Draghi snobba i draghi

Mia madre ammirava molto le persone riservate, equilibrate, poco loquaci e che sapevano fare bene il loro mestiere. Può essere l’identikit di Mario Draghi, il presidente della Banca Centrale Europea. È stato perfettamente in linea col suo stile, quando, in questi giorni, in audizione al Parlamento europeo, ha detto con grande flemma e diplomazia: «Aspettiamo i fatti». Ha ostentato prudenza, al limite dello scetticismo, di fronte all’annuncio che l’Italia intende chiedere alla UE deroghe sostanziali in sfida alle regole sui conti pubblici. Ha gettato anche acqua sul fuoco dei timori che la fine del “quantitative easing” possa avere un impatto pesante su un Paese ad alto debito come l’Italia.

Draghi, rispondendo ad una domanda rivoltagli da un parlamentare del Ppe, ha affermato: «Dobbiamo vedere i fatti prima di esprimere un giudizio, i test saranno i fatti, finora ci sono state le parole e le parole sono cambiate (n.d.r: probabile riferimento alla sterzata data dai partiti della maggioranza a proposito della permanenza dell’Italia nell’euro)». Ha scattato una fotografia implacabilmente nitida della parolaia e contraddittoria linea governativa in materia economica e sul tema dei rapporti con l’Unione europea (e non solo…). Probabilmente pensa che le velleitarie intenzioni provocatorie e polemiche si sgonfieranno di fronte ai dati di bilancio, ai parametri, ai documenti ufficiali ed al giudizio degli organi tecnici di Bruxelles. Un conto è infatti parlare di morte ed un conto è morire.

Mio padre sarebbe oltremodo d’accordo ed aggiungerebbe: “Sì. I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”. In effetti ci sta molto bene anche la similitudine con l’osteria. Ritornando a Draghi, ha detto niente, ma ha detto tutto. Ci ha aiutato non poco, nel modo giusto, con correttezza e competenza. Speriamo di non scialacquare il tesoretto con quattro cazzate salviniane sparate alla viva il parroco. Sì, perché Draghi aspetta i fatti, ma altri attendono il primo serio svarione italiano per retrocederci in serie b. Non è infatti vero che la Comunità europea ci abbia trattato a pesci in faccia: abbiamo ottenuto aiuti, che spesso non siamo nemmeno riusciti ad utilizzare, abbiamo potuto contare su un occhio di riguardo verso il nostro Paese ed il suo ruolo, ci siamo seduti a pieno titolo ai tavoli che contano. Può darsi che attorno a quei tavoli siano stati raggiunti compromessi non sempre soddisfacenti e lineari. Vedremo cosa succederà di qui in avanti.

Il loggione di Parma ogni tanto ruggiva: il famosissimo e simpatico critico Rodolfo Celletti ammetteva di godere, sotto sotto, allorquando i parmigiani spazzolavano qualche mostro sacro del bel canto. Però aggiungeva: «Ho la sensazione che a voi parmigiani piacciano un po’ troppo gli acuti sparati alla viva il parroco…». L’elettorato italiano è seduto in loggione e si sta divertendo a dissacrare il passato remoto e recente. Sempre di più sembra calzante l’aneddoto che tutti conoscono: il baritono venne accolto da urla e fischi e, rivolgendosi al pubblico, lo pregò ironicamente di pazientare ed attendere l’esibizione del tenore. Fischiate me? Sentirete il tenore! Nel caso dei governanti italiani usciti con le ossa rotte dalle recenti prove elettorali, si potrebbe dire: «Fischiate noi? Occhio ai nuovi protagonisti della scena italiana ed europea! Loro sì che sanno fare i bilanci alla viva il parroco!».

 

 

Calaiò o Cojonó, come dir si voglia

Come i più collaudati ed anziani tifosi del Parma calcio forse ricorderanno, nel 1985 si disputò allo stadio Tardini il match fra il Parma, ultimo in classifica nella serie cadetta ansiosamente alla ricerca della salvezza, e il Bari, primo in classifica e pretendente alla promozione. La partita stranamente e clamorosamente volse a favore del Parma, che al triplice fischio finale era in vantaggio per tre a zero. Sul secondo tempo della partita era però scesa la nebbia e quindi l’arbitro interruppe il gioco per verificare se la visibilità consentisse il proseguimento della partita: il gioco fu fatto proseguire fino alla fine e tutti si apprestavano a festeggiare una vittoria tanto bella quanto insperata. Negli spogliatoi l’allenatore del Bari, Bruno Bolchi, fece notare all’arbitro di non aver recuperato i minuti persi durante il secondo tempo per l’interruzione dovuta alla nebbia. A quel punto l’arbitro Pezzella da Napoli richiamò in campo le squadre per giocare alcuni minuti di recupero, ma la nebbia era nel frattempo discesa così fittamente da non consentire la ripresa del gioco e allora la partita venne considerata sospesa e da rifare totalmente. Proprietario e presidente del Bari in quel periodo era Vincenzo Matarrese, fratello del più importante Antonio, presidente della Lega Calcio. Quattro minuti di recupero con il Parma in vantaggio per tre a zero: ciononostante tutto annullato e da ripetere. Credo di ricordare che il Parma si aggiudicò anche il recupero tra le urla e i fischi contro il Bari e la sua dirigenza. Ricordo come un amico commentasse acidamente l’accaduto sostenendo che in nessuna altra piazza calcistica sarebbe stato possibile un simile episodio di insensata ed evidente scorrettezza arbitrale.

Trovo qualche assonanza tra il tre a zero appioppato al Bari ed annullato dall’arbitro in modo vergognoso e l’attuale promozione in serie A messa in discussione da tre demenziali messaggini inviati per scherzo da Calaiò, centrattacco del Parma, ai suoi ex compagni in forza allo Spezia, squadra che il Parma doveva incontrare nell’ultima giornata di un campionato che si stava concludendo con un certo odore di promozione. Ho letto, così come riportati dalla stampa, i testi di questi messaggi telefonici: ingenuità, stupidità, goliardia, cialtroneria, tutto meno che un tentativo di truccare una partita. Ciononostante la procura federale, dimenticando i fatti gravissimi che infangano il mondo del calcio e dimostrando di avere tempo da perdere dietro simili sciocchezze, manda sotto processo Emanuele Calaiò e il Parma per tentato illecito sportivo. In qualche altra piazza sarebbe già scoppiato il finimondo con guerriglia urbana scatenata per protesta. Finora Parma ha reagito in modo composto, incredula rispetto ad una vicenda paradossale, che sta tenendo banco e condizionando comunque l’avvio del campionato di serie A, dal momento che il Parma potrebbe vedere messa in discussione la sua promozione nella massima serie a favore del Palermo ripescato in extremis.

Indubbiamente Emanuele Calaiò non ci fa una bella figura, ma tra il fare una cazzata ed essere un truffatore calcistico c’è una bella differenza, ancor più per la società del Parma: avere tra i propri tesserati un cretinetto qualsiasi non può diventare un illecito sportivo. Di cretini nel mondo del calcio ce ne sono a bizzeffe. Col metro adottato dalla procura federale forse bisognerebbe sospendere tutto e tutti per chissà quanto tempo. Il pallone è inquinato da squallidi personaggi che ne hanno combinato e ne combinano di tutti i colori, può darsi benissimo che il Parma paghi per tutti in seguito ad una sciocchezzuola tutta da ridere nelle intenzioni e nelle conseguenze. Allora possono venire alla mente altri pensieri malevoli. Può dare fastidio un’arrampicata da record dalla serie D alla serie A in tre anni…Non intendo minimamente soffiare sul fuoco, ma mi sembra si stia configurando una vicenda molto simile a quella sopra ricordata del 1985. Staremo a vedere come finirà. Di certo il ridicolo è già stato raggiunto, speriamo che la commedia non muti in tragedia. Parma è forse una garanzia contro tale rischio e allora qualcuno magari calcola di poter impunemente infierire. Dal momento che il centravanti della squadra sarebbe un “cojón”, non si mettano in testa un brutto pensiero sui parmigiani, i quali hanno tanti difetti meno quello di essere dei “coglioni”.

 

 

La nazizzania è dura da estirpare

Il mar Mediterraneo è la culla-bara per tanti migranti in disperata fuga dall’inferno africano, ma è anche l’annosa sede del conflitto israelo-palestinese, la madre di tutti i conflitti medio-orientali. In questi giorni papa Francesco ha preso in quel di Bari un’ecumenica iniziativa di sensibilizzazione al riguardo: ha dialogato e pregato con i Patriarchi per invocare la pace in Medio Oriente.

Proprio in contemporanea rispetto alle cronache del viaggio-tuffo lampo del papa, ho letto la sintetica biografia di Uri Avnery, un giornalista e pacifista israeliano, nato in Germania nel 1923 e fuggito in Palestina durante il periodo nazista. Costretto a prender parte alla prima guerra arabo-israeliana, racconta le atrocità fatte subire ai palestinesi; alla fine del conflitto continuerà a battersi per la pace. Nel 1993 fonda Gush Shalom (“Il blocco della pace”), movimento di condanna dell’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, e denuncia i crimini di guerra israeliani nei Territori Occupati. Nel 2001 riceve il Right Livelihood Award insieme alla moglie Rachel (morta nel 2011), compartecipe del suo impegno.

Mi sono sempre chiesto come può una nazione (non uso il termine popolo perché mi sembra esagerato), che ha subito lo sterminio nazista, comportarsi in modo così violento e cruento con i palestinesi, non riuscendo a trovare il bandolo della matassa per una coesistenza pacifica e continuando da decenni ad oscillare fra timidi armistizi e spregiudicati attacchi, fra vendette atroci e pause diplomatiche, fra difesa dei propri confini e sistematica violazione dei confini altrui. È paradossale che gli eredi dei milioni di ebrei torturati e massacrati nei campi di concentramento nazisti covino nella loro politica nazionale un odio verso coloro che si ostinano testardamente a considerare usurpatori rispetto al loro territorio. Non c’è Onu, Vaticano, autorevole appello che tenga. Certamente i palestinesi non sono mammolette e fanno di tutto per provocare irrazionalmente la continuazione di un conflitto, che li vede sistematicamente soccombere di fronte alla notevole forza israeliana.   L’Occidente, gli Usa, l’Europa, hanno enormi responsabilità al riguardo: hanno preferito e continuano a preferire la politica dello struzzo ad una precisa, decisa contestazione del comportamento di entrambi i belligeranti, ad un serio aiuto diplomatico per risolvere un problema sorto anche e soprattutto dagli equivoci del dopo conflitto mondiale.

Credo tuttavia che la soluzione di questo enorme problema non stia nelle trattative diplomatiche: ne abbiamo viste fallire tante, a tutti i livelli. Non se ne esce se gli israeliani non capiscono e partono da un concetto, che Uri e Rachel Avnery mettono bene in chiaro: “La violenza fa parte della resistenza all’occupazione. Il punto fondamentale non è la violenza; il punto fondamentale è l’occupazione. La violenza è un sintomo; l’occupazione è la malattia, una malattia mortale per tutti gli occupati e gli occupanti”.

Posso tentare di capire l’immenso risentimento post-Shoah ed i postumi della zizzania nazista, che continua ad infestare ed infettare il campo,  posso intuire i motivi religiosi che fanno da schermo ai venti di guerra, posso ammettere il timore che, aperta una breccia,  nel fortino israeliano possa succedere un secondo finimondo, posso concedere tante attenuanti umane, politiche, storiche, religiose al rigido comportamenti israeliano, ma è assolutamente necessario e pregiudiziale che gli israeliani si convincano che per andare avanti bisogna guardarsi alle spalle, ma se poi non ci si decide a fare un passo si resta fermi e addirittura si ripiomba nel passato. Scrivono Uri e Rachel Avnery: “Devi combattere per l’anima del tuo popolo, devi combattere per le anime di milioni di persone da entrambe le parti, per superare l’eredità di questa lotta e creare la pace”. Che le preghiere di papa Francesco e dei suoi colleghi patriarchi possano arrivare laddove le volontà dei governanti non riescono a cavare nemmeno un ragno di pace dal buco del disastro nazista, a cui faccio risalire l’imperversante clima di incomprensione. Quando si avvelenano i pozzi è difficile bere acqua pulita.

La fretta dell’antipolitica e la pazienza della politica

È innegabile che Matteo Renzi abbia tentato, con molto impegno e troppa foga, di modernizzare la sinistra italiana sottraendola da ogni e qualsiasi nostalgia ideologica. Purtroppo però gli italiani, e non solo loro, sono alla disperata ricerca delle ideologie perdute e, tra l’altro, in questa affannosa rincorsa al passato prendono lucciole per lanterne, confondono la sinistra con la destra, il popolarismo col populismo, il pauperismo con l’egoismo, il socialismo col sovranismo, il rigorismo con il qualunquismo, etc.

Non so fino a qual punto Renzi non sia stato capito o non sia stato capace di spiegarsi con i fatti (forse pochi) e con le parole (forse troppe). Può darsi sia finito il renzismo, ma certamente non è finita la necessità di adeguare la sinistra ai tempi attuali, possibilmente senza scopiazzare la destra. Ricordo come la sinistra a Parma, dopo il clamoroso errore di insistere sulla candidatura Lavagetto, che spianò la strada al lungo periodo ubaldiano, tentasse di trovare una candidatura credibile e più di una volta cercò di pescare nella cosiddetta società civile, ma puntando su soggetti che di sinistra avevano sì e no una mano. Allora mi dicevo: se la sinistra per vincere le elezioni deve trasformarsi in destra è meglio che le perda. Il discorso vale anche oggi: attenti alla trappola del macronismo. Se per battere il lepenismo bisogna pagare i prezzi che sta pagando Macron…Sul fronte opposto c’è sempre pronta la trappola del sinistrismo ideologico. In mezzo a questi due fuochi ci sta il PD.

Nel partito democratico Renzi ha una voglia matta di rivincita e i suoi oppositori (non ho ancora ben capito chi siano e cosa vogliano) muoiono dalla voglia di riperdere. Se il partito non esce da questo dibattito autolesionistico, va a finire male. Tutti gli osservatori ed i commentatori esterni hanno la loro ricetta: non esiste una terapia ad effetto immediato ed è perfettamente inutile sollecitare una cura ricostituente la fiducia dei cittadini elettori. Sono portato a schematizzare la situazione politica nei seguenti termini. Da una parte c’è la fretta dell’antipolitica, vale a dire la spinta forsennata al cambiamento per il cambiamento, la irrazionale tendenza ad andare contro chiunque osi sconvolgere il nostro quieto vivere: a ben pensarci si tratta di una collettiva gattopardesca sbornia volta a cambiare tutto affinché non cambi nulla. Dall’altra parte troviamo la pazienza della politica, vale a dire la fiducia nel gioco democratico, nel ruolo delle istituzioni italiane ed europee, nella gradualità del riformismo socio-economico: a ben pensarci si tratta della scommessa churchilliana sulla democrazia quale peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme sperimentate e “sperimentande”.

Il partito democratico deve essere l’interprete paziente della politica, la più alta, ma anche la più concreta possibile. Giorgio La Pira era un idealista incallito, ma quando fece il sindaco di Firenze non si fece scrupolo di telefonare ad Enrico Mattei, presidente dell’Eni, perché salvasse la Pignone e il posto di lavoro di chi rischiava un drammatico licenziamento. Oggi i grillini si scandalizzerebbero e i leghisti direbbero che le aziende decotte vanno lasciate al loro destino.

La pazienza non ammette fretta, perché è cattiva consigliera, e sta spingendo Renzi a rimontare lo svantaggio buttando la squadra in uno scriteriato attacco contro il destino cinico e baro, mentre spinge i suoi oppositori interni ad arroccarsi in difesa spedendo la palla nella tribuna dell’ideologismo datato e dell’utopismo fragile. Il clima da perpetua resa dei conti non porta da nessuna parte e disamora ulteriormente i pochi o i tanti, che vorrebbero ancora ragionare di politica e non sbraitare al bar.

Renzi esorcizza il ritorno del burocratismo ideologico di comunistica memoria; gli altri temono lo snaturamento valoriale di una nostalgica riedizione democristiana. Fino a qualche tempo fa ritenevo che la diaspora esistente all’interno del PD non fosse di carattere ideologico nel senso della contrapposizione fra cattolici e comunisti. Ne sono ancora convinto anche se sta venendo avanti un contrasto forse ancor peggiore fra modernismo e ideologismo. Per chiudere il discorso con un esempio posso dire così: alla gente che ha paura degli immigrati non posso proporre di chiudere pedissequamente i porti e le frontiere, ma nemmeno di aprire le porte a tutti indistintamente. In mezzo ci sta la pazienza del gestire il fenomeno immigrazione: era la strada che stava tentando il ministro Marco Minniti. Non è un caso se i nuovi improvvisati governanti fanno fatica ad opporsi a quanto portato avanti da Minniti: è quella la strada valida sui diversi problemi. Mi pare di sentire i grilloparlanti sinistrorsi di maniera: ma quelle sono politiche di destra! No, quelle sono politiche e non chiacchiere da salotto o urla da bar. E Renzi si sforzi di elaborare con calma una strategia di questo tipo, tanto meglio se la fa gestire da altri, non per interposta persona, ma per riconoscibili capacità politiche e governative.

 

Tres Tres Tria

Con la sua innata vis polemica Renato Brunetta, ogni tanto, ne azzecca una: di questi tempi sostiene che il governo ha tre anime, quella sovranista di Salvini, quella assistenzialista di Di Maio e quella burocratica di Tria (nessuno, con licenza parlando, se lo caga e pensare che ha in mano la cassa…). Se non ho sintetizzato bene il pensiero dell’esponente forzista, gli chiedo umilmente scusa, ma la sostanza del suo discorso è questa. Mi permetto di essere d’accordo. È già successo in passato che a livello di governo esistessero sensibilità e opinioni diverse tra i partiti di riferimento e i ministri stessi. Non mi scandalizzo quindi del fatto in sé, che al limite potrebbe essere anche foriero di vivacità e dinamicità, pagando tuttavia il prezzo di una imbarazzante confusione.

Qualsiasi umana convivenza ha i tempi della intesa perfetta, della crisi passeggera, della riconciliazione, della rottura provvisoria, della ripresa di rapporti, della separazione definitiva con tanto di strascico polemico se non addirittura odioso. Non ho capito quale sia la fase che sta attraversando il governo Conte: dovrebbe essere il tempo della luna di miele, dei bacini e dei bacioni, invece… All’inizio di una mia avventura sentimentale, dopo un periodo di ferie trascorso insieme alla donna di cui ero follemente innamorato, un caro amico mi chiese come stavano andando le cose. Risposi, con una certa soddisfazione, che, tutto sommato, il bilancio di quella prima convivenza poteva ritenersi accettabile. Venni autenticamente gelato dall’esperienza fatta uomo: «I bilanci non si fanno all’inizio, ma alla fine. Questo, per te, dovrebbe essere il tempo segnato dall’idillio. Se parti con qualche contrasto all’inizio, figuriamoci dopo…».

In effetti stanno emergendo, seppure ovattate dalla necessità dello stare insieme, idee radicalmente divergenti, tenute insieme col bostik dell’opportunismo giallo-verde. Viene spontaneo chiedersi con linguaggio dipietrista: cosa ci azzecca lo sbracato liberismo di Salvini con il puntuto pubblicismo di Di Maio e con il perbenista ragionierismo di Tria?  Prendiamo a riferimento proprio l’economia: i grillini puntano all’effimero sviluppo basato sul sostegno pubblico ai disagiati (reddito di cittadinanza); i salviniani postulano una illusoria ripresa legata alla libera iniziativa affrancata dal giogo erariale (flat tax); il ministro Giovanni Tria, che ha in mano tutte le chiavi di casa, intende salvare capra e cavoli, dando un colpo al cerchio degli equilibri di bilancio ed uno alla botte della spesa sociale.

I leghisti guardano al cassetto delle imprese, soprattutto le piccole e medie, i pentastellati guardano al portafoglio rinsecchito di chi cerca un lavoro, Tria guarda all’Europa, ai mercati ed alle agenzie di rating. Conte dovrebbe fare sintesi, ma ho la netta impressione che faccia soprattutto cilecca. L’unica sintesi possibile sta nella ricerca affannosa di nemici marginali: i beneficiari dei vitalizi, i pensionati d’oro, le imprese delocalizzanti. Ma esiste un altro modo di ritrovare la concordia. Mi riferisco al discorso immigrazione, che sta funzionando da scarico di tutte le tensioni: i due coniugi che sono sempre sull’orlo del litigio e lo esorcizzano dando tutte le colpe alla donna di servizio; i tifosi che non accettano le sconfitte e buttano la croce addosso all’arbitro (oggi anche al Var, Video Assistant referee, assistente al video dell’arbitro). Alla fine è tutta colpa dei disperati africani alla ricerca della pacchia buonista. Le comari del governo Conte sono poco allegre, fanno finta di andare d’amore e d’accordo, ma sotto sotto si odiano cordialmente. Tra moglie e marito non metterci il dito, tra Salvini e Di Maio non metterci il povero Tria.

 

 

Lo Zar contro la rivoluzione dei no vax

Ero piccolo, ma serbo un ricordo molto preciso della mia vaccinazione antivaiolosa. Ero con mia madre nella sala d’aspetto dell’ambulatorio comunale dove si svolgevano le vaccinazioni: i bambini piangevano per l’impressione del subire una strana puntura d’ago e per l’austera insofferenza di un’anziana dottoressa. Ero anch’io piuttosto preoccupato, mentre tra le mamme era in corso la discussione sull’obbligatorietà del vaccino. Alcune erano contrarie e dichiaravano apertamente, alla faccia di Jenner e Pasteur, di considerare come un sopruso quella vaccinazione: raccontavano strane vicende di gravi effetti collaterali. Altre erano scettiche sulla validità del vaccino e se ne stavano immusonite ad aspettare con un certo fastidio il loro turno. Altre, come mia madre, senza enfasi e con discrezione, confessando l’ignoranza in materia si affidavano alla scienza e al dovere civico di proteggere i figli da questo rischio.

Sono passati invano oltre sessant’anni e siamo ancora lì.  L’ignoranza continua a farla da padrona, le dispute pseudo-scientifiche si sprecano, mentre a tutto ciò si è aggiunta una massiccia dose di strumentalizzazione politica: l’antipolitica non si può infatti lasciar scappare questa assurda polemica, il no a tutto ciò che viene dalle “inique” leggi comprende anche il no all’obbligo di vaccinare i bambini.  Tra le tante (finte) libertà si tende ad inserire anche quella di vaccinarsi o meno, ammantando la demagogia del rifiuto con la (ir)razionalità della persuasione. Mi pare di ricordare che il nuovo governo abbia fatto la quadratura del cerchio, ribadendo l’obbligatorietà dei vaccini, ma puntando ad un bilanciamento tra il diritto all’inclusione, il diritto all’istruzione e il diritto alla tutela della salute individuale e collettiva.  Persino su questo delicatissimo tema esistono divergenze notevoli ed è in atto la sfida tra Salvini e il resto del governo.

Il clima sociale si è deteriorato al punto che il campione della nazionale italiana di pallavolo e stella della Modena Volley, Ivan Zaytsev soprannominato “lo zar”, è stato preso di mira dagli haters no vax per avere pubblicato sul proprio profilo Facebook una foto con la figlia appena vaccinata. “E anche il meningococco è fatto! Bravissima la mia ragazza sempre sorridente!”: questa la frase, che ha scatenato il popolo del web, pubblicata dal pallavolista. In mezzo alla bagarre di istruzioni ministeriali e regionali, tra libretti ed autocertificazioni, tra scadenze e rinvii, tra multe e campagne informative, tra l’obbligo della legge e la sua riforma affidata ad un tavolo di esperti indipendenti, la ministra della salute Giulia Grillo a chi l’accusa di essere in cima alle battaglie dei non vax, ha replicato: “Non sto in cima a niente”. Poi, bontà sua, ha dichiarato di essere in attesa di un figlio e che lo farà vaccinare. Ha però aggiunto che le legge varata dal suo predecessore, la ministra Beatrice Lorenzin, verrà modificata da M5S e Lega.  Tutto è politica si diceva un tempo. Tutto è anti-politica si potrebbe dire oggi. Tutto fa brodo per un po’ di consenso in più. Sono partito da mia madre e ritorno volentieri a lei: con il suo senso civico, il suo discreto atteggiamento, la sua consapevolezza di non poter giudicare questioni scientifiche, continua compostamente a giganteggiare.

 

La (s)comoda sottana di Mattarella

Quando da bambini, durante i giochi con i coetanei, si subiva qualche piccolo sopruso, si correva a lamentarsi e, se del caso, a piangere dalla mamma: lei sapeva consolarci, riparare i danni psicologici e fisici, bastava una sua carezza a rimettere tutto a posto. Queste infantili sceneggiate si chiamavano “pierinate”.

Quando l’esponente di qualche partito viene attaccato duramente dalla stampa o viene sottoposto ad inchiesta giudiziaria o addirittura condannato in giudizio, scatta il sacrosanto diritto alla difesa, ma in conseguenza della berlusconizzazione della politica, ci si difende dal processo e non nel processo, gridando al complotto, alla manovra giudiziaria, alla gogna mediatica. Parte il vittimismo, psicologicamente e umanamente comprensibile, ma politicamente inaccettabile.

Come ha recentemente e opportunamente ammesso Massimo Cacciari, la stampa, i media in genere, gli intellettuali, hanno indubbiamente esagerato negli attacchi al malcostume politico, facendo d’ogni erba un fascio e finendo con lo squalificare non solo una certa cattiva politica ma tutta la politica. Bisogna andare pertanto adagio prima di prendere per oro colato il giustizialismo mediatico: gli esempi sono tanti, basta rinfrescarsi la memoria. Questa gara allo sputtanamento della politica ha portato alla qualunquistica e inconcludente anti politica in cui siamo malauguratamente immersi fino al collo.

Anche l’operato degli organismi investigativi, della magistratura inquirente, requirente e giudicante non sono esenti da colpe, da errori anche clamorosi, da interferenze più o meno dirette nel gioco politico.  Di Giulio Andreotti si poteva e si può dire molto, non certo che abbia impostata la sua difesa dal processo, gettando sospetti e fango sui magistrati che lo hanno imputato e condannato non per un semplice abuso d’ufficio (a un amministratore pubblico rispettabile una contestazione di questo genere non può mancare), ma per omicidio e connivenza con la mafia.  Si è lungamente difeso nel processo, ne è uscito per il rotto della cuffia, ma comunque non ha mai gridato al complotto scaricando l’adrenalina sulla magistratura.

In questi ultimi giorni nell’occhio del ciclone c’è finita la Lega, peraltro a causa di un vecchio scandalo per appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato relativamente ai fondi pubblici erogati al partito. Sul banco degli imputati, peraltro condannati solo in primo grado, Bossi e il tesoriere della Lega al tempo della segreteria dell’Umberto. Questa vicenda giudiziaria era ben nota prima della recente consultazione elettorale e, a giudicare dai risultati, non ha avuto alcun effetto negativo sulla gente: ormai il cittadino medio non riesce più a distinguere, la sua sfiducia è generalizzata e tende a premiare chi la cavalca, nonostante sia magari invischiato come gli altri. In un certo senso successe con il paradossale avvento di Berlusconi nel dopo tangentopoli e continua a succedere.

Ora lo scandalo ha avuto un colpo di coda: la Corte di Cassazione ha disposto il sequestro cautelativo dei beni della Lega a copertura del danno recato allo Stato con l’utilizzo improprio o addirittura truffaldino delle somme avute in base all’allora vigente finanziamento pubblico dei partiti. Inutil precauzione o Barbiere di Siviglia? Fatto sta che comunque la cosa sta diventando un dramma (quasi) giocoso con tanto di ridicolo pianto leghista rivolto al presidente Mattarella sotto la cui sottana si pretenderebbe di trovare rifugio. Cosa dovrebbe fare il capo dello Stato non l’ho capito. Dovrebbe accarezzare, da buon papà o addirittura da dolce mammina, la testolina di Salvini, asciugargli le lacrime, rassicurarlo con un paterno “ci penso io” o regalargli un materno accenno “ai cattivoni di turno”? Dal momento che presiede il Consiglio Superiore della Magistratura dovrebbe immediatamente aprire un procedimento disciplinare contro i giudici, che hanno osato adottare provvedimenti invadenti e ingiustificati? Matteo Salvini è entrato nel potere esecutivo grazie soprattutto alla correttezza istituzionale di Mattarella, ma adesso cosa pretende da lui la grazia preventiva per ogni e qualsiasi reato ascrivibile alla storia della Lega? Lo lasci in santa pace, prima che possa pentirsi di avere “giustamente” consentito la nascita di questo governo a cui riserva tuttavia inevitabilmente qualche “tiratina d’orecchi di gran classe”.

In una partita di calcio in cui il Parma si giocava la promozione dalla serie C alla serie B, un segnalinee fece notare all’arbitro una piccolissima trasgressione obiettiva che portò all’annullamento del gol del pareggio da parte dell’Ancona: una di quelle trasgressioni che molto spesso possono passare inosservate. Ricordo che onestamente dal pubblico consigliavano il presidente del club crociato di mandare un prosciutto quale grazioso omaggio al correttissimo e zelante giudice di linea. Ebbene io consiglio a Matteo Salvini di smetterla con questa assurda manfrina giustificazionista: faccia un bel regalo a Mattarella consistente nel rispettarne il ruolo e le attribuzioni, contraccambi la correttezza e la finisca prima che anche il più sprovveduto dei suoi elettori possa capire il disastro incombente e pentirsi amaramente.

Due leghe sotto sequestro

Ho sempre avuto una certa simpatia (non politica) per Umberto Bossi, che si è, via via, accresciuta con la sua menomazione fisica, con le accuse rivoltegli in merito alla gestione dei fondi neri della lega Nord e la sua conseguente condanna in primo grado e soprattutto con la sua brutale e irriguardosa emarginazione dal nuovo corso del partito e della nuova politica leghista completamente cambiata in chiave salviniana. Tempo fa ritenevo che Lega significasse Bossi e senza Bossi non potesse esistere la Lega, di cui lui era il capo carismatico per eccellenza. Come al solito mi sono sbagliato e Bossi, indebolito nel fisico, toccato persino negli affetti familiari, probabilmente ingannato da personaggi senza scrupoli, sotto processo per reati da cui probabilmente è lontano mille miglia, è stato spazzato via dal nuovo corso salviniano senza tanti complimenti e senza alcun rispetto. Non c’è cosa che mi renda simpatici i capi come la cattiveria dei loro successori.

Nel bel mezzo del cammin della nuova Lega arriva da pagare un primo, anche se provvisorio, conto alla giustizia: il sequestro di 49 milioni di euro a copertura dei danni causati dalla tesoreria truffaldina della Lega Nord ai tempi di Bossi. Apprendo dalla stampa che, probabilmente anche in vista di questi rischi giudiziari, il partito ha voltato pagina e si sarebbe costituita una seconda Lega, che, politicamente e finanziariamente, non avrebbe niente da spartire con la prima: un comodo escamotage per cambiare le carte in tavola senza sporcarsi le mani.   La lega ha governato per anni assieme a Berlusconi, ma fa finta di avere un’assoluta verginità e una totale irresponsabilità per il passato; adesso farà finta di non avere niente a che fare con i guai giudiziari di Bossi e c. anche se l’attuale classe dirigente leghista non viene certo dalla luna; ora ha sposato cause che la allontanano sempre più da una destra ragionevole e moderata anche se mostra lo specchietto per le allodole di un’alleanza di centro-destra di pura facciata.

Gli italiani continuano imperterriti a mangiare la panna montata, dimostrano una insolita generosità di giudizio verso Salvini, lo godono a prescindere, lo sentono come uno di loro, che, seduto al bar, sciorina le più grandi cazzate con una disinvoltura da far invidia alle più belle facce di tolla della storia, lo hanno investito del ruolo di salvatore della patria. Un tempo una mossa come quella della Corte di Cassazione, volta e sequestrare i fondi del partito per una cifra enorme, avrebbe sputtanato immediatamente i destinatari, oggi suona come un tentativo di bloccare la novità, come una manovra che tenta di ribaltare l’esito elettorale. In questo Salvini è perfettamente in linea con le teorie complottiste berlusconiane. Se colpa ci sarà, la butteranno addosso a Bossi: un motivo in più per rottamarlo definitivamente.

Non sono assolutamente interessato ad approfondire queste vicende giudiziarie, non penso sia il caso di strumentalizzarle, non sono né giustizialista né garantista per partito preso, quando le persone, anche i politici, sono sotto processo, mi sembra inaccettabile infierire su di esse. Voglio solo rimarcare certe clamorose incoerenze, certi comportamenti politici sbrigativi, certo purismo improvvisato e soprattutto certo indecoroso scaricabarile.

 

 

 

L’irrazionale precariato governativo

Ho avuto l’opportunità, alcuni anni or sono e per un breve periodo, di presiedere una cooperativa sociale operante nel campo dell’avviamento al lavoro di soggetti svantaggiati tramite l’esercizio di attività economiche, svolte prevalentemente in convenzione o in appalto con enti pubblici. Gran parte di questa attività aveva su di sé la spada di Damocle di contratti a scadenza piuttosto breve: si lavorava quando e come il mercato lo consentiva. Ricordo perfettamente il dramma di essere costretti a precarizzare il rapporto coi soci-lavoratori o addirittura coi lavoratori, per i quali non aveva senso diventare soci proprio perché il loro rapporto di lavoro era necessariamente all’insegna della provvisorietà.

Purtroppo nel nostro sistema economico il lavoro non è e non può essere, al di là del furore ideologico sessantottino, una variabile indipendente. Per dirlo con termini lessicali moderni, alla incertezza del mercato ed alla conseguente flessibilità dell’economia aziendale deve corrispondere una certa flessibilità del fattore lavoro. I contratti di lavoro a termine o provvisori come dir si voglia, quasi sempre, non sono frutto di imprenditori d’assalto, senza scrupoli o di comodo, ma rappresentano una scelta obbligata: se un’impresa stipula un contratto d’appalto con un Comune con validità di un anno, come può assumere a tempo indeterminato coloro che lavorano su questa commessa?

Quante volte, alle prese con cause giudiziarie inerenti i rapporti di lavoro, ho visto la paradossale rigidità legislativa in materia di licenziamenti funzionare da premio indiretto all’assenteismo ed alla irresponsabilità dei lavoratori e penalizzazione indiretta a chi potrebbe e vorrebbe lavorare con impegno e serietà. Anche il sindacato ha le sue responsabilità avendo difeso, in troppi casi, sempre ed indistintamente cani e porci, fannulloni e profittatori, soprattutto nell’area pubblica, contrattando la garanzia del posto fisso con i privilegi nell’orario di lavoro, nei diritti pensionistici e nella tolleranza verso i furbetti del cartellino.

L’attuale governo sconta la necessità di equilibrare le proprie sparate: alle sgangherate scelte sulla politica dell’immigrazione rispondono le strumentali scelte restauratrici in materia di lavoro. Un colpo al cerchio e uno alla botte, un colpo con la demagogia di destra e uno con la demagogia di sinistra. La unilaterale chiusura dei porti, l’attacco pregiudiziale alle ong, la ventilata schedatura dei rom, valgono bene lo specchietto delle allodole di un accorciamento dei contratti di lavoro a termine, un innalzamento dei risarcimenti per i licenziamenti immotivati, un contentino di facciata ai potenziali lavoratori dipendenti.

Sergio Cofferati sostiene che l’aumento dei dati occupazionali sia sostanzialmente dovuto alla trasformazione dei contratti a tempo indeterminato in un maggior numero di contratti a termine. Non sono in grado di verificare se i dati gli diano ragione, ma il problema è quello di cui sopra: non si può pretendere una politica occupazionale del posto fisso a fronte di un’economia che di fisso e stabile non ha nulla. Questa, a casa mia, si chiama demagogia.

Il mio impegno diretto in politica fu caratterizzato dall’appartenenza ad una corrente di sinistra all’interno della democrazia cristiana, quella di matrice sindacal-aclista, guidata in quegli anni da Carlo Donat Cattin, uomo di formazione ed esperienza sindacale, che fu ministro del lavoro nel periodo del cosiddetto autunno caldo (1969) e seppe coraggiosamente coniugare i diritti dei lavoratori, verso i quali espresse nei fatti una scelta preferenziale, con una politica di stampo riformista e costituì la felicissima eccezione alla regola, che storicamente vede gli ex-sindacalisti malamente impegnati in politica ed in economia (sì, perché politica e sindacato sono due cose assai diverse).

Non posso quindi essere tacciato di mentalità antisindacale o di scelta politica filo-industriale: cerco di ragionare con la mia testa. Oggi, più che mai, ragionare è diventata una scelta politica di metodo, ma anche di merito. Ho infatti ascoltato alcuni passaggi del comizio “descamisado”  salviniano a Pontida, ho ascoltato le avance “doppiopettiste” dimaiane: sono le due facce della stessa medaglia irrazionale, che circola nella politica odierna con tanto di (sempre più) insopportabile grancassa mediatica.

Prima noi o loro: questo è il falso dilemma

Pochi giorni or sono mi è capitato di sedermi sul bus vicino a due ragazzini: una disinvolta e scosciatissima femmina e un imbronciato maschio, entrambi inevitabilmente alle prese con l’irrinunciabile smartphone e relativo auricolare. Non ho nemmeno minimamente pensato di attaccare discorso, tanto era la loro astrazione dal mondo. Mi sono solo chiesto: cosa ho io da spartire con i virgulti di queste generazioni? Niente! La bellezza delle ragazzine mi spiazza: non saprei da dove cominciare per corteggiarle, non mi lustrano gli occhi, non mi turbano per niente sul piano sessuale (ci riescono ancora le provocanti e affascinanti tardone, che le battono due a zero, in tutti i sensi). L’arroganza dei maschietti mi fa letteralmente pena: sprizzano ignoranza e presunzione dai pori della pelle, con un sottofondo di violenza pronto ad esplodere alla prima triste occasione.

Ho guardato altrove ed il mio sguardo si è incrociato con quello degli immigrati e delle immigrate che affollano i bus nostrani. Ho trovato immediatamente qualcosa da spartire con loro: la sofferenza della vita, la battaglia per la giustizia sociale, la voglia di comunicare (anche sguaiatamente: preferisco i loro sgarbati dialoghi ai nostri silenzi egoistici), il desiderio di darsi una mano. Meglio la loro puzza di sudore rispetto ai perbenistici profumini (?) dei ragazzini nostrani. Mi sono accorto però che anche molti di loro tirano fuori i telefonini di ultima generazione e navigano bene, alla faccia dei loro connazionali in mezzo al mare sballottati più dai nostri pruriti tardo-razzisti che non dalla violenza delle onde. Anche loro stanno passando nella categoria degli “incomunicativi”, si integrano al peggio, si accontentano delle briciole informatiche che cadono dalla tavola dei loro padroni.

Poi ho pensato a Donald Trump e a Matteo Salvini: “prima noi di loro”, dicono ripetutamente. Sta già succedendo nel senso che trasmettiamo loro i nostri difetti, le nostre chiusure, i nostri egoismi. Sul piano culturale mi sento di capovolgere lo slogan populista che va per la maggiore. “Prima loro di noi”. Sì, perché nella loro estrema povertà hanno qualcosa da chiederci e darci e che noi abbiamo perso per strada: il senso della solidarietà tra poveri (i ricchi vivono in un altro mondo!). Quante volte ho sentito ripetere da persone di una certa età: un tempo si era poveri, ma ci si voleva bene, ci si aiutava, si era capaci di condividere il poco che si aveva.

E allora in conclusione ho ripensato a mia madre quando si inserì, dopo il suo matrimonio, nell’Oltretorrente: il lavoro, svolto con onestà, garbo e, perché no, con una certa classe, la aiutò a trasformarsi da corpo estraneo a componente accettata e stimata, integrandosi nel rione con le solite, efficaci “armi” della solidarietà nel rispetto reciproco, aprendosi al dialogo con tutti senza prevenzione alcuna. Mia madre mi insegnava lo stile di vita con cui era riuscita a collocare il suo modo di essere nel contesto socio-culturale dell’Oltretorrente. Vi era l’adesione convinta ai comportamenti solidali che vedevano protagoniste soprattutto le donne abitanti del quartiere: le questue a favore delle famiglie colpite da un lutto, il sostegno agli operai che perdevano il lavoro e via discorrendo, in una forma spontanea, primordiale e geniale di protezione sociale.

L’Oltretorrente è diventato un ghetto di extracomunitari in cui la gente ha paura a vivere e persino a transitarvi di sfuggita. Il discorso, nel mio cervello (e nel cuore) si stava facendo complicato e delicato. Nel frattempo ero arrivato a destinazione. Sono sceso dal bus. Ho urtato i ragazzini incollati ai cellulari: non mi hanno nemmeno degnato di uno sguardo.