Tremate, tremate, gli eroi son tornati

Poco prima di incontrare Salvini, il premier ungherese, Viktor Orban, ha definito “il mio eroe” e “compagno di destino” il ministro italiano dell’Interno. “Sono molto curioso di conoscere la sua personalità: sono un suo grande estimatore e ho alcune esperienze che forse potrei condividere con lui”, ha detto il premier magiaro prima dell’incontro in Prefettura a Milano.

Quando ero anagraficamente giovane (umanamente mi sento ancora tale) partecipavo convintamente alle manifestazioni di piazza riconducibili alla difesa delle idee di sinistra. Poi, strada facendo, il violento inquinamento, lo storico logoramento culturale e la perdita di spinta ideale mi hanno progressivamente allontanato da queste esperienze. Se fossi stato a Milano, non avrei tuttavia esitato a partecipare alla manifestazione di protesta contro questo connubio politicamente subdolo, istituzionalmente scorretto e culturalmente ignobile.

Viktor Orban è su posizioni di destra nazionalista e mette addirittura in discussione la forma di democrazia liberale occidentale, dichiarando la volontà di liberarsi dai dogmi e dall’ideologia occidentale europea. La filosofia politica di Orban riecheggia i risentimenti di quelle che erano una volta le classi contadine e lavoratrici, promuovendo una difesa intransigente della sovranità nazionale e una sfiducia trasparente nei confronti delle istituzioni europee. È descritto come uno dei più stretti alleati di Netanyahu in Europa. I critici di sinistra lo hanno descritto come irredentista, populista di destra, autoritario, autocratico, putiniano, come uomo forte e come dittatore. Ammetto possa esserci un certo accanimento verso questo personaggio, tuttavia qualcosa di vero ci sarà pure e ciò basta e avanza per renderlo un uomo politico estremamente pericoloso.

In effetti, leggendo le note biografiche di questo capo di governo si intravede lo stampo leghista di Salvini: se voleva, con questo incontro rendere l’idea della sua visione politica, c’è riuscito molto bene. Orban lo ha definito un eroe e un compagno di destino: più chiaro di così! Perché un eroe? Cosa significa? Persona che per eccezionali virtù di coraggio e abnegazione s’impone all’ammirazione di tutti? Credo siano, per assurdo, da considerare eroi coloro che lo votano e lo applaudono. Se è così, mi vanto di essere un vigliacco.

Compagno di destino? Se per destino si intende il susseguirsi degli eventi determinato da una forza superiore alla volontà e al potere umani, lascio Orban e Salvini al loro destino. Se invece si intende prefigurare un legame di scopo fra questi due personaggi, Dio ce ne scampi e liberi. “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. “Chi va col lupo impara ad ululare”. Tutto sommato questo trasgressivo rendez vous milanese tra aspiranti “dittatori” può essere utile, anche se non c’è peggior ceco di chi non vuol vedere. Potrebbe costituire anche una sorta di caricatura abbinata: me lo augurerei. Potrebbe essere la goccia che non fa traboccare il vaso, ma che lo riempie di insidie e preoccupazioni: speriamo che in Europa la prendano sul ridere. Ci sarebbero tutti gli elementi per imbastire una gag satirica: mi hanno raccontato la gustosa trama del film “Sono tornato”, la incredibile e snobbata risurrezione di Benito Mussolini. Nessuno crede all’evidenza, tutti pensano si tratti di un bravissimo comico in vena di imitazioni. Mussolini torna a Villa Torlonia e un gruppo di studenti lo scopre a letto. Forse in questi giorni è tornato in double face, a Milano, in prefettura, sotto mentite spoglie. No, erano solo due comici dal destino comune: quello di far ridere…o piangere.

 

 

Non è facile scardinare “la ragion di Chiesa”

Ho letto con attenzione la lettera/denuncia dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, che mi ha confermato nell’idea di fondo che nutro in merito alla gerarchia cattolica ed alla cosiddetta “Chiesa Istituzione”. Il problema non è se papa Bergoglio conoscesse certi fatti e certe responsabilità riguardanti il problema degli abusi sessuali perpetrati dai sacerdoti e coperti a livello di alto clero statunitense e vaticano e non abbia agito tempestivamente, fidandosi magari dei consiglieri, usando troppa prudenza, tergiversando un po’ troppo. La questione è ben più profonda e globale e tocca tutta la struttura apicale centrale e periferica della gerarchia cattolica.

Dalla suddetta circostanziata testimonianza scritta dell’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, al di là della denuncia dell’immoralità della Chiesa e della chiamata in causa di papa Francesco di cui vengono chieste le dimissioni, emerge uno spaccato clericale cattolico a dir poco sconcertante: i rapporti sono impostati e vissuti all’insegna della gestione del potere in senso meramente burocratico. A volte mia sorella Lucia, attenta osservatrice dei rapporti tra Chiesa e politica, si lanciava in questa amara constatazione: la Chiesa ha poco da insegnare alla politica, è inutile che se ne erga a censore, si guardi piuttosto in casa. Il “compiaciuto” quadro tracciato da Viganò è peraltro indirettamente avvalorato dalle dichiarazioni di Josh Shapiro, l’equivalente del ministro della giustizia dello Stato della Pennsylvania, dove sarebbero stati commessi abusi da parte di 300 sacerdoti nei confronti di un migliaio di vittime: «Abbiamo le prove che il Vaticano sapeva e ha coperto gli abusi. Non posso parlare specificatamente di papa Francesco».

Nella pesantissima iniziativa non si riesce tuttavia a capire quanto ci sia di evangelica denuncia, di dispettosa vendetta e di strumentale ostilità verso le novità nell’indirizzo ecclesiale. Il dato impressionante è l’immagine di una gerarchia autoreferenziale e totalmente distaccata dalla fede. Aveva ragione un mio simpatico amico, quando qualche tempo fa, di fronte ai comportamenti curiali, e non solo curiali, di cardinali e vescovi, mi chiese provocatoriamente: «Secondo te, questi signori sapranno il “Padre nostro”?». Dubbio atroce, ma plausibile!

In un clima di tale genere può succedere di tutto, anche l’insabbiamento, il depistaggio e la copertura dei più gravi vizi in materia sessuale e non solo sessuale. È quasi normale che prevalga la “ragion di Chiesa”. E questi signori vorrebbero venirmi ad insegnare come devo comportarmi? No, non posso ascoltarli, mi basta il Vangelo. Don Lorenzo Milani mette tutti a tacere in merito ai rapporti con la Chiesa: «E’ la croce che porto per godere dei sacramenti. Non mi ribellerò mai alla Chiesa perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati, e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa».

Mio padre, di ritorno dalla toccante visita al sacrario di Redipuglia, si illudeva di convertire tutti al pacifismo, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano scherzare con nuovi impulsi bellicosi. «A chi gh’à vója ‘d fär dil guéri, bizògnariss portärol a Redipuglia: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre. Simili modo, se si vuol far perdere la fede a qualcuno, credo sia sufficiente portarlo in visita nelle stanze vaticane, non per ammirare gli affreschi pittorici, ma per vedere gli intrighi di palazzo sempre al “disordine del giorno”.

Don Andrea Gallo raccontava, con la sua ineguagliabile verve, una barzelletta sferzante: «Voi sapete che nella nostra Santa Madre Chiesa, uno dei dogmi più importanti è la Santissima Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’amore e la comunione vanno in tutto il mondo, e si espandono. Lo Spirito Santo dice: “Andiamo a farci un giro. Io sono affascinato dall’Africa”.  Il Padre risponde: “Be’, io andrò a vedere il paradiso delle Seychelles. Perché non capisco come mai i miei figli e figlie hanno il paradiso in terra”. Gesù ascolta e non risponde. Allora gli altri due: “Tu non vai?” Gesù: “Io ci son già stato duemila anni fa”. “Non ci farai mica far la figura che noi andiamo e tu rimani”, gli dicono in coro il Padre e lo Spirito Santo. “Va be’, allora vado anch’io”. “Dove vai?” “A Roma”. “Sì, ma a Roma dove vai?” “Vado in Vaticano”. “In Vaticano?”, dicono increduli il Padre e lo Spirito Santo. Gesù risponde: “Eh sì, non ci sono mai stato”».

Forse anche Bergoglio, nei pochi anni vissuti da pontefice e nei precedenti vissuti da vescovo e cardinale, avrà accumulato responsabilità non indifferenti. Questo non significa che debba togliere il disturbo. Con questo criterio la Chiesa non sarebbe mai partita: gli undici non erano forse dei vigliacchetti qualsiasi e Pietro non era un voltagabbana? Seppero redimersi, convertirsi e purificarsi a caro prezzo. Credo che papa Francesco stia cercando di farlo. Rispettiamo il suo travaglio interiore e il suo coraggioso tentativo di voltare pagina (è la base sostanziale della sua nomina a pontefice). Teniamocelo stretto!

Dei suoi predecessori ho una mia originale idea riguardo al loro atteggiamento verso la Curia e gli intrighi vaticani: Paolo VI soffriva, si macerava e poi si arrendeva all’impossibilità del cambiamento; Giovanni Paolo I somatizzò il dramma al punto da morirne in pochi giorni; Giovanni Paolo II se ne fregò altamente, andò per la sua strada, si illuse di cavare anche un po’ di sangue dalle rape; Benedetto XVI ci rimase dentro alla grande e gettò opportunamente la spugna. Quando constato come tanti papi siano diventati o stiano diventando Santi, mi viene qualche dubbio. Pur con tutto il rispetto, temo che nell’aldilà troveremo parecchie novità, riguardo alla nostra vita e a quella della Chiesa.

 

 

 

 

 

I ladri di Pisa litigheranno di notte

Come si suole dire, le disgrazie non vengono mai da sole e infatti sono drasticamente convinto che l’attuale governo segni proprio la combinazione tra due sciagure politiche. A volte occorre scegliere il male minore: nel caso dell’operazione giallo-verde, non saprei sinceramente a quale parte affidarmi. Cosa accomuna l’attuale Lega al Movimento Cinque Stelle? Tutto e niente. La smania di cavalcare la sfiducia e la protesta, mettendo ad esse la sella del populismo e/o del sovranismo, rappresenta il collante tattico di due forze politiche, che aspirano ad egemonizzare il consenso derivante dalla progressiva perdita popolare di fiducia nella politica e, prima ancora, il progressivo affievolimento della coscienza individuale e collettiva. Un simile disegno può tatticamente reggere per poco tempo, infatti strategicamente, prima o poi, emergeranno le contraddizioni e i ladri di Pisa finiranno col litigare di giorno, ma anche di notte.

Faccio un esempio. L’anti-immigrazione non regge dal punto di vista umanitario (lo stiamo vedendo con la vicenda della nave Diciotti), non tiene dal punto di vista razionale (non si può risolvere un’emorragia solo col cotone emostatico), non può costituire un dato politico (una qualche soluzione condivisa al problema  deve essere trovata), non rappresenta il punto d’attacco dell’anti-europeismo (l’Ue ha frecce molto appuntite al suo arco), non consente alleanze a livello internazionale (se ognuno guarda in casa propria, le intese tra Stati non saranno mai possibili). La linea dura contro l’immigrazione è solo una pretestuosa illusione spinta al limite del razzismo. Questa impostazione può andar bene per imporre a breve la dittatura leghista, ma non può pagare il conto grillino ben più complesso ed articolato.

Salvini su questo tema gioca all’attacco, i pentastellati giocano a fare melina: dal momento che sono parte della stessa squadra e non hanno neanche uno straccio di allenatore che tenti di impostare un modulo di gioco comune, prima o poi lo scontro dovrà avvenire. Un’avvisaglia c’è nell’affondo giudiziario con tanto di indagine a carico di Salvini per il suo comportamento nella vicenda Diciotti. Come può  il M5S  far finta di niente con un ministro che sfida la magistratura dicendo oltre tutto di avere dalla propria parte 60 milioni di italiani (meno uno, il sottoscritto…). Come la mette con la pregiudiziale giustizialista, che costituisce un presupposto ideologico del movimento grillino condito in salsa travagliana? Come può Luigi Di Maio cercare la pagliuzza nell’occhio calendiano della illegittimità della procedura per il salvataggio dell’Ilva e non vedere la trave nell’occhio salviniano della violazione costituzionale nel trattamento degli immigrati? Passi per le travi raggiane e per quelle di grillini a denominazione di origine non controllata. Ma su Salvini non si può. Eppure le acrobazie verbali dimaiane sembrano salvare la capra governativa e i cavoli del codice etico. Marco Travaglio consiglia di mollare alla svelta il naufrago fra i naufraghi, prima che tiri sotto quanti gli sono legati. Il problema è che nessuno sa nuotare e tutti sono solo capaci di irridere ai bagnini passati. E Beppe Grillo cosa ne pensa? Risolverà tutto Casaleggio junior?

Qualcuno sostiene che il redde rationem tra i protagonisti di questo ignobile connubio sia l’appuntamento elettorale europeo del prossimo anno. Può darsi. Il problema però è se questi incompetenti in mala fede, prima di sfasciare la loro alleanza, sfasceranno in tutto o in parte l’Italia. “Sento l’orma dei passi spietati” di chi ritiene un niente ciò che stanno combinando rispetto ai disastri precedenti. Di errori nel passato ne sono stati fatti tanti, ma guardando la storia possiamo collocarli e contestualizzarli in un cammino di progresso e di pace. Gli errori gravissimi che si stanno profilando sono invece distruttivi dei presupposti su cui abbiamo costruito il nostro cammino: un conto è far crollare una parete divisoria, un conto è abbattere i muri maestri o addirittura distruggere le fondamenta.

Una ciambella cattolica nel mare razzista

La penosa situazione della nave Diciotti l’ha sbloccata la Cei, vale a dire la gerarchia cattolica competente per territorio. Sono purtroppo sicuro che i vescovi italiani non interpretino l’opinione prevalente dei cattolici, in maggioranza imprigionati nell’accattivante palude leghista. Un vero peccato: una volta tanto che la gerarchia spinge decisamente e concretamente in avanti, a frenare ci pensano i cattolici di base. Lo Spirito Santo ha certamente del “lavoro in bottega”.

Se da una parte si sostiene giustamente che lo Stato italiano non è la Caritas e che quindi non deve necessariamente farsi carico di accogliere evangelicamente tutto e tutti a prescindere dalle condizioni politico-sociali, dall’altra bisogna ammettere che non è mestiere di Chiesa quello di sostituirsi allo Stato inadempiente o recalcitrante di fronte agli immigrati richiedenti asilo e aiuto. Stiamo assistendo ad una sorta di inversione di ruoli che fa riflettere.

Ho tirato un bel respiro di sollievo quando i vescovi (con la regia papale) hanno aperto i loro cancelli a decine di persone in cerca di rifugio: finalmente un gesto significativo, che previene la critica verso la facilità a predicare e la difficoltà a razzolare. Questa volta la Chiesa ha predicato bene e razzolato ancor meglio. Il papa è riuscito persino a farsi dare un ringraziamento in natura dall’Irlanda, la quale si è resa disponibile ad accogliere un certo numero di immigrati provenienti dalla Diciotti, in balia di Salvini dopo esserlo stati delle onde (non so cosa sia meglio). Un autentico capolavoro di Bergoglio: si è presentato in Irlanda con un enorme fardello di colpe (pedofilia), ha lavato i panni sporchi davanti ai cristiani irlandesi, ha chiesto perdono a tutti, ha voltato pagina, si è reso credibile al punto che l’Irlanda gli ha risposto “cuori” con un’iniziativa di buona volontà verso gli immigrati, ha impartito una lezione di stile evangelico insistendo sul concetto di accoglienza strettamente legato all’integrazione (dovrebbe essere la perfetta combinazione concettuale e pragmatica della soluzione al problema dell’immigrazione).

La Democrazia Cristiana ha il merito storico di avere corretto, in senso decisamente laico e lentamente progressista, ed in chiave democratica, la tendenza conservatrice e reazionaria del cattolicesimo italiano, pretestuosamente motivata dalla diga anti-comunista. Il cattolicesimo italiano è vedovo della DC, se ne è affrettatamente sbarazzato sull’onda di tangentopoli ed è tuttora alla ricerca di punti di riferimento politici seri. Tocca paradossalmente alla gerarchia contenere le spinte retrograde e indicare vie d’uscita politica alla crisi ideale e valoriale imperante. Sarà facile applaudire la Cei per l’accoglienza agli immigrati, ben più arduo sarà esprimere opinioni e voti che allontanino il Paese dalla deriva in cui si è ficcato, sballottato tra i cavalloni leghisti e le sabbie mobili grilline.

Non è detto poi che la gerarchia cattolica sia in grado di mantenere la barra dritta e di prestare una bussola affidabile ai cristiani sul fronte politico. Un autorevole esponente parmense del cosiddetto cattolicesimo democratico, allorché arrivò a Parma il vescovo Benito Cocchi, con tanto di biglietto da visita dell’impegno mattutino ad accudire anziani, mi sconvolse facendomi presente come la storia della Chiesa sia piena di personaggi caritatevolmente ineccepibili ed evangelicamente fulgidi, politicamente conservatori o addirittura reazionari. Non fu il caso del vescovo Cocchi, messo in crisi da ben altre contraddizioni diocesane. Non sono in grado di valutare se la suddetta analisi storica sia attendibile, ma una cosa è certa: religione e politica non sono la stessa cosa e coniugarle non è facile. Tacere non va bene, intromettersi neppure, forse questa volta la Cei l’ha imbroccata talmente bene che temo possa essere impallinata dal fuoco amico.

 

 

 

Un diluvio a prova di escort

“Se fossi sottoposto a impeachment, penso che i mercati crollerebbero. Non so come qualcuno possa essere messo in stato di accusa quando sta facendo un gran lavoro”. Così il presidente Usa Trump, in un’intervista a Fox News, a proposito dell’ipotesi circolata dopo che il suo ex legale Michael Cohen ha detto di aver violato i finanziamenti elettorali prima delle elezioni del 2016, pagando due donne – su richiesta di Trump – perché tacessero le loro relazioni con lo stesso Trump.

Non mi interessa l’autodifesa del presidente americano: «I pagamenti fatti non sono una violazione della legge che finanzia la campagna elettorale. Il denaro era mio, non della campagna elettorale». In questa materia se la vedranno le istituzioni statunitensi, così come a livello etico se la vedrà il popolo americano fino ad ora così rigoroso e quasi bigotto ed improvvisamente così largo di manica.

“Dopo di me il diluvio” sembra avvertire Trump, riferendosi all’eventualità che una sua messa in stato d’accusa possa far crollare i mercati finanziari. In prima battuta direi che potrebbe avere ragione. La sua presidenza infatti ha due riferimenti sociali ben precisi: i ricchi, vale a dire i potenti del mondo economico-finanziario di cui Trump cura attentamente gli interessi; i poveri, vale a dire gli sfigati d’America, che si sentono rasserenati e tranquillizzati dal suo protezionismo e dalla sua demagogia, nonché divertiti dalle sue scorribande sessuali. Si tratta dello storico percorso compiuto, più o meno, da tutti i dittatori: rassicurare il potere economico alla ricerca della sponda politica più conveniente e illudere il sotto-proletariato in balia delle paure. Trump è un dittatore? Formalmente no, sostanzialmente sì. Anche la sua politica estera lo dimostra: un colpo al cerchio e uno alla botte, l’attacco ideologico a cui fa seguito il compromesso affaristico, il “divide et impera” sistematicamente adottato, lo “spadroneggiamento” fregoliano della scena mondiale, “l’istupidimento” totale ottenuto con i colpi di teatro assestati sul capo dei guardoni della politica.

Fin dove e fin quando questo castello trumpiano reggerà? Allo storico e paradossale “molti nemici molto onore” si sostituisce un ancor più cinico “tutti nemici e tutti amici”: la scacchiera del presidente americano è continuamente scombussolata, non ci si capisce niente, lui, invece, ci capisce benissimo assieme ai poteri forti che lo sostengono (quelli che qualcuno pensava fossero in difficoltà con la schizofrenica nuova presidenza), mentre chi lo ha votato insiste a considerarlo comunque una risorsa per “protezionare” l’economia e “sglobalizzare” il mondo.

Chi potrà chiarire l’equivoco e sgonfiare il pallone che minacciosamente ci sovrasta? Qualcuno ritiene che la potenza americana consenta di fare comunque il bello e il cattivo tempo. Non ne sarei così sicuro. Il potere non è monopolizzato dagli Usa, esiste una sorta di oligopolio imperfetto, foriero di ulteriori pericoli, ma anche baluardo allo strapotere statunitense. È una guerra anti-democratica, giocata sull’orlo della catastrofe, in cui è difficile schierarsi, dove le storiche alleanze stanno saltando come birilli, dove molti rischiano di rimanere vittime del gioco delle parti.

L’Europa sarebbe l’unico protagonista in grado di saldare la pragmatica tattica difensiva dei propri interessi economici con la storica strategia della, seppur minima, fedeltà agli ideali democratici dell’occidente. Troppo divisa, troppo priva di leadership, troppo grande per essere grande. E allora?  A volte basta il granellino di sabbia per mettere in crisi tutta la macchina.

Durante i giorni delle gravi difficoltà clintoniane conseguenti alla nota vicenda a luci rosse con la stagista Monica Lewinsky, un simpatico amico mi disse: «Certo che gli Usa sono caduti in basso: John Kennedy si poteva permettere di fare sesso con Marilyn Monroe, il simbolo del sesso; Bill Clinton si è fatto sputtanare e ricattare da una modesta e grassoccia furbacchiona…Il mondo va verso la catastrofe…». Non resta che sperare nella pornostar Stormy Daniels e nell’ex coniglietta di Playboy Karen McDougal, ingaggiate dall’avvocato di Trump, e nella loro capacità di infierire sullo spadroneggiante tycoon/president.  Cherchez la femme o, meglio, cherchez le femmes. Mi vergogno di simili speranze, ma quando si è disperati ci si attacca a quanto capita a tiro, fossero anche le sontuose tette di due escort di lusso, che, oltre tutto, possono contare sulla mia pregiudiziale simpatia.

WC Italia

Il filosofo Massimo Cacciari, come al solito, non le manda a dire. Di fronte alla vicenda della nave costiera italiana Diciotti, che, dopo aver salvato 177 migranti alla deriva, non riesce a sbarcarli in un porto per la sciagurata impuntatura del governo e dei suoi ministri (in)competenti (soprattutto quello degli Interni, Matteo Salvini), Cacciari ha dichiarato a voce alta, ha quasi gridato in televisione: «Mi vergogno di questo paese. Chi non si indigna è un pezzo di merda». Per quanto occorrer possa, mi associo.

In un certo senso gli ha fatto eco Gianfranco Miccichè, presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, esponente di Forza Italia (a dimostrazione che siamo in territorio pre-politico), il quale, dopo aver fatto visita alla nave e alle persone in essa pazzamente trattenute, rivolto a Salvini, ha detto: «Non sei razzista, sei solo stronzo». Per poi rincarare la dose: «Se ti chiedo scusa dopo che ti ho detto stronzo, fai scendere le 11 povere donne dalla Diciotti?». Il governo italiano ridotto a gabinetto di un asilo infantile, il popolo italiano ridotto a fogna in cui galleggiano…

Non ricordo chi, nei giorni scorsi, dopo essere salito a bordo della nave costiera, abbia giustamente detto come un conto sia parlare di immigrati e ben altra questione sia toccare con mano la condizione sub-umana in cui vengono tenuti (altro che vedere le partite su Sky…) e da cui provengono.  All’Unione Europea non par vero di squalificare il nostro paese, rispondendo picche ai ricatti salviniani ed alle velleitarie avance contiane. Morale della favola: un’Italia isolata, sgovernata, abbandonata al peggior menefreghismo, succube di inquietanti e squallidi personaggi, incapace di ragionare, con la coscienza sporcata da vicende inqualificabili di pre o post razzismo.

Ricordo come nei giorni successivi allo tsunami del dicembre 2004, che procurò una vera e propria catastrofe nell’oceano indiano, alcuni italiani si rammaricavano per le loro vacanze messe in discussione, al punto da far dire all’allora ministro degli esteri Gianfranco Fini, non certo un fior fiore di personaggio per sensibilità e socialità: «Ci vuole un bel pelo sullo stomaco a preoccuparsi delle proprie vacanze di fronte ad un simile sconvolgente evento…». Non so cosa pensino i vacanzieri italiani della vicenda della nave Diciotti e dei disgraziati in essa (quasi) sequestrati. Mi auguro che almeno, come ha dichiarato Cacciari, trovino un rigurgito di sensibilità, vadano a rispolverare nella loro coscienza un minimo di coraggio per indignarsi e protestare.

Ricordo che mio padre, con la sua solita e sarcastica verve critica, di fronte agli insistenti messaggi statistici sulla morte di un bambino per fame ad ogni nostro respiro, si chiedeva: «E mi alóra co’ dovrissja fär? Lasär lì ‘d tirär al fiè?». Lo diceva per mettere fine ai pietismi di maniera, che non servono a nulla e vanno molto di moda. Ma qui il discorso è diverso: non è una pubblicità volta a impietosire, è molto concreto, è politico, è umano, ci riguarda direttamente e da vicino, non ci può lasciare indifferenti. La vicenda della Diciotti mette in evidenza clamorosamente la paradossale contraddizione di una nave militare italiana, che fa il proprio dovere salvando vite umane e non riesce a sbarcare il suo “carico” sul territorio nazionale. Perché? Perché una specie di ministro vuol giocare a battaglia navale sulla pelle di decine e decine di persone in pericolo di vita. E molti, dopo averlo votato, lo applaudono, gli danno ragione, lo godono. Non smettono nemmeno  figurativamente di respirare, come diceva mio padre, se ne fregano altamente e non sono capaci non dico di un gesto di pietà, ma neanche di un piccolo pensiero di solidarietà umana. C’è una parte d’Italia, che sulla insensata scia grillo-leghista, sta mettendosi la coscienza sotto i piedi, con l’aberrante scusa di gridare alla coscienza dei politici precedenti. Se non se ne accorgono, fanno pena e devono darsi una svegliata; se, come temo, sono in mala fede, li definirei con le stesse parole di Cacciari e Miccichè: sono  stronzi!

Vita nuova (un tempo), Chiesa vecchia (sempre)

Non è una notizia clamorosa e nemmeno di interesse generale, ma per me è un brutto colpo. Il settimanale diocesano “Vita nuova” chiude i battenti. E chi se ne frega, penserà qualcuno. Cosa vuoi che sia in mezzo a ponti che crollano, a terremoti impellenti, a sciagure continue. Un mio carissimo amico sosteneva che quando i problemi si fanno drammatici è il momento di attaccarsi alla cultura. Con Vita nuova se ne va un pezzetto di cultura, storia e vita cristiana della nostra città. Era nata e cresciuta come voce libera e di dialogo, come finestra che la Chiesa di Parma osava criticamente aprire. Ne sono stato testimone e partecipe nella fase post-conciliare, ne ho conosciuto direttamente alcuni fondamentali protagonisti, ne ho apprezzato la storia dei fondatori e di quanti hanno ostinatamente tenuto acceso questa fiammella. Da tempo la spinta si era affievolita e questo giornale vivacchiava tra la solita endemica indifferenza della gente e la snaturante pedissequa integrazione negli schemi clericali: per dirla fuori dai denti, si era progressivamente trasformata in una sorta di lussuoso, ma insignificante, bollettino diocesano.

Il fatto mi ha colto di sorpresa. Ammetto che l’aspetto sindacale di questa decisione con il frettoloso licenziamento di alcuni dipendenti mi amareggia ancor di più, ma il discorso per me è molto più profondo. Anche il ripiegamento editoriale sul supplemento periodico ad Avvenire non è che lo sbocco moderno (?) agli antichi vizi del disimpegno e del quieto vivere. È un vero peccato mettere in cantina una esperienza ed un patrimonio, relegandolo alle nostalgie di chi ci ha creduto e lavorato nel tempo. Faccio un solo nome, che ho nel cuore, quello di Egisto Rinaldi: quanto impegno, quanta ostinata convinzione ha profuso al servizio di questo strumento!

Non è un caso se questa storia finisce così malamente. Da una parte c’è la responsabilità di una gerarchia locale flaccida e ortodossa, totalmente incapace di spunti ed iniziative minimamente critiche. Dall’altra parte un Popolo di Dio clericaleggiante e perbenista, con la solita puzza sotto il naso, capace di mormorare, ma totalmente incapace di agire. Forse nella storia di Vita Nuova c’è tutto il bene e il male di Parma, di questa strana città, capace di qualche isolato acuto, ma schiacciata sotto la monotonia culturale.

Non intendo in questa sede tornare sulla mia esperienza personale all’interno di questo giornale: chi vuole può documentarsi girovagando nel mio sito, tra i miei scritti e i miei ricordi. Resta il rammarico di tante forze ed esperienze sprecate. Sprecate? Forse mi sbaglio! Tutto serve, tutto fa brodo, in cui rischia tuttavia di scuocere la pasta della testimonianza cristiana. In conclusione, con un nodo alla gola, mi chiedo: chi avrà il coraggio di fare certe battaglie in nome della cristianità parmense, come seppe fare Vita nuova in tempi più o meno antichi? Mancherà solo uno strumento o mancherà la voglia ed il coraggio? A volte serve toccare il fondo e sicuramente la triste fine di questo giornale è una brutta pagina attuale, che non cancellerà le gloriose pagine del passato. Auguri!

 

Al bonètt ‘d Salvini

Era molto simpatica ed “anarchica” la battuta con cui mio padre fucilava il delirio di onnipotenza dall’alto al basso e dal basso all’alto: “A un òmm, anca al pu bräv dal mónd, a t’ ghe mètt in testa un bonètt al dventa un stuppid”. Questo il miglior incipit per rivisitare e collocare la sicumera ostentata a più non posso da Matteo Salvini nell’aneddotica personale e familiare.

Siamo a livello di una sparata al giorno che leva il buonsenso di torno. Il presidente della Camera, Roberto Fico, ha osato esprimere il proprio parere riguardo al trattamento degli immigrati da giorni bloccati sulla nave costiera Diciotti: sarebbe il caso di farli scendere e soccorrerli, poi si potrà aprire la trattativa con la UE su chi e come debba accoglierli. Non ci voleva una mente eccelsa per arrivare a tanto, ma in questo momento il più logico e normale dei ragionamenti dà fastidio. Salvini, fautore della linea dura ante litteram, ha liquidato il presidente della Camera, incollandolo al muro come una pelle di Fico, vale a dire consigliandogli bellamente di fare il suo mestiere e di non disturbare il ministro competente e il governo. Penso che l’obiettivo in realtà fosse molto più alto in grado: ha parlato a nuora perché suocera intenda, si è cioè rivolto seccamente a Fico per avvertire il presidente della Repubblica, se mai avesse intenzione di “intromettersi” e financo il premier Conte, se volesse ripetere il bel gesto fatto in altra clamorosa occasione.

Secondo la distorta mentalità salviniana nel quadro politico-istituzionale esiste lui e il popolo bue, che lo sta ad ascoltare ed ammirare. Umberto Bossi un tempo voleva pulirsi il sedere con il tricolore, ora, di bene in meglio, Salvini se lo vuol pulire con la Carta Costituzionale, che tuttavia potrebbe risultare piuttosto ruvida per il suo stizzoso deretano. Tirare la corda può essere assai pericoloso. Mio padre si lasciava andare a sintetizzare la parabola storica di Benito Mussolini, usando questa colorita immagine: «L’ à pisè cóntra vént…». L’attuale ministro degli Interni non è lontano da questa tragicomica prospettiva.

L’auto-incensazione e il culto della personalità sono atteggiamenti tipici del politico vocato alla dittatura: nel caso di Salvini si tratterebbe di un piccolo dittatore, di un dittatorello da strapazzo, non per questo meno pericoloso. Ogni volta che lo ascolto, l’attenzione mediatica infatti non gli manca di certo, vedo in lui una sorta di parodia del più vuoto e bieco decisionismo politico ed il pensare che i miei connazionali siano infatuati di un simile personaggio francamente mi deprime. E questo signore sputa sentenze a destra e manca, si permette di insolentire le massime cariche dello Stato: chi non è con lui è contro di lui. L’Europa è la sua sputacchiera, l’Italia l’orto in cui coltivare le verze da “sbragare”, il Parlamento un inciampo costituzionale, il Capo dello Stato l’unico e vero ostacolo al suo rapporto con il popolo.

Come ho già avuto modo di ricordare (repetita iuvant), da ragazzo organizzai una squadretta di quartiere per partecipare ad un torneo calcistico parrocchiale: una frettolosa ed assurda compagine. Fummo i primi ad entrare in campo, inaugurando il torneo. Quando fu il momento di scegliere il capitano, mi candidai presuntuosamente (come giocatore facevo letteralmente ridere, ma la squadretta l’avevo costruita io e quindi nessuno ebbe il coraggio di contestare la mia leadership). Fu un disastro: dopo un breve vantaggio, prendemmo una botta di goal da non credere. La squadra si era fatta compatire e io, come capitano, ero diventato lo zimbello del quartiere. Mi ci volle del tempo a recuperare un minimo di dignità.

 

 

 

 

Negoziazioni europee alle grida

Ogni volta che una nave carica di migranti si avvicina alle coste italiane, da qualche mese a questa parte, scoppia regolarmente il casino. Se si tratta di una nave ong scatta la diffidenza, se si parla di una nave riconducibile alle flotte nazionali inizia la diatriba sulla competenza all’accoglienza. Si gioca a battaglia navale con queste imbarcazioni sballottate di qui e di là, piene di gente sofferente e stremata. Lo “spettacolo” è inqualificabile e insopportabile, anche perché dietro queste discussioni si nasconde un amaro rigurgito razzista, in cui stiamo ricadendo.

Bisogna però essere sinceri. Fino ad oggi l’atteggiamento assai ragionevole e disponibile dell’Italia non aveva sortito alcun effetto sulla Ue e sui suoi Stati-membro, se si esclude la nomination al premio Nobel per la pace espressa più volte dal presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker. Più volte i precedenti governi avevano chiesto collaborazione ed aiuto. Si era arrivati anche a stipulare patti per spartire la poco appetibile torta dei disgraziati migranti: nessuno li ha rispettati e l’Italia si è trovata sola, alle prese con un flusso problematico da gestire.  Il ministro Minniti, a cui va riconosciuto coraggio, impegno e capacità politica nei rapporti internazionali, ha fatto giustamente la mossa del cavallo, andando a trattare direttamente con i Paesi di origine e di transito degli immigrati, ottenendo risultati apprezzabili sul piano quantitativo anche se discutibili dal punto di vista umanitario e di cui l’attuale governo si fa vanagloriosamente bello.

C’è voluta l’urlante demagogia leghista e il provocante decisionismo salviniano e toninelliano per smuovere le acque a livello europeo e mettere tutti di fronte alle loro responsabilità. L’atteggiamento viscido e opportunistico della Ue ha avvalorato l’idea che per essere rispettati occorra fare casino. Non condivido affatto questa recente ed aggressiva tattica italiana tattica, che può dare l’illusione di qualche risultato immediato, ma che peggiora la a situazione nell’ambito complessivo dei nostri rapporti con la UE. Qualcuno è arrivato a insinuare che i precedenti governi, a guida PD, tenessero un atteggiamento morbido sul problema immigrati per ottenere qualche contropartita a livello finanziario in materia di bilancio e debito pubblico. Non credo a queste favole giallo-verdi, anche se la nostra posizione nella UE non può essere impostata e gestita a compartimenti stagni e quindi non mi scandalizzerei affatto se l’Italia avesse ottenuto qualche risultato sui tavoli economici, avvalendosi anche dell’impegno profuso nell’accoglienza agli immigrati.

Attenzione pertanto a chi fa la voce grossa e tiene atteggiamenti durissimi sul fronte immigrazione: voglio proprio vedere quanto questa voce si farà flebile allorché si dovranno trattare i vincoli di bilancio e il rispetto dei parametri finanziari. A meno che non si voglia giocare al ricatto, facendo continuamente balenare l’idea di una italexit. Ci penserebbero i mercati a darci una regolata, cosa peraltro che sta già in parte avvenendo. Secondo un celebre ed arguto aforisma degasperiano, un politico guarda alle prossime elezioni, mentre uno statista guarda alla prossima generazione. Mi sembra che il parterre italiano non abbondi di statisti. Se tuttavia può funzionare il giochino politicante con gli elettori italiani, non penso funzionerà con l’establishment europeo, ma nemmeno con gli elettori dei partner europei. Forse si possono contrattare i voti alle grida dentro i nostri confini nazionali, ma a Bruxelles le nostre grida rischiano di diventare urla strazianti o peggio ancora, sussurri impercettibili.

Il sesso, se non è donato, rischia di essere rubato

Ho letto tutto d’un fiato, con emozione, convinzione ed apprensione, il testo integrale della lettera al Popolo di Dio, scritta da papa Francesco sullo sconcertante e delicato tema riguardanti gli abusi sessuali su minori e persone indifese, perpetrati da sacerdoti nel buio pesto di un passato, che sta venendo sempre più a galla. Posso immaginare con quanta sofferenza Bergoglio avrà deciso di affrontare questo argomento: non tanto quella di constatare il marciume esistente a livello clericale, ma soprattutto e innanzitutto quella di immedesimarsi nelle tante persone colpite da simili comportamenti. Devo ammettere che ogni resistenza è stata superata, che la vergogna è stata trasformata e metabolizzata in dolore, pentimento e conversione per l’intera comunità ecclesiale, dopo che ogni tentazione a sminuire o coprire è stata definitivamente vinta.

Il papa riconosce inesorabilmente il profondo tradimento evangelico: «Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli». E dopo l’accusa del peccato ecco l’impegno alla conversione: «Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore, che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso».

Accolgo con senso di appartenenza e di responsabilità l’appello a condividere il cammino di revisione e conversione di vita. Desidererei tanto però che si facesse un ulteriore passo avanti, riconoscendo come la causa scatenante  di questi diffusi ed abnormi comportamenti sia da individuare anche in un approccio sbagliato al discorso sessuale, di cui siamo stati  tutti, come popolo di Dio, più o meno vittime: il sesso vissuto come pericolo da evitare e non come dono da accogliere; la donna, con il suo fascino fisico e psicologico, vista come diavolo tentatore da esorcizzare; l’educazione religiosa piena zeppa di tabù e di colpevolizzazioni; la strada verso il sacerdozio lastricata di assurde proibizioni e costrizioni; l’obbligo del celibato imposto in senso negativo ed oppressivo; l’omosessualità combattuta ai limiti dell’omofobia, salvo quasi sopportarla nel nascondimento border line; i comandamenti compendiati e sintetizzati nel sesto “non commettere atti impuri”, fino a farne una specie di complesso propedeutico ad una sessualità sbagliata e fuorviata.

Il toccasana non è il superamento tout court del celibato sacerdotale, ma nemmeno l’insistenza a mantenere un obbligo che può comunque favorire una sessualità compressa ed equivoca, scantonante talora in sfoghi di perversione e di trasgressione contro natura. Tornare al Vangelo credo significhi anche prendere atto come Gesù non abbia insistito su precetti morali riguardanti la vita sessuale, ma abbia considerato il sesso come dono da inquadrare e vivere in un contesto di amore. Papa Francesco su questa problematica parte in quarta: non si sente di giudicare gli omosessuali, si candida a somministrare il Battesimo al figlio di una ragazza-madre, sostiene che la camera da letto dei coniugi non è assimilabile ad una conigliera riproduttiva, etc. etc. Poi, quando si arriva al dunque, scala le marce e frena, spiazzando un po’ tutti.

«Il sesso è anche un piacere. Fisico, intendo. E non me ne vergogno. Come prete non posso praticare la scelta del sesso, ma immaginarlo almeno un po’ praticato da altri, mi rende l’animo più gaudente e allegro» (Don Andrea Gallo, testamento di un profeta). A parte che se un prete praticasse sesso in modo “serio”, non avrei niente da eccepire (anzi…), non pretendo che papa Francesco esprima simili provocatori concetti, anche se ne sarei enormemente soddisfatto. Capisco la prudenza, ma fin quando non diventi reticenza. La stupenda lettera al Popolo di Dio, di cui consiglio caldamente la lettura, non è certo reticente, ma rimane, in un certo senso, a parlare ad intra, sinceramente e coraggiosamente, di sesso “rubato”, mentre forse occorrerebbe anche parlare in campo aperto e senza alcun ritegno di sesso “donato”.