno di carattere politico seppure non a livello partitico ma a livello di un’organizzazione imprenditoriale al cui servizio mi onoravo di operare (da funzionario). Ricordo come, assieme ai colleghi delle altre province, ironizzavo, durante certe riunioni, sul diverso profilo tecnico e politico imposto dagli argomenti affrontati. “Ora interrompiamo brevemente la riunione, dicevo, usciamo un attimo, ci cambiamo l’abito e poi rientriamo e continuiamo la riunione”.

Il mix tecnico-politico, probabilmente la cifra caratteristica del nuovo governo, non mi scandalizza affatto. Il problema sta nel fatto che la “tecnicalità” del presidente del consiglio e di alcuni ministri non servirà ad irrobustire la politica, ma a coprirne le contraddizioni e le magagne. Mi viene in mente la barzelletta del colloquio tra un avvocato e il suo cliente durante il quale vengono passati in rassegna i vari punti della causa. Il legale di fiducia, quando affronta i punti forti della sua impostazione, dice con una certa enfasi: «Qui vinco alla grande!». Quando arriva a toccare i punti più deboli, afferma sconsolatamente rivolgendosi al cliente: «Qui lei la prende in quel posto!».    E l’attonito e perplesso cliente ribatte: «Com’è questa faccenda? Quando si vince il merito è suo…quando si perde la prendo nel …. io…». Forse succederà così nel nuovo governo tra politici e tecnici, anche se molto probabilmente a prenderla in quel posto saranno gli italiani.

Non si tratta di un governo di cambiamento, ma di equivoco comunicativo. Il programma cambia e cambierà in continuazione: niente di male, ma il programma è diventato un contratto, e quindi per cambiare un contratto occorrerebbe la comune volontà delle parti, mentre nel caso in questione saranno soprattutto le bypassate condizioni oggettive di vario ordine a imporre un accordo camaleontico. Quello che non sarà possibile fare sarà colpa dell’Europa, dei poteri forti, del sistema in oltranzistica difesa, della tecnica prevaricante sulla politica. Ciò che verrà mantenuto sarà invece tutto merito dei partiti di governo e della loro volontà di innovazione. Quello che si sarebbe definito confusione programmatica viene spacciato per attenzione ai contenuti ed ai bisogni dei cittadini, che vengono prima dei vincoli e dei limiti oggettivi. Quello che si sarebbe spregiativamente bollato come inciucio, come accordo di potere tra forze diverse e talora persino alternative, viene rivalutato a compromesso ai livelli più alti, mentre in realtà il tutto avviene tra chi sostiene tesi opposte e trova il collante non tanto nella spinta degli elettori, ma nella opportunità di sfruttare l’aria che tira. Mi si perdonerà la digressione pirandelliana: sarà il governo del così è se vi pare, dei ministri in cerca d’autore, del giuoco delle parti, della recita a soggetto e speriamo non si arrivi al governo che non è una cosa seria.

Lasciateci lavorare! Ma certo, e chi lo potrà mai vietare. Il Presidente della Repubblica non lascia giustamente trasparire le sue perplessità: sta prendendo tutte le precauzioni del caso, come si fa quando si inizia una terapia piuttosto invasiva e piena di controindicazioni. Intende mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità, anche se mi sembra non possa andare molto oltre quel che faceva mio padre, quando saliva in un’auto guidata da una persona sconosciuta. Si fidava del prossimo con una giusta punta di scetticismo ed a chi gli forniva un “passaggio” in automobile, se si trattava di persona sconosciuta o che non gli ispirava troppa fiducia, era solito chiedere: “ Sit bon ad  guidar”. Naturalmente l’autista in questione rispondeva quasi risentito: “Mo scherzot?!”  E mio padre smorzava sul nascere l’ovvia rimostranza aggiungendo: “Al fag parchè se pò suceda quel, at pos dir dal bagolon”.

 

Guardoni di tutto il mondo svegliatevi!

Da bambino chiedevo conto ai miei genitori del loro comportamento in occasione del referendum Monarchia-Repubblica nell’immediato dopoguerra. Entrambi non nascondevano il loro voto: mia madre aveva votato monarchia, mio padre repubblica. Nel 1946 vivevano insieme da dodici anni, ma ognuno, giustamente, manteneva le proprie idee politiche e le esprimeva liberamente. Mia madre così giustificava la sua difesa dell’istituto monarchico: «Insòmma, mi al re agh vräva bén!». Non un granché come motivazione politico-istituzionale, ma mio padre non aveva nulla da eccepire. Taceva. Io non mi accontentavo e, da provocatore nato, chiedevo: «E tu papa? Cos’hai votato?». Rispondeva senza girarci attorno: «J’ ò votè Repubblica!». Allora mia madre controbatteva che comunque l’opzione repubblicana vinse con l’aiuto di brogli elettorali. A quel punto mio padre si chiudeva in un eloquente silenzio e aggiungeva solo: «Sì, a gh’é ànca al cäz, ma…». Mia sorella invece girava il coltello nella piaga e rivolta polemicamente a mia madre diceva: «Il re, bella roba! Ci ha regalato il duce per vent’anni, poi, sul più bello, se l’è data a gambe. E tu hai votato per il mantenimento di questa dinastia?». Papà allora capiva che la moglie stava andando in difficoltà, gli lanciava la ciambella di salvataggio e chiudeva i discorsi con un: «J éron témp difìcil, an e s’ säva niént, adésa l’é tutt facil…».

Di fronte al matrimonio, celebrato in pompa magna e accompagnato dall’entusiasmo dei sudditi, tra il principino inglese Harry, il secondogenito di Carlo e Diana, e Meghan Markle, ma soprattutto davanti all’eco mediatica di questo avvenimento con milioni di persone incollate al video, mi sono chiesto se tuttora non vinca l’ingenua e sentimentale opzione materna rispetto alla disincantata e ragionata visione istituzionale paterna. Perché la gente sente il bisogno di curiosare nelle vicende private di un erede al trono di Inghilterra? In un tempo dominato da scetticismo, non è strano questo morboso attaccamento alle teste coronate? Facciamo fatica ad andare a votare e poi perdiamo ore del nostro tempo a guardare con l’acquolina in bocca le parate regali inglesi. Si respira un’aria anacronistica e di evasione in una sorta di “bunga-bunga” collettivo. Ho provato una grande pena per il principe azzurro in alta uniforme e per la sua sposa di bianco vestita con strascico a non finire, per la famiglia reale impettita e scialba, ma soprattutto per la gente che si entusiasmava dal vivo e davanti al video.

Ricordo quando avevo l’occasione di assistere agli spettacoli lirici all’Arena di Verona: quanto mi infastidivano coloro che all’ingresso “sgolosavano” facendo ala agli “elegantoni” ed osservando la sfilata del pubblico vip. Potevano benissimo costruirsi qualche occasione alternativa, ma confondevano la cultura con l’ostentazione dell’evento culturale. Mi pare la stessa e solita solfa che ha visto prima i “poveri” inglesi buttare il prete nella merda di Brexit per poi esaltarsi alle nozze del principe. La mancanza di dignità dei poveri è ancor peggio dell’egoismo e dell’ostentazione dei ricchi. In Italia dobbiamo fare i conti con esponenti politici assai discutibili, però almeno ci è risparmiata la parata regale. Viva la Repubblica!

Un voto che sta andando di traverso

Mia sorella Lucia, tra le sue bonarie critiche che mi rivolgeva, inseriva caricaturalmente la mia tendenza all’ansia: mi definiva simpaticamente “l’eterno preoccupato”.  Con il progredire dell’età questa mia caratteristica si sta accentuando e rischia di passare da sofferto stimolo al miglioramento a pericolosa spinta alla rassegnazione.   La politica italiana mi sta dando una mano nel diventare sempre più preoccupato: gli ultimi sviluppi elettorali e post-elettorali mi stanno letteralmente spaventando.

Leggo e ascolto però che l’atteggiamento prevalente verso le prospettive di governo è quello della preoccupazione. Sono tutti preoccupati, magari per diversi e opposti motivi, ma comunque tutti decisamente preoccupati. L’Europa teme di perdere un partner importante; i mercati finanziari temono l’instabilità e il pressapochismo di un gruppo dirigente improvvisato e incompetente; gli operatori economici temono che il troppo volere del governo giallo-verde finisca nel nulla stringere a livello di ripresa economica seppur timidamente avviata; l’occidente teme che l’Italia possa scherzare col fuoco del putinismo; i sindacati dei lavoratori temono che la spinta sociale del nuovo governo si risolva in una demagogica e scriteriata spinta al non-lavoro; i partiti di sinistra temono una deriva populista in cui tutti i gatti sono bigi; i partiti di destra temono un ignobile connubio che confonda le carte in tavola; le burocrazie, italiane e internazionali, temono un clima da “liberi tutti” in cui regni sovrana la confusione; i commentatori politici, dopo una frettolosa apertura di credito, cominciano a temere la schizofrenia istituzionale; i giornalisti hanno interrotto il loro feeling con i nuovi barbari e temono di non riuscire a riposizionarsi.

Forse il più preoccupato di tutti sarà il Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità nazionale dei preoccupati. E si chiederà quel che mi chiedo anch’io nella mia ignoranza: ma allora, chi li ha votati questi signori che vogliono governare il Paese? Il Capo dello Stato dirà: chi me li ha messi tra i piedi? Dal quattro marzo non ho più un momento di pace: tutti mi tempestano di allarmi e di preoccupazioni! Domande legittime. Berlusconi ha ritrovato la fiducia in Mattarella dopo averne fatto il pretestuoso motivo per mandare all’aria il patto del Nazareno col PD renziano; ha fatto pace con Angela Merkel solidarizzando con i popolari europei terrorizzati dai populisti europei; muore dalla voglia di sostenere un governo tecnico di emanazione mattarelliana dopo avere fatto indigestione di quello montiano. Forse il Pd si ricompatterà di fronte alla deriva giallo-verde: e non è facile ricompattare il Pd…

A mio modesto parere molta parte dell’elettorato che ha sfogato nell’urna la sua protesta, si sta rendendo conto dell’errore commesso, ma è presto per ammetterlo. Non è facile riconoscere i propri errori, anche perché il clima politico è talmente confuso da giustificare tutto e il contrario di tutto. Mi chiedo ingenuamente: era così per la nascita dei governi precedenti? Non mi pare. I programmi ci sono sempre stati. Gli organigrammi pure. I conti pubblici hanno da sempre bisogno di quadratura. Cosa è cambiato? Perché tutti sono così preoccupati? Qualche motivazione seria dovrà pur esserci. Attenti però perché questo è un argomento delicato: i protagonisti di questo tentativo brancolano nel buio, ma tendono a giustificare le contrarietà e le preoccupazioni che li avvolgono come reazioni al cambiamento che si sta profilando. Sarebbe il sistema che si difende a denti stretti. Non sono io che non sono capace di niente, sei tu che non vuoi cambiare niente: questa la linea difensiva da cui non sarà facile affrancarsi.

Il politburo all’italiana

Da oltre due mesi sentiamo ripetere il ritornello che l’elettorato ha premiato due forze politiche, M5S e Lega, e che quindi questi due partiti dovrebbero governare il Paese. Siamo proprio sicuri che il nascente governo di coalizione sia in linea col voto del quattro marzo scorso? Non ne sono affatto convinto per tre motivi.

Il primo è di ordine costituzionale: gli elettori votano per eleggere i due rami del Parlamento, vale a dire gli organi che detengono il potere legislativo, non votano una formula di governo, non votano un premier, non votano un governo detentore del potere esecutivo. Per arrivare al governo si devono compiere ulteriori passi: la designazione di un presidente del consiglio da parte del Capo dello Stato, la nomina dei ministri sempre da parte del Capo dello Stato su proposta del presidente incaricato e il successivo ottenimento della fiducia dei due rami del Parlamento. Pretendere quindi che gli elettori indichino un governo è una forzatura al sistema istituzionale delineato dalla nostra Costituzione.

Il secondo motivo è di carattere elettorale: il sistema in vigore, sostanzialmente proporzionale, non garantisce affatto che il partito o i partiti più votati abbiano automaticamente la maggioranza per governare. Un partito o una coalizione, se vogliono avere la capacità di governare, devono conquistare la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Diversamente si dovranno trovare maggioranze a livello parlamentare su cui basare la fiducia ad una compagine governativa.

Il terzo motivo è di natura politica: chi ha votato il centro-destra e, all’interno di questa coalizione, la Lega, ha conferito ad essi un mandato politico a governare tramite un accordo (ridefinito, con una infelice formula privatistica, contratto) con il Movimento Cinque Stelle? Chi ha espresso il proprio voto barrando il simbolo pentastellato intendeva consentire politicamente che il M5S si alleasse con la Lega per governare l’Italia? Nessuno può dirlo con certezza. Stando ai sondaggi, che valgono in questo caso meno di una cicca frusta, la maggioranza degli elettori dei due partiti maggiori sarebbe favorevole all’accordo di governo tra Di Maio e Salvini. Non certo a tutte le condizioni, non certo a tutti i costi, non certo a prescindere da chi lo presiederà e da chi ne farà parte a livello ministeriale. D’altra parte i programmi elettorali, pur omogenei sul piano della illusionistica concretezza, risultavano assai distanti e per certi versi incompatibili e quindi gli elettori non dovrebbero aver preso in seria considerazione l’eventualità di un’alleanza fra il diavolo e l’acqua santa.

Ecco spiegati due perché: quello relativo alla demagogica, strumentale e inattendibile chiamata a raccolta delle truppe cammellate per sottoporre l’accordo di governo alla ratifica degli iscritti dei due partiti, tramite una populistica chiamata ai gazebo o tramite una cliccata di massa (?); quello riguardante l’istituzione di una sorta di politburo  all’italiana, la creazione cioè di una struttura parallela al Consiglio del ministri, il Comitato di Riconciliazione, organismo in cui regolare i dissensi nella cooperazione fra le due forze politiche o prendere nuove decisioni rispetto al contratto stipulato, formato dai vertici dei due partiti, dal presidente del consiglio e dai ministri competenti per materia.

L’assurdo referendum al buio è fatto apposta per dare una patente di democrazia all’avventata operazione politica, il Comitato di Riconciliazione è lo specchietto per le allodole: questi sono gli strumenti usati dai regimi per accalappiare il consenso senza una effettiva presa di coscienza dei problemi. Una sorta di referendum-plebiscito con la sola scheda del SÌ e l’introduzione di un organismo arbitrale di finta garanzia politica. Non sono due novità di cambiamento, ma due dimostrazioni di code di paglia lunghe un chilometro. I SÌ vinceranno con maggioranze bulgare? Ammesso e non concesso che il Comitato di cui sopra resti nel contratto, non si riunirà mai o, se si riunirà, legherà sempre l’asino dove vuole il padrone? E chi sono i padroni? Quelli che volete e sapete, certamente non gli elettori!

La volpe berlusconiana e l’uva salviniana

Il partito socialista italiano nella sua contraddittoria storia si è per molto tempo distinto per le alleanze ballerine che promuoveva: a livello periferico andava a braccetto con i comunisti (il cosiddetto frontismo), mentre a livello governativo centrale si alleava con la democrazia cristiana e i partiti laici minori. Con questo gioco dei bussolotti, nascondendosi dietro il dito del fattore K, i socialisti lucravano una rendita di posizione al centro ed in periferia, proponendosi come ago della bilancia negli accordi di potere. Il “fattore k”, dal russo Kommunizm (comunismo), fu utilizzato per la prima volta in un editoriale di Alberto Ronchey sul Corriere della Sera nel 1979 per spiegare il mancato ricambio delle forze politiche governative nella prima annosa fase dell’Italia Repubblicana. In primo luogo al partito comunista era interdetta la partecipazione al governo a causa dello stretto legame con l’Unione Sovietica. In secondo luogo in Italia il Pci era la seconda forza politica in Parlamento e ciò impediva ai socialisti ed ai socialdemocratici di raggiungere un numero di consensi sufficienti per rappresentare l’alternativa di sinistra.

La berlusconiana Forza Italia sta iniziando a fare un giochino simile: nelle regioni e nei comuni governa con la Lega di Matteo Salvini, mentre a livello centrale si rifiuta di appoggiare la coalizione grillo-leghista o dimaian-salviniana come dir si voglia. Il gran rifiuto assomiglia molto all’atteggiamento della volpe nei confronti dell’uva nella favola di Esopo: una volpe furba e presuntuosa che trovò una vigna dagli alti tralicci e, non riuscendo a raggiungere l’uva, lasciò perdere, dicendo fra sé e sé: “Pazienza, si vede che non era ancora matura, non mi va di spendere troppe energie per un frutto ancora acerbo”. In realtà, infatti, detto come va detto, sono stati i grillini a mettere un veto a Berlusconi e non il contrario come si sta sforzando di fare il cavaliere, squalificando (peraltro giustamente) il M5S quale movimento di analfabeti della politica e della democrazia, di fannulloni arrivisti, di incompetenti a tutto tondo, di avventuristi antieuropei, di dilettanti allo sbaraglio presentati da Salvini.

Si sta utilizzando (peraltro giustamente) il “fattore E”, Europa, per bloccare o comunque condizionare sul nascere le velleità di un governo sfasciacarrozze. Silvio Berlusconi, che nel 2011 gridava al golpe quando gli strali europei era indirizzati (giustamente) al suo governo, oggi fa l’europeista convinto, il moderato amico dei popolari europei, il rispettoso osservante degli accordi monetari e finanziari, il preoccupato difensore dell’europeismo italiano, il notabile di un centro-destra con tanti voti (peraltro prevalentemente non suoi), ma senza capo né coda.  Oltretutto Berlusconi, ringalluzzito dalla verginità riconquistata con la riabilitazione giudiziaria, dimentica che l’inaffidabilità evidente di questo (ancora) eventuale governo non dipende solo dalle enormi contraddizioni pentastellate, ma anche e soprattutto dalle clamorose ed estremistiche pretese leghiste e quindi dalla confusione che regna sovrana nel centro-destra: un casino che funziona (?) nelle regioni e che puzza di bruciato nelle istituzioni centrali.

Non so fino a qual punto l’ostilità berlusconiana verso i cinquestelle sia dovuta ad argomentazioni politiche o a motivi di opportunismo personale e aziendale. Operare questa distinzione nel modo di fare politica del cavaliere è impresa impossibile. Berlusconi va preso com’è. Montanelli lo considerava una malattia e si augurava che gli italiani si facessero, il più in fretta possibile, gli anticorpi. Non è successo dal momento che, politicamente parlando, è ancora piuttosto arzillo e pettoruto (arzuto e pettorillo come si dice in Boheme). Poi, parliamoci chiaro, è sopraggiunta un’altra malattia contagiosa, il grillismo, con tanto di untore (Matteo Salvini) e allora, quasi quasi, meglio un berlusconismo cronico di un grillismo acuto.

 

 

I gazebo e le cliccate

Ci vuole la pazienza di Giobbe a sopportare la trattativa M5S-Lega: Mattarella ha i nervi saldi, perché anche l’ultima trovata di sottoporre il contratto di governo al giudizio dei rispettivi elettori sa tanto di ulteriore lungaggine, ma soprattutto di pressione e interferenza inedite sul Presidente della Repubblica. Il ragionamento, al di là di inutili riti populisti, sembra essere quello di portare al Quirinale il risultato di queste consultazioni suppletive al fine di rendere indiscutibili i contenuti del contratto stesso e gli uomini che lo dovranno applicare. Il Quirinale diventa la stanza di compensazione notarile fra i gazebo leghisti e le cliccate grilline. Ridicolo e scorretto!

Una melina infinita che comincia veramente e rompere i coglioni. Probabilmente l’incertezza della trattativa consiglia ai due partiti una via di fuga da far pesare nella trattativa stessa. Sembra che Leghisti e Pentastellati si stiano preparando non tanto a governare il Paese nei prossimi cinque anni, ma a ripresentarsi presto alle urne con tutti gli argomenti volti a carpire per la seconda volta consecutiva la buona fede degli italiani: noi ce l’abbiamo messa tutta, ma…Finirà che la colpa sarà del presidente Mattarella, qualcuno sta già farneticando di calendari delle consultazioni taroccati al fine di creare difficoltà ai partiti. Robe da matti!

Questi signori hanno giocato a nascondino, poi al tiro alla fune, poi hanno ripreso i loro giocattoli e si sono ritirati nei loro cortili, improvvisamente hanno ripreso a giocare al dottore e pretendono che Mattarella li stia ad aspettare alla fine di questa kermesse ludopatica. Un tempo sarebbero stati coperti di insulti e sepolti sotto le risate, oggi vengono presi sul serio, ascoltati, vezzeggiati, corteggiati. Proviamo a pensare se la trattativa avvenisse fra Forza Italia e Partito democratico, ammesso e non concesso che avessero i numeri per supportare un governo. Sarebbero insultati come arnesi di regime riciclati sulla base di un ignobile connubio. Ciò che sta avvenendo viene invece spacciato come un cambio virtuoso di stile nei rapporti tra cittadini, partiti e istituzioni. In particolare viene enfatizzata come una novità assoluta la stesura del programma o contratto di governo:  di una cosa è sempre abbondata la politica, di programmi che, magari e purtroppo, rimanevano lettera morta.

Quanto tempo ci vorrà perché i cittadini italiani aprano gli occhi e si accorgano del disastro che hanno creato? Qualcuno all’indomani della consultazione elettorale pronosticava due anni di governo per arrivare a scoprire l’inganno. In mancanza del bagno governativo rivelatore è molto probabile che la recita possa continuare nell’immediato per poi costringere tutti a bere un governo grillo-leghista, a meno che l’Europa, i mercati, le forze economiche e sociali non comincino a spazientirsi ed a catapultarci nella fogna in cui stavamo precipitando nel 2011. A proposito, i leghisti erano al governo anche allora. Grideranno di nuovo al golpe dei poteri forti e dovremo magari supplicare Mario Monti ed Elsa Fornero di tirarci fuori dalla melma o dalla merda. Un tempo durante le manifestazioni di piazza si gridava: viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-tung!   Fra un po’ di tempo grideremo: viva Casaleggio, viva Grillo, viva Salvini! L’importante è gridare, il resto non conta.

La certezza delle ambiguità e l’ambiguità delle certezze

Il Presidente delle Repubblica non deve e non può accompagnare la soluzione della crisi di governo come un notaio che autentica e registra il contratto e lo affida ai rappresentanti delle parti contraenti per la relativa applicazione, ma non potrà fare a meno di prendere atto con scrupolo notarile delle divergenze sostanziali che sottendono al contratto stesso, rischiando di renderlo un pezzo di carta in cui è scritto tutto e il contrario di tutto. Non sorprende quindi che emergano difficoltà non tanto nel confronto fra M5S e Lega, ma nei rapporti con Mattarella nell’esercizio delle sue prerogative costituzionali.

Non credo che gli aspiranti partner di governo si mettano a litigare di fronte al Capo dello Stato, se non altro perché li riceve separatamente, ma sicuramente emergeranno le (insanabili) contraddizioni. In buona sostanza si scontrano due opposte concezioni della politica, che coinvolgono metodo e contenuti in una matassa aggrovigliata, difficilmente dipanabile se non nell’equivoco di un mandato elettorale frettoloso e generico. Il M5S balla il suo valzer delle ambiguità fatte sistema per accalappiare il consenso, per trovare sponde di potere e appoggi internazionali. Si pensi alle ondivaghe posizioni su temi fondamentali quali l’europeismo, l’immigrazione, i conti pubblici; si pensi agli strampalati posizionamenti nel Parlamento europeo; si pensi agli spregiudicati rapporti preferenziali con il putinismo e il trumpismo; si pensi agli atteggiamenti politici tarati esclusivamente sull’aria che tira a livello di sondaggi, con la coerenza ridotta all’opportunismo in chiave elettoralistica.

La Lega di Salvini balla la rumba delle certezze illusorie fondate sulle paure degli italiani: si pensi alle velleitarie smanie anti-immigrati, ai giochi di prestigio sulla legittima difesa, alla demagogica diminuzione delle tasse, all’antiriforma delle pensioni, alla revisione dei trattati europei. Siamo alla fiera dell’impossibile fatto certezza di fronte ad un elettorato stordito e attonito.    I cinquestelle lavorano di fino nel salotto delle ambiguità, i leghisti usano la clava nel bar sport delle certezze. Sarà una gara dura trovare la quadra. Ai sussurri dimaiani rispondono le grida salviniane. Il casino è inevitabile.

Come potrà vedere la luce “il contratto” tanto enfatizzato? E soprattutto a chi verrà affidato il compito di tradurlo nel quotidiano indirizzo di governo? Come potrà Sergio Mattarella, preoccupato di garantire al Paese un futuro di continuità nei rapporti   internazionali, affidare il governo ad un fiduciario salvinian-dimaiano? Come potrà il Capo dello Stato rassicurare i mercati finanziari consegnando il governo ad una banda di dilettanti allo sbaraglio? Come potrà il Presidente della Repubblica assicurare la copertura finanziaria nell’amministrazione dello Stato mettendo al governo del Paese chi fa dello sfondamento dei bilanci la propria cifra caratteristica? È vero che la politica è l’arte del possibile. La vera novità che si prospetta consiste però nel fatto di  trasformare la politica nell’arte dell’impossibile.

Il laboratorio Italia con i tecnici organici

Il movimento cinque stelle ha molte caratteristiche in comune da una parte col berlusconismo, dall’altra col comunismo. La sua nascita come vero e proprio esperimento in laboratorio, la sua storia come azienda partito, il suo odio-amore mediatico, il suo leaderismo spinto, la sua spregiudicata ricerca del consenso, la sua invenzione di una classe dirigente improvvisata e pressapochista, manovrabile e strumentalizzabile, il suo percorso, anomalo ma insistito, verso il potere a tutti i livelli ne fanno, in un certo senso, una edizione riveduta e scorretta del berlusconismo. Il suo centralismo informatico, la sua pesantissima disciplina interna, le sue continue epurazioni e purghe, il suo anacronistico stile antisistemico, il suo oscillare tra la piazza e le istituzioni, il suo parlare stucchevolmente con un’unica voce, il suo negare l’evidenza, il suo richiamarsi alla differenza etica, ne fanno invece un movimento avvicinabile al comunismo italiano prima-maniera. Se chi lo ha votato crede di avere cambiato la storia politica italiana, ha sbagliato grosso, perché ha soltanto rimasticato il passato spacciato per futuro.

I metodi e gli stili della politica tradizionale vengono sdegnosamente rifiutati, salvo essere frettolosamente adottati quando le convenienze lo impongono: quel che era da rifiutare in blocco, viene rivalutato e riproposto dal movimento. Una sorta di invito ad accettare acriticamente quanto viene detto da un vertice, sgusciante ma ben presente, e a non soffermarsi su quanto viene fatto perché operato in nome di un fine superiore.

Il governo dei tecnici è un tabù, un tradimento della volontà popolare, una subdola difesa dei poteri forti, una manovra di regime. Non se ne deve nemmeno parlare! Salvo poi ricaderci dentro per indorare la pillola di un governo politicamente impresentabile. I tecnici tradizionali, quelli scelti da Napolitano o Mattarella, sono schiavi di regime, gente che lega l’asino dove vuole il padrone, mentre quelli organici al movimento vanno benissimo. Teorie gramsciane senza base ideologica e senza strategia politica.

Non so se un premier tecnico e/o i ministri tecnici saranno la ciliegina sulla torta di un governo combinato, più o meno come si faceva un tempo per i matrimoni di interesse. Non so se il presidente Mattarella accetterà questi tecnici organici in balia dei politici, i quali tirano il sasso e nascondono la mano. Non so se questi esponenti dell’intellighenzia di supporto saranno di gradimento a livello europeo, se sapranno mantenere il Paese in carreggiata evitando sbandamenti, se potranno garantire una navigazione tranquilla per il Paese. Una cosa so: avranno tali e tanti vincoli programmatici, provenienti da un accordo calato sulle loro teste, al punto da dover governare in nome e per conto dei due partner di maggioranza a cui rispondere ad ogni “pisciata di cane”. D’altra parte il cosiddetto contratto, se fosse stato stipulato da altre forze politiche, non sarebbe un inaccettabile compromesso, un vomitevole mercanteggiamento, un accordicchio fatto per guadagnare tempo e voti? Stipulato e firmato da Di Maio e Salvini diventa un compromesso ai più alti livelli, una risposta ai bisogni del Paese, un cambio di stile nella politica italiana.

I pentastellati puntano sul prerequisito dell’onestà, ammesso e non concesso che sia loro monopolio. Io preferisco puntare sul requisito della credibilità e della coerenza e questo non è certamente il loro forte. Quando si è disperati, si è portati a concedere fiducia al più abile degli imbonitori. Sul fatto che leghisti e grillini siano degli imbonitori non ho il minimo dubbio, sul fatto che gli italiani siano disperati mi permetto di dissentire. Avere dei seri e gravi problemi non vuol dire “buttare il prete nella merda”, consegnare il Paese in mano a dilettanti che si spacciano per professionisti, provare scriteriatamente a fare esperimenti. Che Casaleggio abbia concepito e portato avanti il movimento come esperimento è molto chiaro, ma che gli italiani trasformino il loro Paese in un laboratorio a servizio di Casaleggio e Grillo non posso accettarlo.

 

Gli elefanti in cristalleria

È inevitabile, almeno per me, fare collegamenti fra passato e presente, fra idealità e meschinità, fra le vette e i baratri della politica italiana. Manco a farlo apposta, proprio in questi giorni, si sono succedute occasioni per osservare con occhiali correttivi una sconfortante attualità politica: i quarant’anni dal sacrificio di Aldo Moro e della sua scorta, il forum fiorentino sullo stato dell’Unione Europea, i 70 anni dal giuramento da Presidente di Luigi Einaudi. Non era tutto rose e fiori il passato, ma in esso troviamo, pur tra inevitabili contraddizioni e difficoltà, le scelte fondamentali per il cammino di crescita democratica del nostro Paese. Nella lezione morotea cogliamo i faticosi sviluppi della politica in continuità col disegno costituzionale e nella valorizzazione delle correnti ideali cattoliche, socialiste e laiche e della loro capacità di interpretare e orientare le spinte popolari; nella promozione e adesione al disegno europeo troviamo il senso di un grande avvenire di pace, integrazione, sviluppo e solidarietà; dalla lezione einaudiana traiamo insegnamenti preziosi per l’impostazione di una corretta e unificante vita delle istituzioni democratiche.

Si respira aria di esami. Dall’autorevole e credibile cattedra presidenziale Sergio Mattarella detta, con discrezione e convinzione, il ripasso storico e costituzionale degli insegnamenti e delle lezioni che ci sono state impartite nel tempo. Ha di fronte degli allievi piuttosto recalcitranti, che ritengono di avere la promozione in tasca in quanto ammessi all’esame a furor di popolo, che vogliono “scaravoltare” l’approccio alle materie partendo dalle esercitazioni pratiche senza studiare e approfondire la teoria, che pretendono la promozione con un populistico sei politico, che pensano di ottenere buoni voti solo screditando chi li ha preceduti sui banchi.

Dalla Presidenza della Repubblica parte l’invito a rispettare i principi fondamentali della nostra democrazia, in cui si rispecchia tutta la nostra storia ed in cui trova compimento l’unità nazionale. Ho la sensazione che i partiti, in via di tardiva e frettolosa ricerca di accordi a livello governativo, alzino le spalle e scuotano il capo, archiviando come vecchiume ingombrante quanto la storia “prepotentemente” ci insegna. Se Moro sta a dimostrare che i progressi politici si ottengono nel dialogo, nel confronto, nella mediazione tra le forze politiche presenti nelle sedi istituzionali preposte,  il  governo grillo-leghista nasce solo nel drastico e semplicistico richiamo alle pulsioni istintive della gente; se l’Europa unita è un dato ideale, storico e politico imprescindibile, coloro che si apprestano a governare il Paese intendono rimettere tutto in discussione cavalcando la pericolosissima onda del sovranismo di ritorno; se le istituzioni hanno una loro dignità e rappresentatività, gli apprendisti stregoni della democrazia diretta intendono bypassarle facendo un patetico, qualunquistico e precipitoso appello alle istanze popolari.

A livello di formazione della compagine governativa si vaneggia di contratti, di garanti, di patti a latere; per l’Europa si (s)parla di revisione dei trattati prima ancora di sedersi al tavolo per discutere; per quanto riguardo il rispetto del galateo istituzionale si stanno cercando nomi e personaggi da sottoporre alla ratifica di un capo dello stato retrocesso alla funzione di mero notaio delle volontà partitiche. Ci sono tutti i difetti della politica del passato, senza nemmeno un pregio. Se questo è il nuovo che avanza, non posso far altro che avvinghiarmi con tutte le mie forze al passato: quello degli Einaudi, dei De Gasperi, dei Moro, dei Pertini, dei Berlinguer, dei Napolitano, dei Mattarella. E Mattarella è l’ultimo dei giusti, ma non so se basterà a difendere la cristalleria dagli elefanti.