Parola d’ordine: pubblicizzare la privatizzazione

Ho difficoltà “ad accettare l’idea che il tema della sicurezza pubblica stradale sia rimesso nelle mani dei privati. La filosofia del nostro sistema vede oggi uno stato espropriato dei suoi poteri, una sorta di proprietario assenteista che ha abdicato al ruolo di garante della sicurezza”. Così il procuratore di Genova, Cozzi, titolare dell’inchiesta giudiziaria sul tragico evento genovese. “Credo che il crollo del ponte Morandi porti a ripensare tutta la materia” aggiunge ed infine afferma: “Cercheremo di capire quali sono esattamente i poteri degli organi di controllo del ministero”.

Il discorso, peraltro condivisibile in tutto o in parte, è comunque chiaramente di carattere politico: la tentazione della Magistratura alla supplenza, di fronte a situazioni gravemente carenti, si ripresenta periodicamente. Non so cosa ne pensi Sergio Mattarella, che presiede il Consiglio Superiore della Magistratura e che, il giorno dei funerali di Stato, si è intrattenuto a colloquio con questo procuratore di Genova.

Solo l’ultima affermazione, riguardante la verifica dei poteri di controllo e quindi la ricerca di eventuali responsabilità a livello ministeriale, appare pertinente, anche se in un simile momento sarebbe auspicabile un maggior riserbo ed evitabile una facile rincorsa al consenso. Se, come par di capire, il procuratore Cozzi intende richiamare gli organi dello Stato ad osservare scrupolosamente i loro compiti, sarebbe il caso che cominciasse lui a non invadere il campo altrui, creando confusione e buttando benzina sul fuoco dell’incendio politicamente divampato. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra: vale anche per la magistratura, che non è esente da colpe, inadempienze e ritardi.

Se da una parte sento anch’io, come tutti i cittadini, la rabbia, vergogna e lo sconcerto per un evento gravissimo che lascia interdetti e bisognosi di chiarezza, dall’altra non sopporto il clima di caccia alle streghe scatenatosi sull’onda emotiva popolare. Quindi mi infastidisce particolarmente l’atteggiamento, politicamente censorio, di un giudice, che sembra più cercare di accattivarsi la simpatia della gente piuttosto che cercare di fare chiarezza e di trovare la verità sul piano giudiziario.

Non posso poi sottacere che il discorso della privatizzazione di beni e servizi pubblici ha tenuto banco per decenni: sembrava che privatizzare fosse il toccasana risolutore dei problemi. Adesso quasi tutti fanno retromarcia. In Italia, diceva il grande giornalista Guglielmo Zucconi, prestato per un certo periodo alla politica, siamo maestri del paradosso e si arrivano a teorizzano i servizi segreti pubblici. Forse qualcuno sta pensando alla privatizzazione pubblica.

Tra l’altro queste società private o anche miste pubblico-privato, che gestiscono tanti servizi, di nettezza urbana, di raccolta rifiuti, di manutenzione del verde, hanno livelli tali di autonomia da essere ormai fuori dalla portata dei comuni. Un tempo, come diceva un ex-amministratore di una azienda municipale, il sindaco, se vedeva una strada sporca, un quartiere degradato, poteva sollevare il telefono e chiedere conto. Oggi ci sono i manager, specialisti nel quadrare i bilanci in un modo molto semplice, prestare servizi carenti a fronte del pagamento di utenze sempre più costose. Così i cittadini pagano le tasse comunali e i compensi per determinati servizi e poi, se vogliono che il loro quartiere o i giardinetti sotto casa godano di un livello accettabile di pulizia, alla domenica prendono una ramazza e un sacco per raccogliere le immondizie e vanno a fare gli straordinari. Il discorso può essere portato, a maggior ragione, anche sulla gestione e manutenzione delle grandi opere.

 

 

 

La matematica e la letteratura

La miglior difesa è l’attacco, cantare a squarciagola è più facile che modulare i suoni e i toni. Se sull’argomento immigrazione il palcoscenico governativo è tenuto saldamente dalla Lega, sul triste e drammatico tema della sicurezza strutturale, scatenato dal recente disastro del ponte genovese, il proscenio è riservato al M5S ed ai suoi loquaci rappresentanti. Gli atteggiamenti pentastellati sono sostanzialmente due: buttare fango (a prescindere) su chi ha governato in precedenza; tenere alto comunque il tono della polemica, cioè gridare per coprire le voci altrui e soprattutto il proprio vuoto di idee e contenuti.

La matematica non è mai stata il mio forte, ma ritengo che esista un teorema grillino.   Un teorema è una proposizione che, a partire da condizioni iniziali arbitrariamente stabilite (ipotesi), trae delle conclusioni (tesi), dandone una dimostrazione. Nel caso in questione l’ipotesi/ tesi buttata in campo immediatamente è la seguente: tutta colpa di Benetton, che ha pensato agli affari, che non ha mantenuto gli impegni contrattuali, che è stato favorito dal potere politico e ha foraggiato il PD. Occorrerebbe una dimostrazione per arrivare alla tesi: per costruzione (attraverso una serie di implicazioni logiche); per assurdo (confutando una tesi sbagliata e dimostrando che essa entra in contrasto con l’ipotesi); per induzione (se il teorema vale per il primo elemento vale anche per i successivi).

L’ipotesi pentastellata è che la politica portata avanti in passato abbia la responsabilità del disastro avvenuto e di eventuali disastri dietro l’angolo. Dovrebbe arrivare però la dimostrazione per poter concludere con la tesi che le colpe sono di Benetton e del PD. Senonché la dimostrazione è quanto meno carente: non è certo costruttiva nel senso che non è logica, infatti la politica non è necessariamente affarismo, quest’ultimo ne è soltanto una degenerazione; non è adottabile per assurdo, infatti la buona politica non implica automaticamente l’innocenza e la correttezza dei protagonisti diretti e indiretti; non è applicabile a cascata, se infatti la politica si deve occupare della sicurezza delle strutture non è detto che l’insicurezza dipenda dalle carenze della politica.

Ho fatto questa strana e cervellotica dissertazione per arrivare a concludere che i grillini non riescono ad andare oltre una generica e strumentale denuncia da cui deducono arbitrariamente responsabilità di Tizio e Caio: il metodo si basa sull’urlo della protesta, poco importa se sotto di essa non c’è niente o se ci sono addirittura contraddizioni e incoerenze. Non ricado nello stesso loro errore ritenendo aprioristicamente corretto Benetton e assolvendo pregiudizialmente i governanti del passato (il Pd in particolare, che sta tanto sulle scatole ai grillini). Ognuno si dovrà assumere le proprie responsabilità al di fuori però delle sbrigative opinioni pentastellate. Tra l’altro, come mai, se il Partito Democratico ha così gravi colpe, il M5S, tutto sommato, era possibilista sulla stipulazione con esso di un contratto di governo. Proviamo a ipotizzare una simile eventualità: oggi cosa direbbero i grillini? Metterebbero in crisi il governo PD-M5S, ripiegherebbero su altri cervellotici teoremi o assolverebbero il nuovo PD da loro certificato colpevolizzando quello di Renzi, così come stanno facendo con la Lega da loro redenta criminalizzando solo Berlusconi e c.?

Come inizio del cambiamento non ci siamo. Non vale la regola secondo cui chi grida contro i difetti altrui e automaticamente perfetto e credibile. Ma prima che il prosciutto cada dagli occhi degli elettori ci vorrà il suo tempo: per capire che la “letteratura” dell’antipolitica non può soppiantare la politica.

 

C’è fede religiosa e fede democratica

Ho seguito televisivamente i funerali delle vittime del drammatico crollo del ponte Morandi di Genova. Il clima composto ma partecipe incuteva rispetto e provocava emozione. Personalmente mi sono commosso di fronte a due momenti e due aspetti della celebrazione: quello della fede religiosa e quello della fede nella democrazia.

Quando il cardinal Bagnasco ha benedetto e incensato le bare, due gesti semplici ma profondi e significativi, è scoppiato un applauso: ebbene sì, finalmente si esprimeva l’adesione personale e comunitaria al vero e unico riferimento capace di dare un senso alla morte, financo alla morte così assurda e terribile. La fede non è un fatto meramente consolatorio, è la verità che pone la vita oltre la vita, che rende omaggio sostanziale alle spoglie del corpo mortale destinato a trasformarsi in un corpo glorioso.

Quando qualcuno definiva assurda ed illusoria la risposta della religione cattolica ai misteri della vita, della morte e dell’aldilà, mio padre era solito rispondere: “Catni vùnna ti !!!”.    In queste tre parole, combinate in una battuta polemica, troviamo in estrema sintesi il rapporto tra mio padre e la religione. Le avrebbe ripetute a chi avesse mai pensato di ritenere un rito inutile quello celebrato a Genova: forse saranno state inutili le infinite parole dei commentatori, ma la risposta della fede alle disgrazie non è certamente da vivere con laicistica supponenza.

Sul perché possano succedere questi eventi la fede cristiana non dà risposte, si limita a collocarli nella logica evangelica di un Gesù, che ha riassunto in sé tutte le sofferenze facendone un passaggio misterioso ma salvifico. “In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo»”.

C’è un’altra fede, che deve essere professata davanti alle vittime di questi eventi disastrosi: la fede laica nella democrazia. La presenza, sempre così discreta e umile, del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva, almeno per me, questo significato: anche di fronte a fatti sconvolgenti, che mettono in evidenza eventuali carenze, limiti, errori, ritardi e colpe di chi svolge funzioni politiche, sociali ed economiche, deve rimanere salda la fiducia nelle Istituzioni democratiche al di là di ogni tentativo di metterle strumentalmente in discussione assieme ai protagonisti passati e presenti. Niente a che fare col diritto di critica, con la ricerca delle responsabilità e dei colpevoli di eventuali reati. Posso permettermi di parafrasare laicamente e politicamente il succitato passo evangelico? “Credete che la politica sia responsabile tout court dei morti di Genova? No, vi dico, ma se non cambierete il modo di fare politica, porterete allo sfascio la società democratica».

 

I grillopedanti di favoletta in favoletta

Ricordiamoci di un argomento che ha tenuto banco per diverso tempo (su di esso qualcuno aveva impostato la campagna elettorale e stravinto le elezioni): il ponte sullo stretto di Messina, tema che ha periodicamente a caratterizzato in senso inconcludente le fasi politiche più difficili e concitate. Tempo fa ascoltai con interesse e stupore il commento al riguardo di Eugenio Scalfari: con un ironico, letterario ma pertinente richiamo a “Scilla e Cariddi”, introdusse la sua pregiudiziale, vale a dire la diffidenza verso un’opera grandiosa, che dovrebbe resistere all’usura del tempo e alle intemperie di una zona vocata al tremendo attacco ambientale.  Qualche giorno dopo incontrai un mio carissimo amico, che ha lavorato per anni nel settore delle opere pubbliche. Mi ha snocciolato un discorso paradossale, ma scientificamente, a suo dire, inoppugnabile: non esisterebbero materiali per costruire il ponte sullo stretto in grado di resistere all’impatto che tale opera subirebbe nel tempo. Tutti lo sanno, ma fanno finta di niente per non intaccare le fantasie programmatiche e le parcelle consulenziali. La vendo così come l’ho comprata, non sono in grado di riportare il ragionamento tecnico che corrisponde pari-pari a quello letterario di Scalfari.

Me ne sono ricordato in questi giorni di sarabanda post-disastro del crollo del ponte genovese. A livello di difficoltà territoriali, ambientali e climatiche Genova non è forse da meno dello stretto di Messina. Il ponte Morandi, costruito fra il 1963 e il 1967, aveva le caratteristiche per resistere all’usura del tempo? Quindi il crollo è una questione di omessa o carente manutenzione o siamo in presenza di una costruzione non avente fin dall’inizio i requisiti di sicurezza? Non so se qualcuno potrà mai riuscire a stabilirlo, anche se non sarebbe una questione da poco. Danilo Toninelli, ministro competente, sì ma solo per area governativa, e il vice-premier Luigi Di Maio, analfabeta tuttologo, hanno già le idee chiare al riguardo: «La colpa è di Autostrade per l’Italia e la famiglia Benetton che ne è la proprietaria, oltre naturalmente all’Unione Europea (il parafulmine grillo-leghista).

Qualcuno, ha esercitato la propria memoria ed è riandato al 2013, quando i pentastellati da soliti odiatori pregiudiziali delle grandi opere, sposavano con veemenza la posizione dei comitati del “no” alla Gronda di ponente, la bretella autostradale, che sarebbe servita ad agevolare il traffico lungo il tratto oggi interrotto drammaticamente dallo sbriciolamento del ponte come fosse di cartapesta. I grillini sostenevano letteralmente: «Ci viene poi raccontata, a turno, la favoletta dell’imminente crollo del ponte Morandi». A loro così rispondeva il presidente della Confindustria locale: «Quando tra dieci anni il ponte Morandi crollerà e tutti dovremo stare in coda nel traffico per delle ore, ci ricorderemo il nome di chi adesso ha detto “no” alla Gronda».

Sembra un racconto surreale, che invece è supportato da documenti ed elementi inconfutabili. Morale della favola: chi prevedeva in anticipo di cinque anni il disastro non ha saputo sostenere questa previsione con le unghie e coi denti (i grilloparlanti, che fanno una certa impressione e rabbia); chi si opponeva, per partito preso, all’opera stradale sostitutiva o comunque alternativa al viadotto (i grillopotenti, che fanno pena) hanno cambiato parere e pontificano su due piedi scordandosi il passato.

 

Il cavallino dell’Assunta

L’arcivescovo di Siena, Antonio Buoncristiani, si è rifiutato di benedire il drappellone del Palio dell’Assunta: «È un’opera d’arte moderna, ma non rispetta i caratteri della cultura mariana e per questo benedico la città, ma non il drappellone». Il “cencio”, che viene consegnato alla contrada senese vincitrice della corsa, è stato quest’anno dipinto da Charles Szimkowicz, un importante pittore neoespressionista, e presenta l’immagine di Maria che tiene in braccio un cavallino (presumibilmente simbolo della manifestazione tanto incardinata nella cultura e nella tradizione della città).

Anche se non è stato espressamente detto, penso che il rifiuto vescovile sia dovuto a questo aspetto del dipinto, peraltro, a mio modestissimo giudizio, molto bello e molto dolce nella sua relativa provocatorietà. Non capisco pertanto questa impuntatura. Se proprio vogliamo sottilizzare ci sarebbe qualcosa da ridere nella ritualità pre e post palio ospitata nella cattedrale, laddove sacro e profano si mescolano in un cocktail piuttosto discutibile: una sorta di tifo contradaiolo esibito in modo sbracato davanti all’altare. Ma tutto il Palio va considerato nella sua interezza socio-culturale, dai cavalli drogati e malmenati alla competizione tribale senza regole di correttezza sportiva, dal fanatismo dei vincitori alla messa in scena nostalgica, dalle pignole lungaggini nell’avvio della corsa al suo brutale svolgimento. Un fenomeno da prendere o lasciare in toto, per quello che è e rappresenta.

Probabilmente il vescovo avrà fatto questo ragionamento: va bene tutto, ma un cavallino al posto di Gesù Bambino mi sembra un po’ troppo. Mi sono immediatamente ricordato di una goliardata messa in atto da alcuni conoscenti di mio padre. Andarono durante le feste di Natale a far visita ad una loro amica piuttosto bigotta. Di soppiatto, appena prima di togliere il disturbo, uno di essi prese dal presepe un maialino e lo piazzò al posto del Bambino: una vera e propria, seppur camuffata, bestemmia, che lasciò il segno è incrinò irrimediabilmente i rapporti di amicizia.  Non è facile determinare il confine tra lo scherzo dissacrante e il vero e proprio vilipendio e oltraggio sacrilego: nel caso senese non intravedo proprio niente di sacrilego e di oltraggioso, né alcunché di offensivo verso la sensibilità religiosa. Posso arrivare addirittura a trovare un pizzico di francescanesimo nella trovata di mettere un cavallo in braccio a Maria.

La gerarchia cattolica non finisce mai di sorprendere e di stupire. A volte si lancia in battaglia d’avanguardia, talora si perde nel bicchiere della più bieca ortodossia: non ci sono mezze misure. Se il pittore Szimkowicz voleva far parlare di sé, ha certamente raggiunto l’obiettivo, ma la sua fama è tale da escludere questo scopo meschino. D’altra parte non sono state messe le braghette ai nudi michelangioleschi? In conclusione mi chiedo: con tutti i problemi che ha la comunità cristiana ha senso sollevare un simile polverone in difesa della cultura mariana. Sono ben altri i gravissimi attentati a tale cultura, ammesso e non concesso che essa sia in linea col vangelo: non è forse più blasfemo chiamare Maria col titolo pseudo-nobiliare di “madonna” rispetto al dipingerla con in braccio il cavallino del palio (che mi auguro non abbia niente in comune col cavallino rampante della Ferrari).

I cani da guardia che abbaiano ai mercati

Penso sia difficile e inutile cercare di capire se l’aumento dello spread e il cattivo andamento della borsa italiana siano dovuti alle incertezze colte dai mercati ed emergenti dal nuovo governo, effettivamente confusionario e sconclusionato fin dall’inizio del suo mandato. Così come ancor più assurdo appare il tentativo di mettere le mani avanti in senso complottista per coprire le insufficienze governative: ci sarebbe in atto una manovra ferragostana di attacco mercatale contro gli equilibri politici italiani sgraditi ai soliti poteri forti italiani, europei e mondiali. Non credo nemmeno che il trambusto finanziario possa essere semplicisticamente ricondotto alla crisi valutaria turca indotta dalla scriteriata politica protezionistica americana. Probabilmente di tutto un po’.

Comprendere le borse, laddove la speculazione è padrona di casa, criticarle, esorcizzarle, attaccarle, è un esercizio penoso e paradossale. Le borse sono un male necessario del sistema capitalistico, che, come sostiene l’insigne economista Giorgio Ruffolo, ha i secoli contati. Non sarà certo la velleitaria ignoranza di Luigi Di Maio o l’arrogante incoerenza di Matteo Salvini a scalfire i meccanismi sistemici e problematici della finanza mondiale. Da quanto sta avvenendo arriva proprio una lezione per i pappagalli nostrani, che intenderebbero, populisticamente e “sovranisticamente”, rinchiudere il nostro Paese in un nostalgico, isolazionistico ed illusorio fortino all’insegna dello slogan “in casa mia comando io”.

Sì, comandare in casa propria è un diritto indiscutibile, il problema sta in tutti gli inamovibili condizionamenti esterni: se non sopporto le regole condominiali, posso andare ad abitare in una villetta di periferia, ma le regole esisteranno anche lì, ci sarà qualcuno che mi chiede conto, che controlla, che viene a suonare il mio campanello e non si farà certo impressionare dai cani da guardia, leghisti o “grillisti” che siano. Il putiferio scatenato dalla crisi valutaria turca è la più eloquente dimostrazione che siamo tutti interdipendenti e purtroppo, se Trump ha il mal di testa, noi italiani possiamo avere un grosso raffreddore o addirittura una sinusite bella e buona. Mettiamo quindi da parte la velleitaria pretesa euroscettica, l’improvvisata primazia politica sui meccanismi finanziari, la sbraitante volontà di cambiare il mondo in peggio.

Se basta la lira turca a scatenare un pandemonio, cerchiamo di capire che forse sarà bene rientrare in noi stessi, abbandonando le smanie separatiste e indipendentiste, recuperando la pazienza della politica.  Non serve che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dichiari di temere un attacco dei fondi speculativi all’Italia a fine agosto e preveda tempeste finanziarie in arrivo sui nostri cieli: è un esercizio scolasticamente e politicamente vuoto e controproducente. Così come non serve che, il giorno stesso o il giorno dopo, il vice-presidente del Consiglio Luigi Di Maio faccia la seguente affermazione, in una delirante imitazione del presidente turco Erdogan: «Se qualcuno vuole usare i mercati contro il governo, sappia che non siamo ricattabili». Torniamo in Europa, facciamo bene i conti e magari anche i compiti a casa, discutiamo seriamente, chiediamo aiuto a chi di dovere, riportiamo la politica dagli accoglienti bar di periferia agli odiati palazzi, recuperiamo serietà e credibilità, smettiamola di abbaiare alla luna e facciamo un po’ di cura del sole. Senza rischiare di scottarci, usando le creme ad alto fattore protettivo.

 

Il ponte dei sospiri

Ogni giorno accadono fatti tragici nel mondo: terremoti, alluvioni, atti di guerra, attentati terroristici, incidenti aerei, ferroviari e stradali, etc. L’impressione che suscitano in noi è inversamente proporzionale alla distanza dai luoghi interessati. Quando ad esempio sento o leggo distrattamente di un terremoto nelle Filippine, mi chiedo perché ne sarei tanto più colpito se fosse successo in Italia, ancor di più in Emilia, a Parma non se ne parla. Qualcuno potrebbe rispondermi: è umano! Siamo proprio sicuri che sia umano. Non sono uomini e donne come noi quelli che muoiono sotto le macerie a migliaia di chilometri di distanza?

Non so quanto ci sia di epidermico, di farisaico, di mediatico e financo di politico nella reazione a certi eventi impressionanti. Siamo di turno: questo ferragosto passerà alla storia come quello del crollo del ponte, non quello vacanziero rovinato dal maltempo, ma quello del ponte Morandi di Genova.  Ricordo il deragliamento di un treno nel gennaio 1997: il pendolino, che viaggiava sulla tratta Milano – Roma, nell’imboccare la curva di ingresso alla Stazione di Piacenza deragliò e morirono due macchinisti, due agenti della polfer, due hostess e due viaggiatrici. A bordo del treno si trovava anche il senatore a vita Francesco Cossiga, ex-presidente della Repubblica, che uscì illeso.  Immediatamente si scatenò la caccia alla causa di tale incidente: eccessiva velocità del treno, stato di ubriachezza dei macchinisti, guasto tecnico e chi più ne aveva più ne mise. I cronisti assalirono letteralmente Cossiga, che, se non ricordo male, tamponava con un fazzoletto una leggera ferita alla fronte. Volevano raccogliere le sue reazioni a caldo, pensando e sperando che si lanciasse in una delle sue storiche picconate. Restarono delusi perché l’ex presidente non fece alcun commento e si limitò provocatoriamente a dire: «Cosa è successo? È deragliato un treno…». Una lezione di stile e di serietà.

Ho scomodato questo episodio e la reazione ad esso di Francesco Cossiga per sottolineare la necessità di fare un po’ di silenzio di fronte a questi eventi tragici: la commozione, lo sgomento, il senso di insicurezza dovrebbero imporci di parlare poco e di riflettere molto. Invece, subito dopo il crollo del ponte autostradale di Genova, via alle insulse dirette TV, alle stereotipate promesse di fare giustizia, ai giudizi negativi sulla sicurezza delle infrastrutture viarie, ai processi sommari, alle speculazioni e strumentalizzazioni, al solito clima di caccia alle streghe.

Innanzitutto abbiamo la pretesa che non possano più esistere le cosiddette fatalità: ce la possiamo e dobbiamo mettere tutta, ma ricordiamoci che non siamo perfetti e l’errore più o meno colpevole è possibilissimo a tutti i livelli ed in ogni fase. In secondo luogo ognuno deve prendere la sua parte di responsabilità, non per andare in galera (a questo ci penserà eventualmente la magistratura), ma per migliorare la programmazione, la progettazione, la manutenzione e la gestione del territorio e delle opere pubbliche.  Con ciò non voglio assolvere tutti chinando il capo davanti alle disgrazie, né tanto meno colpevolizzare tutti. Mi sento in dovere invece di mettere in discussione tutta la nostra impostazione di vita.

Con il crollo del ponte di Genova sono ulteriormente crollate anche le nostre certezze. Rimbocchiamoci le maniche. Invece, dopo il transitorio polverone sollevato con l’ausilio mediatico, tutto tornerà come prima, fino al prossimo crollo. Non ci accorgiamo che così facendo ci autoseppelliamo tutti sotto le macerie. Mio padre, col suo solito scetticismo al limite del sarcasmo, scuoteva il capo con un sorriso ironico, quando, in occasione di eventi tragici, al termine dei servizi speciali sul posto effettuati con accanimento cronachistico, che si chiudevano con l’enfatico bilancio delle vittime (tot morti, tot, feriti e tot dispersi), chi riprendeva la linea dallo studio televisivo chiosava il tutto con un “bene”, come dire: il più è fatto…

 

I giovani cantano, il papa graffia e le donne aspettano

“La Chiesa portatrice della Parola di Dio in terra, sembra sempre più distante e chiusa nei suoi rituali. Gli inutili fasti e i frequenti scandali rendono ormai la Chiesa poco credibile ai nostri occhi”. Ho colto questo passaggio dagli interventi dei giovani dialoganti con papa Francesco, durante la veglia di preghiera svoltasi a Roma al Circo Massimo, quale preludio in vista del Sinodo sui Giovani che si terrà il prossimo ottobre.

Purtroppo anche questo raduno si è rivelato piuttosto rituale e poco spontaneo: prevaleva la preoccupazione di dare un’immagine ordinata. Contestare sì, ma con i dovuti modi. Non voglio pretendere troppo, anche se qualcosa di immediato e dissacrante lo avrei colto molto volentieri. Ai miei tempi, quando ero giovane… Il papa in premessa alle sue risposte, quasi a volere mitigare il clima preconfezionato che si respirava, ha detto: «Buona sera, vi dico la verità: io conoscevo le domande e ho fatto una bozza di risposta, ma anche – sentendo loro – aggiungerei spontaneamente qualche cosa. Perché il modo in cui hanno fatto le domande va più in là di quello che è scritto». Il papa mi ha quindi letto nel pensiero.

Ma vediamo la risposta di Bergoglio al giovane, di cui ho sopra riportato un breve passaggio interrogante: «Io penso tante volte a Gesù che bussa alla porta, ma da dentro, perché lo lasciamo uscire, perché noi tante volte, senza testimonianza, lo teniamo prigioniero delle nostre formalità, delle nostre chiusure, dei nostri egoismi, del nostro modo di vivere clericale. E il clericalismo, che non è solo dei chierici, è un atteggiamento che tocca tutti noi: il clericalismo è una perversione della Chiesa». Il papa ha effettivamente tenuto fede alla preoccupazione di andare al di là di quel che era scritto, si è rivelato il vero giovane di quel raduno, un giovane papa di 82 anni, che dà dei punti ai ragazzi accorsi al suo invito. Lui è davvero capace di rompere il protocollo: ha cominciato così il suo pontificato e lo continua così.

Aiutiamolo però. Ce lo chiede continuamente. Quell’insistente “pregate per me” ha anche il significato di una sollecitazione a spingerlo, a sostenerlo, a provocarlo. Lo facciamo poco: aspettiamo la pappa pronta. Persino i giovani: cantano, ballano, pregano, ma fanno fatica ad essere graffianti. Paradossalmente un ultraottantenne papa sta insegnando ai giovani ad essere giovani, ai laici ad essere laici. Diamoci quindi una mossa, non pretendiamo troppo da lui. C’è un fronte su cui papa Bergoglio stenta a fare da battistrada: quello delle donne e della loro partecipazione alla Chiesa. Su quel terreno l’arretratezza è talmente vistosa da paralizzare persino le più rette intenzioni di un papa innovatore. Mi permetto di aspettarlo al varco.

Le donne! Come dice l’Antico Testamento, le spose di Dio nella giustizia e nel diritto, nell’amore, nella benevolenza e nella fedeltà. Le vergini sagge del Vangelo, che vanno incontro allo sposo con le lampade accese e pronte ad entrare con lui alle nozze. Le prime, vere, autentiche testimoni della Risurrezione, sempre bistrattate dalla Chiesa, nonostante l’opzione preferenziale e rivoluzionaria verso di esse fatta da Gesù. Le donne! Torturate, violentate, stuprate, perseguitate, deturpate, ammazzate. Abbiamo un debito enorme verso di esse.  Abbia il papa il coraggio di cominciare a saldare questo debito. Chiediamoglielo a gran voce!

 

L’uva acerba e i denti dei cognati

Il profeta Ezechiele riporta questo solenne pronunciamento divino: “I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati?”. Com’è vero che io vivo, oracolo del Signore Dio, voi non ripeterete più questo proverbio in Israele». Chi avrà la pazienza di leggere questo commentino ai “fatti del giorno”, non pensi di avere sbagliato rubrica e di essere incappato nelle mie riflessioni contenute nel “religioso silenzio”. Penso di non correre il rischio di mischiare il sacro col profano, non sono infatti un integralista cattolico e quindi non tendo mai ad applicare compiutamente i principi religiosi alla vita politica, economica e sociale della collettività.

Sono partito dalla Bibbia solo per dimostrare come già nel settimo secolo avanti Cristo fosse stata messa in discussione, da fonte piuttosto autorevole, la regola secondo cui le colpe dei padri ricadono sui figli. Questa tentazione per la verità non è mai venuta meno e riaffiora in modo strumentale per giudicare personaggi pubblici tramite il censurabile comportamento di loro famigliari e parenti più o meno stretti. In questi giorni sta capitando a Matteo Renzi di essere squalificato di sponda, in base a presunti reati commessi dal cognato e da due fratelli del cognato: siamo addirittura in linea collaterale, ma, quando si vuole buttare fango, tutto fa brodo.

Cosa avrebbero combinato questi soggetti? L’inchiesta avviata da tempo si basa sull’ipotesi di riciclaggio e appropriazione indebita di fondi raccolti a livello benefico, in qualità di fiduciari di Unicef e altre organizzazioni umanitarie, che dovevano andare a sostenere progetti per i bambini africani, invece in buona parte transitati da conti intestati a queste persone e dirottati su investimenti immobiliari e societari, compreso l’acquisto di quote di una società riconducibile alla famiglia Renzi. L’inchiesta sarebbe bloccata in attesa delle eventuali denunce da parte di Unicef, senza le quali non si potrebbe comunque procedere a carico dei responsabili.

Si impongono due serie considerazioni. Innanzitutto bisognerebbe, prima di criminalizzare le persone, attendere l’esito delle inchieste e degli eventuali procedimenti giudiziari. Si dice sempre che occorre rispettare le sentenze, ma in questo caso di sentenze non c’è nemmeno l’aria. Certo gli eventuali reati sarebbero oltremodo gravi, odiosi e vergognosi. Si faccia dunque chiarezza e si vada fino in fondo per scoprire la verità senza mettere nessuno preventivamente alla gogna.

L’aspetto più delicato riguarda però le manciate di fango preventivo che vengono lanciate contro Matteo Renzi, colpevole di essere il cognato di un eventuale colpevole: due colpevolezze inesistenti, quella a monte del cognato e dei suoi fratelli ancora tutta da dimostrare, quella a valle, umanamente, giuridicamente e politicamente irrilevante. Siamo al proverbio di cui sopra riveduto e scorretto: “I cognati hanno mangiato uva acerba e i denti dei cognati si sono allegati”. Se volete, possiamo anche dire che le colpe ricadono di cognato in cognato. Non sarà il caso di darci un taglio con questi processi sommari e con queste colpevolizzazioni allargate? Non mi si dica che così facendo si serve la verità. Sono propenso a pensare che con questi falsi ed opportunistici rigorismi si serva il qualunquismo, si contribuisca a gettare indiscriminatamente fango sulla politica ed a fornire splendidi assist ai qualunquisti in cerca d’autore. Sputtana oggi, sputtana domani, mi pare che a puttane rischi di andare la democrazia.

Certo sarebbe opportuno ed auspicabile che chi ricopre cariche pubbliche fosse molto attento a tutti gli eventuali addentellati famigliari, parentali ed amicali. La prudenza non è mai troppa, gli interessi privati possono essere sempre in agguato.  Risulta che Enrico Berlinguer fosse pregiudizialmente contrario alla carriera giornalistica in Rai della figlia Bianca: diranno, vero o no che sia, che ti ho raccomandato e non sarà un bene per nessuno. Scrupoli eccessivi di politici di altro livello etico? Forse sì. Sandro Pertini non voleva nemmeno che sua madre chiedesse la grazia a Mussolini per farlo uscire di prigione. Indro Montanelli, quando giudicava un politico, partiva dalla verifica sulla sua consistenza patrimoniale: non si è arricchito, non ha approfittato della sua carica, è già molto! Marco Travaglio, che si considera un discepolo giornalistico di Montanelli, applica questa procedura in senso assoluto: un politico deve per forza essere corrotto o corruttibile e quindi…

 

I gufi pentastellati e la rondine leghista

C’è un filo che lega la politica degli ultimi venticinque anni e che può effettivamente giustificare la vuota definizione di fine della prima repubblica e nascita della seconda e della terza. Fino all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, bene o male, la politica era riuscita a governare la situazione economica e sociale: in mezzo a contraddizioni ed errori, il primato della politica aveva mantenuto la sua ragion d’essere; la vita del Paese era stata scandita dagli equilibri politici, dalla costituente al centrismo, dal centro-sinistra al compromesso storico, dal pentapartito alla solidarietà nazionale. La progressiva degenerazione dei rapporti tra politica ed affari portò i partiti nel limbo del sistema delle tangenti, giustificato dalla copertura dei costi enormi, che la mediatizzazione del consenso andava via via sempre più imponendo. Dal limbo si cadde nelle fiamme dell’inferno.

Con Silvio Berlusconi gli affari si fecero politica e venne ad abitare in mezzo a noi il conflitto d’interessi fatto sistema o addirittura regime. Dopo l’incantamento e la fascinazione iniziali, la perdita di mordente della politica a favore degli interessi economici privati, di parte, per non dire addirittura personali, ha portato gradualmente alla sfiducia della gente, buttata in pasto all’inevitabile qualunquismo protestatario. La sinistra ha la grave responsabilità di non essere riuscita ad interrompere e invertire la tendenza.  E qui, se proprio vogliamo, finisce la seconda repubblica, sostanzialmente riconducibile al berlusconismo.

Con il movimento cinque stelle (il grillismo) e la nuova Lega (il salvinismo), il qualunquismo si fa politica e viene ad abitare in mezzo a noi l’antipolitica. E, se proprio vogliamo, si tratta della terza repubblica. I problemi vengono impostati e (non) affrontati in chiave radical-barista. Facciamo qualche esempio. Immigrazione: è finita la pacchia per i disperati, se ne tornino al loro paesello e non ci rompano i coglioni. Europa: basta con i poteri forti dell’eurocrazia, riprendiamoci il nostro spazio e creiamoci una via di fuga. Sicurezza: armiamoci e partite. Povertà: diamo in omaggio le bombole di ossigeno a chi non riesce a respirare. Lavoro: un posto per ogni cittadino e ogni cittadino al suo posto e, se qualcuno perde il posto, gli diamo la bombola di ossigeno di cui sopra. Grandi opere: la mangiatoia è finita, si chiudano certi colossali cantieri e prima di aprirne di nuovi ci si pensi dieci volte. Il rosario potrebbe continuare, ma la sostanza del discorso nuovo (?) mi sembra chiara.

Mi soffermo solo un attimo sulle grandi opere. E chi può dire che in passato non siano stati sprecati fondi pubblici per strutture inutili, per cattedrali nel deserto, per foraggiare tizio e caio, per manie di grandezza, per comprare voti, per avere tangenti, etc. etc.? Allora non facciamo più niente? Ci mettiamo sotto il letto, come il marito cornuto e mazziato per schivare gli improperi e le bastonate della moglie? Al reiterato e autoritario invito della moglie ad uscire dal penoso nascondiglio, egli, con un rigurgito di machismo, risponde: «Mi fagh cme no vôja e stag chi!». Non so se il ministro Toninelli, di fronte a Tav e Tap, intenda ficcarsi sotto il letto e se mediti seriamente di restarci o di venirne fuori con intenti politicamente bellicosi per bloccare tutto per il presente e magari anche per il futuro. Avrà certamente gli applausi di chi assimila pregiudizialmente la politica e le sue scelte alla corruzione o alla concussione. E poi?

Il sottosegretario ai Trasporti, Siri, della Lega, replicando alle parole del ministro Toninelli, il quale a tutti coloro che blaterano di Tav ha detto di mettersi l’anima in pace perché la mangiatoia è finita, ha affermato: «I soldi pubblici non si devono sprecare, ma le grandi opere si possono e si debbono fare, pretendendo che non ci siano sprechi. Fare la grande opera non significa alimentare una mangiatoia. Nel contratto di governo c’è scritto che avremmo ridiscusso l’opera, verificando costi e benefici ed è quello che stiamo facendo. Questo non significa uno stop». Un governante leghista che ragiona? Purtroppo una rondine non fa primavera politica e governativa.