Il sovranismo dei ladri di Pisa

Si fa un gran parlare, a livello mondiale (teorizzazione di Steve Bannon, stratega del presidente Donald Trump), europeo (stati ex-comunisti del patto di Visegràd: Paesi dell’Europa centrale, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca), italiano (seppure in modi e misure diverse, Lega e M5S), di sovranismo, vale a dire di una forma elegante, riveduta e scorretta, del nazionalismo, che tante sciagure ha comportato nei secoli. Il “sovranismo”, dal francese souverainisme, secondo la definizione che ne dà la enciclopedia Larousse, è una dottrina politica che sostiene la preservazione o la riacquisizione della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in contrapposizione alle istanze e alle politiche delle organizzazioni internazionali e sovranazionali.

In un certo senso è la risposta in negativo alla globalizzazione, ma soprattutto ai processi di integrazione fra i diversi Stati: una sorta di Penelope, che distrugge quanto con fatica si è costruito in funzione di una collaborazione fra i popoli. All’insegna del “prima noi e poi loro” si stanno mettendo in atto politiche, che puntano alla messa in discussione di un modo di concepire i rapporti internazionali. L’attuale governo italiano, da una parte strizza l’occhio a Putin, il miglior fico del bigoncio sovranista, dall’altra guarda a Trump, il “matto delle giuncaie” internazionali, dall’altra ancora si avvicina agli scriteriati Paesi dal “muro facile”, quelli che dalla padella del comunismo stanno appunto scivolando nella brace del sovranismo.

Qualcuno sta vagheggiando la nascita di una vera e propria “internazionale sovranista”, che dovrebbe raggruppare, in una strana alleanza, quanti vogliono riportare indietro le lancette dell’orologio mondiale. Di questa armata Brancaleone farebbero parte Paesi ricchi (Usa e Russia), Paesi poveri (i quattro Paesi europei di cui sopra), l’Italia antieuropea od euroscettica, i movimenti politici presenti nei Paesi occidentali impegnati, con la scusa della difesa dall’immigrazione strisciante, a chiudere gli stati in una logica egoistica e settaria. L’espressione “internazionale sovranista” è una contraddizione in termini, un ossimoro bello e buono, vale a dire un’espressione che accosta due termini di senso contrario o comunque in forte antitesi tra loro. Gli esempi più calzanti mi sembrano: disgustoso piacere e lucida follia.

Mio padre si divertiva a contrapporre due proverbi in forte contraddizione fra di loro: “l’unione fa la forza” e “chi fa da sé fa per tre”. Oltre e dopo essere in aperta e preoccupante discontinuità con gli sforzi per una coesistenza pacifica, i sovranisti sono in aperta contraddizione con se stessi dal momento che intendono unirsi con chi non si vuole unire, vogliono collaborare con chi si chiude a riccio, vogliono fare l’Europa con chi vuole distruggerla dall’interno e dall’esterno. Ebbene, Salvini e Di Maio si sono andati a ficcare in questo tunnel senza vie d’uscita, dimenticando persino come i potenziali partner sovranisti siano proprio quei Paesi che non intendono, nel modo più assoluto, farsi carico degli immigrati, lasciandoli quindi sul groppone dell’Italia e dei Paesi di primo ingresso. Lo si è visto anche all’ultimo Consiglio europeo: da una parte l’Italia insisteva per europeizzare il problema migranti, dall’altra i sovranisti, che si ritraevano sdegnosamente dietro i loro muri ideologici e pratici. Sembrava una gag sui “ladri di Pisa”, coloro che sono inseparabili, nonostante le liti e i diverbi continui.

Se questa è la novità nella strategia internazionale dell’Italia, siamo messi molto male. Trump e Putin possono anche permettersi il lusso di puntare al sovranismo sulla pelle altrui, (ne hanno, purtroppo, la possibilità), di divertirsi a distruggere l’Europa (per farla a fette come una torta da spartire), gli Ungheresi e c. possono  giocare al “tanto peggio tanto meglio” o, al limite, al “dove si è stati ci si può anche tornare”. L’Italia invece, se si chiude in casa, è perduta, non è né carne né pesce: diventa il buffone della corte europea, il Rigoletto della UE, laddove “si disonorano gli italiani e se ne ride”.

 

Ong sta per “organizzazioni non gradite”

Al di là dei diversi approcci etici e politici al problema dell’immigrazione, sinceramente non capisco la criminalizzazione delle organizzazioni non governativo (ong), impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti e dei rifugiati in viaggio nel Mediterraneo centrale. Le ong sono da tempo accusate – e queste accuse sono diventate sistematiche e pregiudiziali nei programmi del nuovo governo italiano a impronta leghista –  da alcune parti politiche, alcuni giornali e anche da certa magistratura di avere contatti con i trafficanti, che in Libia organizzano le partenze verso l’Europa di uomini, donne e bambini. Mi sembra una storia vecchia: quella di scaricare le colpe dei problemi su chi cerca affannosamente e parzialmente di affrontarne almeno gli effetti più immediatamente devastanti.

Al riguardo mi sovviene un’esperienza fatta durante la mia vita professionale. Andai a rappresentare le cooperative parmensi (quelle sociali in particolare) aderenti all’associazione in cui prestavo il mio servizio. Dove? In Prefettura! A Parma si intende. Era stata convocata una riunione dei rappresentanti delle forze economiche e sociali in occasione dell’emergenza creatasi in Italia, ed anche a Parma, per la fuga in massa degli Albanesi dal loro Stato in piena bagarre post-comunista. Eravamo alla fine degli anni ottanta, se non erro. Il dibattito si trascinò stancamente e francamente non ricordo granché dei contenuti: se gli Albanesi arrivati a Parma si fossero aspettati qualcosa di concreto da quell’incontro… Ad un certo punto il Prefetto (non ricordo il nome) fece un attacco nei confronti delle associazioni di volontariato e del privato-sociale in genere, sostenendo che, a suo giudizio, l’impegno non era all’altezza della situazione emergenziale. Non seppi tacere, non sopportai un simile “becco di ferro”. Non ricordo le testuali parole, ma dissi sostanzialmente: «Da uno Stato incapace di affrontare le difficoltà, non sono accettabili critiche a coloro che si stanno comunque impegnando. C’era solo da dire grazie e tacere…». Non ebbi molte solidarietà. Mettersi contro il Prefetto non è tatticamente il massimo dell’opportunismo, ma …

Ho la netta impressione che, più o meno, le ong vadano sul banco degli imputati non per il loro fantomatico connubio con i trafficanti, ma in quanto colpevoli di scoprire le assenze e gli errori dei pubblici poteri in materia di immigrazione. Rappresentano cioè una provocazione per chi sta a discutere, nei palazzi italiani ed europei, senza sporcarsi le mani, alla ricerca di soluzioni, che non arrivano mai e che finiscono col lasciare in balia delle onde migliaia di disperati del mare. È fuori discussione che la logica degli Stati nazionali e dell’Unione Europea non può essere quella delle organizzazioni non governative: l’Italia e l’Europa non sono la Caritas, siamo tutti perfettamente d’accordo. Tuttavia invece di apprezzare quanti si impegnano volontariamente e collaborare con essi, pur nel rispetto delle regole condivise, prevale la volontà di screditarli e infangarli. Della serie: fatevi da parte, non fate casino e non rompete i coglioni.

Nel 2016 le 10 organizzazioni non governative, che operano nel Mediterraneo centrale, hanno salvato 46.796 migranti. Se non ci fosse stato questo intervento il cimitero acquatico si sarebbe tragicamente e colpevolmente implementato. Secondo il ministro deli Interni italiano, Matteo Salvini, per il fenomeno immigrazione sarebbe finita “la pacchia”: per gli immigrati esposti alla nostra indifferenza, se non addirittura trattati “cme i rosp al sasädi”? per le ong che si divertirebbero a scorrazzare nel Mediterraneo alla ricerca di chi sta per affogare? per le cooperative che gestiscono i centri di accoglienza e che farebbero affari d’oro sulla pelle dei migranti? per i volontari impegnati nel sostegno ai disperati in cerca di salvezza e che farebbero meglio a blindarsi nelle loro abitazioni? per il papa intento a predicare la solidarietà verso chi soffre e che non si dovrebbe intromettere in questioni politiche? In realtà non c’è alcuna pacchia da smantellare se non quella dei trafficanti, dei mafiosi, dei razzisti, degli indifferenti, degli egoisti: il fenomeno migratorio nasce da lontano, ben prima dell’avvento di Salvini al Viminale e, purtroppo, rimarrà in vigore anche dopo (speriamo il più presto possibile) che Salvini se ne sarà andato a casa.

 

 

Un Conte senza infamia e senza lode

Ero stato nominato sindaco di una importante associazione regionale fra enti pubblici. Alla prima riunione di consiglio piantai una grana piuttosto seria in materia di approvazione del bilancio. In molti si spazientirono, erano infatti abituati a revisori dei conti politicizzati, che svolgevano la loro funzione quasi come amministratori di serie b, che interpretavano il loro ruolo in chiave politica prescindendo dalla competenza ed esperienza professionale. Feci, tutto sommato, un figurone. Il direttore, uomo di notevole livello, mi si avvicinò e si congratulò per il piglio con cui mi ero inserito nei lavori di questo ente. Un simpatico amministratore parmense mi sussurrò all’orecchio: «Ti sei presentato, non potranno certo dire che sei un incompetente capitato per caso in un consesso politico…».

Ho ripensato a questa mia esperienza politico-professionale seguendo sui media il debutto del presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte al Consiglio d’Europa riunito a Bruxelles. Dalle ricostruzioni filtrate sembra che Conte si sia impuntato su diversi aspetti in discussione, irritando non poco alcuni leader europei abituati a ben altro clima ed a procedure molto più soft. Scrive Marco Galluzzo, inviato a Bruxelles per il Corriere della Sera: “Il presidente del Consiglio non solo mette tutto in discussione, ma stravolge anche l’ordine dei lavori. Macron alza la voce, perde la pazienza, si rivolge a Conte in questo modo: «Non sai come funziona un Consiglio europeo! Ci sono delle regole, non ci si comporta in questo modo». Per un attimo intorno al tavolo dei capi di governo e di Stato scende il gelo. La filippica del presidente francese sulle regole non è breve ed è inedita, anche per il tono. Il presidente del Consiglio non perde la pazienza, aspetta che il capo dell’Eliseo si calmi. Angela Merkel si guarda intorno smarrita. Alcuni sorridono. Giuseppe Conte replica a modo suo, richiamandosi alla professione precedente: «Io sono un avvocato e so che se un documento ha un numero di protocollo, quel documento si discute e si approva tutto, non a pezzi». Insomma non arretra. Sono i momenti più drammatici di un vertice in cui l’Italia è indubbiamente protagonista”.

Confesso di avere avuto un sussulto di simpatia e comprensione verso il presidente Conte: ha fatto bene a presentarsi in assetto professionale e non come apprendista stregone della politica. Però bisogna stare attenti: conosco un dirigente che va alle riunioni politico-organizzative con il codice civile in mano. Non è possibile metterla su questo piano. Bisogna avere la capacità di coniugare la preparazione tecnico-professionale con l’abilità politica, altrimenti si fa una figura da cioccolatini. Aggiungo che se uno entra a gamba tesa deve essere sicuro di quel che fa e dice, altrimenti si espone al rischio del ridicolo e della commiserazione da parte dei supponenti e smagati colleghi. Temo che il debutto di Giuseppe Conte a livello europeo non sia stato entusiasmante, non tanto per le incazzature di Macron (i piccoli di statura non si smentiscono mai), non tanto per gli imbarazzi merkelliani (ha tali e tanti problemi in casa sua da non potersi scandalizzare dei nostri), non tanto per gli atteggiamenti di sorpresa di quanti fanno i lupi a casa loro per diventare pecore in quel di Bruxelles. Mi preoccupano lo splendido isolamento italiano e la velleitaria presunzione di poter cambiare tutto e subito.

Berlusconi aveva debuttato in modo assai peggiore come presidente del Consiglio, inaugurando al Parlamento europeo la presidenza di turno italiana, non trovando di meglio che insolentire il capogruppo socialista, il tedesco Martin Schulz, proponendolo per il ruolo di kapò in un film sui campi di concentramento nazisti. Fu la prima di una serie di gaffe sfociate nella combinata derisione di Merkel e Sarkozy ai suoi danni. Se non altro, almeno Giuseppe Conte non ha dato del “collaborazionista” a Macron. Gli ultimi presidenti del Consiglio dei governi di centro-sinistra, hanno affrontato il ruolo con stile e misura (forse fin troppa). È presto per giudicare Conte, al quale darei uno striminzito sei con tre meno.

Prescindo volutamente dai contenuti degli accordi intervenuti: nessuno è in grado di valutarne la portata, serve tempo per verificare la loro tenuta nella concretezza dei problemi e dei rapporti. Tutto sommato pensavo di peggio, anche perché, in effetti, nessuno può darci lezioni in tema di solidarietà europeistica. Mi auguro che il premier italiano, il quale sembra abbia saputo, in un certo modo, tenere testa ai suoi colleghi europei, abbia il coraggio di fare altrettanto con i ministri del suo governo italiano.  Non gli sarà facile. Auguri.

 

La fuga degli occasionali amanti

Mio padre, nel suo innato e affascinante scetticismo, era portato a irridere alle ipotetiche fughe degli amanti traditori, con i due che scappano e cominciano a litigare scendendo le scale. Della serie: la famiglia ed il matrimonio sono una cosa seria. In linea con questo atteggiamento pseudo-maschilista, le donne hanno storicamente sopportato i precari triangoli, riducendo i tradimenti del consorte a “momentanee scappatelle” ed aspettando il ritorno del sereno dopo la tempesta ormonale del marito. Con l’evoluzione del costume e la maturazione del ruolo della donna il discorso si è fatto giustamente più serio e la rottura nel rapporto matrimoniale si è fatta più probabile: la parità dei sessi ha reso inaccettabile il tradimento anche se di carattere transitorio. Poi è arrivato il divorzio che ha approfondito il discorso a livello della coscienza individuale e collettiva, prevedendo e consentendo una frattura definitiva e irreversibile, portando la crisi da passeggera burrasca a convinta e canonica separazione.

Ho assistito nei giorni scorsi ad un ben assortito dibattito televisivo su la7, che ha messo a confronto tre personaggi di spicco sul tema della pericolosità del “salvinismo” fattosi governo della repubblica. In esso ho potuto trasferire lo schema di cui sopra dal campo sessuale e sentimentale a quello politico. Marco Travaglio, direttore del “Fatto quotidiano”, dovendo probabilmente farsi perdonare di aver tirato la volata ai grillini, i quali, gira e rigira hanno finito col portare la maglia rosa sulle spalle di Matteo Salvini, considera le ripetute sparate di Salvini come una sorta di panna montata destinata a sciogliersi in tempi piuttosto brevi. Il M5S sarebbe cioè fuggito con l’amante occasionale, ma il tutto si dovrebbe risolvere quanto prima col ritorno nel solco di una seria convivenza con l’elettorato provvisoriamente tradito.

Vittorio Zucconi, giornalista e scrittore di fama, è portato invece all’intransigente squalifica di un ministro degli Interni che governa l’ordine pubblico in camicia verde o con il distintivo leghista appuntato al bavero della giacca. Zucconi esprime la propria insofferenza e contrarietà verso un governante di parte. Non accetta cioè la fornicazione operata nell’ambito di questo governo giallo-verde, che trasferisce i suoi colori dalla bandiera del cambiamento alla pelle degli italiani (gialli per il fegato ingrossato e verdi di rabbia).

Massimo Cacciari, dall’alto del suo filosofico atteggiamento tranchant, è andato invece, come si suol dire, giù con una mano di vanga. Ha espresso la preoccupazione che questo esperimento politico, nato all’insegna dell’improvvisazione e della provocazione fini a loro stesse, possa penetrare nelle coscienze democratiche degli italiani e confonderle, rompendo i legami con i valori che stanno alla base della nostra costituzione e della nostra convivenza. Altro che panna montata, altro che scappatella reversibile! Si rischia una rottura insanabile nei legami e nei rapporti democratici della nostra società.

Credo che finalmente Cacciari abbia ritrovato il bandolo della matassa. Il pericolo che stiamo correndo non è tanto e solo quello di “pisciare” politicamente fuori dal buco, ma quello di pisciarci addosso. Il rischio non è tanto quello di divorziare dalla politica, ma di fare come quei coniugi che, dopo avere rotto il loro legame, si cullano nel risentimento e nell’odio, ribaltando le conseguenze disastrose sui loro figli e sulla società. Non è in gioco un conflitto politico tra destra e sinistra, tra progressisti e conservatori, tra innovatori e restauratori, tra rivoluzionari e riformisti. È in ballo l’essenza del sistema democratico, del rapporto tra società e potere politico, tra l’elettorato e le istituzioni, ma ancor prima dell’umana e civica convivenza tra i cittadini. Stiamo scherzando col fuoco lasciando, magari distrattamente e/o in buona fede, irrorare di benzina il nostro tessuto sociale.

 

 

Dottor Jekyll, mister Hyde, Musetta, Alcindoro e gli italiani

Ho appena ascoltato il discorso fatto alla Camera dei Deputati dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte in vista della riunione del prossimo Consiglio d’Europa. Al di là di una certa genericità onnicomprensiva e della discutibilità dei contenuti, mi sentirei di giudicarlo “ragionevole” nello stile e nei toni. E allora mi sono chiesto: dove finisce l’arrogante e fastidiosa aggressività populista dei suoi vice, in particolare di Matteo Salvini, il quale punta a fare innanzitutto l’arruffapopolo leghista, poi il presidente del Consiglio e, a tempo perso, il ministro degli Interni?

È una storia vecchia quella di attaccare duramente, di strappare, per poi mettere in campo i ricucitori e i rammendatori della situazione. Si grida per fomentare e sfogare le paure degli italiani, poi mister Hyde ridiventa il dottor Jekyll ed espone il volto presentabile del governo soprattutto a livello europeo ed internazionale. È un giochetto tattico, che funziona o dovrebbe funzionare per poco tempo. Quando Silvio Berlusconi scese in politica, gli esperti della comunicazione che gli prepararono le ricette per catturare il consenso, gli dissero che gli escamotage gli avrebbero garantito la vittoria elettorale, ma nel giro di sei mesi l’effetto sarebbe svanito, la gente si sarebbe svegliata ed allora…sotto con nuove illusioni e giochi di prestigio. Fino a quando?   Non è ancora finita! Sono cambiati i protagonisti principali, sono mutati gli scenari, sono variati i problemi, ma lo stile è rimasto quello. Allora Berlusconi lasciava che Bossi abbaiasse alla luna della secessione per poi tacitarlo politicamente e soprattutto economicamente. Oggi Salvini, bisogna dargliene atto, non abbaia alla luna come il suo illustre predecessore, abbaia per mostrarsi forte come fanno i cani. Nel canile italiano il gioco sta funzionando, mentre in quello europeo ci sono cani che sanno abbaiare meglio di lui. Allora meglio smorzare i toni, abbassare la voce, discutere pacatamente.

Tra un’abbaiata di Salvini e una mugolata di Conte andremo avanti (si fa per dire) un po’ di tempo. Nel secondo atto di Bohème, il capolavoro di Giacomo Puccini, i quattro squattrinati aspiranti artisti, nella serata della vigilia di Natale, spendono e spandono, ma alla fine arriva il conto da pagare. Il denaro non c’è più, è sparito. Per loro fortuna interviene la simpatica e trasgressiva amica Musetta, che riesce ad accollare il debito al suo occasionale e rimbambito accompagnatore. Nel caso italiano non vedo alcuna Musetta di turno e soprattutto non vedo alcun Alcindoro disposto a farsi fregare clamorosamente. Arriverà il conto: non so sinceramente fra quanto tempo, dipende tutto dall’abilità mugolante di Conte. Il governo italiano frugherà nelle tasche degli italiani, i quali proveranno ancora ad abbaiare, ma nessun Stato europeo si spaventerà: i Paesi forti rideranno perché il più forte ha sempre ragione, quelli deboli taceranno perché avranno i loro conti da pagare, Trump avrà trovato ben altre sponde su cui schizofrenicamente basarsi e non esiterà a “mollarci”, Putin se la caverà con una pacca mafiosa sulle nostre spalle. A Conte rimarrà in mano il cerino e forse maledirà il giorno in cui gli venne voglia di amoreggiare con il M5S e di scherzare con la Lega.

 

I polli del dopo-Renzi

Non capisco il nesso d’acciaio che i commentatori politici fanno tra crisi del PD e responsabilità negative di Matteo Renzi. IL tradizionale elettorato di sinistra è vedovo da tempo dell’ideologia comunista, della piazza sindacalista e della lotta estremista. La risposta a questo disagio doveva essere il Partito democratico, vale a dire la fusione (calda o fredda) tra linee progressiste e riformiste provenienti da comunismo, socialismo e cattolicesimo democratico (sinistra DC e non solo). Non ha funzionato perché il mondo ha rimesso tutto in discussione, diminuendo drasticamente le risorse a disposizione dello stato del benessere e scoprendo il fianco alla sinistra.

Matteo Renzi ha avuto il merito e il pregio di capirlo e di tentare un forte rilancio del PD sul piano della capacità di governare, coniugando solidarismo e modernismo. Ha inizialmente ottenuto un notevole consenso, poi, strada facendo, il consenso si è disperso per indubbi errori suoi, ma anche per i colpi di coda dell’inconsolabile establishment della sinistra, nonché per le impazzite dinamiche socio-economiche. Renzi ha inteso dare un segnale forte di governo, che è stato equivocato e recepito come segnale di “uomo forte”; ha voluto imprimere una svolta riformista partendo dalle istituzioni, che è stata respinta come tentativo di cambiare costituzionalmente la natura della nostra democrazia repubblicana; ha tentato un ricambio della classe dirigente, che è stato demonizzato quale golpe familistico e castale.

Certo l’azione politica renziana non è stata accolta, non è stata capita, non è stata condivisa, è stata osteggiata persino dai suoi più diretti beneficiari. Tentativo fallito da cui ripartire e non da buttare rancorosamente nel cestino. I presupposti rimangono validi. La sinistra, nonostante tutto, deve accreditarsi come forza di governo e non può ripiegare su atteggiamenti alla Jeremy Corby, attuale leader del partito laburista inglese; il Partito democratico deve pensare seriamente a rivedere l’assetto istituzionale e non può ripiegare sulla difesa oltranzistica e inconcludente della Carta Costituzionale; il PD deve cogliere l’essenza dei problemi socio-economici del Paese per collocarli nel quadro europeo e mondiale e non può ripiegare sull’illusione di risolverli in una logica populista o sovranista; i democratici devono rinnovare profondamente la loro classe dirigente e non possono ripiegare sul riciclo ideologico e burocratico di una dirigenza che ha fatto il suo tempo.

La sorte di Renzi è legata in parte alla sua spinta profetica e, come ben si sa, i profeti, prima o poi, fanno una brutta fine; è condizionata da un certo isolamento di gruppo venutosi a creare e che gli si ritorce contro come un boomerang; è segnata da numerosi errori il più importante dei quali è consistito nel volersi mettere testardamente e presuntuosamente contro tutti. Non gli resta che farsi veramente da parte. Dopo di lui non c’è il diluvio, ma non vedo grandi personaggi all’orizzonte. Probabilmente uno degli errori renziani è stato di voler spingere troppo sull’accelerazione leaderistica in un mondo, quello della sinistra, che si diverte più a distruggere che a costruire.

La pattona dell’egoismo

La coda elettorale relativa alle consultazioni amministrative con i relativi ballottaggi ha chiarito che il vero vincitore numerico e politico delle urne 2018 è la Lega. Il movimento cinque stelle deve abbassare la cresta e rassegnarsi al ruolo di sgabello di lusso per i piedi salviniani. I partner del centro-destra fanno tenerezza nel loro tentativo di accreditarsi una vittoria che rischia di segnare la loro fine. Il partito democratico continua una debacle di proporzioni e significati allarmanti.

Non è il caso di rispolverare “il destino cinico e baro” di saragattiana memoria, ma l’indirizzo politico imboccato dagli italiani ha qualcosa di inspiegabile e irrazionale. Non sono sicuro sia un voto dato solo sulle ali della paura (dell’immigrato, della delinquenza, del futuro, dell’Europa, degli Usa, un po’ di tutto). Temo sia la tardiva, riveduta e scorretta mela avvelenata del berlusconismo: garantiteci lo spazio per i nostri interessi, al resto ci pensiamo noi. Una sorta di riforma costituzionale: “l’Italia è una Repubblica fondata sul fare i cazzi propri”. Se è così bisogna ricominciare tutto daccapo. Forse è nata veramente la seconda repubblica e occorre una seconda resistenza.

L’opposizione deve essere prima e più etica che politica. Bisogna partire dai valori di fondo, dalle “coscienze” dal punto di vista personale e dai “ballatoi” sul piano sociale. Riscoprire cioè il significato della propria vita in senso comunitario e ritesserne i rapporti interpersonali. È inutile infatti discutere di immigrazione, se partiamo dall’idea che ognuno deve stare a casa propria curando i propri interessi. Non ci salteremo mai fuori e prevarrà comunque chi si muove politicamente nel pantano dell’egoismo e del razzismo.   È assurdo parlare di Europa quando ci si vuole barricare in casa. Già il quartiere è un’istituzione a rischio, figuriamoci l’Unione Europea. È pittoresco pensare alle tasse: paghiamo un minimo uguale per tutti, per il resto ognuno si arrangi come può. Non continuo perché mi viene il “magone”.

Una volta Renato, un caro e simpatico amico di mio padre, la fece grossa. Volle architettare una presa per i fondelli per tutti gli ospiti del palco al teatro Regio, che lui gestiva per conto di un gruppo di melomani danarosi e generosi, in particolare per le eleganti signore snob presenti ad una importante serata di gala. Comprò una pattona e la fece guarnire da un amico pasticciere in modo tale che sembrasse una perfetta e invitante torta inzuppata con tanto di crema e panna. Durante l’intervallo la scartò e nel retropalco la offrì ai presenti, che l’accolsero con esclamazioni di gradimento. La fece tagliare a fette da un chirurgo senza camice capitato nella serata sbagliata e cominciò a distribuirla su eleganti piattini con i relativi cucchiaini. Passarono pochi istanti, il tempo di assaggiare e si cominciò a sentire qualche signora che diceva all’amica: «Ma questa è pattona…». «Fammi assaggiare…, sì, questa è pattona…». Molti fecero finta di niente e mangiarono la pattona, altri la lasciarono nel piatto, chi conosceva bene Renato capì l’antifona e nel corridoio della quarta fila dei palchi si rise di gusto per tutta la serata…e anche per quelle successive.

La metafora è presto spiegata: Salvini è il Renato di turno; Berlusconi è l’amico pasticciere; Beppe Grillo è il chirurgo che fa a fette l’Italia; gli italiani sono le signore che accolgono con entusiasmo l’apparente torta di crema e panna. Ci vorrà del tempo per accorgersi dell’inganno (quanto non lo so), nel frattempo si mangerà pattona facendo finta che sia una torta prelibata. In pochi avranno il coraggio di lasciarla nel piatto, i più smagati capiranno lo scherzo e magari rideranno amaramente. “Ma questa è pattona”, dicevano le eleganti signore. “Ma questo è fascismo”, dico io che non sono affatto elegante.

 

Tenere la sinistra senza cadere nel fosso del passato

Da quattro mesi si contrappone la vittoria elettorale del fronte grillo-leghista alla sconfitta della sinistra ed in particolare del Partito Democratico. Questa sconfitta si fa risalire, così si esprimono quasi tutti i commentatori e gli opinionisti, alla crisi di consensi per la quale sarebbe colpevole l’attuale classe dirigente piddina ed in particolare quella impersonificata  da Matteo Renzi. Non escludo certamente gli errori commessi nella gestione del partito e nella conduzione del governo e non sottovaluto nemmeno la mancanza di spirito autocritico, che avrebbe potuto parare qualche colpo significativo. Tuttavia mi sembra che una delle ragioni di fondo dell’insuccesso, con tanto di fuga elettorale verso M5S e Lega, venga da lontano, vale a dire da un difetto antico della sinistra italiana.

Per fare un’analisi storica, seppure spannometrica, bisogna riferirsi al Partito Comunista Italiano, alle sue contraddizioni, alla sua impostazione politica, conflittuale ed antagonistica. Tutte le battaglie di sinistra, sulla stucchevole scia dell’antifascismo di maniera, erano improntate alla contrapposizione frontale con le idee portanti della società così come veniva delineandosi nel dopoguerra. Prima di arrivare a sentirsi protetti sotto l’ombrello della Nato, si fece una lunga e talora violenta opposizione alla scelta di campo occidentale: l’anti Nato. Poi nella prospettiva di integrazione europea si vide un tranello capitalistico, ideato per superare subdolamente i limiti del sistema. Non furono brevi la contrarietà, lo scetticismo, il neutralismo rispetto all’idea di Europa Unita: l’anti Europa.  La manicheistica contrapposizione tra spinta rivoluzionaria e scelta riformista durò a lungo, creando i presupposti per divisioni, fratture, incomprensioni nella stessa area della sinistra e nei rapporti con gli altri partiti democratici: l’anti capitalismo.

Era una politica anti tutto, che faticò assai a trasformarsi in opposizione costruttiva e non aprioristica, in alternativa politica e non sistemica. Ebbene allorché la globalizzazione a livello internazionale, le ristrettezze economiche e le emergenze sociali hanno stuzzicato l’appetito di un certo modo di essere in termini di protesta e di lotta, la sinistra riformista e gradualista è andata in crisi non tanto di contenuti, ma di consenso popolare. Sono rispuntati i fantasmi del passato riveduti e (s)corretti in euroscetticismo, in sovranismo, in populismo, in protezionismo economico e sociale. Una parte considerevole di elettorato ha sentito il richiamo della piazza (la massa e la lotta sono tornati di moda), l’anti tutto si è trasformato in anti politica: questa crisi è stata agevolata ulteriormente dalle cariatidi nostalgiche e post-comuniste, capaci soltanto di creare confusione ideologica e incertezza politica.  Lo stesso sbrigativo varo del Partito Democratico ha bypassato e lasciato irrisolta tutta una serie di passaggi ideologici e culturali, che a distanza di qualche tempo fanno sentire i loro effetti negativi.

Se è vero, come è vero, che la sinistra deve metabolizzare impietosamente la sconfitta elettorale, è altrettanto vero che non può limitarsi a brillare tout court l’attuale classe dirigente alla ricerca del nuovo, che magari ripercorra gli equivoci e gli errori del passato. La tentazione di ripiegare su una sinistra radicaleggiante è forte e perpetuerebbe l’accreditamento di un’idea legata più agli “anti” che ai “pro”. In questo contesto appare piuttosto insulsa e inconsistente la polemica sui rapporti col M5S: tutto sommato trovare un’intesa coi grillini avrebbe significato e significherebbe ripiegare consolatoriamente su una sinistra della guerra a tutto, che non è sinistra in senso politico ma è sinistra nel senso di infausta, avversa, bieca e lugubre.

La vaccinazione antigovernativa

“Ritengo che 10 vaccini obbligatori siano assolutamente inutili e in parecchi casi pericolosi se non dannosi”. Lo ha detto il vicepremier Salvini il quale ha anche aggiunto: “Nessun bambino può essere escluso dalla scuola e dall’asilo. Su questo c’è il programma della Lega ed è nel contratto di governo”.

“Ci fa piacere che il ministro Salvini s’interessi ai vaccini, ma il tema deve essere discusso anzitutto dal ministro della salute”. Così la titolare del dicastero Giulia Grillo rispondendo al vicepremier. “Voglio ribadire che i vaccini sono un fondamentale strumento di prevenzione. Prenderemo le decisioni opportune in accordo con gli alleati del governo”, dice la ministra, che aggiunge: “Cercheremo soluzioni per garantire la frequenza dei bambini negli asili nido e dall’altra mettere al centro la revisione del D.L. Lorenzin”.

“Ringrazio il ministro Grillo, sua è la competenza sui vaccini, condivido il suo pensiero, a questo ci atterremo e al contratto di governo”. Così il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che aggiunge: “Anche a me, da papà e da ministro, sta a cuore la salute dei bambini e che a tutti sia garantito l’accesso al nido, alla scuola dell’infanzia e alle classi successive. Con tanti medici condivido l’idea che sia meglio educare ai vaccini piuttosto che obbligare. Ci stiamo lavorando. Importante è che a settembre tutti i bimbi siano in classe”.

“Il contratto di governo parla chiaro. Vogliamo rivedere il decreto Lorenzin, assicurando comunque una tutela vaccinale dei nostri bambini. Poi ognuno ha la sua idea sui vaccini e la nostra la conoscete”. Lo ha detto il vicepremier Di Maio, dopo la posizione espressa da Salvini sull’obbligatorietà dei vaccini. “Dieci sono troppi”, aveva detto.

Dopo aver letto in rapida successione i sopra riportati battibecchi governativi, mi sono detto: poveri bambini! Non ho capito niente, ma forse è meglio. C’è il programma della Lega, c’è quello dei cinque stelle e c’è il contratto di governo: per sapere qual è il prevalente, prima o poi, bisognerà porre un quesito alla Corte Costituzionale, che si dichiarerà incompetente e forse passerà la pratica al Consiglio superiore di sanità, non tanto per il problema dei vaccini, ma per verificare la salute mentale dei ministri del governo Conte. In controluce, al di là della grottesca pantomima sui vaccini, emerge un dato politico: gli alleati di governo non sono d’accordo su niente e il loro contratto non vale un fico secco. Ogni questione è buona per fare cagnara elettorale.

“Aridateci er puzzone” gridavano i romani esasperati, nel giugno del 1944, invocando il ritorno di Mussolini, di fronte allo spettacolo ridicolo di alcune epurazioni di presunti collaborazionisti, come il tenore Beniamino Gigli. Nel governo di Salvini (si deve dire così!) tutto costituisce pretesto per una ridicola epurazione generalizzata del passato (dagli immigrati ai vaccini, da Saviano ai rom). E allora ritornino pure quelli che il governo del cambiamento giudica “i puzzoni” del passato. Chi sono? Prendetene uno a caso. Financo Berlusconi!

 

 

Nei bar salviniani si beve il cervello

In luglio del 2002 il ministro degli Interni Claudio Scajola si dimise per avere definito “un rompicoglioni, che voleva il rinnovo del contratto di consulenza” il giuslavorista Marco Biagi, assassinato a Bologna il 19 marzo di quell’anno da brigatisti rossi in un agguato terroristico. C’erano già state abbondanti polemiche sulla mancata concessione della scorta, che lo stesso Biagi aveva chiesto con insistenza alle autorità fino a pochi giorni prime di essere assassinato, e quindi le dichiarazioni di Scajola alimentarono il sospetto che la mancata protezione da parte del ministero fosse il frutto, oltre che di lungaggini burocratiche, anche di una scelta deliberata. Il ministro Scajola fu costretto alle dimissioni anche per l’insistenza del suo collega di governo, il leghista Roberto Maroni, allora al ministero del welfare, con cui Biagi aveva collaborato e che aveva chiesto a Scajola di concedere la scorta al professore impegnato nella delicata materia dei diritti dei lavoratori, e per le critiche insorte anche all’interno della maggioranza di centro-destra.

L’attuale ministro degli Interni, in una delle sue quotidiane e demagogiche sparate, intervistato ad Agorà su Rai3, ha dichiarato in merito alla scorta al giornalista e scrittore Roberto Saviano, da tempo impegnato in una battaglia culturale contro le mafie: «Saranno le istituzioni competenti a valutare se corra qualche rischio, anche perché mi pare che passi molto tempo all’estero. Valuteranno come si spendono i soldi degli italiani. Gli mando un bacione». Non esiterei a giudicare tali dichiarazioni agghiaccianti per diversi motivi.

Innanzitutto Salvini lascia intendere, usando maldestramente e inopportunamente l’ironia di cui non è capace, che esista da parte sua un pregiudizio negativo nei confronti di Saviano e della sua attività e quindi anche sulla concessione della scorta in difesa della incolumità dello scrittore. In secondo luogo appare per lo meno singolare che questioni di una tale delicatezza e riservatezza vengano snocciolate davanti alle telecamere, solo ed esclusivamente per catturare audience. In terzo luogo sulla scorta a Saviano sembra influire in modo decisivo lo scontro culturale e politico da tempo in atto fra Salvini e Saviano stesso: la diversità di opinioni politiche non può incidere su decisioni riguardanti l’incolumità delle persone. In quarto luogo il ministro dimostra di sottovalutare colpevolmente come la lotta alla mafia non sia solo questione poliziesca, ma prima di tutto una scelta culturale su cui si devono impegnare gli intellettuali.

Tutti questi motivi sono ben sintetizzati e rincarati nelle ulteriori precisazioni fatte dal ministro dopo che si erano scatenate diverse reazioni rispetto alla sua presa di posizione: «Saviano? Figuratevi se mi interessa quello che fa Saviano, non sono io a decidere sulle scorte, ci sono organismi preposti. Continui a pontificare, lui è l’ultimo dei miei problemi. Io voglio combattere la mafia e la camorra davvero». I casi sono due: o il ministro si sta bevendo il cervello o sta facendo calcoli politici eversivi volti a influenzare e deviare le coscienze ben prima e più dei voti.

Si dovrebbe in entrambi i casi dimettere, seguendo l’esempio di Claudio Scajola richiamato sopra, ma soprattutto riflettendo sull’atteggiamento istituzionalmente corretto del suo collega di partito Roberto Maroni: non è un caso che gli abbia consigliato preventivamente di sciogliere “il conflitto d’interessi” tra l’incarico ministeriale e la segreteria della Lega. Il governo, pur richiamandosi ad un programma politico, non è affare di un partito, ma riguarda la vita di tutto il Paese. Non è ammissibile che il ministro degli Interni faccia spudoratamente una continua campagna elettorale strumentalizzando brutalmente problemi e questioni di enorme rilevanza. Penso che nella psicologia di questo personaggio, peraltro abbastanza simpatico, siano scattati meccanismi al limite della patologia. Sì, probabilmente, al di là delle idee politiche e dei calcoli elettorali, sta rischiando un delirio di onnipotenza in cui il suo cervello perde progressivamente lucidità. E gli italiani? Dimostrano di apprezzare e di volere lasciarlo lavorare. Anche il loro cervello è a rischio…