La Casa Bianca di Dracula

Al Sgnôr ja fa e po’ ja compàgna: ogni simile ama il suo simile. Questa in estrema sintesi la pavoneggiante conclusione dell’incontro alla Casa Bianca fra Trump ed il nostro Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. “Conte sta facendo un ottimo lavoro”: così il presidente Usa ricevendo il premier italiano. “Sono molto d’accordo su quello che state facendo sull’immigrazione”, ha aggiunto, “bisogna essere duri sui confini”, e “molti altri Paesi in Europa dovrebbero seguire l’esempio dell’Italia”. Via libera alla cabina di regia permanente Italia-Usa per il Mediterraneo in chiave di lotta al terrorismo, immigrazione e Libia.

“Su dazi e commercio, dice Trump, abbiamo un deficit con l’Italia di 31 miliardi di dollari” che aggiusteremo. Ancor più problematico il discorso sulle sanzioni alla Russia e sul gasdotto Tap. Le sanzioni per Washington devono rimanere senza modifiche, ma per Roma non dovrebbero coinvolgere la società civile. Il gasdotto è considerato una struttura fondamentale dagli Stati Uniti, mentre il premier italiano ha ricordato i malumori delle comunità locali, su cui cercherà di lavorare per appianare le resistenze anche incontrando direttamente le autorità locali in Puglia.

Sul piano politico Trump ha definito se stesso e il Capo del governo italiano “due outsider” anti-establishment a difesa dei diritti dei cittadini. Per quanto concerne i complicati rapporti tra Usa e Ue, all’Italia viene riconosciuto il ruolo di facilitatore. Sono proprio questi i dati politici che preoccupano: che Conte cerchi sponde robuste per la sua azione di governo non mi scandalizza, ma mi infastidisce che le vada a cercare da un personaggio che non nasconde di remare contro l’Europa, giocando a dividerla ed a metterla in gravi difficoltà. Uno alla volta i leader europei vengono considerati facilitatori, ma in realtà rischiano di fare la parte dei servi sciocchi degli americani.

Con questo viaggio Giuseppe Conte ha portato l’Italia nell’internazionale del sovranismo e del populismo: cambia radicalmente la posizione internazionale del nostro Paese. Fino ad ora si sono pagati prezzi salati in termini di autonomia pur di ottenere i benefici di una collocazione occidentale, fatta di scambi commerciali, di aiuti, di intese economiche, di patti militari. Ora i prezzi da pagare diventano ancor più pesanti a fronte di confuse e strambe strategie: tutti contro tutti e, naturalmente, a rimetterci sono i più deboli, Italia in primis. Non vorrei veramente che Conte si fosse venduto a Trump, personaggio peraltro inaffidabile, ondivago, umorale ed incoerente, per un ipotetico piatto di lenticchie, fatto di pacche sulle spalle, di strizzate d’occhi e di sorrisetti ammiccanti. Non c’è da fidarsi. Ho l’impressione che Conte si sia aggrappato a Trump cercando quella legittimazione e quel carisma di cui è sprovvisto: Trump ha capito tutto e se lo sta cucinando a dovere.

Quando venne (non) eletto Trump alla Casa Bianca fui preso da un’autentica angoscia: il mondo in mano ad un tycoon, uno sconclusionato magnate dell’industria, personaggio potente ed autoritario, ma oltre tutto culturalmente e politicamente inadeguato.   Non avrei pensato che, a distanza di poco più di un anno, l’Italia finisse nelle grinfie di questo millantatore, capace solo di vantarsi con boriosa esagerazione e senza alcun fondamento. Gli Italiani, prima o poi, capiranno il disastro che hanno combinato. Ai tempi delle disgrazie berlusconiane potevamo fare affidamento su Obama, sulla Ue, per tirarci fuori dalla melma. Oggi siamo soli e nessuno è in grado di aiutarci ad uscire dal tunnel in cui ci siamo ficcati, anzi ci stanno tutti aiutando, anche e soprattutto per nostra stupidità, ad andare nel fosso.

Papa Salvini e il cardinal Mattarella

È inutile negarlo: il clima italiano soffre un certo imbarazzo di fronte ai reiterati episodi di aggressione a sfondo razzista. Da una parte c’è l’assordante silenzio del leghismo strisciante: qualcuno probabilmente si vergogna di essersi elettoralmente convertito alla non meglio definibile deriva anti-immigrazione; dall’altra parte c’è il ridicolo nuovismo del grillismo sbraitante: non è il razzismo la cifra caratteristica pentastellata, ma una “pesciolata” nel barile  conviene, porta consenso e butta ulteriore fumo negli occhi arrossati di rabbia; poi c’è il menefreghismo di chi sta a guardare: sono tanti quelli che sdegnosamente si ritraggono e non trovano la voglia e la forza di reagire.

Per nostra fortuna arrivano continui moniti del Capo dello Stato: «Ogni giorno migliaia di persone mettono a rischio la propria vita e quella dei propri cari per mare e per terra, in condizioni disperate. Terreno agevole per le nuove forme di schiavitù è il fenomeno migratorio. Nessun Paese è immune da questa violazione della dignità umana». Non so fino a quando potrà durare questa dicotomia politico-culturale tra Presidenza della Repubblica e Governo della Repubblica. La maggioranza dei cittadini si ritrova nelle posizioni di Mattarella? Non lo so, ma certamente non ha il coraggio di schierarsi e di ammettere che occorre cambiare musica.

Durante il papato di Ratzinger, il cardinal Martini, che in conclave sembra ne avesse ingoiato l’elezione pur di garantire, a certe minime condizioni, l’unità della Chiesa, quando si accorgeva che il Vaticano tendeva a “pisciare fuori dal buco”, interveniva liberamente e pubblicamente, interpretando il ruolo di episodico antipapa, non per questo meno ascoltato ed influente almeno sulle coscienze. Vedo una paradossale analogia fra Martini e Mattarella: anche quest’ultimo, in ossequio al dettato costituzionale ed alla volontà dei cittadini, ha ingoiato elegantemente e correttamente la formazione di un governo dalla facile “pisciata fuori dal buco”. E allora quando si accorge di ciò, che si verifica un giorno sì e l’altro pure, alza autorevolmente la sua voce, nei dovuti modi e toni, per influire almeno sulle coscienze degli italiani, richiamandoli ai valori fondamentali della nostra Repubblica.

In Vaticano dopo Ratzinger è arrivato Bergoglio, per certi versi un convinto e convincente seguace di Martini, complice, per chi ci crede, l’intervento dello Spirito Santo. È cambiata la musica! Nella politica italiana non so quanto possa influire pesantemente la terza persona della Santissima Trinità. Non vedo come e quando si possa invertire questa sciagurata tendenza alla chiusura della politica nella dimensione egoistica. Non mi accorgo di un Bergoglio  in attesa di scendere in campo: d’altra parte papa Francesco è spuntato all’improvviso, quindi la speranza è l’ultima a morire.

Vedo comunque con piacere che Sergio Mattarella non demorde. Qualche buontempone potrebbe chiedersi: ma chi comanda in Italia? Spero che sulle coscienze “comandi” il Quirinale, mentre magari nelle urne peserà Palazzo Chigi. Alla lunga, di questo sono certo, prevarranno le coscienze democratiche e ci accorgeremo di quanta importanza abbia avuto l’azione di questo uomo mite, saggio, buono ed amico (sono le parole usate da Paolo VI per Aldo Moro di cui peraltro Mattarella era un seguace).

I rai scolorati della Rai

“Tanto tuonò che non piovve”, nel senso che il nuovo presidente della Rai si profila come una espressione innovativa all’insegna della più solita delle faziosità politiche, oppure, se vogliamo, “tanto tuono che piovve” nel senso che il vertice Rai si prefigura come la più coerente delle operazioni di puro potere a livello mediatico.

Vorrei però partire da tre concetti. Cos’è la neutralità? È la condizione o l’atteggiamento del non prendere posizione in favore di alcuna delle parti coinvolte in una situazione di controversia o contrapposizione. E l’agnosticismo? È il disinteressa verso ogni genere di problemi umani. E l’obiettività? È l’atteggiamento privo di personalismi e particolarismi nel formulare un giudizio e nel comportamento che ne deriva. Perché questa digressione lessicale: spesso si fa una strumentale confusione tra questi concetti, scambiando l’obiettività col divieto a esprimere propri giudizi o addirittura con il distacco totale dalla realtà. Conclusione l’obiettività non esiste e quindi mano libera alla faziosità. Mi sembra il percorso sottostante alla candidatura di Marcello Foa alla presidenza della Rai.

Questo illustre signore sul piano politico non esita ad esprimere uno spassionato atto di fiducia nel governo Lega-5 Stelle (alla faccia della Rai indipendente dal potere esecutivo e dai partiti). Sui diritti civili si esprime così: «Difendo i diritti dei gay, ma mi oppongo alle strumentalizzazioni LGBT il cui scopo non è di proteggere una minoranza perseguitata, ma di strumentalizzare questo tema, in sé delicatissimo e intimo, per promuovere un’operazione di ingegneria sociale. È un’operazione subdola volta a sradicare quel che resta della nostra identità e generare totale confusione valoriale» (simili retrograde opinioni non le leggevo o ascoltavo da tempo).

Sull’Euro Marcello Foa sostiene che il governatore della Bce, Mario Draghi, continua a descrivere come paradisiaca una realtà che invece appare disperata (siamo ben oltre l’euroscetticismo). In materia di sovranismo il futuro presidente Rai la pensa così: «I sovranisti avevano ragione e non c’è insulto che riuscirà a fermarci, per una ragione tanto semplice quanto inaspettata: gli elettori stanno distruggendo, scheda dopo scheda, quel contratto neoglobalista e transnazionale, che anni di incessante propaganda hanno tentato di trasformare in un Destino ineludibile (più trumpista di Trump).

Non si è salvato nemmeno il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, verso il cui discorso Foa ha espresso disgusto: si trattava delle esemplari dichiarazioni fatte dal Capo dello Stato in occasione del passaggio più delicato nell’impasse sulla formazione del nuovo governo. Foa ha twittato: «Il senso del discorso di Mattarella è questo: io rispondo agli operatori economici e all’Unione Europea, non ai cittadini» (semplicemente pazzesco!).

Il Presidente della Repubblica intrattenendosi con i giornalisti, che gli regalano il tradizionale ventaglio, li mette in guardia: «L’abbondanza informativa offerta dal web è preziosa, ma occorre evitare gli usi distorti, talvolta allarmanti, astiosi dell’introduzione di semi che alimentano preconcetta ostilità. Sta a chi opera nella politica e nel giornalismo non frasi contagiare da questo virus, ma contrastarli». A questo invito Foa risponde indirettamente con ragionamenti populisti riconducibili a quelli di cui sopra.

Conclusione: se Beppe Grillo ci vuol far credere di cambiare l’Italia mettendo in campo, in settori chiave, personaggi come questo Marcello Foa, non è lontano da chi vuol dare ad intendere che Cristo è morto di freddo ai piedi. Buon lavoro comunque al nuovo presidente Rai: possa avere nel suo comportamento un rigurgito di obiettività, che non vuol dire rinunciare alle proprie idee, ma mettere i fatti davanti alle proprie convinzioni. Buona visione Rai ai telespettatori: possano restare indenni dai virus della faziosità e del pregiudizio. Buona riapertura di occhi a chi continua a vedere il nuovo laddove c’è il peggio del vecchio.

I matti delle giuncaie razziste

A distanza di pochi giorni uno dall’altro, si sono verificati due episodi di sangue paradossalmente gravi ed inquietanti. Due tizi sparano dal balcone di casa, rispettivamente a Roma e nel vicentino: uno colpisce una bambina rom (rischia di rimanere paralizzata) e l’altro un operaio immigrato (ferito gravemente). Entrambi si giustificano in modo piuttosto incredibile: uno voleva provare l’arma e l’altro voleva sparare ad un piccione.

Devo, come spesso mi succede, ricorrere all’arguta ironia di mio padre, il quale non credeva alle assurde giustificazioni riconducibili alla follia di un momento: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ätor di l’à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”.

Sono perfettamente d’accordo col Presidente della Repubblica quando ha affermato: «L’Italia non può somigliare a un Far West dove un tale compra un fucile e spara dal balcone ferendo una bambina di un anno, rovinandone la salute e il futuro. Questa è barbarie e deve suscitare indignazione». Le dichiarazioni di Mattarella oltre tutto sono state rese prima del secondo episodio di cui sopra e quindi sono ancor più azzeccate e pertinenti.

I casi sono due. Se reggono le attenuanti dei protagonisti, bisogna riflettere seriamente sulla disponibilità di armi nelle mani di persone squilibrate ed esibizioniste. Se le giustificazioni non reggono, allora siamo in presenza di comportamenti criminali belli e buoni, assolutamente inspiegabili e proprio per questo ancor più gravi.

Ma c’è un altro aspetto da valutare molto seriamente. Il caso (?) vuole che vittime di questi due fatti siano persone di razza diversa dalla nostra: una bimba rom ed un uomo di origine capoverdiana. Pura coincidenza di tempi e di modi? Mi permetto di pensare male. Se siamo in presenza di episodi con cui viene sfogato un rigurgito di razzismo, coltivato socialmente e strumentalizzato politicamente, bisogna effettivamente e doppiamente indignarsi. Se devo essere sincero, l’indignazione, al di là delle sacrosante parole del capo dello Stato, non l’ho colta più di tanto a livello mediatico e di pubblica opinione. Pensiamo per un attimo e per assurdo se questi fatti fossero avvenuti per comportamento di un rom e di un immigrato ai danni di una bambina e di un lavoratore italiani. Ci sarebbe stato un coro di condanne e di criminalizzazione degli stranieri, che vengono a delinquere indisturbati sul nostro territorio.

Usare due pesi e due misure nel giudicare le persone ed i fatti è l’anticamera del razzismo.  Quando si sostiene da autorevoli pulpiti politico-governativi che la misura è colma, che non se ne può più, si finisce, magari involontariamente, con l’incoraggiare comportamenti illegali, che trovano tuttavia una sorta di preventiva giustificazione. Fu così nel lontano luglio 2001 quando la polizia massacrò nelle caserme genovesi i no-global manifestanti contro il G8: vice-presidente del consiglio era Gianfranco Fini, un post-fascista, che poteva rappresentare, politicamente parlando, la garanzia di impunità per certe operazioni repressive. Mi guarderei bene dal pensare che Fini avesse autorizzato queste spedizioni punitive, ma il clima politico era di un certo tipo e certa gente lo coglie e si comporta di conseguenza. Non mi permetto di dubitare dell’attuale ministro Salvini e della sua distanza dalle teorie razziste, ma il vice-presidente del consiglio (guarda la coincidenza) continua incautamente a fomentare un’ansia di ordine, che può irrazionalmente e fanaticamente sfociare nel farsi (in)giustizia da sé e contro persone innocenti.  Vogliamo tornare alla ragione e darci tutti una calmata?

L’avanspettacolo: “così è (se vi pare)”

Il teatro di avanspettacolo è un genere comico sviluppatosi in Italia tra gli anni trenta e gli anni cinquanta. Derivò da una abbreviazione dello spettacolo di varietà in modo da intrattenere il pubblico in sala in attesa della proiezione del film. Era considerato un genere teatrale minore prevalentemente comico. Più avanti nel tempo, tra gli anni sessanta e settanta, l’avanspettacolo variò dai numeri comici agli spogliarelli, preludio di film pornografici o erotici. A volte i termini si invertivano ed era il film pornografico a “scaldare” il pubblico in vista dell’avanspettacolo il cui piatto forte erano appunto gli spogliarelli più o meno integrali. In realtà l’avanspettacolo fu trampolino di lancio per molti noti attori teatrali e cinematografici italiani.

Quando penso al movimento cinque stelle mi viene spontaneo considerarlo come una sorta di avanspettacolo della politica, non solo perché il suo fondatore, Beppe Grillo, è un attore comico (per la verità non da avanspettacolo), ma in quanto sostanzialmente finalizzato a coprire una pausa del teatro ufficiale della politica, dovuta a tanti fattori, in vista di una prossima ripresa: della serie “scherziamoci sopra un po’ e poi vedremo di tornare a parlare di cose serie”. Il pubblico ha abboccato, si è adattato e si sta accontentando dell’avanspettacolo grillino, della parodia e, quando e se qualche attore navigato si affaccia al proscenio, lascia partite immediatamente i “buh” di scherno. Prima o poi forse questa menata andrà a finire, a meno che il teatro non venga ripensato, ristrutturato e diventi capace di ospitare solo l’avanspettacolo. È quanto i fondatori del M5S stanno vagheggiando con la prospettiva del passaggio dalla democrazia rappresentativa, tramite la fine del Parlamento, ad avveniristici strumenti di democrazia diretta realizzata sul web. Così Davide Casaleggio: fondatore, ideologo, proprietario, gestore del M5S, una sorta di prezzemolo pentastellato, che insaporisce i piatti cucinati dal movimento (meglio dire dalla cucina casaleggiana). Così Beppe Grillo: attore/interprete, ultimamente piuttosto riluttante ma comunque piccante, che spara le sue battute fino ad arrivare ad ipotizzare, tra il serio e il faceto, la scelta dei rappresentanti del popolo tramite sorteggio.

Quelli che dovrebbero essere i tradizionali interpreti della politica vera si stanno incartando nella questione se introdursi, furtivamente, opportunisticamente e strumentalmente, nella compagnia di avanspettacolo oppure aspettare che il pubblico si stanchi e cominci a rivalutare lo spettacolo principale, preparandosi a ritornare in scena con testi ed attori nuovi. La Lega si è buttata, seppure concorrenzialmente, sul palcoscenico senza farsi tanti scrupoli e problemi: ha messo in campo i suoi comici, le sue gag, le sue storielle, e cerca di conquistare visibilità e interesse in un pubblico ingozzato da patatine e popcorn.

Gli altri rottami del centro-destra si sono sdegnosamente ritirati nei loro camerini in attesa che il pubblico si stufi, che la compagnia di giro si laceri, che partano i fischi dagli spettatori più esigenti, che inizi la fila di chi esige il rimborso del biglietto per inganno post-elettorale conclamato. Si allenano, recitando il copione berlusconiano dei personaggi in cerca d’autore. “Noi sì che sapevamo incantare il pubblico facendogli credere di essere alla Scala di Milano”, mentre in realtà era seduto nel più scomodo ed assurdo loggione italiano e mondiale.

Arriviamo alla compagnia teatrale più titolata e criticata: il partito democratico. Non si sa decidere se tentare un approccio da avanspettacolo, operando un blitz sulla scena, riuscendo magari ad insinuarsi e spaccare la compagnia attualmente recitante a soggetto, per poi tornare dal di dentro a bazzicare il vero teatro con qualche intento egemonico; oppure stare fuori dal teatrino, fomentare lo scontento del pubblico, proporre una stagione nuova di zecca, prepararsi ad una rentrée di livello. Se consideriamo l’avanspettacolo grillino una triste parentesi nella storia teatrale della politica italiana, varrebbe la pena aspettare; diversamente bisognerebbe tentare in qualche modo di calcare immediatamente la scena con tutti i rischi del caso. La cosa peggiore è restare nell’incertezza, spettegolare in continuazione, logorarsi nel dubbio, non scegliere ed aspettare che qualcuno ti venga a cercare. Ai personaggi berlusconiani in cerca d’autore, rispondono i personaggi piddini schiavi del “Così è se vi pare”. Mi sembra che il PD stia cadendo in questa trappola. O mi sbaglio?!

 

Consenso, senso comune e buon senso

Della cosiddetta stampa cattolica c’è da fidarsi fino a mezzogiorno. Vale anche per il periodico “Famiglia Cristiana”, che, di tanto in tanto, però ha il coraggio di dire la verità, abbandonando i toni felpati e politicamente corretti della gerarchia ecclesiastica. Non succede sempre (sarebbe chiedere troppo), ma qualche sventagliata di verità fuori dai denti talora arriva.

Il settimanale cattolico, che gode di una diffusione straordinaria, dedica un servizio all’emergenza migranti e fa il punto sull’impegno della Chiesa «contro certi toni sprezzanti e non evangelici», mettendo nel mirino Matteo Salvini, cui dedica la copertina piuttosto spregiudicata, con un titolo “Vade retro Salvini”, che ha il pregio di non girarci intorno. Il ministro dell’Interno risponde, in modo per la verità più garbato e diplomatico di quanto ci si potesse aspettare: «Mi sembra di pessimo gusto. Io non pretendo di dare lezioni a nessuno, sono l’ultimo dei buoni cristiani, ma non penso di meritare l’accostamento al diavolo. Ho quotidianamente il sostegno di tante donne e uomini di Chiesa. C’è modo e modo di pensarla anche all’interno delle gerarchie ecclesiastiche. Il catechismo dice che l’accoglienza è un dovere nella misura del possibile ed in Italia la misura è colma». «Niente di personale o ideologico», precisa il settimanale, «si tratta di Vangelo».

Preoccupazione per il «veleno del razzismo» che «continua a insinuarsi nelle fratture della società» è stata espressa dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione degli 80 anni del Manifesto della Razza, fatto proprio dal fascismo il 25 luglio 1938. A lui nessuno ha il coraggio di controbattere. Salvini infatti afferma: «Il Presidente ricorda un passato che non dovrà mai più tornare. È folle e fuori dal mondo ritenere una razza superiore all’altra».

Mi sembra fuori discussione che la Lega di Salvini, nelle parole, nei programmi e nei fatti, semini un vento, che porta ad irrigidire la nostra società ed a chiuderla in atteggiamenti discriminatori e reazionari. A “Famiglia Cristiana” Salvini ributta la scomoda palla delle altalenanti posizioni verso la politica da parte delle gerarchie ecclesiastiche. E non ha tutti i torti. Ai tempi del Berlusconi imperante si sopportavano i “porco …” del capo del governo, il viavai di escort a palazzo Grazioli, le barzellette sporche di Berlusconi, ma soprattutto si abbozzava verso una politica di “regime”, in un certo senso ben peggiore di quella salviniana di oggi: tutta roba edificante per i giovani, roba da contestualizzare ed accettare con un sorrisetto ironico. Era allora digeribile tutto ciò pur di garantire la “bottega” cattolica. Speriamo sia cambiata l’aria in Vaticano ed alla Cei. Ma i cattolici di base come la pensano? Temo che anche qui Salvini non abbia tutti i torti, quando sbandiera forti consensi tra le persone “di Chiesa”.

Quanto a Sergio Mattarella bisogna ammettere che non perde un colpo. A lui Salvini fa molta fatica a ributtare la palla. Perché il Presidente si schiera dalla parte dei principi democratici, dei valori, delle idealità e ammonisce: «L’Italia non può diventare preda di quel che Manzoni descrive nei Promessi Sposi, sugli untori e sulla peste: ‘Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune’. Il buon senso manzoniano ci suggerisce di occuparci delle grandi questioni che abbiamo di fronte, esercitando il dovere, ineludibile, della responsabilità, per difendere il patrimonio di storia, cultura, valori che disegna il ruolo dell’Italia nella comunità internazionale». Di fronte a simili affermazioni il re leghista si sente nudo, è nudo. All’interno di questa formazione politica e di chi l’ha votata qualcuno avrà il coraggio di accorgersene e di gettare uno straccetto a Salvini perché si copra le vergogne? Chissà, chi lo sa…

Il Micro(Mega)scopio anti-bergogliano

Mi permetto, come spesso mi accade, di partire da una similitudine in linea con la musica ed il canto. Il grande tenore Carlo Bergonzi si cimentò con enorme successo in un disco dedicato a quasi tutte le arie verdiane per voce tenorile. Un bravo ma supponente critico, Giuseppe Pugliese per la precisione, si divertì a confrontare ogni singola aria cantata da Bergonzi con l’interpretazione migliore di tutta la storia del canto: i singoli tenori ne uscivano vincitori ed il povero Bergonzi, che se le era cantate tutte, dal drammatico al leggero, faceva la figura dell’interprete di serie B. Un’operazione critica assurda e paradossale.

Operazione analoga ha fatto l’autorevole rivista bimestrale MicroMega dedicando il numero 4/2018 a “POTERE VATICANO – La finta rivoluzione di papa Bergoglio”. Il corposo volume raccoglie tutte le critiche possibili ed immaginabili al papato bergogliano in relazione a diversi temi e vicende, che vedono coinvolto il Vaticano: la vicenda di Emanuela Orlandi, la costruzione della star “Francesco”, la pedofilia, le fobie della Chiesa, Dio e mammona, l’altro Francesco, conventi e seminari. Intendiamoci bene: si tratta di articoli e saggi di alto livello scientifico e culturale e le critiche in essi contenute sono plausibili. Tuttavia vengono strumentalizzate per demolire l’immagine e l’operato di papa Francesco. Sarebbe interessante farne una lettura pirandelliana a cui questo trattato si presterebbe. Si vuole vedere sempre e comunque il bicchiere mezzo vuoto, dimenticando che il papa in questione non è Gesù alle nozze di Cana, che trasforma miracolosamente e improvvisamente l’acqua in vino, ma un operaio della vigna che si fa su le maniche e cerca di cambiarla ed innovarla, anche profondamente. Ne consiglio comunque la impegnativa lettura.

Tutto sommato il filo conduttore delle critiche può essere sintetizzato nell’enorme difficoltà che papa Francesco incontra nel tradurre in termini strutturali le sue indubbie volontà “rivoluzionarie”. Per la verità, umanamente e storicamente parlando, tutte le rivoluzioni sono partite con le migliori intenzioni ed hanno incespicato o addirittura sono miseramente crollate sul piano della strutturazione. Quando si dice che la curia vaticana è un covo di vipere si dice una parziale verità, ma non si può pretendere che il papa con un colpo di bacchetta magica risolva la situazione eliminando tout court la curia o convertendo immediatamente tutti ad una mentalità di servizio evangelico. Occorre pazienza: a Gesù gli apostoli proponevano spesso di intervenire brutalmente per sradicare il male, ma Gesù prendeva tempo, lasciava crescere la zizzania rinviando la bonifica al momento del raccolto e per questo non lo possiamo certamente considerare un finto rivoluzionario, una star costruita in laboratorio o in sacrestia.

La Chiesa ha due dimensioni, che purtroppo, molto spesso, si trovano in grave contrasto: la dimensione istituzionale e quella comunitaria. Sulla seconda, vale a dire sulle coscienze dei credenti e sul loro impegno, l’opera di papa Francesco sta intervenendo e toccando nel vivo. Sulla prima il discorso è tutto in salita, le resistenze sono tante, le complicazioni infinite, le soluzioni assai difficili e complesse. Sono perfettamente d’accordo con chi teme che, se non si arriva a riformare le istituzioni, a mutare le strutture e le loro regole di funzionamento, il rischio restaurazione sia sempre in agguato e gli applausi possano diventare un paravento dietro cui ritornare a fare i propri comodi. Ebbene, lasciamo lavorare papa Francesco, non gufiamogli addosso, non sminuiamo aprioristicamente la sua opera. Ogni volta che lo ascolto, che ne osservo le iniziative, che ne leggo i pronunciamenti, che ne colgo lo stile, ammetto come sia effettivamente in atto un processo di forte e, per certi versi, incredibile rinnovamento. Sarà perché delle regole canoniche me ne son sempre fregato, sarà perché delle strutture ecclesiastiche ho sempre dubitato, sarà perché quando vado a confessarmi trovo Gesù che mi perdona e non il Sant’Uffizio che mi condanna, sarà perché nonostante tutto credo la Chiesa una, santa cattolica e apostolica, sarà per questi ed altri innominabili motivi racchiusi gelosamente nella mia coscienza che confido nell’opera di papa Francesco, anche se capisco come non dipenda tutto e solo da lui.

Come ho ripetutamente detto e scritto, la storica sera, in cui papa Francesco, appena eletto, si presentò, con atteggiamenti e simbologie rivoluzionari, sulla balconata di S. Pietro, ero davanti al video in compagnia di mia sorella Lucia. Eravamo entrambi convinti che fosse successo qualcosa di grande per la Chiesa cattolica. Questa volta lo Spirito Santo era arrivato in tempo. Io trattenevo con difficoltà le lacrime per l’emozione, Lucia era entusiasticamente propensa a cogliere finalmente il “nuovo” che si profilava. La situazione è ancora quella: papa Francesco, seppure in mezzo a tante difficoltà, sta tenendo fede alle speranze innescate. L’unica differenza rispetto a quella scena è che mia sorella non lo vede più dalla parte della Chiesa militante, ma dalla parte della Chiesa trionfante e sono sicuro che continuerà a ripetere quanto diceva nei primi mesi del pontificato bergogliano: era proprio ora!

I grillini ingigantiscono lo psiconano

«Non accetto lezioncine. Hanno governato 5 anni e hanno avuto le loro opportunità»: così il ministro Luigi Di Maio in piccata risposta alle critiche del Partito Democratico (non so cosa pensi di Forza Italia, probabilmente pensa di aver chiuso il discorso con l’ostracismo a Berlusconi). Non entro nel merito di questo penoso (non) dibattito, ma voglio fare solo qualche osservazione, prendendo le mosse dai rapporti che in uno stato democratico parlamentare dovrebbero esistere fra maggioranza e opposizione.

Occorre però fare una premessa: l’attuale maggioranza, che esprime e sostiene il governo Conte, non è fatta di verginelle inappuntabili, ma anche di una forza politica, la Lega, che ha governato dal 1994 al 2018, seppure in coalizione e non continuativamente, per ben 3.823 giorni, pari a 10 anni e mezzo. Vediamo nel dettaglio:

Governo Berlusconi I dal 10 maggio 1994 al 17 gennaio 1995 (252 giorni): la Lega Nord era in maggioranza (forza preponderante nei seggi all’interno della coalizione di centro-destra) ed esprimeva 5 ministri (Maroni – vice-presidente e Interno; Comino – Coordinamento delle politiche UE; Speroni – Riforme istituzionali; Pagliarini – Bilancio e programmazione economica; Gnutti – Industria, commercio e artigianato) e 9 sottosegretari.

Governo Dini (governo tecnico) dal 18 gennaio 1995 al 17 maggio 1996 (486 giorni): la Lega Nord era in maggioranza (unico partito favorevole del centro-destra).

Governo Berlusconi II dal 22 giugno 2001 al 23 aprile 2005 (1.412 giorni): la Lega Nord è in maggioranza ed esprime 3 ministri (prima Bossi e poi Calderoli – Riforme istituzionali; Castelli – Giustizia; Maroni – Lavoro e politiche sociali) e 6 sottosegretari.

Governo Berlusconi III dal 24 aprile 2005 al 17 maggio 2006 (390 giorni): la Lega Nord è in maggioranza ed esprime 3 ministri (Calderoli – Riforme istituzionali e devoluzione; Castelli – Giustizia; Maroni – Lavoro e politiche sociali) e 8 sottosegretari.

Governo Berlusconi IV dall’8 maggio 2008 al 16 novembre 2011 (1.283 giorni): la Lega Nord è in maggioranza ed esprime 3 ministri (Bossi – Riforme per il federalismo; Calderoli – Semplificazione normativa; Maroni – Interno), 1 viceministro e 4 sottosegretari.

Archiviamo così la castità dorotea dei leghisti, i quali si nascondono dietro il cambio di nome del loro partito, da Lega Nord a Lega: sarebbero a loro dire un’altra cosa, si sarebbero sottoposti a chirurgia estetica, anche se le magagne, rughe e cicatrici, si vedono tutte e sono persino aumentate.

I grillini hanno fatto un piacere a Salvini, scaricando il passato sul groppone di Berlusconi, ed a se stessi (o loro stessi come dir meglio si voglia), ergendosi a unici baluardi del rinnovamento, trascinando in ciò i leghisti new look. Ammettiamo, per pura ipotesi, che i cinque stelle meritino rispetto e incoraggiamento per la loro improvvisa(ta) salita al potere: non per questo debbono sentirsi pregiudizialmente esenti da critiche, rinviando sdegnosamente al mittente ogni e qualsiasi appunto proveniente da forze politiche, che hanno assunto responsabilità di governo nel passato. Innanzitutto bisognerebbe operare un raffronto tra chi qualcosa ha comunque fatto e chi non smette di fare annunci, sparare promesse e sputare sentenze.

In secondo luogo l’anima della democrazia sta proprio nel rapporto dialettico e nel confronto, anche aspro, fra maggioranza e opposizione: in certi stati si parla di governo-ombra dell’opposizione, al fine di sottolineare e quasi istituzionalizzare l’apporto della minoranza. Niente da fare: per i grillini l’opposizione è un inciampo bocciato dalle urne e quindi deve tacere. Qualcuno, a livello M5S, arriva a vagheggiare il superamento del parlamento e l’elezione dei parlamentari a sorteggio (se non è zuppa e pan bagnato).

L’opposizione non deve essere aprioristica, faziosa e semplicistica, ma ci deve essere: guai se non fosse così. In triste conclusione non posso evitare di ricordare quanto affermato da Silvio Berlusconi in riferimento ai grillini: sono dei parvenu, degli incapaci, li manderei a pulire i cessi di mediaset. A malincuore, giorno dopo giorno, devo ammettere che aveva ragione: sul piano democratico, istituzionale, politico, programmatico, parlamentare e governativo. Ci volevano solo i cinque stelle a rivalutare clamorosamente lo psiconano…

In serie A, ma solo un pochettino

Il grande Enzo Biagi citava spesso un aneddoto in cui una madre premurosa e perbenista, di fronte alla giovanissima e nubile figlia incinta, ammette con la gente: “Sì, è incinta, ma solo un pochettino…”. Il Parma calcio, nella scorsa stagione in serie B, in vista dell’ultima partita di campionato con lo Spezia, per ottenerne un atteggiamento compiacente e remissivo, ha commesso un illecito sportivo, seppure per il tramite di un suo giocatore? Stando alla sentenza del tribunale federale, alquanto prevedibile e quasi annunciata, che lo condanna a scontare cinque punti di penalizzazione, salva restando la promozione in serie A, si potrebbe rispondere: “Sì, ha brigato, ma solo un pochettino”.

Una sentenza del piffero, che tenta di salvare capra e cavoli, che vuole dare ad intendere una certa qual intransigenza, temperata dalla “ragion di calcio”. Se Il Parma ha commesso (o tentato) un illecito doveva essere punito per il campionato appena terminato, falsato nel suo risultato finale delle promozioni in serie A. Se invece non ha commesso un illecito, doveva essere assolto, punto e stop. Il discorso di Calaiò è ancora più ridicolo, ma evidentemente lui non rientra nel discorso della ragion di calcio e deve pagare comunque e fino in fondo. Sarebbe divertente leggere le motivazioni di questa sentenza, ma, seppur in pensione, ho di meglio da fare ed a cui pensare.

Nell’autentica sarabanda di verdetti, con relativo balletto di squadre fra le diverse serie, c’è da ridere: ne esce un quadro squallido per le società sportive, ma anche per chi governa il sistema e per chi amministra la giustizia sportiva. E non è finita, perché gli ulteriori gradi di giudizio potrebbero riservare sorprese. Mi sembra che il Parma parta con un handicap e con un marchio “infamante”, che la dicono lunga: sarà probabilmente la cenerentola destinata a retrocedere (var o non var). Non so cosa ne penseranno i tifosi. Meglio lasciar perdere: la loro non è comunque una voce neutrale e quindi…tanto vale puntare a vincere l’oscar del fair play.

Se devo essere sincero, da tanti anni non seguo il Parma con interesse e partecipazione: il ritorno di Nevio Scala mi aveva illuso, ma purtroppo non è andata come avrei sperato. Ho smesso di seguire il Parma, quando era in auge sotto la cappella tanziana. Durante una combattutissima partita casalinga con la Lazio mi ritrovai a soffrire troppo e mi chiesi: ma cosa c’azzecco io col Parma di Tanzi, soffra lui… Fui facile autoprofeta e da allora non ho più messo piede allo stadio Tardini. Chissà che questa partenza ad handicap riservata ai piccoli non mi ridia la voglia di urlare forza Parma in faccia ai grandi. Sarà difficile anche perché i piccoli finiscono col fare il verso ai grandi e allora…vadano tutti a quel paese!

Il mercato divora i suoi figli

Un tempo si diceva “Fäls cmé ‘na lapida”, dando per scontato che sui monumentini e monumentoni cimiteriali si scrivesse un sacco di balle per elogiare sempre e comunque il morto che giace, mentre il vivo (non) si dà pace e tenta di farsi perdonare a suon di bugie pietose. Oggi addirittura non si aspetta nemmeno la morte del personaggio per elaborarne il panegirico, non si ha la pazienza di tenerlo pronto per il momento del trapasso, si spara subito il pistolotto di maniera, non appena si profila la seria possibilità del decesso. Tutto si deve consumare in fretta, magari in anticipo, in una paradossale corsa in cui anche la morte arriva con le trombe mediatiche già in funzione.

È successo a Sergio Marchionne. Non solo la sua azienda non ha potuto aspettare nemmeno un attimo e lo ha sostituito su due piedi: l’economia ha le sue leggi e non può attendere, il mercato non transige e pretende protagonisti in perfetta efficienza. Anche il baraccone mediatico, in cui viviamo, è partito in quarta e gli ha confezionato fior di pistolotti celebrativi da far invidia ai vivi ed ai morti. Con il piccolo particolare che Sergio Marchionne non è ancora morto, ma il suo maglione lo hanno già messo in naftalina, anzi lo stanno mettendo all’asta ben prima del tempo. Non so se lui abbia la possibilità di leggere questi discorsi, forse ne sorriderebbe con il giusto distacco.

FCA ha il nuovo amministratore delegato che esibisce il suo curriculum: sembra un trattatino di organizzazione aziendale. Le notizie del peggioramento delle condizioni di salute di Marchionne non dicono nulla della sua malattia, ma fanno il rendiconto del suo business plan.   Non interessa nulla lo stato di vita di questo personaggio, costretto al letto dopo tanta attività, ma si guarda con apprensione ai cambiamenti nel mondo dell’auto, al mutamento degli equilibri di questo importantissimo settore economico.

Marchionne non è ancora morto, ma è già morto, si sbrigasse quindi a farlo per consentire un pieno e totale riassetto economico e mediatico. Il mondo economico consuma anzitempo i suoi protagonisti, divora i suoi figli (la mitologia si fa storia), riduce le persone, piccole e grandi, a burattini inanimati da riporre nelle cassapanche aziendali e mercatali.

Lunga vita a Marchionne! Chissà che non possa diventare il Gianni Schicchi di se stesso, della Fiat, della Ferrari, dei poteri economici, delle prassi mediatiche, di un mondo in cui sta diventando sempre più difficile vivere e morire. E chi era Gianni Schicchi e chi è Marchionne: ne parleremo un’altra volta.