Nosotros podemos ser racistas

“Ci siamo insediati da pochi giorni e già la musica sta cambiando”. Così il ministro delle infrastrutture Toninelli, autorevole esponente del M5S, a margine della vicenda della nave Aquarius con 629 migranti rifiutata dall’Italia e accolta dalla Spagna su sollecitazione di due sindaci, Ada Colau di Barcellona e Joan Ribó di Valencia. Che Matteo Salvini giochi a fare il bullo davanti alle navi cariche di immigrati, dichiarando che “l’Italia ha smesso di chinare il capo e di ubbidire, perché c’è chi ha il coraggio di dire NO”, non mi stupisce: si era capito da tempo che finivamo in questa deriva elettoralistica, che non so dove ci porterà, sicuramente lontano dalla civiltà. Che Danilo Toninelli si accodi pedissequamente alla Lega, confondendo il cambiamento con il respingimento dei poveri diavoli, mi scandalizza e spero faccia riflettere l’elettorato cinque stelle o almeno lo costringa ad uscire dall’equivoco.

I due sindaci di cui sopra, decisivi a quanto pare nella decisione del governo spagnolo di aprire il porto alla nave che stava latitando in mezzo al mare, sono stati candidati al loro importante incarico da Podemos, che se non vado errato è un movimento a cui i grillini vorrebbero assomigliare. Vedo sul piano politico una forte contaminazione destrorsa del M5S, che, a giudicare dai recentissimi risultati elettorali della consultazione amministrativa comunale, probabilmente sta già mettendo in crisi l’elettorato pentastellato o almeno una parte di esso.  I grillini accettano di buon grado di farsi fagocitare da Salvini. In un certo senso Salvini, che fa penosamente il verso a Trump, mi fa ridere con la sua aria da bullo di periferia che prima o poi andrà a sbattere contro le istituzioni italiane ed europee; Toninelli e c. mi fanno piangere di vergogna: se è questo il nuovo establishment che avanza, preferisco quello vecchio e decrepito.

Si sta facendo strada l’idea che la discussione politica a tutti i livelli premi chi alza la voce, chi grida, come succede al bar dove prevale l’irrazionalità dei prepotenti sull’incertezza dei miti. Avete visto? Così si fa! Diranno i leghisti a chi li ha votati. Adesso basta: dobbiamo farci rispettare. Sarà questa la parola d’ordine del governo giallo-verde. Sono perfettamente consapevole che l’Europa finora sul problema migranti si è girata dall’altra parte, ma gli esponenti più solleciti nel fregarsene altamente di questo problema sono proprio gli amici governanti dei Paesi con cui Salvini vuole tessere un rapporto privilegiato. Se tutti cominciano a fare i furbetti dove li mettiamo gli immigrati? Mi aspetto che, prima o poi, li si voglia provocatoriamente albergare in Vaticano. Alcune sere or sono ho imparato che per rimpatriare tutti i clandestini occorrerebbero anni e anni di voli aerei, ammesso e non concesso che gli Stati d’origine accettino di accoglierli, perché diversamente ci sarebbe nell’aria un paradossale viavai.

So benissimo che lo Stato Italiano non è la Caritas, ma vorrei tanto che non diventasse l’incarnazione statuale di egoismo, indifferenza, durezza, freddezza, avarizia, grettezza. Siamo arrivati al dunque, alla regola d’oro di mio padre: “S’a t’ tén il man sarädi a ne t’ cäga in man gnan’ ‘na mòsca”. Non so quanti immigrati ospiti la Spagna e quale atteggiamento abbia tenuto finora su questa delicata partita, ma farmi battere in volata, magari strumentalmente, dagli amici spagnoli non è per me una grande soddisfazione. Ricordo quanto bene dicesse degli spagnoli il mio grande amico Giampiero Rubiconi: forse aveva ragione lui e non mi resta che fare un pensierino di emigrare in Spagna. Assomigliano tanto a noi italiani, ma non hanno Salvini, Grillo, Di Maio, Toninelli etc. In compenso hanno i secessionisti catalani. Vorrà dire che resterò in Italia a piangere sulle urne elettorali, prima di finire nell’urna cimiteriale. Allegria!

 

 

Al cinema tra gomme americane e vomito trumpiano

Un mio carissimo amico, per dimostrare l’imprevedibilità e la stranezza della vita, raccontava spesso uno sgradevole e curioso episodio capitatogli. Era entrato in una sala cinematografica pressoché deserta e aveva scelto in tutta tranquillità la poltroncina su cui accomodarsi, pregustando una visione tranquilla e rilassante del film in programmazione. Dopo qualche istante, si mosse appena per meglio sistemarsi e si accorse di essersi seduto su una gomma americana, malignamente e goliardicamente posizionata da uno spettatore in vena di brutti scherzi: spettacolo rovinato, pantaloni da buttare, incazzatura inevitabile e persistente.

Come italiano mi sento spettatore di un film americano con la sorpresa di essermi seduto su una tiramolla trumpiana. Davanti alle sceneggiate del presidente statunitense ci sarebbe anche da ridere, alla più brutta ce la si potrebbe cavare con un’alzata di spalle: cazzi loro, se la vedano gli americani, lo hanno voluto e se lo godano pure. Il problema sta nel fatto che nell’ipotetico cinema in cui entriamo troppe poltrone sono a rischio tiramolla, c’è buio, non ci sono più le maschere con la pila elettrica, i posti a sedere sono scarsi e soprattutto il film è obbligatorio a vedersi.

Non so se gli americani siano pentiti della scriteriata scelta (non) fatta, ma ci hanno fatto un regalino di quelli che ti cambiano la vita. Il loro presidente dice e disdice in continuazione, fa e disfa a getto continuo, si diverte a rompere le uova nel paniere europeo, aizza l’uno contro l’altro, gioca su più tavoli, mette tutto in discussione, usa la clava dei dazi, se ne sbatte altamente dell’ecologia e dell’ambiente, sceglie implacabilmente la parte sbagliata per procurare danni e poi strizza l’occhio al malcapitato sotto le sue grinfie. La politica internazionale è diventata come non mai una partita a poker dove naturalmente vince il più ricco. Dal mondo politicamente diviso tra occidente e oriente con i paesi del terzo mondo in bilico tra i due blocchi siamo passati a un equilibrio (?) internazionale in cui i paesi forti si divertono a giocare sporco fra di loro e concedono qualche mancia a quelli più deboli, ignorando totalmente i popoli sottosviluppati.

Gli Stati Uniti storicamente ci hanno aiutato molto, è loro convenuto, ma comunque gli aiuti ci sono arrivati. Oggi siamo diventati i loro zimbelli ed a qualcuno questo ruolo sta benissimo. Anche a me in passato è successa una disavventura cinematografica. Ero in un posto di villeggiatura e chissà perché decisi, assieme ai miei cugini, di andare al cinema: una sala zeppa di gente con un caldo asfissiante. Trovammo un posto a malapena. Dietro di noi si creò un po’ di subbuglio: una donna si era sentita male e non trovò di meglio che vomitarmi addosso imbrattandomi i pantaloni. Mi alzai di scatto per andarmi a pulire, ma ci fu chi lestamente prese il mio posto incurante del vomito abbondantemente spalmato sulle poltroncine.

La trovo una quasi perfetta metafora della confusione esistente nei rapporti internazionali.  Non so se il debuttante Giuseppe Conte, al G7 in Canada, si sia seduto su una gomma americana o abbia sporcato i pantaloni col vomito trumpiano. Ho intuito che abbia ricevuto una pacca sulla spalla cercando di stare al gioco dei più forti e accontentandosi delle comode briciole russo-americane rispetto alle ben più impegnative micche europee.  Un modo come un altro per galleggiare. L’Italia storicamente ha sempre adottato una politica estera dignitosa, rispettabile e coerente. Nell’ipotetico cinema di cui sopra in passato ci siamo seduti, se non proprio nei secondi posti, non certo nelle prime file, ma il film, bene o male, lo abbiamo visto. Attenzione a non accontentarci di un cinema di seconda classe dove proiettano pellicole riciclate, illudendoci di essere gli invitati d’onore nella sala cinematografica di lusso.

 

Si Salvini chi può

Si sta fortunatamente dissolvendo la nebbia mediatica funzionale allo smarrimento elettorale del popolo italiano. Sono così clamorose le continue gaffe del nuovo governo da imporre un rigurgito di spirito critico ai commentatori politici fino ad ora piuttosto appiattiti nell’attesa del Godot governativo. I difensori d’ufficio, ben lontani dal gettare la spugna, la buttano sul pietismo filo dimaiano e salviniano nonché sul perbenismo filo contiano.

L’ondata critica infatti sarebbe frutto di pregiudizi antigrillini ed antileghisti, non concederebbe ai nuovi arrivati nemmeno il tempo di sedersi sulle poltrone appena conquistate, cadrebbe nella trappola nostalgica verso i precedenti governi. Tradotto in linguaggio da bar, chi osa parlar male della mamma grillo-leghista dovrebbe pulirsi la bocca; chi dimostra un’impazienza, giudicata impertinente e faziosa, viene tacitato con la comoda istanza del “lasciateli lavorare”; chi rivolge critiche alle prime scelte del governo viene tranquillizzato con un pressapochistico e qualunquistico “peggio di quanto hanno fatto i predecessori non potranno fare”.

Riprendo la similitudine ripetutamente adottata: se, dopo aver conferito in appalto la ristrutturazione di un fabbricato sulla base di un contratto un po’ confuso, il committente si accorge che l’esecutore delle opere rischia immediatamente di buttare all’aria tutto senza un minimo di costrutto e di lucidità progettuale, non lascerà andare tutto in malora, ma interverrà immediatamente per contestare la violazione del capitolato prima che sia troppo tardi. Al di là di alcune normali esagerazioni dialettiche, peraltro in perfetto stile populista, vale a dire usando lo stesso linguaggio che per anni i “signornò” hanno adottato nei confronti di chi governava e financo di chi capeggiava lo Stato (della serie “chi la fa l’aspetti”), mi sembra che la critica levata di scudi della stampa a livello internazionale e nazionale non possa essere liquidata come una reazione meramente strumentale al tentativo del cambiamento.

Stanno succedendo cose dell’altro mondo. Un ministro dell’interno che crea un incidente diplomatico al giorno, che spara a vanvera, che chiacchiera nei bar leghisti, che gira a vuoto come una trottola. Un ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico che promette tutto e il suo esatto contrario. Un Presidente del Consiglio che brancola nel buio del Parlamento prima e del G7 poi, facendo il pendolare fra Istituzioni e popolo, fra Usa e Ue, fra Occidente e Russia, fra promesse impossibili e rassicurazioni incredibili.

Di fronte a questa vergognosa dimostrazione di incapacità ed impreparazione bisognerebbe tacere e aspettare? Aspettare cosa? Che questi signori, in nome del popolo italiano, ci portino tutti alla rovina, tanto, peggio di così non può andare? L’Italia, pur tra errori, ritardi e inadempienze, ha progredito, è diventata un importante paese industriale, non è un paese sottosviluppato. Le scelte storiche di fondo le ha sapute fare e le ha azzeccato: la scelta dell’Occidente, della Nato, dell’Europa Unita, della promozione del benessere sociale, della conquista dei diritti civili, del decentramento regionale, della difesa delle autonomie locali, della fedeltà alla Costituzione, del rapporto solidale con le altre nazioni.  I governanti del cambiamento stanno attaccando alcune di queste fondamenta e non possiamo far finta di niente.

Mio padre era solito raccontare un episodio che gli era rimasto molto impresso. Un giocatore di calcio di fronte ad un arbitro, che ne stava combinando di tutti i colori, non protestò clamorosamente, ma gli si avvicinò porgendogli una paradossale domanda: «Scusi tanto, ma lei è venuto qui ad arbitrare mandato dalla federazione oppure di sua spontanea iniziativa?». Ebbe una squalifica molto pesante, ma si tolse una bella soddisfazione. Se fosse possibile, nei confronti del presidente Conte e dei ministri Di Maio e Salvini (mi limiterei a loro in quanto punte di diamante del nuovo governo giallo-verde), userei una simile domanda: «Chi vi ha messo al governo? Il presidente della Repubblica sulla scorta dei risultati elettorali o vi siete trovati vostro malgrado a passare davanti a Palazzo Chigi e vi hanno temerariamente ed ingenuamente fatto entrare?».  Sono vittima anch’io di pregiudizi? Può darsi, ma esistono anche i sani pregiudizi.

 

 

La cellulite giallo-verde

Abbiamo trascorso tre mesi di ossessionante incertezza politica post-elettorale. Archiviato questo periodo, fitto di continue e paradossali incoerenze e fuorviato da un’attenzione mediatica fine a se stessa o faziosamente indirizzata a legare l’asino dove vuole il nuovo padrone, è cominciata l’era del governo del cosiddetto cambiamento e, se il buon giorno si vede dal mattino, tutto sembra orientare il dibattito alle sirene dimaiane e salviniane più che all’attenta osservazione del governo di Giuseppe Conte.

Sarà opportuno mettersi la cera nelle orecchie bombardate da slogan e da clamori mediatici per giudicare seriamente e spietatamente un’azione di governo nata all’insegna delle balle a cui dobbiamo concedere il poco posto che meritano. Forse sarà inutile anche continuare a ripetere il ritornello delle coperture e compatibilità finanziarie, peraltro assai problematiche al limite dell’impossibile, per allargare il giudizio al merito dei provvedimenti che verranno adottati.

Faccio alcuni esempi. I cambiamenti alla legge Fornero vanno visti solo dal punto di vista finanziario oppure vanno anche valutati nella loro portata socio-economica? Il reddito di cittadinanza è una misura sfonda-bilancio o è anche e prima di tutto una cavolata assistenzialistica perfettamente in linea con le tanto vituperate politiche del passato per il meridione? Le scelte in materia di immigrazione vanno esaminate alla luce del risparmio finanziario e della paura del diverso o vanno inquadrate in un discorso di carattere etico e internazionale, inserite in un’analisi di costi-benefici, in un processo evolutivo che integra il necessario e non si limita a respingere il superfluo?

Anche l’azione dell’unica opposizione credibile ed agibile, vale a dire il Partito Democratico, guidato, coeso, motivato e allargato, penso debba non limitarsi alla giornaliera sparata polemica, ma puntare alla costruzione paziente e concreta di risposte ai problemi, in linea con l’azione governativa precedente, tutta da rivalutare e proseguire, ed alla proposizione di una politica di sinistra coniugata con la necessità di rispondere in modo serio alle ansie dei cittadini. Il partito democratico non deve lasciarsi imprigionare dall’ansia da prestazione con i sondaggi quotidiani alla mano, con l’impaziente volontà di riaccreditarsi come il buono che si contrappone ai cattivi e con la masochistica ammissione continuativa della sconfitta e degli errori passati.

Mantengo tutte le mie serie perplessità e i miei fortissimi dubbi sulla combinazione governativa uscita più da un ignobile connubio che dalle urne. Tuttavia non mi piace il clima politico e soprattutto mediatico da ultima spiaggia, che accompagna i primi vacillanti passi del governo Conte (tanto per cominciare chiamiamolo col suo nome e spegniamo i fari puntati sulle starlette dell’accordo giallo-verde): sarebbe un piacere immeritato fatto al nuovo governo che cerca la ribalta per mostrare le gambe e nascondere le rughe.

Opposizione accolta

Indipendentemente da tutto, chi ha a cuore gli interessi del Paese (la Patria la lasciamo a Fratelli d’Italia) dovrebbe preoccuparsi di un governo che governi e di un’opposizione che si opponga: il gioco democratico lo impone. Se quindi sono seriamente preoccupato per la tenuta democratico-istituzionale del governo di cambiamento, sono altrettanto ansioso di vedere profilarsi un’opposizione credibile che sappia offrire un’alternativa rispetto all’attuale, strana ma larga, maggioranza parlamentare.

L’unica possibilità al riguardo non la vedo certo nelle stizzose e nostalgiche reazioni di FdI o nelle stucchevoli e incoerenti amarezze berlusconiane: durante il dibattito sulla fiducia al governo Conte, Giorgia Meloni non ha saputo che propinare una puntuta lezioncina lessicale di sapore nazionalistico, mentre Mariastella Gelmini si è attaccata ad un evidente lapsus del presidente del consiglio, niente di più e niente di meno di un copione già scritto e peraltro mal recitato.

L’opposizione non può venire che dal Partito Democratico e lo ha dimostrato un nobile, deciso e serio intervento di Graziano Del Rio alla Camera dei Deputati: allo strisciante populismo dei partiti di maggioranza a cui Giuseppe Conte ha fatto l’eco governativa, l’esponente Pd ha contrapposto una visione democratica istituzionale, in quanto gli eletti  rappresentano il popolo operando all’interno delle Istituzioni e non bypassandole;  al pressapochismo del cambiamento improvvisato ha contrapposto una cultura di governo derivante dall’esperienza storica, fatta di errori ed omissioni, ma anche di conquiste civili e sociali; al confuso rimescolamento nella collocazione internazionale ha contrapposto la fedeltà ideale, fattiva e critica alle scelte occidentale ed europeista; alle promesse del “tutto e subito” di un rivoluzionarismo ingenuo e fuorviante ha contrapposto le prospettive di un paziente riformismo progressista.

Penso debba essere questo il taglio dell’opposizione, portata avanti da uomini credibili per la loro competenza e serietà. Il Pd esca dalla spasmodica ricerca di un nuovo leader a tutti i costi così come dalla colpevolizzazione della leadership uscente ed elettoralmente perdente. I leader non si improvvisano e se non emergono spontaneamente ci si deve affidare ad un lavoro costruttivo di gruppo: al Pd non mancano personaggi in grado di prender in mano la situazione e rilanciare il partito. Abbiano la pazienza e l’umiltà di procedere in tal senso, accantonando i protagonismi personali e le divisioni strumentali.

Il Partito Democratico abbandoni la sindrome del tradimento popolare e la smania di rianimare un’inesistente foresta con richiami anti-storici, riapra un dialogo con la gente e proponga soluzioni concrete sulla base dei valori che non mancano alla sinistra democratica e riformista. Si prenda tutto il tempo necessario, perché non sono credibili prospettive di ribaltamenti immediati ed emozionali dell’elettorato. Non si fermi alla polemica, anche se i motivi non mancherebbero; non si affidi alla piazza anche se la tentazione può essere forte; non giochi al tanto peggio tanto meglio, perché c’è già chi va paradossalmente in questa direzione da frettolose posizioni di potere; non cada nell’errore storico del purismo ideologico: non è certo il momento di spaccare il capello in quattro alla ricerca del tempo irrimediabilmente e colpevolmente perduto. Faccia l’opposizione e poi si vedrà…

 

 

Scarpe grosse, cervello fin…ito

Se devo essere sincero fino in fondo non ho capito l’umore dei miei connazionali che li ha portati ad esprimere un voto superficiale ed irrazionale, tale da comportare la nascita di un governo carico di incognite a tutti i livelli. Consiglierei a tutti di leggere i commenti della più altolocata stampa internazionale per rendersi conto in quale imbarazzo politico ci siamo ficcati: non saranno tutti servi dei mercati e paladini del capitalismo…Stiamo diventando il laboratorio della più insensata sperimentazione antipolitica.

Ho messo in parallelo le strampalate prime mosse del nuovo ministro dell’interno Matteo Salvini con le calibrate dichiarazioni rese dall’ex ministro dell’interno Marco Minniti e mi sono chiesto: possibile che gli italiani fra uno sbracato venditore ambulante ed un misurato negoziante preferiscano il primo, rischiando, una volta tornati a casa, di verificare che la merce comprata è taroccata e non serve a niente? Incredibile, ma vero!

Da una parte un personaggio, persino simpatico nella sua esibita ignoranza, con le scarpe grosse che lascerebbero immaginare un cervello fino (senonché poi ci si accorge in fretta che il cervello è ben più grosso delle scarpe), che recita a soggetto in una materia delicatissima dove l’errore comporta smisurate conseguenze a tutti i livelli, che considera il fenomeno migratorio come un lusso per i buonisti in vena di affarismo, che lo tratta come se fosse un problemuccio italiano da risolvere all’italiana; dall’altra parte un personaggio capace di inquadrare i problemi e di proporne graduali e pragmatiche soluzioni, discutibili ma credibili, che dimostra di avere almeno la consapevolezza del quadro complessivo entro cui operare (e non è poco), di possedere la capacità di tentare la coniugazione fra solidarietà e sicurezza, di calare il problema degli immigrati nel contesto mondiale da cui prende le mosse.

Non ne faccio un problema ideologico (anche se i confini col razzismo sono molto labili), non ne faccio un problema politico (anche se destra e sinistra si stanno rivelando categorie diverse e tutt’altro che superate), non mi rifaccio puramente al discorso etico (anche se l’attenzione e il rispetto per l’uomo dovrebbe essere il presupposto di ogni azione di governo), non entro nemmeno nel merito (troppo complesso, ci sarà tempo e modo di ritornarci sopra) e mi limito a mettere sul piatto della bilancia due modi intendere la politica così ben impersonificati da questi due  ministri a confronto (uno entrante ed uno uscente). Ebbene prendo atto a malincuore che gli italiani preferiscono buttare il prete nella merda piuttosto che ragionare col prete. In democrazia la maggioranza ha sempre ragione. Ne siamo proprio sicuri? E se, per caso, la maggioranza non ragiona…Nel dibattito sulla fiducia al governo in Senato è intervenuta Liliana Segre, recentemente nominata senatrice a vita. Consiglierei a tutti di leggere il testo del suo intervento, se fosse possibile ne renderei obbligatoria la lettura prima di ogni e qualsiasi discussione politica, soprattutto prima di recarsi alle urne: una sorta di preghiera laica mattutina. Forse potrebbe agevolare un ravvedimento operoso rispetto a quanto successo lo scorso quattro marzo. Non è mai troppo tardi.

 

Uno spartito problematico per un moderno battisolfa

Non mi aspettavo molto dal discorso di presentazione del governo alle Camere, tenuto dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ero convinto che sarebbe emersa quella pochezza politica che piace molto alla maggioranza degli italiani, ma dal poco al niente ci passa una bella differenza. Giuseppe Conte si è limitato a svolgere la versione in prosa della poesia contrattuale creata da M5S e Lega o, se volete, a fare la parafrasi, peraltro assai poco brillante, del contenuto contrattuale.

Nel triste e lungo periodo della preparazione di questo governo, molti si sono sbizzarriti nel dare ripetizioni al Presidente Mattarella sui suoi compiti fissati dalla Costituzione: non ce n’era alcun bisogno vista la sensibilità, la preparazione, l’esperienza e l’equilibrio dell’attuale Capo dello Stato. Sarà bene che le premurose lezioni costituzionali vengano deviate sul Presidente del Consiglio, che sembra un pesce fuor d’acqua e non mi pare all’altezza del compito cui è stato chiamato.

L’articolo 95 della Costituzione recita: «Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri». Se vogliamo fare una brillante similitudine, possiamo azzardare il paragone con la direzione di un’orchestra: come può dirigerla un maestro che non conosce la musica? Dal momento che l’orchestra è formata da “suonatori” raffazzonati, impreparati e scoordinati il ruolo del direttore diventa ancor più essenziale e difficile. Mi è capitato spesso di ascoltare dagli incompetenti battute del tipo: cosa vuoi che sia, basta lasciare andare l’orchestra dove vuole…Forse lo si può fare, peraltro relativamente, con orchestre di grande valore, compattezza ed omogeneità, non certo con l’attuale arlecchinata governativa.

Ricordo, durante la mia modesta ma interessante esperienza di componente della commissione teatrale del Regio di Parma, di avere assistito alla preparazione di tanti spettacoli e di avere capito come sia essenziale per la buona riuscita poter contare su una bacchetta di primordine e fortemente impegnata. Due episodi si scontrano in tal senso ed hanno avuto come protagonisti due direttori, di cui non faccio il nome per ovvi motivi. Un direttore routinier, che lasciava fare, che tirava sera, che fingeva di non sentire le stonature dei cantanti e le marachelle dell’orchestra, che dettava tempi assurdi: fu un disastro, un fiasco che passò alla storia. Un direttore, disponibile a sporcarsi le mani, che arrivò, prese atto dell’impreparazione degli orchestrali, si rimboccò le maniche e lavorò sodo con i vari settori dell’orchestra e con i cantanti: fu un bel successo, rammento ancora con simpatia la sua gioia alla fine della rappresentazione.

Ebbene, Giuseppe Conte non è né carne né pesce: non è certo un routinier che possa illudersi e illuderci di recuperare le situazioni con un colpo di bacchetta; non è nemmeno un direttore capace di prender in mano le situazioni e di indirizzarle al meglio. È, come si dice in gergo musicale, un “battisolfa di lusso”, ma sempre un battisolfa. Le sue prime mosse, senza voler infierire, lo dimostrano. Oltretutto ha intorno troppi violini di spalla, che interferiscono sulla sua direzione orchestrale anziché appoggiarla e assecondarla. Non pretendo che diriga senza spartito, ma la musica la deve conoscere e lui la conosce troppo poco. Auguri comunque!

Sopra il governo aleggia il dubbio del sottogoverno

Stupisce come i media, durante la defatigante trattativa per la formazione del governo post-elettorale, abbiano fortemente trascurato la dietrologica ma illuminante pista delle imminenti nomine del cosiddetto sottogoverno. Potrebbe essere stato l’argomento più convincente per indirizzare le due forze politiche a cercare un modus vivendi contrattuale (non si tratta infatti di un vero e proprio programma di governo per ammissione degli stessi contraenti) e, dopo un primo clamoroso fallimento, a fare una rapida e vergognosa retromarcia per riprendere frettolosamente in mano un accordo purchessia, in controtendenza rispetto ai “mai e poi mai” proclamati elettoralmente, ma soprattutto per cucinare un’autentica e sgradevole macedonia tra le visioni socio-economico-politiche di M5S e Lega.

Chissà perché il giornalismo (?), così strenuamente critico verso le stanze del potere, si è lasciato sfuggire l’occasione per fare un po’ di allarmismo sulla vena dorotea di coloro che postulano il loro governo quale svolta di cambiamento. Tutti gli osservatori più disincantati si saranno chiesti come mai nel giro di poche ore i due partiti, sdegnosamente recalcitranti di fronte ad una sacrosanta richiesta del Presidente Mattarella, abbiano mutato d’avviso trovando la quadra di un accordo che sembrava impossibile per un pretestuoso scontro aperto con il Capo dello Stato al limite delle vomitevoli e vigliacche ingiurie e della grottesca richiesta di messa in stato d’accusa. Sono state ipotizzate motivazioni di carattere tattico ed elettorale: probabilmente i due partiti, forse sarebbe meglio dire i due presunti leader Salvini e Di Maio, si erano spinti troppo avanti e rischiavano di cadere proprio sul più bello. Non era colpa di Mattarella era semmai tutta colpa del loro dilettantismo.

Potrebbe però aver giocato un ruolo importante la succulenta torta di nomine governative pronta sul tavolo di Palazzo Chigi, talmente invitante da portarli a più miti consigli. E cosa c’è in ballo di tanto importante? Ho fatto una rapida indagine e, salvo errori ed omissioni, riporto di seguito l’elenco delle nomine in questione: consiglio di amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti (l’istituzione finanziaria che gestisce la cassaforte dello Stato), della Gse (la società per la gestione dei servizi energetici, della Sogei (la società generale d’informatica che gestisce le tecnologie dell’informazione e della comunicazione); di grandi aziende pubbliche quali Enel, Eni, Fincantieri, Poste, Leonardo, Enav, Mps, Terna, Snam, Italgas (350 incarichi tra consigli di amministrazione e collegi sindacali che potrebbero cambiare la geografia del potere economici del Paese); direttore generale e presidente della Rai;  responsabili dell’autorità dell’energia.

Non so sinceramente quante e quali di queste nomine avrebbero potuto essere fatte da un governo tecnico, ma comunque, con ogni probabilità, i grillini ed i leghisti non si saranno lasciati sfuggire l’occasione per fare man bassa di cariche assai rilevanti. Andare alle elezioni poteva comunque, al di là delle più rosee e sondaggistiche prospettive, rappresentare un’incognita o comunque una complicazione al riguardo. Incassiamo quel che possiamo, si saranno detti, poi si vedrà… Sia chiaro: non mi scandalizzo affatto. Un governo non governa solo con i ministri, ma con l’apparato pubblico alquanto articolato e complesso.  Mi infastidisce l’aria da ingenue donzellette di campagna sciorinata agli italiani in cerca di freddo per il letto e, soprattutto, la distrazione dei media impegnati a ricollocarsi, a mettere le mani avanti, a posizionarsi per salire sul carro del vincitore.

Per sottogoverno si intende, in chiave negativa, la forma di malcostume politico per cui le forze e gli uomini di governo, mediante l’occupazione di posti chiave nell’amministrazione pubblica e in vari enti economici e finanziari, sfruttano e consolidano la propria posizione e quella dei loro amici e sostenitori mediante favoritismi e corruttele. Quindi, quando certe forze politiche si occupavano di coprire le caselle del potere erano bollate come assatanati collezionisti di poltrone, seggiole e strapuntini; ora invece è normale che le cariche pubbliche facciano gola e gioco. Ne prendo atto. Ammetto di avere pensato male, nel senso di aver ipotizzato come la prospettiva delle imminenti nomine di sottogoverno abbia quadrato il cerchio della formazione del nuovo governo. Mi è venuto questo dubbio. Sono un inguaribile menagramo, un malizioso osservatore della politica, un diabolico conservatore (quasi reazionario) dello status quo. Può anche essere, ma, come dice il contestato aforisma andreottiano, “a pensar male si fa peccato, ma ci si indovina”.

Non vorrei che per il cambiamento sbandierato dai grillini (i leghisti al governo ci sono già stati parecchio, assieme a Berlusconi, con risultati…) potesse valere quanto successe all’apertura della stagione del centro-sinistra, vale a dire all’ingresso governativo dei socialisti. A commento di questa svolta storica riporto, a senso, lo scambio di battute fra Indro Montanelli e Fernando Santi (un vero socialista radicalmente contrario al centro-sinistra). «Ma perché, onorevole, chiese Montanelli, è così ostile a questo nuovo equilibrio politico-governativo?». «Lei non li conosce i miei compagni, rispose Santi, una volta entrati nelle stanze del potere sarà un finimondo…».

Invertendo l’ordine degli equivoci la politica non cambia

Il governo Conte (alias Salvini-Di Maio) nasce in mezzo agli equivoci e non poteva essere diversamente. Segna l’alleanza (?) fra due partiti disomogenei in quasi tutto meno che nel voler cavalcare la piazza. Non è né di destra né di sinistra, ma in realtà è dominato a livello di leadership e in senso politico dalla Lega, che lo connota inequivocabilmente a destra. È un governo di lotta e di protesta, ma è zeppo di doppiopettisti, che ne sfumano alquanto i toni barricadieri. Dovrebbe essere un governo politico, ma è infarcito di tecnici, a partire da chi lo presiede. Si presenta come un governo di “contratto”, il che lascerebbe pensare ad un programma preciso e stringato, mentre invece si basa su un autentico libro dei sogni e come tutti i sogni ha quindi una tessitura confusa, inconcludente e fuorviante.  Si propone come governo del cambiamento, ma è nato all’insegna della peggior logica compromissoria in mezzo a veti incrociati, ripicche, trasformismi e furbizie. Vorrebbe essere una risposta alle paure dei cittadini, mentre in realtà le aumenta, le alimenta e le strumentalizza. Punta, sul filo del rasoio dell’incostituzionalità, al filo diretto coi cittadini scavallando le istituzioni, ma poi finisce con l’essere di fatto un imbroglio comunicativo degno dei peggiori regimi autoritari. Si pone l’obiettivo di alzare il livello qualitativo della politica, ma invece offre un’immagine dilettantesca ed improvvisata nei programmi e nei protagonisti. Nasce nell’ideologia sovranista e populista, ma non ha il coraggio e la possibilità di andarvi fino in fondo e si rifugia nel tira e molla tra europeismo, antieuropeismo ed euroscetticismo.

Tuttavia l’equivoco più curioso consiste nel suo populismo, vale a dire nel puntare sul disamore verso la politica con parole d’ordine roboanti quali “onestà”, “sicurezza”, “lavoro”, “concretezza” e simili. È un governo che “pattona” l’Italia e la tratta da paese di serie B pur vagheggiando una promozione in serie A. Ebbene, quando i rimproveri, sostanzialmente identici ai propri, arrivano dall’esterno, vale a dire da autorevoli esponenti europei, vengono sdegnosamente rinviati al mittente. In fin dei conti cosa ci chiedono dall’Europa? Di essere più onesti, più impegnati, più seri, più razionali. Apriti cielo! Scatta l’orgoglio nazionale: come si permettono, si guardino allo specchio, si puliscano la bocca, si vergognino, etc. etc.

È pur vero che siamo tutti portati ad accettare con fatica i rimbrotti a livello familiare ed a respingere quelli che arrivano dagli estranei. Se posso permettermi di andare contro corrente, tutto sommato mi sento però di dare più ascolto alle bacchettate europee che non a quelle grillo-leghiste. Scandalosamente concedo maggiore attenzione alle disposizioni dell’amministratore del condominio che non a quelle dei miei finti parenti: dalle prime so almeno come difendermi, verso le seconde mi sento piuttosto disarmato e frastornato.  In poche parole la dico grossa: preferisco Juncker e Oettinger a Salvini e Di Maio.  Ho detto, clamorosamente e brevemente, tutto!

Ucci ucci sento odor di fascistucci

Durante il filo diretto con gli ascoltatori, che Radio Popolare 99 – un’emittente radiofonica parmigiana degli anni settanta riconducibile alla sinistra extra-parlamentare –  teneva per ore e ore in compagnia di Feffirino Ghirarduzzi, un simpatico personaggio espressione della nostrana cultura popolare ed anti-clericale, chi osava contestare le filippiche contro il capitalismo dello stato clerico-fascista veniva immediatamente e seccamente bollato come amico del giaguaro: «Ti ho riconosciuto, sei un/una fascista…». Non intendo quindi (s)cadere nel vizio, tipico di un certo culturame dell’estrema sinistra, di esorcizzare l’avversario politico quale espressione riveduta e corretta del fascismo.

Bisogna tuttavia riconoscere che il popolo italiano non ha sviluppato a dovere gli anticorpi derivanti dalla devastante malattia patita nel ventennio: i motivi sono di carattere psicologico (rimane in noi la tentazione di sfogare nel pubblico le frustrazioni private), di tipo storico (la vera resistenza fu un fenomeno d’élite, divenne un fatto di popolo solo durante la guerra), di livello esistenziale (i fascisti ebbero il modo di riciclarsi, mentre le nuove generazioni non riescono a comprendere il pericolo tuttora latente), di carattere culturale (il fascismo non è stato adeguatamente studiato nella sua portata, ma frettolosamente archiviato).

È quindi giusto affermare solennemente, come avviene nel testo della Costituzione, che la Repubblica italiana è nata dalla Resistenza, ma bisognerebbe aggiungere che la Resistenza non deve finire mai. La nostra democrazia, ben strutturata e corazzata a livello istituzionale, soffre una certa debolezza sul piano politico. Si fa un gran parlare di prima, seconda, terza repubblica. Anche se queste schematiche catalogazioni della nostra storia recente lasciano il tempo che trovano, effettivamente il periodo che va dal varo della Costituzione fino a tangentopoli ha una sua connotazione: la democrazia alimentata e protetta dall’ideologia cattolica e da quella comunista, con la classe dirigente proveniente da queste due scuole di pensiero e di azione. Questo è stato l’ombrello protettivo contro ogni e qualsiasi risorgente fascismo, si chiamasse brigatismo nero o rosso, stragismo di stato o mafioso, golpismo militare o nostalgico, anticomunismo viscerale o spionistico, etc. etc.

Quando il sistema catto-comunista ha traballato sotto i colpi della corruzione dilagante, il popolo italiano è andato in confusione e si è affidato, mani e piedi, al primo venditore ambulante che passava: mi riferisco a Silvio Berlusconi ed al suo ventennio, peraltro forse non ancora completamente terminato. Il virus latente del fascismo riprese vigore mutando, come avviene per quelli impossibili da estirpare, le sue caratteristiche ed i suoi effetti. Proseguendo in questa spannometrica analisi storica, temo che, sostanzialmente esaurita la carica anti-democratica berlusconiana, passate, frettolosamente e senza lasciare tracce indelebili, le speranzose parentesi prodiana e renziana, forse stiamo rischiando di scivolare ancora una volta nel gorgo fascista senza accorgercene. La risorgente malattia assume i toni del moderno (?) populismo, del sempre accattivante sovranismo, del camaleontico nazionalismo, dello strisciante razzismo, del clericalismo senza clero, delle paure del diverso, del disagio sociale e del conseguente qualunquismo, della criminalizzazione dell’avversario, della estremizzazione dei toni e del linguaggio, delle scorciatoie di una fantomatica democrazia diretta. Il tutto truccato con improbabili aperture sociali, con l’illusoria fornitura di sicurezze impossibili, con la riproposizione di steccati anti-storici, con la coltivazione di egoismi di varia natura.

Penso di non essere il solo a intravedere questi pericoli e a temere l’ammiccamento, quasi inconsapevole, verso moderne derive autoritarie ben condite a livello comunicativo. Il governo giallo-verde assomiglia molto a una grigia giubilazione delle istituzioni democratiche e ad una sorda interpretazione delle ansie popolari. Qualcuno dirà che si tratta di allarmismi maniacali, sarà…ma sento una puzza, che mi ricorda quanto mio padre mi raccontava. Io infatti non sono in grado di ricordare quel che non ho vissuto, ma la memoria è fatta anche di educazione ricevuta.