La brezza Obama

Nella mia vita ho incrociato parecchi enti, in cui ho lavorato o con cui ho avuto rapporti di vario tipo, avendo necessità e opportunità di confrontarmi con i loro presidenti. Ebbene, una strana costante è stata quella di incontrare parecchie difficoltà, a volte quasi drammatiche, con i presidenti in carica, arrivando anche allo scontro fino alle estreme conseguenze della rottura. Mentre trovavo tali e tanti problemi nei rapporti con la dirigenza in sella, scoprivo di essere in perfetta sintonia con i predecessori. Purtroppo era tardi, ero fuori tempo massimo e questo feeling di ritorno da una parte mi consolava, ma dall’altra mi arrecava ulteriore rincrescimento e rimpianto.

Di questo strano destino esistono senz’altro cause storiche e psicologiche, che non ho mai sufficientemente indagato e approfondito, preferendo chiudermi in una sorta di masochistica autoflagellazione culturale. Il tempo è inesorabilmente galantuomo o cinicamente menefreghista? Nella prossima vita vedrò di rimediare… Fatto sta che in questi giorni l’inghippo culturale si è ripetuto. Per quanto può riguardarmi mi sento profondamente vedovo della presidenza di Barak Obama e proporzionalmente separato da quella di Donald Trump. Ho tanta nostalgia del passato: non solo lo rivaluto, come è normale che avvenga, ma lo rimpiango con tutte le mie residue forze. Il fascino dell’ex mi intriga assai.

Ma veniamo a quanto affermato in questi giorni da Barak Obama, tornato in campo invitando i giovani ad andare a votare nelle elezioni americane di mid-term del prossimo novembre: “La posta in gioco è alta e le conseguenze dello starsene da parte si fanno più grame”. Obama ha affermato che quello in corso è un momento davvero diverso da quanto visto fino ad ora in America. Ha però sottolineato che i timori per la democrazia non sono iniziati con Trump. Il tycoon convertito alla politica “sta solo sfruttando il risentimento nei confronti dei politici, che c’è da anni”. L’ex presidente ha proseguito: “Lo status quo spinge in senso contrario al progresso. A volte questo cambiamento arriva da persone, che in maniera genuina, anche se sbagliata, temono il cambiamento. Più spesso è creato da persone potenti e privilegiate che vogliono tenerci divisi, arrabbiati e cinici. Perché questo li aiuta a mantenere lo status quo, a conservare il loro potere e i loro privilegi. E può capitare di crescere in una di queste fasi. Tutto questo non è iniziato con Donald Trump: lui è un sintomo, non la causa”.

Mi sono sentito rasserenato e rinfrancato. Non so quanto effetto avranno le parole di Obama. Trump si è affrettato a commentare di essersi addormentato ascoltandole. Lo capisco! Probabilmente anche i giovani americani faranno fatica a mettersi in sintonia con esse.

In Italia i sondaggi danno in rapida salita i consensi alla Lega: possibile? Possibilissimo. Stanno sfruttando il risentimento nei confronti della politica, anche da parte di categorie che non avrebbero motivi seri al riguardo. Anzi…Pensiamo agli agricoltori, a tutti gli aiuti da essi ricevuti, all’attenzione riservata ai loro problemi. Niente: tutti stupidi e tutti ladri. Non ci sto! Dagli Usa è sempre arrivato un vento che, volenti o nolenti, ci ha coinvolto. Speriamo che, dopo il ciclone Trump, ritorni la brezza Obama: per l’Italia, per l’Europa e per il mondo.  Sarò un illuso, ma ci spero.

Il più bel Fico del bigoncio pentastellato

Se è vero, come è vero, che l’assunzione di certe cariche politiche, e non solo politiche, scatena una sorta di ridicolo delirio di onnipotenza, è altrettanto vero che esistono fortunatamente eccezioni a questa regola. Vado immediatamente al sodo: Roberto Fico. Il nuovo presidente della Camera dei Deputati, la terza carica dello Stato, sta dimostrando, pur senza abiurare alla propria fede grillina, di saper ragionare con la sua testa e di sapersi affrancare dal pesante condizionamento partitico.

Non credo si tratti del giochino del grillino buono e di quello cattivo, ma di senso di responsabilità adeguato all’importanza e delicatezza dell’incarico ricoperto. Roberto Fico ha preso una posizione ragionevole ed equilibrata durante la vicenda dei profughi bloccati sulla nave Diciotti, non facendosi scrupolo di criticare l’assurdo atteggiamento baldanzoso del ministro degli Interni e il comportamento omertoso del governo Conte. Qualcuno lo ha immediatamente mandato a cuccia, intendendo relegarlo al suo mestiere, ma, tutto sommato, non c’è riuscito e Roberto Fico ne è uscito bene, senza esagerare: ha semplicemente affermato che era il caso di far scendere dalla nave i profughi, di soccorrerli, per poi discutere chi li avrebbe dovuti ospitare. Un semplice, non banale, ragionamento di buon senso, merce sempre più rara.

Non ho elementi per giudicare se questo anomalo grillino sia il miglior Fico del bigoncio pentastellato. Non so se sia stato collocato sul più alto scranno della Camera per toglierselo dai piedi quale concorrente scomodo oppure per mostrare la faccia dialogante e buonista di un movimento arrabbiato e cattivista. Si tratta di un contrappeso rispetto all’invadenza dimaiana e di un rigurgito di autonomia rispetto alla strafottente leadership grillina e/o casaleggiana? È presto per dirlo. Posso solo esprimere un desiderio.

Il movimento tanto in auge fa riferimento a cinque stelle, che rappresentano un po’ l’affascinante libro dei sogni grillino: Acqua, Ambiente, Trasporti, Connettività, Sviluppo. Come noto, esiste il fenomeno delle stelle cadenti, che mitologicamente e religiosamente parlando, rappresentano un collegamento, un ponte tra il cielo (dove stanno le stelle) e la terra…qualcosa di celeste/immaginario che scende sulla terra, che diventa vero, qualcosa di eccezionale che diventa realtà, che si avvera. Ecco perché le stelle cadenti sono collegate all’avverarsi di un desiderio.

Fantasia per fantasia, mi piace sognare che Roberto Fico altro non sia se non una stella cadente del firmamento grillino: un ponte tra il cielo dell’antipolitica e la terra della politica, tra la protesta campata in aria e la proposta coi piedi per terra, tra la favola “dell’arrivano i nostri” e la realtà “del collaboriamo per migliorare la situazione”, tra l’impossibile colpo di spugna e il credibile cambiamento. Di fronte alla sua stella che cade esprimo quindi un desiderio: che la politica torni ad essere la base per migliorare la nostra convivenza, che si smetta di sbraitare slogan per dialogare seriamente, che si rispettino e valorizzino le istituzioni democratiche, che il popolo non venga illuso e strumentalizzato, ma concretamente interpretato nelle sue esigenze e istanze in linea con la nostra Costituzione.

Spero che il Presidente della Camera non faccia la fine prevista dal modo di dire parmigiano: “Incolar atach al mur cmé ‘na péla ‘d figh” (appiccicare al muro come una pelle di fico). Sicuramente qualcuno ci sta pensando, anche fra i suoi colleghi di partito, o movimento come dir si voglia.  Gli auguro invece di resistere, di vendere cara la sua pelle e di inchiodare al muro quanti stanno giocando a fare politica, precipitando sulla terra il cielo grillino. Può darsi si tratti della “speransa di mäl vesti, ch a faga un bón invèron”.

 

 

Temiamo l’ira dei burloni

“Se vogliono toglierci tutto, lo possono fare. Noi abbiamo gli italiani con noi, facciano quello che credono”. Così il leader del Carroccio, Salvini, dopo la decisione del tribunale del Riesame di Genova, che ha accolto il ricorso della Procura sul sequestro dei fondi della Lega. “È una vicenda del passato, sono tranquillo – ha puntualizzato Salvini – gli avvocati faranno le loro scelte”.

“Temete l’ira dei giusti. Lavoro per la sicurezza degli italiani e mi indagano per sequestro di persona (30 anni di carcere), lavoro per cambiare l’Italia e l’Europa e mi bloccano tutti i conti correnti, per presunti errori di dieci anni fa. Se qualcuno pensa di fermarmi o spaventarmi ha capito male, io non mollo e lavoro con ancora più voglia. Sorridente e incazzato”. Così il vice-premier Matteo Salvini su Twitter.

Queste reiterate dichiarazioni si possono valutare i due modi: come sberleffi al sistema o come attacchi al sistema. “Lo sberleffo” è una smorfia o un gesto di derisione a cui generalmente si risponde con un altro sberleffo. Nel caso specifico si potrebbe controbattere a Salvini: anche noi siamo sorridenti e incazzati, anzi sorridenti e impietositi. L’attacco è altra cosa: un’azione offensiva che ha scopo distruttivo o, quanto meno, intimidatorio. Dall’attacco, in qualche modo, bisogna pur difendersi, non si può far finta di niente, perché potrebbe essere assai pericoloso.

Le dichiarazioni salviniane sono un condensato di sciocche ma rischiose boutade anti-sistema, meglio dire anti-democratiche. La Lega sarebbe al di sopra della legge e della giustizia in quanto dalla parte dei cittadini e quindi si ipotizza una netta dicotomia fra Stato e Popolo oppure, se si vuole, una coincidenza fra Stato e Lega. In secondo luogo la storia non conterebbe nulla: gli errori del passato vanno in prescrizione e non si pagano, la spugna leghista è più forte della memoria giudiziaria. In terzo luogo le regole di funzionamento della democrazia vengono ridotte a scontro tribale tra chi vuole cambiare e chi vuole conservare: una sorta di duello all’ultimo sangue politico.

Prima o poi questo signore si ridimensionerà.  Se la sono fatta addosso personaggi di ben altro spessore, quindi… Il problema però non è tanto di merito, quanto di metodo, non riguarda tanto parole in libera uscita, ma presupposti della coscienza democratica. Uso una metafora calcistica: un conto è andare tutti all’attacco con il supporto della tifoseria, un conto è giocare un campionato a propria misura con le regole fatte dai propri tifosi. Siamo a questo punto: non si tratta più di fisiologico qualunquismo da bar, né di stucchevole populismo da corrida. Il discorso si sta facendo delicatissimo, ogni giorno sempre più delicato, stiamo scivolando più o meno inconsapevolmente verso una caricatura della democrazia. Salvini finirà, probabilmente finirà male, ma lascerà dietro di sé un cumulo di macerie a livello di coscienza popolare, da cui ci vorrà del bello e del buono a riprendersi. Gli esperimenti nella vita si possono anche fare, gli errori si commettono, tutto si può sopportare meno che le scriteriate e impazzite fughe dalla realtà.

Un esperimento – probabilmente molti italiani si sono affidati a Salvini in tal senso – è la realizzazione di un’operazione empirica atta a confermare ipotesi o trovare leggi riguardanti un fenomeno per migliorarne la conoscenza o trovare soluzioni di miglioramento, non per spazzare via tutto gettando alle ortiche ogni e qualsiasi bussola. Mi auguro che questo progressivo innalzamento dell’asticella nel clima politico possa risvegliare finalmente un minimo di razionalità e dare una scossa al ravvedimento delle coscienze. Diversamente non riesco più a ridere, nemmeno a sorridere, forse nemmeno ad arrabbiarmi. Se qualcuno può muoversi e fare qualcosa lo faccia, prima che sia troppo tardi.

 

 

Dall’altare del populismo alla polvere del popolo

Gesù entrò trionfalmente in Gerusalemme, acclamato con gli “Osanna al Figlio di Davide”, riconosciuto a furor di popolo come redentore e messia. Dopo alcuni giorni venne messo in croce, con il popolo che assistette imperterrito alla farsa della sua incriminazione da parte dei maggiorenti israeliani e gli preferì addirittura un Barabba qualsiasi. Le plebi sono pericolosamente volubili e imprevedibili: ecco perché chi vaneggia alla ricerca di un facile populismo anti-istituzionale fa un pessimo servizio alla vera democrazia.

Sono passati pochi giorni dalla celebrazione solenne dei funerali delle vittime del crollo del ponte Morandi a Genova. Quel giorno venne concessa una accoglienza molto benigna ai rappresentanti del governo e ai leader della maggioranza giallo-verde. Già il mescolare le esequie con le simpatie politiche non è il massimo della serietà. Agli imponenti funerali di Enrico Berlinguer venne riservata una certa ostilità a Bettino Craxi, al quale fu poi chiesto un commento: «Nei funerali politici c’è spazio anche per la contestazione politica».

Tutto si può capire: nei momenti di disperazione è umano attaccarsi a quel che c’è a portata di mano e in questa fase storica la politica offre purtroppo la botte che ha. Non appena si assaggia il vino, ci si rende conto che la botte conta poco. Ebbene siamo già arrivati alla contestazione, inscenata dai senza tetto contro Regione e Comune per i ritardi nella assegnazione degli alloggi. Luigi Di Maio ha sentito puzza di bruciato e si è precipitato a cavalcare la protesta: «Hanno ragione, diamoci una mossa!». Gli ha risposto il presidente ligure Toti: «Meno parole e più fatti!». È scoppiata, prima che si potesse immaginare, la querelle fra gli Enti Locali che aspettano i fondi per intervenire e lo Stato che lamenta una certa debolezza del potere a livello periferico.

Non mi scandalizzo di niente. Non mi stupisce la fretta della gente: al loro posto probabilmente sarei ancora più ansioso e pretenzioso. Non mi impressiona l’incertezza della politica locale a muovere i primi passi in una situazione complicatissima e delicatissima. Capisco la difficoltà del governo ad intervenire tempestivamente con i giusti provvedimenti senza farsi imprigionare nelle solite pastoie burocratiche. Qualcosa però mi infastidisce: la faciloneria e la supponenza con cui gli attuali governanti si presentano e la dabbenaggine con cui la gente li segue. Non sopporto questa aria da primi della classe sciorinata da Lega e M5S. I primi della classe sono sempre antipatici, figuriamoci se li sono soltanto di facciata.

Consentitemi di riportare una piccola esternazione paterna, davanti al video, vale a dire a commento di una delle solite vuote interviste propinate ai fanatici del pallone. Parla il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottiene subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiede il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore risponde: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre, che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”.  Tutto chiaro? Mi sembra proprio di sì. I trainer padre eterni sono inutili ed insulsi, come i politici “faso tuto mi”.

Lo storytelling del fascismo

In questi giorni ricorre il triste ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziste contro gli Ebrei: una ricorrenza che rischia di passare inosservata. Non so se si tratti di rimozione a livello psico-storico, in un momento in cui certi fantasmi razziali si stanno aggirando per l’Italia, per l’Europa e per il mondo. Forse è colpa soltanto del tempo che passa e cancella le orme di un passato vergognoso?  Non credo!

Fa notizia invece il funerale del docente di Diritto italiano all’Università di Sassari, che sta suscitando polemiche: i “camerati” schierati che salutano “romanamente” il professore e rispondono “presente” al richiamo “camerata Giampiero Todini”. Il video è stato postato dalla consigliera comunale del centro-sinistra, Lella Careddu, che commenta: «Nella nostra città, sul sagrato di una chiesa, senza vergogna. Fascisti sdoganati».

Lo storytelling è l’arte del raccontare storie, impiegata come strategia di comunicazione persuasiva, specialmente in ambito politico, economico ed aziendale. In parole povere la storia non è fatta obiettivamente dagli accadimenti, ma dal racconto che di essi si fa strumentalmente. Ha ragione da vendere Lella Careddu: lo storytelling, in questa fase politica, sdogana il fascismo, coprendo, con manifestazioni nostalgiche e sottovalutazioni culturali, l’orrore delle scelte di un regime; relega la storia in un passato da compatire e le toglie l’insegnamento per il futuro.

Il prossimo 20 settembre l’Università italiana chiederà scusa alle vittime delle leggi razziali: i rettori degli Atenei non intendono fare una semplice commemorazione, ma vogliono dare un forte monito per il presente e per il futuro, che dovrebbe servire a riaccendere l’attenzione su quello che può riaccadere. Sarà bene che si faccia anche un esame di coscienza sul fatto che solo una ristrettissima minoranza dei docenti universitari seppe prendere le distanze dal regime rifiutando la tessera del fascio. Servirà a rendere più credibile e profondo l’appello.

Lo storytelling del fascismo fortunatamente me lo sono trovato in casa. Mio padre, prima e più che in senso politico, era un antifascista in senso culturale ed etico: non accettava imposizioni, non sopportava il sopruso, non vendeva il cervello all’ammasso, ragionava con la sua testa, era uno scettico di natura, aveva forse inconsapevolmente qualche pulsione anarchica, detestava la violenza. Ce n’è abbastanza? E a me, ancora bambino, raccontava episodi di vita vissuta nella culla antifascista dell’Oltretorrente. Uno storytelling sanguigno e diretto che mi ha forgiato culturalmente e politicamente.

Resistenza (nel cuore e  nel cervello), costituzione (alla mano), repubblica (nell’urna) imponevano e impongono una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sull’antifascismo non si può scherzare anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “.

 

Il mondo, la guerra e la pace a pezzi

Da parecchio tempo papa Francesco parla di una guerra mondiale a pezzi. Fra questi ci sono i pezzettoni e i pezzettini. Quella siriana, per la sua complessità e durata rientra nella prima categoria. Quella libica, che sta risorgendo dopo la breve illusione di un patto di non belligeranza fra le diverse tribù in cui è articolato il tessuto socio-politico di quel Paese, è forse classificabile nella seconda, anche se a noi più vicina, territorialmente, storicamente e socialmente. Purtroppo in questi Paesi, dilaniati da enormi problemi, solo i più feroci dittatori riescono a tenere coperchiate le pentole e, non appena questi personaggi vengono tolti di mezzo, scoppia il finimondo. Non è una buona ragione per sostenere i dittatori, ma non è nemmeno un motivo per farli fuori sbrigativamente, come è successo in Libia con Gheddafi.

La storia insegna che questi squallidi personaggi sono capaci di stare a galla o meglio vengono lasciati galleggiare per opportunismo, poi, quando non servono più, vengono abbattuti e i loro Paesi cadono dalla padella alla brace. Per la Libia si sta verificando proprio questo percorso. Ai tempi dei blocchi contrapposti e della guerra fredda, i focolai di guerra si accendevano e si spegnevano sulla base degli impulsi, che le due superpotenze imprimevano alle situazioni. Oggi il mondo si è complicato, è aumentato il numero delle potenze in gara, ma la logica è rimasta la stessa, con la grossa differenza che l’interruttore per accendere e spegnere è in troppe mani. Per continuare a citare papa Francesco, alla guerra a pezzi bisognerebbe contrapporre la strategia di una pace a pezzi.

Non è un caso se sono portato a fare riferimento a Bergoglio: è l’unico personaggio veramente globale, autorevole e credibile, che si muove sulla scena mondiale. Se si passano in rassegna i vari leader c’è da rimanere sbigottiti per la loro inaffidabilità e la loro totale inadeguatezza. Al pensiero che il mondo sia nelle mani dei vari Trump , Putin, etc. etc., c’è da farsi venire i brividi. L’ultimo personaggio di livello apparso è il presidente francese Emmanuel Macron: aveva avvalorato qualche timida speranza, ma anche lui si sta omologando alla presuntuosa mediocrità dei “grandi”.

Cosa intende papa Francesco quando parla di pace a pezzi? Una via vissuta, testimoniata, cercata, invocata, creduta da uomini e donne, leader religiosi e semplici credenti, che non si arrendono al “paganesimo dell’indifferenza”. Qualche tempo fa Andrea Tornielli su Vatican Insider, dopo un forte richiamo di Francesco a tutti i popoli della terra, scriveva: «Nonostante il mondo sia sempre più squassato da guerre, odio, violenze, sfruttamento e povertà, ci sono tanti uomini e donne, tanti credenti appartenenti a tutte le religioni, che non si arrendono. Sono frammenti, pezzetti, tessere minuscole di un puzzle alla cui composizione l’umanità anela».

Forse siamo stati troppo abituati a guardare alla politica quale prevenzione e rimedio ai conflitti. Ma se la politica scade a guerra di nervi ed a contrapposizione strumentale…resta l’impegno degli uomini di buona volontà. Giorgio La Pira, quando prendeva spericolate e paradossali iniziative a favore della pace, si faceva accompagnare non tanto da consiglieri diplomatici, ma dalla preghiera delle monache di clausura. La pace è un dono di Dio e non una conquista degli uomini. Ce ne stiamo accorgendo giorno dopo giorno. Non è un motivo per rassegnarsi, ma per agire al di là dei consessi internazionali, che non combinano un tubo.

Tutti prostituti nel casino siriano

Un po’ per uscire dalle penose strettoie della politica italiana, un po’ per mettermi a posto la coscienza in senso pacifista, un po’ per affogarmi nel mare grande della guerra mondiale, ho buttato un occhio alla Siria laddove si profila un ulteriore incrudimento dello scontro militare con la conseguenza di un ulteriore dramma umanitario.

Non è facile riuscire a capire qualcosa nel ginepraio siriano: le forze in campo sono molte, le alleanze complesse e variabili, gli attori impegnati in un “tutti contro tutti” pazzesco. Abbiamo innanzitutto l’esercito del macellaio-presidente siriano Bashar Al Assad, testardamente impegnato a difesa di un regime che si regge sulla propria debolezza, strumentalmente cavalcata dai potenti di turno: Russia, Iran e Turchia che si battono contro i ribelli del regime. A questi tre Paesi, per diversi motivi, fa gioco il regime fantoccio di Assad: la Russia vuole tenere a tutti i costi un piede in questo teatro; l’Iran vuole prevenire e contrastare le mire espansioniste del nemico israeliano; la Turchia ha l’ossessione per i separatisti Curdi a loro volta facenti parte della coalizione curdo araba sostenuta da una coalizione internazionale guidata dagli Usa. C’è poi il fronte “terroristico” con le forze jihadiste costituite dall’Isis, (lo Stato Islamico) e il gruppo Hayat Tahir al-Cham, contro cui combattono disperatamente insieme tutti gli altri.

In cotanta confusione politico-militare la ricca ed autoreferenziale Europa che fa? Sta più o meno debolmente a guardare, anche se sarà la prima destinataria del dramma di centinaia di migliaia di vittime e di milioni di rifugiati, di fronte ai quali i vari Salvini non potranno certo salvare nessuno. Preferisce preoccuparsi dell’ora legale, non riuscendo peraltro a trovare la quadra nemmeno su questo marginale problemuccio. Non so se, come sostiene Massimo Cacciari, per rilanciare l’Europa occorra costituire un fronte progressista a livello continentale: mi sembra francamente uno schema piuttosto datato e velleitario. Vedo – e in questo come in parecchie altre questioni hanno ragione i radicali eredi di Marco Pannella – necessario   un rilancio a livello culturale, sociale e politico del federalismo: solo un’Europa federale può essere protagonista all’interno e all’estero.

Torno un attimo sul conflitto siriano. Non ci si capisce niente al di là della volontà di tutti di fare “i cazzi propri” sulla pelle dei siriani. Ci sono vari tipi di protagonismo dietro i due fantocci in campo: Assad e lo Stato islamico. C’è il protagonismo lucido e freddo della Russia putiniana, che mi ispira paradossale analogia-nostalgia per il gigante Urss. Esiste il protagonismo trumpiano mordi e fuggi, quello del colpo al cerchio e del colpo alla botte. Esiste anche il protagonismo silente ma pesante di Israele. Abbiamo il protagonismo dei comprimari: quello aggressivo e progressivo degli iraniani; quello schizofrenico e fuorviante dei turchi. Poi arriviamo al protagonismo del “non protagonismo”, quello europeo con la Francia che non rinuncia mai alla sua visione nazionalistica, con l’Inghilterra che scappa ma trova sempre il modo per darla su militarmente agli Usa, con la Germania che pensa solo ai conti ed ai bilanci e strizza l’occhio agli interlocutori di turno, con l’Italia che un tempo aveva dignità e ruolo e che oggi sta rinunciando all’una e all’altro.

Chiudo con una inevitabile puntatina polemica a livello italiano: non illudiamoci di risolvere i problemi guardandoci l’ombelico. A proposito di ombelico ricordo una simpatica battuta di un mio zio. Eravamo in spiaggia e stavamo sciorinando le solite futili chiacchiere estive. Tutto ad un tratto se ne uscì con questa constatazione: «Non so se ci avete fatto caso, ma l’ombelico ce l’hanno tutti…». Sì, ma il nostro, dopo la cura giallo-verde, è il miglior ombelico d’Europa e del modo. Continuiamo a guardarcelo! Anche perché stiamo riuscendo a ripristinare il cordone ombelicale con i peggiori “ismi” della storia.

 

 

Il crollo del ponte solleva il polverone burocratico

Si potrebbe dire “dopo il danno la beffa”. È quanto rischia di succedere relativamente al crollo del ponte Morandi: comincia a intravedersi un gioco allo scarico di responsabilità fra la società autostrade e il ministero delle infrastrutture, emerge una corrispondenza dai toni burocratici, che sembra fatta apposta, non per prevenire i disastri, ma per mettere le mani avanti nel caso in cui si verifichino. Dalla caterva di documenti sequestrati ed attualmente nelle mani della magistratura inquirente non potranno emergere con chiarezza le responsabilità: troppo complessa e delicata la materia, troppo astuta la burocrazia a nascondersi dietro le prassi amministrative, troppo difficile stabilire le cause dell’evento e se questo potesse o meno essere previsto ed evitato o quantomeno se sia stato fatto tutto il possibile per evitarlo. Perizie, contro-perizie, relazioni tecniche, pareri legali, discussioni infinite: probabilmente non si arriverà a capo di nulla.

Che infastidisce non è tanto l’incertezza su cause e responsabilità; che irrita parecchio è il “ma noi l’avevamo scritto”, “ma la questione era stata sollevata”, “ma attendevamo una risposta”, “ma avevamo fatto la segnalazione”, “ma questo non toccava a noi”, “ma doveva pensarci qualcun altro”. Mio padre, uomo portato al dialogo ed al confronto con le persone e le istituzioni, piuttosto tollerante con tutti, capace di sdrammatizzare le situazioni; non sopportava però di essere preso in giro, di finire stritolato nel giochetto del rimando a tizio e caio, non accettava d’esor tôt pr’al cul (per dirla alla parmigiana). Se si trattava di battute o di episodi bonari, tutto andava bene (in fin dei conti, chi la fa, l’aspetti), ma, quando si faceva sul serio, reagiva e non accettava. La sua etica gli imponeva l’intransigenza assoluta.

Raccontava spesso episodi accadutigli in ambiente di lavoro. Mio padre era artigiano-imbianchino e lavorava in cantieri dove doveva confrontarsi con altri operatori edili ai quali a volte doveva chiedere qualcosa di importante per la corretta prosecuzione dei lavori. Una volta se lo rimandarono da uno all’altro: «Veh, d’mandol a lilù…». «No, pärla con chilù…». «No, sènta lalù…». A quel punto la pazienza finì: «Ragas, am tóliv pr’al cul? Adésa basta!». Così come sapeva essere aperto e simpatico, all’occorrenza la sapeva mettere giù dura ed aveva mille ragioni.

L’episodio più spiacevole, che talora rammentava, risaliva al periodo in cui lavorava non da artigiano, ma da dipendente. Ad un cliente, che aveva chiesto un intervento straordinario rispetto al preventivo stipulato, su preciso ed espresso incarico del suo datore di lavoro fu costretto a dire un categorico No, spiegando di avere parlato col “padrone” che così aveva deciso. Se non ché pochi istanti dopo, arrivò il padrone al quale il cliente chiese conto: «Come mai lei dice che non è possibile fare questo intervento?». Il padrone, che aveva evidentemente mandato mio padre allo sbaraglio, rispose: «Mi, an säva niént …, adésa a v’dèmma…». Mio padre mi diceva che, per non rischiare il posto di lavoro si morse la lingua e tacque, ma se avesse potuto reagire liberamente gli avrebbe sferrato un pugno nei denti. Sì, perché in quei casi non bisogna porgere l’altra guancia, ma l’altro pugno.

Trasferiamo questa intolleranza verso la presa in giro all’elevato livello del ponte Morandi e ci sentiremo cornuti e mazziati. È questo l’inghippo burocratico che paralizza e squalifica il nostro paese, che allontana gli investitori, che rende tutto lungo e incerto. Hanno provato in tanti a riformare la burocrazia, a snellirla, a renderla più efficiente: non ci sono riusciti. Le cause storiche si sommano a quelle sociali e politiche. Alla politica tutto sommato fa gioco una burocrazia elefantiaca e invadente; alla burocrazia fa comodo una classe politica incompetente e inconcludente. La burocrazia è competente, esperta e capace, ma si nasconde dietro la politica: al caos legislativo aggiunge un di più di inerzia e di confusione interpretativa. Non bisogna generalizzare. Ho conosciuto fior di funzionari, ma anche fior di fannulloni. Quanti episodi avrei da raccontare al riguardo!

Basti rammentare questo piccolo episodio. Mi trovavo per impegni professionali nell’anticamera di una Commissione Tributaria e partecipavo al gossip di attesa, che verteva sulle solite lamentele riguardanti la complessità degli adempimenti fiscali per il contribuente e la loro scarsissima chiarezza. Teneva banco un esperto professionista di Milano, il quale, ad un certo punto, stupì tutti con una rivelazione dal sapore scandalistico. In riferimento al contenuto delle risoluzioni del Ministero delle Finanze (le risposte che gli uffici centrali danno ai quesiti dei contribuenti singoli o associati) chiese ai presenti se conoscessero il perché di tanta ambiguità e di così poca chiarezza. Nessuno ebbe una risposta pronta e questo pretenzioso commercialista sputò la sua motivazione: «Dal momento che le risoluzioni vengono redatte da funzionari di alto livello, responsabili di quanto affermano, esisterebbe una norma ovviamente segreta, una sorta di patto corporativo in base al quale verrebbero introdotti nel corpo delle risposte espressioni ambigue, parole contraddittorie, incisi fuorvianti in modo da rendere interpretabile in modi diversi il testo e da evitare quindi spiacevoli responsabilità ai funzionari stessi. Questi quindi solleverebbero comunque un po’ di polvere per coprirsi le spalle da errori o da leggerezze interpretative».  Tutti i presenti rimasero di stucco. Anch’io non reagii, la discussione cadde, ma il dubbio rimase ed ogni volta che leggevo una risoluzione ministeriale poco chiara mi ricordavo di quell’illustre signore: l’aveva sparata grossa, ma forse non era andato lontano dalla verità.

 

Se Fitch piange, l’elettore ride

Fitch conferma il rating dell’Italia a BBB, ma rivede l’outlook che da “stabile” passa a “negativo”. Il debito pubblico italiano rimarrà molto elevato, lasciando il Paese più esposto a potenziali shock, afferma l’agenzia di rating in una nota. Fra le criticità indicate, la natura nuova e non collaudata del governo, le considerevoli differenze politiche fra i partner della coalizione, e le contraddizioni fra gli elevati costi dall’attuazione degli impegni presi nel “contratto” e l’obiettivo di ridurre il deficit pubblico. Non è chiaro come queste tensioni politiche saranno risolte. Non ci aspettiamo che il governo dell’Italia duri l’intero mandato e vediamo un aumento della possibilità di elezioni anticipate dal 2019. Lo afferma sempre Fitch in una nota. Il rischio di elezioni anticipate renderà più difficile per i partiti fare compromessi che alienino le loro basi politiche, sostiene l’agenzia di rating.

Non ci voleva un’agenzia di valutazione, vale a dire una società che assegna un giudizio (rating) riguardante la solidità e la solvibilità di una società emittente titoli sul mercato finanziario, per elaborare il voto e le preoccupazioni di cui sopra relativamente all’Italia. Mi sembra l’uovo di Colombo. A parte l’affidabilità di questi soggetti, che in passato ne hanno azzeccate poche, a parte i loro conflitti di interesse, a parte il fatto che si tratta comunque di opinioni più o meno autorevoli e motivate, il quadro che ne esce è piuttosto scontato nella sua sconfortante prospettiva.

Detto fuori dal linguaggio felpato, in buona sostanza Fitch ritiene l’attuale governo incompetente ed inesperto, la coalizione che lo sostiene un’armata Brancaleone, il suo contratto costitutivo un libro dei sogni, il quadro politico assai precario e fatalmente indirizzato ad elezioni anticipate. Insomma, tutto molto incerto e rischioso. Ricordiamo cosa dicevano certi insegnanti: gli ho dato uno striminzito sei con tre meno, ma se continua così la bocciatura è assicurata. Se i mercati finanziari si lasceranno influenzare da questo giudizio, stiamo freschi.

O riteniamo queste agenzie di rating un coacervo di affaristi inconcludenti e prezzolati o ci sarebbe da riflettere profondamente. E gli elettori italiani, che sono anche risparmiatori, lavoratori, imprenditori, professionisti, cosa penseranno? Qualcuno farà loro credere che trattasi di opportunistici amici dei poteri forti, che legano l’asino dove vuole il padrone. Facciamo finta che sia la verità, ma, quando è stata iniziata questa avventura governativa, i protagonisti sapevano perfettamente di dover fare i conti con un sistema che, volenti o nolenti, ha certe regole e certe istituzioni.

Non sarà certo Fitch a far cadere questo governo o a far cambiare idea agli elettori italiani, che hanno tutto il diritto di fregarsene altamente delle agenzie di rating, dei commissari europei, dei mercati finanziari, delle opinioni degli addetti ai lavori. Vorrei capire però una buona volta su quali basi la gente ha messo e tiene in piedi questo governo di cambiamento. Per mandare a casa gli immigrati? Per essere più sicuri contro la delinquenza? Perché Salvini parla da uomo della strada? Perché Di Maio (s)parla bene? Perché Beppe Grillo è bravo a prendere tutti per i fondelli. Il voto a Berlusconi nel 1994 ed anni successivi era motivato dal seguente ragionamento: se è stato capace di fare i propri affari, sarà in grado di fare anche i nostri. Non vorrei che il voto a Lega e M5S fosse motivato da un analogo ragionamento: se sono così capaci di fare ridere, saranno in grado di consolarci e tenerci su di morale.

Salvini indagato mezzo santificato

Non ho la preparazione giuridica per capire se l’inchiesta aperta sul ministro Salvini in merito alla vicenda della nave Diciotti sia basata su un’effettiva ipotesi di reato o sia un sasso gettato nella piccionaia dell’attuale politica o possa essere, come sostiene l’interessato, un boomerang per la magistratura ed un perfetto assist per l’aumento dei consensi leghisti.

Sul piano politico l’indagine ha indubbiamente creato qualche grattacapo ai grillini, costringendoli ad usare, come è loro costume, due pesi e due misure pur di salvaguardare l’equilibrio di governo e difendere la precaria convivenza con l’invadente alleato leghista. Di Maio si arrampica sugli specchi con le mani sporche di grasso: «L’indagine di Agrigento è un atto dovuto perché le decisioni prese a proposito della nave facevano capo al Viminale. Andiamo avanti, il nostro codice etico non è stato violato e la Lega è leale. Tutti gli eritrei potranno presentare domanda d’asilo. Noi abbiamo sempre protetto chi scappa da una guerra. Salvini non deve dimettersi. Giusto che i pm indaghino, ma stiamo difendendo l’Italia». I tanto vituperati democristiani di fronte a queste esercitazioni del “dire e non dire” ed a tali equilibrismi sul filo del rasoio, fanno la figura dei principianti: il potere insegna molto in fretta a chi ce l’ha.

Gli altarini grillini sono quindi in parte scoperti, ma per il momento ci vuole ben altro per mettere in crisi la coabitazione tra Lega e M5S. Dice un vecchio adagio presente in parecchi dialetti: “Il Signore li fa e li accompagna”. Chi vivrà vedrà. Non intendo “gufare” contro il governo giallo-verde, anche perché le “autogufate” non mancano, basta volerle sentire e vedere.

L’iniziativa giudiziaria della procura di Agrigento ha ottenuto un altro effetto di segno diverso: ha ributtato Matteo Salvini nelle braccia di Forza Italia, alla quale non è parso vero di sfruttare l’occasione per attaccare l’invadenza politica di certa giustizia ad orologeria e per auspicare un ritorno all’ovile della pecorella smarrita (meglio parlare di caprone in libera uscita). Prendo la dichiarazione più autorevole ed equilibrata, quella di Antonio Tajani: «Non si può processare una linea politica, alla fine Salvini sarà prosciolto dal Tribunale dei ministri e diventa solo uno scontro propagandistico che non risolve il problema vero: né quello dell’immigrazione né quello della separazione dei poteri. La vicenda pone con forza il problema della riforma della giustizia, non possiamo più perdere tempo, c’è il rischio di avere continui conflitti tra diversi poteri dello Stato». E anche gli altarini forzitalioti sono in parte scoperti, ma per il momento ci vuole ben altro per riportare Salvini nel gregge del centro-destra. Sono troppi i fuorusciti e troppo pochi gli ortodossi: più facile che continui la fuga verso la Lega piuttosto che i leghisti tornino sui loro passi. Chi vivrà vedrà. Non intendo “gufare” contro il centro-destra, anche perché è già talmente disastrato da impietosire più che istigare all’attacco.

C’è un terzo effetto: quello sull’opinione pubblica. Sono finiti i bei (?) tempi in cui la magistratura aveva sempre ragione e veniva vista come l’ancora di salvezza della democrazia agonizzante. Oggi ho l’impressione che faccia il solletico alla gente e infastidisca chi vuole andare al sodo col referendum “immigrati sì o no” e faccia ridere chi si è schierato dalla parte del giaguaro leghista e barista. Non a caso Salvini ha dichiarato: «Questa inchiesta si rivelerà un boomerang per i pm. Solidali con me molti giudici, tanti politici e parecchia gente che è fuori dalla politica e non ha votato Lega. Occorre riformare la Giustizia, non per Salvini, ma perché abbiamo milioni di processi arretrati e questo frena gli investimenti. L’Ue è assente, sorda e menefreghista: bene ha fatto Conte ad annunciare che quando avranno bisogno di noi li ripagheremo con la stessa moneta». Se, come ho annotato sopra, le giravolte verbali dimaiane fanno pensare alla viscida ed opportunistica abilità democristiana, le sparate salviniane fanno ricordare le anacronistiche, ma sempre efficaci, invettive mussoliniane. Tutto sommato mi è più simpatico Salvini, perché le spara grosse e perché sotto-sotto spero che la panna montata si smonti, anche se si può congelare, ma perde sapore…