L’immacolata concezione del ministro Di Maio

Nella mia attività professionale ho assistito, partecipando a volte direttamente o indirettamente, a passaggi di committenza tra avvocati, commercialisti, consulenti, financo amministratori di condominio, generalmente caratterizzati da due elementi, uno quasi normale, l’altro assai scorretto.  Innanzitutto la concorrenza sul prezzo: ho detto “quasi” normale,  perché quando, pur di conquistare il cliente, si applicano prezzi stracciati, camuffati o che durano per poco tempo, la competizione è truccata in partenza e oltre che danneggiare il competitor finisce col creare problemi in prospettiva anche e soprattutto al committente. Se e quando l’utente si accorgerà che al prezzo basso ha corrisposto un servizio di bassa qualità, sarà tardi e i danni potranno essere irreparabili, mentre il precedente titolare del servizio non recupererà più il cliente perduto.

Ma vi è un secondo elemento che pesa nel passaggio: il subentrante inizia il rapporto mettendo in discussione l’operato del predecessore, con critiche al limite della correttezza, rilevando presunte irregolarità, creando falsi allarmismi, bollando negativamente il lavoro di chi lo ha preceduto. È una sorta di squalifica iniziale per creare più facili e comodi presupposti alla propria azione. Quante volte mi sono chiesto: ma possibile che chi ha lavorato fino ad oggi non ne abbia azzeccato nemmeno una, le abbia sbagliate quasi tutte, abbia combinato una sequela di guai così drammatici ed evidenti? Si tende cioè a partire in discesa, a iniziare sul velluto, a mettere le mani avanti con un passaggio di consegne truccato e fatto di illazioni più che di dati oggettivi.

Questa lunga premessa per dire che non mi stupisco come anche in politica viga questo “antigalateo”, sempre più accentuato e scontato, che, tuttavia, sembra sempre dare i suoi frutti: per cominciare infatti si butta fango su chi è venuto prima, poi si vedrà. Si tratta spesso della spennatura della gallina consigliata da san Filippo Neri per dimostrare che le penne della maldicenza disseminate non si recuperano più. Un tempo si diceva: non ha importanza se parlano male di me, l’importante è che ne parlino. Oggi il discorso si è capovolto.

La manciata di fango lanciata contro l’ex ministro Calenda in merito alla pasticciata gara indetta per l’Ilva è un esempio di quanto sopra. A detta dell’attuale ministro Di Maio, sarebbe stato leso il principio della concorrenza, favorendo un’offerta, privilegiando il criterio del prezzo rispetto a quello del piano ambientale. «Avvierò un’indagine interna al ministero per capire di chi sono le responsabilità» ha detto infatti alla Camera. Mi sento di formulare una domanda a Luigi Di Maio: non poteva aspettare un attimo prima di tirare questa manciata di fango? Non poteva attendere l’esito di questa per ora fantomatica indagine? Questi colpi bassi non dovrebbero essere ammessi in campagna elettorale, figuriamoci a questo livello, per un ministro che attacca il suo predecessore, così, tanto per cominciare, poi si vedrà.

Se la questione avrà un seguito, ne dubito perché al momento si intravedono solo elementi di valutazione politica e non di correttezza amministrativa, Di Maio, con le arie che tirano, ne uscirà comunque bene. In caso di effettive irregolarità farà la figura del moralizzatore doc; in caso di inconsistenza delle accuse sarà pur sempre considerato un implacabile nemico della cattiva amministrazione. E il povero Calenda ne uscirà comunque con le ossa rotte. Così va la competizione politica. In questa tentazione sia ben chiaro cadono tutti, a destra, a sinistra, al centro. Non ne voglio fare un’occasione di attacco al pressapochismo moralizzatore dei grillini. Resta comunque il fatto che “onestà, onestà!” sta diventando un veleno, che intossica più che risanare la politica. Se tutti cominciassero a guardarsi in casa ed a capire che per governare non basta l’immacolata concezione delle candidature sul web o il sorteggio nell’albo degli onesti…

Il rischio di affogare nel mercato televisivo globale.

Per parlare di Rai, parto dalle banche. Un tempo ormai abbastanza lontano gli amministratori di parecchie banche erano di diretta nomina partitica, i loro comportamenti erano direttamente influenzati dalle forze politiche, il metodo clientelare poteva essere all’ordine del giorno, ma, prima o poi, questi signori rispondevano politicamente alla matrice elettorale da cui provenivano. Oggi i banchieri non rispondono più a nessuno: ai soci? alla Consob? alla Banca d’Italia? alla Bce? ai mercati? alla magistratura? A tutti e a nessuno! Aggiungiamoci il peggioramento del quadro etico complessivo e allora…forse andava meglio quando andava peggio. Fuori la politica dalle banche, si disse. Sì, fuori la politica! e dentro cosa?

Anche per l’ente pubblico radiotelevisivo ci si scandalizza per le nomine degli amministratori effettuate in modo partiticamente spartitorio: la Rai, si dice, non è dei partiti e dei governi, ma dei cittadini, che, oltretutto, pagano un canone. È demagogia! Qual è il criterio elettivo capace di garantire la saldatura tra utenza e dirigenza radiotelevisiva? La competenza?  E chi la misura? Anche ammesso che esista un meccanismo adatto, occorrerebbe comunque qualcuno che lo applichi ed allora l’influenza della politica uscirebbe dalla porta e rientrerebbe dalla finestra.   Il sorteggio? Fra chi? Fra gli esperti in materia? Torniamo al punto di cui sopra. La nomina da parte del Presidente della Repubblica? Rappresenta tutti i cittadini, dunque… Proviamo a pensare in quale ginepraio di critiche, illazioni, dietrologie trascineremmo il Capo dello Stato a cui risalirebbero tutte le cazzate confezionate e trasmesse dalla Rai. È inutile esorcizzare la politica, pretendere un passo indietro dai partiti, prescindere dalle istituzioni ritenendole la sorgente delle lottizzazioni a cascata. E poi, a chi risponderebbero questi nuovi amministratori politicamente neutri?

Qualcuno, non senza buone ragioni, sostiene la soluzione della privatizzazione della Rai. Perso per perso…Mi sa tanto di resa al mercato, di rinuncia definitiva e pregiudiziale alla difesa degli interessi pubblici: sempre meglio una Rai lottizzata che un doppione di mediaset. Mi si obietterà come la nomina a nuovo presidente della Commissione Parlamentare di vigilanza sulle radiodiffusioni, di Alberto Barachini, senatore di Forza Italia, uomo di Berlusconi, con esperienza professionale in mediaset, configuri una strisciante e subdola privatizzazione a costo zero. Posso essere d’accordo, ma non cederei, perché lo strumento televisivo è troppo importante per essere lasciato in balia dell’interesse privato. Faccio fatica a digerire una televisione pubblica che, per competere con quella privata le fa il verso a livello di scelte imprenditoriali e di palinsesto, figuriamoci come mi sentirei nel mare mercatale televisivo globale.

Il problema, gira e rigira, sta nella buona politica, che faccia una buona Rai. Anche nel campo radiotelevisivo vale purtroppo la regola finanziaria della moneta cattiva che scaccia quella buona. E allora è nata prima la cattiva politica o la cattiva Rai? Non saprei da dove cominciare, perché rabbrividisco davanti a certe trasmissioni spazzatura, rifiuto un’informazione insistente quanto incompleta e faziosa, non accetto il totem dell’auditel, ritenendo preferibile perdere audience piuttosto che trattenerla somministrando sciocchezze a tutta canna. Qualcosa di buono, avendo la pazienza di cercare e il coraggio di ascoltare, esiste: il potere dei cittadini sarebbe quello di scegliere il Festival dei due mondi di Spoleto anziché il Festival di San Remo. Campa cavallo…

Franca Ciampi. La moglie di Carlo Azeglio, fu la signora della Repubblica nei primi anni 2000 e conquistò (?) gli italiani per i suoi modi semplici, franchi e popolani. Un giorno, intervistata, rilasciò una dura invettiva contro i programmi televisivi allora in voga, apostrofandoli come “tv deficiente”: un’etichetta spietata, che rimane tuttora appiccicata anche alla televisione pubblica. Non so in quali condizioni di salute versi Franca Pilla, ma cosa ne direste di metterla alla Presidenza della Rai? Io ci proverei. Sempre meglio dell’opaco  soprammobile  Monica Maggioni

Le fogne a cielo aperto

In questi giorni a Parma si è riaperto il dibattitto sul forno inceneritore dei rifiuti situato a Ugozzolo ed in predicato di essere ampliato e potenziato: sono riemerse sacrosante contrarietà e perplessità motivate soprattutto dal rispetto della vocazione agro-alimentare del nostro territorio, che verrebbe ulteriormente violata (forse, almeno in parte, lo è già stata) dalla demenziale localizzazione di una struttura, che brucia, seppure con le dovute cautele(?), il “rudo” nostrano e di importazione. È come mettere un water in piena cucina, magari con l’attenuante di installarvi un aspiratore che purifica l’aria. Ma andate a metterlo in un altro posto!

C’è l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, dell’ambiente in senso lato, del territorio, ma c’è anche quello delle coscienze, della storia, dei valori fondamentali, della democrazia. Un tempo durante le manifestazioni promosse dalla sinistra si urlava: “Fascisti carogne, tornate nelle fogne!!!”. Non mi piacevano e non mi piacciono questi toni violenti. Se però non li ammetto sul fronte antifascista, immaginiamoci se posso sopportarli sull’altro fronte, quello della rivalutazione (a)storica del fascismo e financo del nazismo. In questa materia sono intransigente. Innanzitutto in quanto l’antifascismo era parte integrante e fondamentale della vita della mia famiglia, di mio padre in particolare, a livello etico, culturale, storico, esperienziale, umano prima che politico. Su questo non si poteva discutere: quando mia madre timidamente osava affermare che però Mussolini aveva fatto anche qualcosa di buono, mio padre non negava, ma riportava il male alla radice e quando la radice è malata c’è poco da fare. In secondo luogo perché resistenza (nel cuore e  nel cervello), costituzione (alla mano), repubblica (nell’urna) impongono una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sull’antifascismo non si può scherzare anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär“.

Benissimo ha fatto la senatrice a vita Liliana Segre (incarna umanamente, storicamente e politicamente l’avversione ad ogni e qualsiasi rigurgito fascista o fascisteggiante) a porre un’interrogazione urgente al ministro dell’Interno; Matteo Salvini, al fine di ottenere la revoca delle autorizzazioni concesse per lo svolgimento della “Festa del sole”, manifestazione organizzata dall’associazione “Lealtà e azione”, una delle tante sigle (se ne sta perdendo il conto) dietro cui cova razzismo, xenofobia, apologia del fascismo e del nazismo.  Queste feste partono con la scusa di dare espressione alla libertà di pensiero e finiscono col turbare le coscienze, soprattutto quelle giovanili, ma non solo. Non è goliardia, non si tratta di quattro imbecilli che sfogano i loro complessi di inferiorità, non è folklore, non è ribellismo giovanile.

Non ho idea cosa deciderà di fare l’attuale ministro: non voglio pensare male. Però, lasciatemelo scrivere, quanta tolleranza verso queste vomitevoli iniziative pseudo-politiche, soprattutto se paragonata alla violenza pazzesca con cui le forze dell’ordine sono intervenute più volte contro i dimostranti anti-global e c. L’idea dei due pesi e delle due misure non mi ha mai abbandonato. Con le arie che tirano i timori sono aumentati. L’iniziativa così tempestiva e pulita di Liliana Segre mi ha aperto il cuore e la ringrazio. Ha perfettamente ragione: la guardia non deve essere mai abbassata. Certo l’antifascismo non deve essere un paravento dietro cui nascondere il marcio della democrazia, ma un baluardo insuperabile per la difesa della democrazia. Don Andrea Gallo diceva: «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!».

 

 

 

Urlatori al governo: al guèron di zbrajón

Sulla balconata del villino prospicente il condominio in cui abitavamo al piano terra un bambino esagitato e capriccioso si esibiva spesso con urla e grida estemporanee e fastidiose. In famiglia si commentava con garbo e discrezione questa strana situazione per trovarne una spiegazione plausibile. Mia madre propendeva per una interpretazione storico-geografica: probabilmente il bambino aveva precedentemente vissuto in un ambiente rurale ed in una casa isolata e si era abituato a sfogare le proprie sensazioni all’aperto, sull’aia, dove nessuno al di fuori dei suoi famigliari lo poteva sentire e dove le orecchie degli estranei non potevano essere disturbate. Mio padre invece dava una lettura di carattere psico-patologico. Quel bambino non poteva essere normale, aveva qualche problema psicologico, lo lasciavano fare, altrimenti suo padre gli avrebbe intimato: «Veh, putén, lasa lì o vén a zbrajär in ca!». Mia madre scuoteva il capo sorridendo per l’originalità del ragionamento, mentre io francamente lo ritenevo abbastanza plausibile anche se sinceramente dispiaciuto per gli eventuali problemi di quel ragazzo, il quale crebbe, si calmò e se ne persero le tracce, perché la sua numerosa famiglia andò ad abitare in un’altra zona.

Dove voglio arrivare citando questo gustoso episodietto, che metteva in rilievo la diversità di carattere dei miei genitori più che fornire spiegazione ad una situazione difficile da valutare dall’esterno.  Vorrei applicare il metro di giudizio di mia madre e mio padre all’interpretazione delle continue, petulanti, rissose esternazioni dei principali esponenti dell’attuale governo, che potremmo ribattezzare tranquillamente come “guèron di zbrajón”.  In Italia si governa alle grida, ad ogni problema fa riscontro un “zbraj”, come in quelle famiglia in cui si affrontano le situazioni facendo volare i piatti. Lo specialista “zbrajón” è senza alcun dubbio Matteo Salvini, ma anche i suoi colleghi non scherzano.  È una tattica: portare la tensione al massimo per divagare e non affrontare i problemi, creare sempre e comunque l’incidente verbale per eludere la realtà, gridare e picchiare i pugni sul tavolo per dare l’idea di poter gestire le situazioni difficili. Gli sprovveduti e/o gli esasperati ci cascano. Mia madre, nella sua incommensurabile pietà, propenderebbe per assimilarli ad ingenui e istintivi bambini, che, quando non sanno cosa dire, per protestare gridano e piangono a dirotto. Mio padre, nella sua acuta capacità critica, ne farebbe dei furbi venditori ambulanti, che gridano per deviare l’attenzione dalla scarsa qualità delle loro merci.

In una stupenda poesia dialettale di Alfedo Zerbini, una popolana parmigiana spiega il suo metodo educativo fatto a suon di invettive, improperi e parolacce e, al termine di questa simpaticissima chiacchierata, conclude affermando paradossalmente che “l’educassion” ai figli non si può dare che in casa sbraitando e vomitando insulti a destra e manca. L’attuale governo quindi sta adottando un modo colorito e vivace per educare la gente. Se è così, preferisco di gran lunga rimanere maleducatamente legato alla politica “dil parolén’ni blizgozi”, a costo di girare all’infinito intorno ai problemi.  Buttare, come si suole dire, “il prete nella merda” non toglie di mezzo la merda. In una compagnia dilettantesca di prosa, un grezzo ed impreparato attore, durante una rappresentazione, non si ricordava della parte e continuava a ripetere l’ultima battuta che aveva in testa: “questa casa va a catafascio”. Non ricordo come se ne uscì, certo non fece una gran figura, ma la maggior parte del pubblico non se ne accorse, anzi apprezzò la convinzione con cui porgeva quella battuta. E la casa, meglio dire la compagnia, andò effettivamente a catafascio.

Con Trump nel taschino di Putin

Sono rimasto scioccato e turbato dal vertice di Helsinki fra Trump e Putin. Da tempo si è capito il gioco allo sfascio portato avanti dal presidente americano nei confronti dell’Unione europea, all’interno della Nato, nei rapporti col mondo arabo, nel tendere al massimo i conflitti per poi giganteggiare nel rimettere a posto i cocci, nello scombussolare i rapporti economici per lucrare i vantaggi del “più forte”. L’incontro con il leader russo ha coronato la serie di strizzate d’occhio in corso da tempo fra questi due squallidi personaggi: si sono scoperti alleati nella peggior realpolitik possibile ed immaginabile.

Il mio turbamento non è dovuto a questi sviluppi internazionali, peraltro piuttosto prevedibili anche se assai preoccupanti, ma alle reazioni che il vertice ha creato negli Usa, dove si sono alzate voci a dir poco sdegnosamente dissenzienti rispetto alla politica trumpiana. L’ex capo della Cia Brennan ha commentato: «Quanto ha detto Trump a Helsinki supera di gran lunga crimini e misfatti: non è stato nulla di meno di un tradimento. Trump si è schierato con il leader russo Putin, negando le interferenze sulle elezioni americane». «Imbecilli i commenti di Trump. Putin lo tiene in tasca. Repubblicani patrioti dove siete?» ha rincarato Brennan. Parole inquietanti e di una gravità eccezionale.

Il presidente della Camera Ryan ha così dichiarato: «Trump si renda conto che la Russia non è un alleato, ma è ostile ai nostri ideali e valori». L’ex capo Fbi Comey ha lanciato un appello: «I Patrioti d’America fermino Trump, si è messo a fianco di un delinquente bugiardo assassino». Di tenore simile altre reazioni politiche americane provenienti dai democratici, ma anche dai repubblicani. Penso che cose di questo genere non si siano mai verificate nella storia statunitense e mondiale. Un ex capo della Cia che dice apertamente come Trump sia intimidito da Putin e come gli Usa siano in pericolo è un fatto semplicemente pazzesco (purtroppo non una cagata di fantozziana memoria) .

L’indomani dell’elezione di Donald Trump, peraltro avvenuta grazie ad un paradossale sistema elettorale, che lo ha portato alla Casa Bianca nonostante avesse ottenuto oltre un milione di consensi in meno rispetto alla sua competitor Hillary Clinton, alcuni amici mi confessavano il loro disinteressato distacco rispetto a questo avvenimento: si arrangeranno gli Americani… Nossignori, ci arrangiamo tutti e il bello deve ancora venire.

Nella recente visita effettuata in Inghilterra il presidente americano non si è fatto scrupolo di schierarsi apertamente a favore della linea più dura ed intransigente di attuazione della Brexit: come europei abbiamo un partner che fa il tifo contro di noi, come membri della Nato abbiamo un alleato che strizza l’occhio al nemico, come occidentali abbiamo il capo della maggiore potenza che butta all’aria secoli di storia democratica per un piatto di lenticchie da consumare in patria.

Aveva proprio ragione quando diceva “e non finirà qui” gongolando dalle dune della Scozia, dove ha aspettato giocando a golf l’esito del referendum britannico, assaporando l’euro-harakiri britannico come l’auspicio del proprio possibile trionfo in America dopo sei mesi. Ed è stato un facile auto-profeta. Sta continuando a tendere trappole mortali all’Europa. Alle sciocche dichiarazioni trumpiane dell’immediato dopo-Brexit ci fu la “gustosa” reazione di base degli scozzesi, i quali non sopportarono le parole demagogiche e le strumentalizzazioni di Trump.  Nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si sono avvicinati allo schermo. Poi, tutti assieme, hanno cominciato a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo era senz’altro “pig”, porco. Gli scozzesi hanno visto giusto!

 

Da Stopàj a Pinocchio, senza fatine in vista

Ho la maliziosa convinzione che i sondaggi siano più funzionali ad influenzare ed orientare l’opinione pubblica piuttosto che a registrarne gli umori e le tendenze. L’indomani dell’intervento del Presidente della Repubblica volto a sbloccare la paradossale situazione venutasi a creare al porto di Trapani, con la nave carica di naufraghi che non riusciva a sbarcare per assurda querelle governativa, ho colto di sfuggita (lo ammetto) i dati relativi alla reazione a caldo degli italiani su questa vicenda: oltre il 60% approvava l’iniziativa del Capo dello Stato, ma oltre il 50% si diceva d’accordo con la linea del governo Conte (la non politica di Salvini, per essere chiari) in materia di immigrazione (la provocatoria ed insensata chiusura dei porti, la criminalizzazione delle organizzazioni non governative, l’ondivago e sconclusionato atteggiamento nei confronti della Ue  e dei partner europei).

Non si può contemporaneamente andare a Milano e restare a casa: se si va a Milano con Mattarella, il quale, pur non intromettendosi istituzionalmente, cerca di tenere il Paese su una linea di razionale e gestita accoglienza degli immigrati, non è possibile rimanere a casa con Salvini, che straparla e strafà un giorno sì e l’altro pure. Gli italiani vogliono la botte istituzionale piena del buon senso mattarelliano e la moglie ubriaca dell’inebriante vino salviniano. I miei connazionali salgono sul treno dell’antipolitica grilliana, ma sentono comunque la sirena della buona politica mattarelliana. Un comportamento al limite della schizofrenia, che potrebbe costare assai caro al nostro Paese.

I media continuano imperterriti a soffiare sul fuoco senza rendersi conto di contribuire all’ubriacatura della gente.  A proposito di ubriacatura ricordo una simpatica barzellettina di uno storico personaggio di Parma, Stopàj: questi, piuttosto alticcio, sale in autobus e, tonificato dall’alcool, trova il coraggio di dire impietosamente la verità in faccia ad un’altezzosa signora: «Mo sale che lè l’è brutta bombén!». La donna, colta in flagrante, sposta acidamente il discorso e risponde di getto: «E lu l’è imbariägh!». Uno a uno, si direbbe. Ma Stopaj va oltre e non si impressiona ribattendo: «Sì, mo a mi dmán la me pasäda!». Gli italiani guardano la politica e la trovano molto brutta, allora le si rivolgono contro assumendo toni disinibiti da ubriaco per farsi coraggio, con una differenza sostanziale: l’ubriacatura degli italiani non dura solo un giorno, si protrae nel tempo e tutti sappiamo i danni irreversibili che può provocare soprattutto a livello di cervello e fegato.

Fuor di metafora bisogna ragionare, rientrare dal gioco a chi le spara più grosse: la politica non è il paradosso dell’impossibile, ma l’arte del possibile. Evidentemente gli italiani osservano Mattarella e Salvini: capiscono che il primo li rappresenta in modo dignitoso ed equilibrato, ma non resistono alla tentazione di seguire il secondo che li vuol portare nel “paese dei balocchi”.  A Pinocchio servirono cinque mesi per risvegliarsi e ritrovarsi asino; agli italiani serviranno due anni, come sostiene Massimo Cacciari? E poi Pinocchio ne passò di tutti i colori, prima di tornare in sé. E per gli italiani ci sarà una fatina dai capelli turchini? Al momento faccio fatica a vederne…

 

La briscola d’azzardo

Il gioco d’azzardo rappresenta una delle tante ipocrisie di Stato, infatti l’Italia ha un rapporto controverso con il gioco d’azzardo. Da un lato finanzia campagne contro la ludopatia, dall’altro guadagna dalla diffusione di giochi e scommesse. Nell’ultimo decennio l’Italia ha raggiunto il livello di tassazione sul gioco d’azzardo più alto rispetto ai principali paesi europei: abbiamo superato i 10 miliardi annui. Ciò non basta a dissuadere i fanatici che cadono purtroppo nel vortice di questa autentica patologia.

Nel cosiddetto decreto “Dignità”, che sta per essere varato dal governo Conte, è inserita una norma che vieta la pubblicità al gioco d’azzardo. Chi può essere contrario? Su di me confesso che il gioco d’azzardo, nelle forme più semplici ed immediate, ha sempre esercitato un certo fascino, anche se la mia vena trasgressiva si è fermata sulla soglia, portandomi solo, tutto sommato, a simpatizzare per quelle persone che osservo accanitamente alle prese con grattini e macchinette varie. Come al solito mi trovo perfettamente in linea con gli insegnamenti paterni.

Mio padre infatti aveva un approccio piuttosto originale e scettico verso il gioco d’azzardo. Lo aborriva al punto da ingaggiare una vera e propria lotta contro di esso allorquando si accorse che un suo carissimo nipote era caduto in questo devastante deriva. Lo raggiunse in piena bisca clandestina, lo trascinò via, lo rimproverò mettendo in campo tutto il proprio carisma parentale e la propria autorevolezza etica, riuscì nel miracolo ben spalleggiato da mia madre: a questo simpatico, buono e carissimo nipote avevano fatto da tutori. Lo scetticismo però non mancava mai e quindi, quando sentiva demonizzare il gioco del poker, diceva: «As pól zugär a sòld anca con la bríscola…basta mettrogh su dezmila franch a sign…». Quanto poi alle disastrose conseguenze sul portafoglio dei giocatori era solito riflettere a bassa voce: «A zugär i van in arvén’na… e va bén… mo agh sarà pur anca coll ch’a vénsa…».

Il discorso, gira e rigira, è riconducibile al dubbio amletico fra permissivismo e proibizionismo: vale per alcol, fumo, droga, prostituzione e…gioco d’azzardo. Sono un permissivista di natura: propenso a ritenere che i divieti, diretti o indiretti, finiscano con l’incentivare i soggetti deboli alla trasgressione, rendendola ancor più attraente ed affascinante. Le tentazioni si vincono non coi divieti ma col riferimento a valori forti. Quando sento i genitori invocare la chiusura anticipata delle discoteche o il divieto della vendita di alcolici, mi pare un modo per scaricare la responsabilità dalle coscienze alle leggi ed alle regole. Sulle droghe il discorso si fa ancor più delicato, anche se la legalizzazione delle droghe leggere non mi scandalizza. Scegliere il male minore non è certamente il modo ideale per risolvere i problemi, ma a mali estremi…parziali rimedi.

Non sarà quindi il divieto pubblicitario a disintossicare i soggetti ludopatici o ad impedire che qualcuno si lasci trascinare in questo gorgo da cui viene difficile risalire. Non voglio essere prevenuto e fazioso, ma mi sorge spontanea una riflessione etico-politica (anche se la mia carissima amica del cuore mi raccomanda simpaticamente di riflettere un po’ meno…): tanta preoccupazione per i ludopatici nostrani e…tanta ostilità per i disperati d’importazione. I primi, tutto sommato, i guai se li vanno a cercare, i secondi non hanno altra scelta. Mio padre (e dalli…) rilevava acutamente come di fronte alla caduta di un cavallo gli astanti esclamino “povra béstia”, mentre di fronte alla caduta di una persona si sbellichino dalle risa. Così come siamo pronti a coprire di premure il cagnolino o il gattino di turno, arrivando a raccattarne persino le deiezioni, mentre siamo propensi a ficcare gli anziani nelle case di riposo ed a rimanere sostanzialmente indifferenti al dramma dei bambini immigrati. Così va il mondo!

La demenziale ronaldite acuta

Mio padre, così come era obiettivo e comprensivo, sapeva anche essere intransigente verso il mondo del calcio: non ammetteva le scorrettezze del pubblico, ma anche dei giocatori. Soprattutto pretendeva molto dai grandi campioni superpagati, arrivava alla paradossale esigenza del goal ad ogni tiro in porta per un fuoriclasse come Zico (col da la ghirlanda), incoronato re di Udine al suo arrivo nella città friulana: cose da pazzi! Ma non solo con Zico anche con altri cosiddetti fuoriclasse: mio padre non accettava gli ingaggi miliardari, ne avvertiva l’assurdità prima dell’ingiustizia, faceva finta di scandalizzarsi, ma in realtà coglieva le congenite contraddizioni di un sistema sbagliato.

Con l’affaire Cristiano Ronaldo-Juventus, che sta oscurando persino la fase finale del campionato mondiale, avrebbe pane per i suoi denti: 100 milioni al Real Madrid; 12 milioni a Jorge Mendes, procuratore di Ronaldo; 30 milioni netti all’anno per quattro anni al giocatore. Dati astronomici e paradossali che si commentano da soli. Il più sconvolgente però riguarda la provvigione dell’intermediario, che in proporzione guadagna ben più di Ronaldo e mangia addosso alle società calcistiche. Quando osservo questi accadimenti, mi chiedo: le società calcistiche non potrebbero trovare qualche accordo per calmierare e ripulire il mercato. Poi subito mi ricredo: a loro, tutto sommato, sta bene così, perché, a toccarlo appena, il castello potrebbe anche crollare e sarebbe un disastro per troppi soggetti invischiati nel sistema. Mia madre, di fronte alla sarabanda del fenomeno calcio, si chiedeva cosa avrebbero fatto professionalmente tutte queste persone, se improvvisamente si fosse interrotto il circo: si riferiva non solo ai giocatori, ma a tutto il parassitario esercito pallonaro.

Il discorso riferito al sistema calcio può essere peraltro allargato a tutto il sistema in generale. E capisco mio padre: non era capace, per sua stessa ammissione, di farsi pagare per il giusto, non osava farsi dare del “lei” dai garzoni, aveva uno spiccato senso del dovere e non concepiva, nella sua semplicità di vita, questi lauti ed enormi guadagni. Sogghignava di fronte agli scandalosi ingaggi: “Mo co’ nin farani äd tutt chi sòld li, magnarani tri galètt al di?”.  Scherzi a parte mio padre era portatore di un’etica del dovere, del servizio e reagiva, alla sua maniera, alle incongruenze clamorose della società.

“Se a vundoz muradór igh disson i sold chi dan ai zugadór äd fotbal i vensrisson tutti il partidi anca colli contra i squadrón”, commentava di fronte alle inique disuguaglianze sociali del mondo. Amava mettere a confronto il fanatismo delle folle di fronte ai divi dello sport e dello spettacolo con l’indifferenza o, peggio, l’irrisione verso uomini di scienza o di cultura. Oggi direbbe: “Se a Turen a véna Ronaldo i corron tutti, i s’ mason par piciärog il man, sa ven a Turen Fleming i gh’ scorèzon adrè”. Ricordo quando un mio cugino, persona semplice ma arguta, ipotizzava un’astronomica parcella per il chirurgo che doveva operare ad un ginocchio un miliardario divo del pallone. Diceva: «Se questo calciatore guadagna tanto, solo perché è capace di dare un calcio ad un pallone, cosa dovrebbe guadagnare un luminare della chirurgia capace di sistemargli il menisco…».

Di fronte a Cristiano Ronaldo, personaggio oltre tutto abbastanza antipatico nella sua sciocca sipponenza pallonara, ed al suo trasferimento a tempo pieno in Italia, come si noterà preferisco buttarla in ridere, con un fondo di insopprimibile amarezza: abbiamo in questo periodo già tanti clown sulla scena del nostro Paese da poter tranquillamente fare a meno di questo giocoliere. Il circo però ha le sue leggi ed è uno spettacolo, che piace molto ai bambini. “Coi fanciulli e coi dementi spesso giova il simular”.

Un Conte che non conta e…il pallottoliere di Mattarella

C’è voluto il discreto ma opportuno intervento del Presidente della Repubblica per sbloccare la situazione dello sbarco dei naufraghi nel porto di Trapani. Il governo diviso al proprio interno intendeva tenere chiuso il porto ad una nave della Marina Italiana; la polizia veniva invitata a mettere le manette ai polsi dei potenziali richiedenti asilo, rei di presunto ammutinamento sulla Vos Thalassa che li aveva soccorsi in mare; la magistratura era sollecitata ad aprire un’ inchiesta sulla vicenda del salvataggio e del successivo passaggio dei salvati da un rimorchiatore, imbarcazione italiana, ad una nave della Guardia Costiera chiamata in causa dal rimorchiatore stesso; Il sindaco di Trapani  osservava sbigottito lo show salviniano e invitava gli organi competenti ad agire seriamente. Un corto circuito pazzesco, politico, istituzionale, burocratico, sulla pelle dei disperati.

A chi lo criticava per essere stato l’ispiratore della manovra politica per portare Ciampi al Quirinale, con l’affossamento della candidatura più politica di Franco Marini, Massimo D’Alema rispondeva col suo solito tono pieno di piccata, anche se spesso non ingiustificata, supponenza: «Meno male che c’è Ciampi…», intendendo alludere al baluardo istituzionale che egli rappresentava nella confusa situazione politica italiana. «Meno male che c’è Mattarella…» dico io davanti al bailamme governativo a cui stiamo assistendo. Il Capo dello Stato ha preso il telefono e, da quel che si può capire, col suo stile impeccabile di correttezza, senza volersi intromettere più del necessario, ha invitato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a fare il suo mestiere, a esercitare le sue prerogative, a sbloccare una situazione tragicomica.

Sergio Mattarella si deve preparare a svolgere un lavoro straordinario di maestro dell’asilo infantile avente sede a palazzo Chigi e in parecchi palazzi ministeriali. È possibile che gli italiani non capiscano in quale “casino” siamo finiti? Ho solo l’imbarazzo di scegliere tra l’ipotesi degli incapaci da destinare alla pulizia dei cessi ministeriali (parafrasi di un Berlusconi in vena di dire tutta la verità), la deriva fascisteggiante di una destra in cerca di guai (ultimo a delineare questa ipotesi estrema è Gino Strada) e l’inquinamento delle coscienze su cui costruire il peggio possibile della politica (analisi preoccupata ed inquietante di Massimo Cacciari).

C’è qualcosa di assurdo in atto, che viene molto prima della politica: una spaventosa ignoranza. È l’ignoranza dei cittadini-elettori che provoca la presa del potere da parte degli ignoranti oppure è l’ignoranza di una classe politica improvvisata e raffazzonata a coltivare la demenza senile di un popolo allo sbando? Della serie: è nato prima l’uovo populista del razzismo strisciante o la gallina salviniana con i suoi trascinanti “coccodè”? È nato prima l’uovo del qualunquismo protestatario o la gallina grillina dell’antipolitica (la nomina per sorteggio dei parlamentari è uno dei tanti “coccodé” del grillismo fatto sistema)? È nato prima l’uovo dell’egoismo imperante nel nostro vivere (in)civile o la gallina che cova i peggiori pulcini al caldo del populismo isterico e del sovranismo drogato?

In questo autentico pollaio ruspante della politica italiana c’è un Gallo di riserva, che non ama fare “chicchirichì”, ma ha l’autorevolezza per mettere in riga galletti e galline: meno male che c’è Mattarella! Al premier Giuseppe Conte, che fa addirittura tenerezza nella sua inconsistenza politica e culturale, un conte incapace di contare, il presidente della Repubblica ha regalato un pallottoliere per verificare se il due di Salvini sommato al due di Di Maio possa fare quattro e così per tutti gli altri “due più due” in cui si è andato a ficcare in Italia, in Europa e nel mondo. Basterà questo opportuno regalino quirinalizio? Ho forti e seri dubbi.

Le candeline sulle torte dei ministri dell’Interno

In concomitanza con il 69esimo compleanno del ministro dell’Interno della Germania, Horst Seehofer, 69 afghani sono stati rimpatriati dalla Germania: occasione, mi auguro non espressamente voluta e procurata, per una cinica e vomitevole soddisfazione espressa dal governante tedesco, un fautore della linea dura in materia di immigrazione. Purtroppo però è successo uno “spiacevole” incidente: uno dei 69 afghani rimpatriati, un richiedente asilo rispedito in patria, si è suicidato, disperato per il ritorno in Afghanistan, un paese insicuro in cui la vita è un dramma da cui fuggire. Un tempo per celebrare certi eventi riguardanti i capi di stato si sparavano delle salve di cannone: ebbene questa volta la cannonata non era a salve, ma è andata a sbattere contro un povero diavolo, colpevole solo di avere chiesto aiuto a un paese sedicente democratico.

La soddisfazione si è strozzata in gola al ministro tedesco, il giubilo si è trasformato a dir poco in rammarico: «Si tratta di un evento profondamente spiacevole, e dovremmo affrontarlo in modo corretto e rispettoso». Meglio tardi che mai! Naturalmente è partita la bufera con richieste di dimissioni per indegnità morale e per incompatibilità costituzionale. Non è corretto giudicare sul piano etico, ma a volte mi chiedo come certi politici democratici – non penso ai dittatori sanguinari e feroci – possano sentirsi a posto in coscienza   dopo aver preso, direttamente o indirettamente, certe decisioni o aver girato il capo dall’altra parte di fronte a certi drammi umani. Voglio essere generoso: forse non se ne rendono conto.

Possano esistere approcci diversi al problema immigrazione. Non accetto però la faciloneria con cui viene affrontato questo tema, che incide sulla pelle di tante persone richiedenti aiuto. L’arroganza, la presunzione, la demagogia con cui si pretende di governare questo fenomeno mi lasciano letteralmente basito. Mi auguro che l’incidente etico capitato a Horst Seehofer faccia riflettere anche e soprattutto chi a lui guarda con interesse e simpatia. Non differiscono molto dalle sue demenziali dichiarazioni (delle 69 candeline accese a sua insaputa (?) sulla torta di compleanno, una si è spenta senza la tradizionale soffiata del festeggiato), quelle che ogni giorno ci vengono propinate dal ministro Salvini e da chi gli tiene bordone. Vuole chiudere i porti persino alle navi nazionali, come la “Diciotti” della Guardia Costiera Italiana ed al loro carico di immigrati, poi ripiega su un altro spot, vale a dire vedere in manette gli immigrati presunti rei di aggressione sul rimorchiatore Vos Thalassa (a proposito, il ministro delle infrastrutture Toninelli confonde un rimorchiatore con un incrociatore: andiamo proprio bene).

Forse Salvini fa finta di non capire la tensione presente nel mar Mediterraneo con gente alla disperata ricerca di un’ancora di salvezza: pretende che questi disgraziati usino i guanti bianchi? Sono stati salvati in mare dalla Vos Thalassa e stavano per essere riconsegnati a una motovedetta libica. Avevano l’acqua alla gola e noi sventoliamo loro il galateo del mare?   Con una circolare ai prefetti diamo un giro di vite alla concessione dello status di rifugiato; puntiamo alle intese a tre (Italia, Austria, Germania) per formare un “asse di volenterosi” per arginare i flussi migratori al grido di “Meno migranti, meno sbarchi, meno morti”. Stiamo vaneggiando. Gino Strada sostiene che siamo arrivati al punto in cui chi aiuta compie un atto criminale, vince chi sputa veleno e odio su tutti, un buffoncello si permette di fare lezioni morali sul lavoro di Emergency. Sono d’accordo con Strada: siamo caduti in basso ed il grave è che ci stiamo bene. Buon compleanno a Horst Seehofer e a Matteo Salvini per il suo prossimo genetliaco del 9 marzo, quando compirà 46 anni e speriamo abbia il buongusto di non festeggiarli con il rimpatrio di 46 disgraziati malcapitati sotto le grinfie di un assurdo ministro.