Meglio convivere che condannare

Con insoliti toni da invettiva papa Francesco ha affrontato il tema dell’aborto durante la catechesi del mercoledì dedicata al commento del quinto comandamento “non uccidere”. Ha usato parole dure e provocatorie: «Io vi domando: è giusto fare fuori una vita umana per risolvere un problema? L’aborto è come affittare un sicario».

Ha però opportunamente e doverosamente inquadrato il discorso dell’aborto in quello più ampio e generale del rispetto della vita: «Tutto il male operato nel mondo si riassume in questo: il disprezzo per la vita. La vita è aggredita dalle guerre, dalle organizzazioni che sfruttano l’uomo, dalle speculazioni sul creato, dalla cultura dello scarto, da tutti i sistemi che sottomettono l’esistenza umana a calcoli di opportunità, mentre un numero scandaloso di persone vive in uno stato indegno dell’uomo. Questo è disprezzare la vita, è uccidere».

Ha poi ha affrontato, con taglio critico nei confronti della comunità, il delicatissimo tema dell’aborto terapeutico: «Ogni bambino malato è un dono. La violenza e il rifiuto della vita nascono in fondo dalla paura. L’accoglienza dell’altro, infatti, è una sfida all’individualismo. Pensiamo a quando si scopre che una vita nascente è portatrice di disabilità, anche grave. I genitori, in questi casi drammatici, hanno bisogno di vera vicinanza, di vera solidarietà, per affrontare la realtà superando le comprensibili paure. Invece spesso ricevono frettolosi consigli di interrompere la gravidanza».

Mai forse come su questo tema che conta è anche e soprattutto, al di là della sostanza dogmatica, l’approccio caritativo.  Per parafrasare il cardinal Martini, la condanna pura e semplice dell’aborto dovrebbe lasciare posto alla domanda: come può la Chiesa arrivare in aiuto a chi vive situazioni talmente drammatiche da spingere a prendere in considerazione la soluzione dell’aborto? Sul dopo aborto il papa è intervenuto togliendolo dal ghetto della scomunica per favorirne una revisione-conversione alla vita. Ora sarebbe il caso di sollecitare un impegno fortissimo di tutta la comunità cristiana per prevenire e “convivere” positivamente il dramma decisionale sull’accoglienza o meno di una gravidanza e di una conseguente vita umana.

Sull’aborto, in tono cristianamente trasgressivo, diceva don Andrea Gallo: «Sta’ a sentire, non incastriamoci nei principi. Se mi si presenta una povera donna che si è scoperta incinta, è stata picchiata dal suo sfruttatore per farla abortire o se mi arriva una poveretta reduce da uno stupro, sai cosa faccio? Io, prete, le accompagno all’ospedale per un aborto terapeutico: doloroso e inevitabile. Le regole sono una cosa, la realtà spesso un’altra. Mi sono spiegato?».

Mi risulta che durante un colloquio tra papa Giovanni Paolo II e monsignor Hilarion Capucci venne presa in considerazione la drammatica situazione di monache stuprate per le quali si sarebbe posta l’eventuale possibilità dell’aborto. Monsignor Cappucci era favorevole ad affrontare con grande flessibilità e realismo questi dolorosi casi. Il papa era drasticamente contrario ad ogni eccezione alla regola antiabortista. Ad un certo punto la tensione salì e il “trasgressivo” porporato chiese provocatoriamente al papa: «Ma Lei Santità crede di essere Dio?». Il papa, probabilmente preso alla sprovvista, non seppe rispondere altro che: «Preghiamo, preghiamo…».

Alcuni anni or sono, quando andavo a fare visita ad una mia carissima cugina, ricoverata all’ospedale maggiore di Parma in stato di coma vegetativo, mi capitava di imbattermi, all’entrata, in un gruppetto di donne che recitavano ostentatamente il rosario in riparazione dei peccati riconducibili all’aborto. Mi davano un senso di tristezza e di pochezza. Per non mancare loro di rispetto frenavo l’impulso di interrogarle provocatoriamente: «Ma voi cosa sareste disposte a fare per una donna sull’orlo dell’aborto? Avreste il coraggio di ospitarla in casa vostra? Avreste la generosità di sostenerla economicamente in modo continuativo? Avreste la forza di aiutarla umanamente ad una scelta così difficile rispettandone la sofferta decisione?». Diceva don Andrea Gallo (lo cito ancora e a senso): «Con una ragazza incinta, sola, magari una giovane prostituta, cerco di portare avanti il discorso del rispetto della vita, faccio tutto il possibile, ma se lei non se la sente, se non riesce ad accettare questa gravidanza, cosa devo fare?».

Provocatori interrogativi che, con tutto il rispetto e l’ammirazione possibili, vorrei porre anche a papa Francesco È comodo pregare per o pontificare contro… È facile mettere a posto la coscienza snocciolando una cinquantina di avemaria o facendo inoppugnabili dichiarazioni di principio e…chi ha il problema si arrangi…Sarò esagerato, prevenuto e persino cattivo, ma negli atteggiamenti magisteriali della Chiesa in questa materia ci vedo qualcosa, che mi ricorda la parabola del buon samaritano e precisamente l’atteggiamento del sacerdote e del levita di fronte al poveraccio massacrato dai briganti: tirano dritto, non si fermano e magari in cuor loro e strada facendo pregano e/o condannano la violenza.

Aprite le finestre alle vecchie favole

Non passa giorno che a turno gli esponenti del governo non scarichino sulla speculazione la colpa delle reazioni negative dei mercati finanziari alla manovra economica, che ormai sta prendendo corpo pur tra residue incertezze e discussioni. Che dietro e dentro le borse ci siano intenti e movimenti speculativi è la scoperta dell’acqua calda. Che la speculazione tenda a strumentalizzare ed influenzare, a volte in modo del tutto scorretto o ai limiti della legalità, a proprio uso e consumo gli andamenti economici e politici è altrettanto scontato e per certi versi inevitabile. Questa realtà non va esorcizzata perché non serve a niente, di essa bisogna prendere atto e occorre combatterla in positivo, cercando di governare in modo coerente e trasparente, togliendo ad essa il brodo di coltura in cui si alimenta e prolifera.

Se il governo adotta una politica scriteriatamente spendacciona non può pensare che chi investe sui titoli di Stato se ne stia tranquillo e sereno ad aspettare che il deficit di bilancio faccia schizzare in alto il debito pubblico e metta seri dubbi sulla capacità di farvi fronte. Se io presto denaro a una famiglia di amici e poi mi accorgo che queste persone spendono e spandono, non tanto per acquistare beni durevoli o per rispondere ad effettive e gravi necessità, ma per gozzovigliare al fine di buttare fumo negli occhi ad amici e conoscenti, intravedo che i loro debiti aumentano, comincio immediatamente a preoccuparmi e a dubitare sulla restituzione del prestito e mi guarderò bene dal concedere ulteriore fiducia, anzi metterò in guardia altri dal rischio eventuale. Può darsi che nel frattempo qualcuno giochi sporco e tenda a sfruttare la situazione pretendendo interessi altissimi sugli ulteriori prestiti e magari anche aspettando l’occasione per comprare a basso costo i gioielli e l’argenteria di famiglia. Ciò non significa che questi signori abbiano gestito e stiano gestendo bene le loro risorse e che tutto sia una montatura dei profittatori in agguato.

Che l’Unione Europea abbia esagerato nella politica del rigore pretendendo impegni eccessivi e prescrivendo terapie talmente invasive da compromettere la salute dei Paesi “malati” è la seconda scoperta, quella dell’acqua tiepida. All’egoismo dei Paesi forti non si può tuttavia contrapporre il pressapochismo ed il velleitarismo di quelli deboli. Così facendo e cicaleggiando si finisce col rendere implacabile l’atteggiamento dei partner più robusti dal punto di vista economico-finanziario e con l’aprire una deriva di reattiva prodigalità da parte dei soci più deboli.

Non vedo alternative ad un realistico anche se faticoso dialogo teso a convincere coi fatti che un’assennata ed equilibrata apertura finanziaria allo sviluppo possa aiutare a rimettere i conti a posto: in buona sostanza bisogna far capire che non si può respirare in una stanza limitandosi a far uscire qualcuno, ma occorre aprire, magari dischiudere appena, le finestre, altrimenti si muore tutti asfissiati. Purtroppo il governo italiano all’opzione equilibrata del dialogo costruttivo, sta preferendo la scelta arrogante del “me ne frego”, “a casa mia comando io”, “bisogna smantellare l’attuale impianto europeo” e amenità del genere. Gli attuali governanti del nostro Paese hanno scelto di spalancare le finestre e di urlare ed insolentire i vicini, rei di voler comandare nella casa altrui.

Insomma si vuole accreditare l’idea che i nostri guai dipendano dalle fameliche e burocratiche politiche europee e dalle fauci mercatali pronte a divorarci nascondendosi dietro lo spread, come il lupo con cappuccetto rosso assumendo le sembianze della nonna. La favola citata finisce bene, ma è una favola. Il governo italiano sta raccontando favole e bisogna dare atto che le sa raccontare bene o almeno che gli italiani ne escono affascinati e coinvolti. Ma quando le favole lasceranno il posto alla realtà…

La sobria vendetta di Juncker

Nella battaglia mediatica a distanza tra il governo italiano, Matteo Salvini in particolare, e i vertici dell’unione Europea, lo scontro dialettico più duro è sicuramente quello tra il nostro (?) ministro dell’Interno e il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker. Non so se la scansione dei tempi sia esatta, ma sostanzialmente si è svolto come di seguito.

«Se l’Italia vuole un trattamento particolare supplementare, questo vorrebbe dire la fine dell’euro. Bisogna essere molto rigidi. L’Italia si allontana dagli obiettivi di bilancio, che abbiamo approvato insieme a livello europeo. Non vorrei che, dopo aver superato la crisi greca, ricadessimo nella stessa crisi con l’Italia»: così si è espresso Juncker all’indomani delle anticipazioni sulla manovra economica, esposte con un certo provocatorio trionfalismo dai maggiori esponenti del governo italiano. Dichiarazioni piuttosto preoccupate e preoccupanti, realisticamente giustificate e forse solo un po’ intempestive.

«Parlo con persone sobrie che non fanno paragoni che non stanno né in cielo né in terra», così il vice-premier e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha risposto a una domanda sulle affermazioni di Juncker sopra riportate. «Se siamo una grande famiglia non ci sono figli di serie A e serie B – ha aggiunto Salvini – se qualcuno a Bruxelles straparla, magari per comprare sottocosto le nostre aziende usando lo spread e i mercati per intimorire qualcuno, ha trovato il Governo e il ministro sbagliato.

Dopo la provocazione lanciata sulla presunta passione alcolica del politico lussemburghese, il leader della Lega ha deciso di infilare nuovamente il coltello nella piaga invitando le persone a svolgere una ricerca su Google con le parole chiave “Juncker sobrio” o “Juncker barcollante”. I risultati, commenta Salvini, sono “impressionanti”. Poi è tornato sulla infinita polemica scoppiata, ricordando la provenienza di Juncker dal Lussemburgo, bollato stizzosamente come un “paradiso fiscale”. Insomma, un “tizio”, che ha fatto il ministro del suo piccolo Paese, sospettato da sempre di riciclare enormi somme di denaro più o meno sporco, non può dare lezioni a nessuno e, tantomeno governare 500 milioni di europei.

Non mi ha sorpreso la tracotante e vomitevole aggressività di Salvini: al bar o all’osteria tutto è concesso! Sono invece rimasto perplesso di fronte alla mancanza di reazione verbale da parte di Juncker. I casi sono due, anzi tre. Prima possibilità: il presidente della Commissione Europea è un fervido cristiano e mette in pratica l’opera di misericordia, che prevede di “sopportare pazientemente le persone moleste”. Non vorrei esagerare e santificare un po’ troppo questo personaggio. Seconda probabilità: l’alto esponente della nomenclatura europea potrebbe aver scelto il comportamento dei cortigiani del duca di Mantova nei confronti di Rigoletto, quando osa protestare clamorosamente per il rapimento e lo stupro della figlia. Si allontanano dicendo fra di loro: “Coi fanciulli e coi dementi spesso giova simular…”. Paragonare le paterne e giuste lamentele di Rigoletto alle scriteriate impuntature salviniane non mi sembra troppo convincente, così come mi pare piuttosto irriverente e ingeneroso assimilare Juncker ad un semplice e brutale cortigiano. Terza eventualità: Juncker, non ha risposto verbalmente per le rime, in quanto si riserva di rispondere coi fatti, facendola pagare con gli interessi a chi l’ha offeso, ma purtroppo facendola pagare a tutti gli italiani, leghisti e non. L’occasione, presto o tardi non gli mancherà e saranno guai seri.

Jean-Claude Juncker non è uno stinco di santo, delle sue pecche spiattellate sul tavolo nel momento meno adatto, si parla da tanto tempo. Pur prescindendo da ogni e qualsiasi argomentazione di carattere etico, di buona educazione e di correttezza, non capisco a cosa serva irritare così pesantemente lo scomodo interlocutore. C’è già fin troppa tensione: aggiungerne con spavalderia una cucchiaiata, tale da far traboccare il vaso, può essere divertente per gli amici del bar, ma assai poco produttivo sul piano dei rapporti politici. Se si scherza, tutto può essere ammissibile, ma lo scherzo è bello quando dura poco e qui invece sta tenendo banco da troppo tempo e non accenna a smorzarsi.

Resto sul discorso alcolico per richiamare una simpatica barzelletta di uno storico personaggio di Parma, Stopàj: questi, piuttosto alticcio, sale in autobus e, tonificato dall’alcool, trova il coraggio di dire impietosamente la verità in faccia ad un’altezzosa signora: «Mo sale che lè l’è brutta bombén!». La donna, colta in flagrante, sposta acidamente il discorso e risponde di getto: «E lu l’è imbariägh!». “Uno a uno”, si direbbe. Ma Stopaj va oltre e non si impressiona ribattendo: «Sì, mo a mi dmán la me pasäda!». Forse Juncker non lo ha detto, anche perché avrebbe dovuto ammettere un brutto difetto, che gli viene addebitato, ma probabilmente lo avrà pensato e starà sobriamente meditando la sua vendetta. Come si diceva, non gli mancherà l’occasione.

Di Maio o Di Guaio, questo è il dilemma

In un brillante intervento al congresso dell’associazione Luca Coscioni, Piergiorgio Odifreddi, famoso e impertinente matematico, ironizzando sull’abilità di Luigi Di Maio a superare la legge dei numeri (si riferiva a quelli del bilancio statale), si è rammaricato che il vicepremier grillino non avesse tentato di prescindere anche dalla legge di gravità lanciandosi dal balcone di palazzo Chigi durante gli inopportuni festeggiamenti pentastellati dopo il varo della manovra economica.  Forse buttarla elegantemente in ridicolo è la cosa migliore…

Non riesco sinceramente a capire da dove Di Maio tragga l’autorevolezza generosamente concessagli a livello elettorale e mediatico. Non certo dalla ridicola cultura generale che si ritrova e che ha ripetutamente dimostrato, inanellando una gustosa serie di strafalcioni; non certo dalla preparazione ed esperienza politica di cui è totalmente privo; non certo per la simpatia compromessa da una prorompente e fastidiosa presunzione; non certo dall’investitura grillina che non ha mai avuto. Ai tempi in cui ero politicamente impegnato (si fa per dire) un soggetto come Di Maio non avrebbe potuto ricoprire nemmeno la carica di segretario di sezione del suo partito. Eppure giganteggia, tiene banco, pontifica, non tace un attimo, rilascia interviste a ripetizione, minaccia sfracelli a livello italiano ed europeo, si propone come l’uomo nuovo e l’astro emergente della politica.

Quando esaurisce il suo repertorio di baggianate la butta sul vittimismo: «Il sistema mediatico e il sistema europeo ormai hanno deciso che questo governo deve cadere il prima possibile. Ma più fanno così, più ci compattano. Siamo due forze politiche molto diverse che si sono messe insieme con un contratto di governo. Con questi attacchi ci compattano. Noi difendiamo gli interessi dell’Italia e dei cittadini». Oltre tutto finge di non vedere che il consenso verso il suo movimento sta seppur lentamente scemando (sempre troppo e ingiustificato per i miei gusti), mentre quello dei suoi partner governativi, la Lega, sta crescendo a tutta canna.

«Non ci sarà alcun rimpasto nel governo Lega-Cinquestelle» dichiara Di Maio, smentendo così le voci di un possibile rimaneggiamento della compagine. Poi ribadisce che la bocciatura Ue alla manovra non lo spaventa: «Tra 6 mesi questa Europa sarà finita. Non c’è nessun piano B, l’appartenenza all’Unione non è in discussione, come non lo è l’uscita dall’euro». In effetti sul rimpasto non scommetterei nemmeno un centesimo: questo governo è un castello di carte e, se ne tolgono una, crolla tutto. Sulla prospettiva di fine della Ue con le prossime elezioni europee andrei piuttosto cauto: potrebbe finire prima Di Maio. Sono d’accordo sul fatto che non siano in discussione, da parte italiana, l’appartenenza alla Ue o l’uscita dalla moneta unica (non siamo in grado di effettuare valutazioni tanto impegnative…): il problema è che, se andiamo avanti così, rischiamo di essere sbattuti fuori.

Ho sentito dire che qualche osservatore o commentatore politico ha ribattezzato il loquace vicepremier pentastellato: non più Di Maio, ma Di Guaio. Mi sembra azzeccato! Di guai questo signore, i suoi colleghi e i suoi partner ce ne stanno procurando parecchi. Forse, nel delirio di onnipotenza che li caratterizza, non se ne rendono nemmeno conto. Il destino italiano nelle mani di Salvini e Di Maio. Fino a quando? Quando meno ce lo aspetteremo scoppierà un casino pazzesco: le chiacchiere non reggeranno, i debiti andranno onorati, saremo sepolti ancora una volta sotto le risate dei maggiorenti europei, ci sveglieremo tutti più poveri e andremo sotto le finestre di palazzo Chigi (io me ne starò rigorosamente in casa mia a piangere sul latte versato dagli altri). Gli umori della folla fanno presto a cambiare e quindi si alzerà un coro: a casa Di Guaio! E Beppe Grillo chissà dove sarà.

Le figurine-figuracce dei ministri tecnici

Il governo Conte ha nel proprio interno esponenti con sensibilità, idee, provenienze, storie molto diverse, che fanno parecchia fatica a compattarsi. Tra le anomalie più eclatanti vi è quella della presenza di Enzo Moavero Milanesi, un giurista di grande valore, quale ministro degli affari esteri. Da sempre molto vicino a Mario Monti, è stato nominato ministro per le politiche europee nel suo governo il 16 novembre del 2011. Le cronache raccontano che arrivato nel suo ufficio abbia rifiutato una scrivania presumibilmente appartenuta a Benito Mussolini: «Sono antifascista, non la voglio». Il 27 aprile 2013 resta ministro con le stesse funzioni nel governo guidato da Enrico Letta. Nell’aprile 2017 viene nominato dal Presidente Gentiloni Consigliere del Premier per la promozione e dislocazione a Milano della sede dell’Ema, già situata a Londra, poi invece affidata ad Amsterdam.

Non riesco a capire, e non sono il solo, come un personaggio del genere abbia accettato di entrare nel governo Conte con un incarico così importante, ma così destinato ad entrare in rotta di collisione con altri ministri e con gli indirizzi politici del governo giallo-verde. Bisogna proprio ammettere che la politica eserciti un fascino particolare anche verso uomini di cultura e di scienza, i quali troverebbero terreno fertile rimanendo nel loro seminato. Queste sono però scelte lasciate alla mentalità ed alle aspirazioni degli interessati. Sono sempre stato del parere che sarebbe molto meglio se tutti facessero il loro mestiere senza “sgolosare” quello altrui, tuttavia il prestito di un giurista di livello dal mondo dell’università al governo della Repubblica non sarebbe un fatto di per sé negativo, anzi.

Quel che non comprendo è come Moavero riesca a far quadrare il cerchio delle sue convinzioni politiche e scientifiche con le linee del governo Conte in materia di rapporti con l’Europa e a livello internazionale. Su questi punti l’attuale compagine governativa parla, a dir poco, cinque lingue: quella opportunistica grillina, quella barricadiera leghista, quella insipida, titubante ed altalenante di Giuseppe Conte, quella scettica e provocatoria di Paolo Savona e quella compromissoria (da pesce in barile) di Giovanni Tria. Un’autentica Babele governativa! Quale prestigio aggiunge al curriculum moaveriano una simile esperienza? Se ben ricordo, Enzo Moavero si era candidato al Parlamento nelle liste di Scelta civica di cui era leader Mario Monti: non fu eletto, ma fece una scelta politica che non ha nulla a che vedere con la linea dell’attuale governo. Non è un politico in cerca di seggiola su cui rimanere a tutti i costi. Tantomeno lo considero un venduto al migliore offerente. Resta quindi un mistero la presenza di questo illustre giurista in mezzo al confuso e confusionario parterre pentaleghista. L’unica risposta fantapolitica al mistero potrebbe essere quella di tenere all’interno del governo una sorta di paravento verso l’Europa, di avere una quinta colonnina europea in mezzo alla bagarre, di mostrare uno specchietto razionale ed istituzionale alle allodole mercatali, di mantenere un tenue filo di dialogo tra il sistema e gli anti-sistema. Mi sembra francamente poco o niente: un ombrellino nel diluvio.

Sotto sotto nutro una speranza: questi tecnici prestati all’improvvisato governo legastellato prima o poi dovranno pure fare i conti con la propria dignità e coerenza. Le loro contraddizioni finiranno per minare irrimediabilmente la credibilità e solidità del governo? Saranno prima o poi la spina nel fianco che toglierà il respiro a Salvini e Di Maio? Il discorso vale per Moavero, ma anche per Tria. Riusciranno a barcamenarsi ed a continuare a svolgere un ruolo di mera copertura?  Durante il dibattito in vista della formulazione del Documento di Economia e Finanza si è vociferato di mezze dimissioni messe sul tavolo da Tria dopo la sbracata virata deficitaria a livello di bilancio statale: non vorrei essere nei suoi panni quando si presenterà in sede Ue e lo guarderanno come un ministro depotenziato, che a Bruxelles recita una parte, mentre a Roma ne sostiene un’altra. Parlare di imbarazzo mi sembra poco. E Moavero, quando si misura con l’antieuropeismo strisciante del governo Conte e magari si trova in netto contrasto col collega Savona? La politica è l’arte del compromesso: d’accordo. Ma non della presa in giro!

 

Mi sta venendo una benefica “dragarella”

Secondo il quotidiano “La stampa”, mercoledì il presidente della Bce, Draghi, è salito al Colle e ha incontrato il presidente della Repubblica, Mattarella, a cui ha parlato dei rischi “nel caso in cui i mercati iniziassero ad accanirsi contro i titoli pubblici” italiani. “Draghi ritiene (e di sicuro al presidente ne avrà parlato) che nel governo italiano ci sia una forte sottovalutazione del contesto in cui si sta scrivendo la manovra”, scrive il quotidiano. “L’Italia deve temere il declassamento da parte delle agenzie di rating”, poiché, con la fine del QE (quantitative easing), l’unico sostegno sarebbe l’OMT (piano anti-spread) e dunque una sorta di “commissariamento del Paese”.

L’OMT, Outright Monetary Transactions (transazioni monetarie dirette), altrimenti detto piano anti-spread, è una misura a sostegno dei Paesi in difficoltà finanziarie, ideata dalla BCE (Banca Centrale Europea), la quale effettuerebbe un acquisto illimitato di titoli di Stato a breve termine (tra 1 e 3 anni) sul mercato secondario e la liquidità conseguente sarebbe completamente sterilizzata. L’intervento della BCE dovrebbe essere chiesto dal Paese interessato e sarebbe condizionato alla vigilanza sui bilanci e all’attuazione di riforme strutturali: un commissariamento bello e buono.

Il solo pensare che Mario Draghi abbia il timore di dover intervenire sull’Italia a questo livello mette i brividi e se, come ipotizza “La stampa”, se ne è parlato al Quirinale, ai brividi si aggiungono i sudori freddi. Da una parte l’esistenza di questo filo diretto tra Draghi e Mattarella mette un po’ di speranza sul futuro economico-finanziario dell’Italia: si tratta delle due persone più affidabili che si muovono a livello europeo ed italiano e la loro attenta, competente ed equilibrata azione è garanzia di serietà e correttezza. Meno male che al Quirinale c’è Sergio Mattarella, che non esito a definire “l’ultimo dei giusti” della politica italiana, e che in Europa c’è Mario Draghi, che non esito a definire “il baluardo” dell’esistenza dell’Unione Europea.

Quando un ammalato ha intorno al letto i due migliori medici esistenti, si sente sollevato e rincuorato. Tuttavia, se intuisce, anche senza capirlo con assoluta certezza e precisione, che si stanno preparando al peggio nel caso in cui la salute dovesse precipitare, non sta tanto tranquillo e si chiede il perché di tanto rischio per la sua vita, da dove venga e se non si possa rimuoverne le cause. Il potenziale malato Italia mi sembra in questa situazione: è nelle mani di medici incompetenti, presuntuosi e faciloni, che gli stanno somministrando terapie domiciliari sbagliate, e rischia il ricovero ospedaliero con eventuali cure invasive se non addirittura con interventi chirurgici. Se il malato constata che i propri disturbi permangono e tendono ad aggravarsi nonostante i referti delle analisi e delle indagini effettuate siano rassicuranti, comincia a dubitare e magari si rivolge a qualche medico più attendibile. Il radiologo, guardando le lastre dello stomaco di mio padre, emise un responso che dava il mio genitore sano come un pesce, nonostante i gravi disturbi che lo tormentavano. Dopo qualche mese dovette farsi operare: aveva ben tre ulcere che stavano degenerando… Per fortuna non si era accontentato del referto radiologico e aveva approfondito la situazione con altri specialisti della materia.

Gli italiani sembrano invece fidarsi ciecamente del reparto di medicina di Palazzo Chigi e dintorni, ultimo bollettino medico quello ottimistico di Giovanni Tria: “Una volta che il programma di politica economica del Governo sarà approvato dal Parlamento, si dissolverà l’incertezza che ha gravato sul mercato dei titoli di Stato negli ultimi mesi.  I recenti livelli di rendimento sui titoli di Stato non riflettono i dati fondamentali del Paese, ma con i livelli più allineati le previsioni di crescita e finanza pubblica miglioreranno”. È pur vero che il malato è portato a dare fiducia a chi gli fa la diagnosi più benevola, ma, se le preoccupazioni vengono da Mario Draghi e Sergio Mattarella, non sarà il caso di aprire un poco gli occhi foderati di prosciutto leghista e di scendere sulla terra dalle stelle “grilliste”?

 

Dal balcone di Palazzo Venezia a quello di Palazzo Chigi

Lungi da me gufare contro il mio Paese, ma certamente non sono orgoglioso di come l’Italia sta portando avanti (o indietro) i rapporti con l’Unione Europea. Mi sono sentito umiliato quando il vice-premier Matteo Salvini ha fatto pesantissime illazioni su un eventuale brutto vizio di Jean Claude Juncker: le debolezze personali fanno parte degli uomini e anche dei politici e non è il caso di trasferirle a livello di scontro politico. Poi, chi è senza peccato scagli la prima pietra: se ci mettiamo su questa strada, si “Salvini chi può”.

E che dire delle affermazioni del commissario europeo agli Affari economici rivolte al governo italiano: euroscettico e xenofobo. Giudizi gravissimi, purtroppo abbastanza veritieri: povera Italia! Siamo caduti in basso come mai avrei immaginato. Mi umilia che il mio Paese, uno degli autorevoli fondatori dell’Europa Unita, venga declassato ad euroscettico. Mi fa arrossire di vergogna il solo pensare che, dopo la tristissima esperienza fascista con tanto di razzismo incorporato, l’Italia coltivi sentimenti xenofobi: un Paese noto in tutto il mondo per la sua civiltà e ospitalità brutalmente decaduto in senso più o meno razzista. Ci siamo messi su una brutta strada: “Di Maio in peggio”.

Assistiamo ai preliminari di un tira e molla tra Ue ed Italia. Il balletto delle cifre è cominciato ad opera dei partiti del nostro governo legastellato: una penosa gara a mantenere il consenso elettorale dopo le azzardate promesse delle ultime elezioni. Troveranno la quadra magari allargando ulteriormente i cordoni della borsa. Non stiamo parlando di qualche marchetta elettorale, ma di smaccata prostituzione governativa.  Poi le danze si trasferiranno a Bruxelles. Non ho idea come andrà a finire, ma se per caso la Commissione europea cederà alle provocazioni italiane, non sarà una nostra vittoria, ma una sconfitta di tutti. Vorrà dire che avrà avuto ragione chi ha impostato una strategia antieuropea: la politica ridotta a prepotenza con la diplomazia che va in cantina.  L’Europa ridotta ad un cortile di rissose massaie.

A immediata riprova di quanto sopra, sentiamo la voce di un autorevole esponente di governo. “Abbiamo portato a casa la manovra del popolo, si va avanti così più determinati di prima, adesso può partire una seria e sana interlocuzione con la Commissione Europea per arrivare a un buon esito!”. Così il vicepremier Di Maio, il quale ha aggiunto che rifarebbe la indecorosa festa sul balcone di Palazzo Chigi. Capisco, il vicepremier è proprio “fuori come un balcone” e su quel balcone addirittura festeggia. Di vicende politiche poco edificanti ne ho viste parecchie, ma roba del genere non la ricordo.

Il presidente del consiglio Giuseppe Conte va a fare un “comizietto” alle celebrazioni della festa del patrono italiano, san Francesco d’Assisi, e non si contiene, ma si butta in un demagogico parallelismo tra il messaggio francescano e l’azione del suo governo, con il contorno di sorrisi compiaciuti e di applausi scroscianti. Il premier è particolarmente orgoglioso per il reddito di cittadinanza, che contribuirà a sollevare dalla povertà oltre 5 milioni di persone. Sulle pensioni sostiene di aver pensato ai bisogni delle persone elevando le minime e riparando alle ingiustizie della legge Fornero. Poi arrivano i risarcimenti ai truffati delle banche, previsti nella Manovra e che sono un obbligo morale. E i soldi per fare tutto questo? Si troveranno e/o si faranno dei debiti. Di (s)governare così sono capaci tutti. Complimenti! Il bello è che chi alza il ditino per esprimere qualche perplessità fa la figura dell’affamatore del popolo. Ma cosa sta succedendo in Italia?

 

 

 

Contro gli immigrati tutto fa brodo

Se è vero, come è vero, che l’operato della magistratura va rispettato ed accettato (per la verità il discorso riguarderebbe le sentenze e non le ordinanze di custodia cautelare o di arresti domiciliari), altrettanto vero è che la magistratura è sì un potere autonomo ed indipendente, ma non è un’isola dal momento che risente del particolare e mutevole clima sociale in cui è chiamata ad operare.

Non sono un esperto in diritto penale, ma i provvedimenti giudiziari adottati nei confronti di Mimmo Lucano, sindaco di Riace, un comune in provincia di Reggio Calabria, e della sua compagna, vale a dire arresti domiciliari per il primo e divieto di dimora per la seconda, mi sembrano eccessivi e azzardati. Questo sindaco era diventato un simbolo dell’accoglienza ai migranti, per protesta contro le difficoltà frapposte all’opera del comune aveva fatto anche lo sciopero della fame ed era stato inserito dalla rivista “Fortune” tra le 50 personalità più influenti del mondo.

Stando alle notizie che circolano, sotto la lente dell’indagine sarebbe finita la gestione dei finanziamenti del ministero dell’Interno al comune di Riace per l’accoglienza di rifugiati e l’affidamento del servizio raccolta rifiuti. Le indagini che hanno portato all’arresto di Mimmo Lucano hanno fatto emergere “la particolare spregiudicatezza del sindaco nell’organizzare matrimoni di convenienza tra riacesi e donne straniere per favorire illecitamente la loro permanenza”. Così la procura di Locri. Con la compagna avrebbe architettato “espedienti criminosi per trasgredire norme civili, amministrative e penali”. La procura gli contesta una “lunga serie di irregolarità amministrative e di illeciti penalmente rilevanti”. Lucano avrebbe ammesso di essersi adoperato personalmente per organizzare matrimoni “di comodo”.

Dalle indagini che hanno portato all’arresto non sono emersi reati legati alla gestione del denaro. Ad affermarlo nella sua ordinanza è il gip, che parla di “malcostume diffuso” e gestione “tutt’altro che trasparente” di risorse erogate per progetti Sprar e Cas, che però “non si sono tradotte in alcuna delle ipotesi delittuose ipotizzate”. Le irregolarità, secondo la procura, riguardano “procedure di affidamento diretto alle associazioni operanti nell’accoglienza” e altro. Sembra quasi intuibile una diversità di vedute tra procura e giudice per le indagini preliminari e noto una certa confusione, che potrebbe essere anche frutto dell’improvvisazione e superficialità con cui vengono redatte e diffuse certe notizie.

Visto dal governo legastellato: “Accidenti, chissà cosa diranno adesso Saviano e tutti i buonisti che vorrebbero riempire l’Italia di immigrati!”. Questo il commento su Facebook del ministro dell’Interno e vicepremier, Salvini, circa l’arresto di cui sopra. “Riace non era un modello, è finita l’era del business dell’immigrazione”. Scrive così in un post del blog delle Stelle, il sottosegretario all’Interno, Sibilia. “Il sistema dell’accoglienza targato Pd ha creato più indagati che integrati”. “Per Riace non ci sono coperture e il nostro governo si è posto l’obiettivo di eliminare i finanziamenti a pioggia” prosegue Sibilia.

Visto da sinistra: “Non entriamo nel merito del lavoro della magistratura (…) ciò che invece ci preme sottolineare è il valore del modello di integrazione e umanità che Mimmo Lucano è riuscito a realizzare a Riace”. È quanto afferma il responsabile del Pd della Calabria, Piccio. “Mi pare che alla base ci sia proprio l’idea di colpire un modello (…) di criminalizzare la solidarietà”, dice il segretario di SI, Fratoianni. Pressoché identica la posizione di LeU. Boldrini: “Il suo modello è riconosciuto anche all’estero”. Fiom e Usb esprimono solidarietà.

Questo sindaco è passato dall’altare della esemplare solidarietà alla polvere della grave irregolarità. Fra qualche anno magari la Corte di Cassazione dirà, come è già successo, che le scorrettezze a fin di bene non sono penalmente perseguibili e tanto meno condannabili. Ma restiamo ai nostri giorni ed al clima di intolleranza ed astio scatenatosi contro gli immigrati a cui anche la magistratura rischia di portare il suo contributo (dalla squalifica alle ong alla sputtanata di un sindaco accogliente).

Durante una campagna elettorale in cui si contrapponevano Berlusconi e Prodi, Roberto Benigni, con la sua impareggiabile verve ironica, disse nel pieno di una trasmissione televisiva della Rai, fregandosene altamente della par-condicio: «Io non sono di parte, ma Berlusconi non mi piace…».  Non ho l’autorevolezza del grande Benigni, ma provo ad imitarlo: «Sull’arresto di Mimmo Lucano non ho le idee molto chiare, ma sto con Lucano» Come sostiene Roberto Saviano, nelle azioni di questo sindaco, se non ci sono finalità di lucro, ci può essere solo disobbedienza civile. “È un reato l’umana solidarietà?” domanda don Ciotti, che poi dice: sto con Lucano. Ribadisco: sono d’accordo!

 

Giovanni Tria, soprannominato “il bohémien”

“Se l’Italia vuole un trattamento particolare supplementare, questo vorrebbe dire la fine dell’Euro. Bisogna essere molto rigidi. L’Italia si allontana dagli obiettivi di bilancio che abbiamo approvato insieme a livello europeo. Non vorrei una crisi come la Grecia”. Così il presidente della Commissione Ue, Juncker, non certo un nemico dell’Italia. Juncker era a Friburgo in Germania e rilasciava queste dichiarazioni mentre il ministro italiano dell’Economia, Giovanni Tria, giungeva all’Eurogruppo a Lussemburgo, dove non è stato accolto con rose e fiori e quindi ha invitato i partner europei a stare tranquilli, rassicurandoli che il rapporto debito/pil scenderà nel 2019.

Poi ha cercato di spiegare che cosa sta accadendo e come è formulata la manovra. “Il 2,4 % è un numero che non corrisponde ad alcune regole europee, ma fa parte della normale dinamica Ue, è sempre accaduto a molti Paesi nel corso degli ultimi decenni: sono pochi quelli in regola con Ue. Non significa che non vada rispettata la legge, ma ci sono delle situazioni economiche in cui bisogna fare delle valutazioni”. Così il ministro Tria.  “Importante è la qualità della manovra. Questa è di crescita. Se non vinciamo la scommessa cambieremo misure. Non ci sarà alcuna fine dell’Euro”. Tria ha lasciato anticipatamente la riunione di due giorni per rientrare a Roma. Non parteciperà all’Ecofin, la riunione dei ministri finanziari. Lo confermano fonti del Mef specificando che Tria torna per potersi dedicare al completamento della Nota di aggiornamento al Def e all’Ecofin andrà il direttore generale del Tesoro Rivera.

Due banali riflessioni mi vengono spontanee. Innanzitutto non mi sembra il momento di snobbare importanti riunioni a livello europeo: è inutile nasconderlo, siamo nell’occhio del ciclone e dare l’impressione di trascurare i tavoli europei non è certo il modo migliore per chiarire la posizione italiana a livello di confronto e di dialogo. L’aria che tira non è delle migliori e quindi non sono opportune furbizie pseudo-diplomatiche. In certi frangenti bisogna essere presenti e puntuali nel sostenere le proprie tesi, ma anche nell’ascoltare le obiezioni e le critiche dei partner, che fino a prova contraria non sono dei nemici.

La seconda riflessione riguarda il tono e il contenuto delle dichiarazioni rilasciate frettolosamente dal ministro Tria. In Bohème, l’opera lirica di Giacomo Puccini, Rodolfo cerca di giustificare il suo distacco da Mimì con argomenti pretestuosi, al punto che l’amico Marcello è costretto a dirgli: “Lo devo dir? Non mi sembri sincer…”. Il seguito lo lascio perdere per carità di Patria. Leggendo i comunicati stampa, che riportano le parole di Tria, ho avuto la stessa reazione di Marcello: le spiegazioni non sono plausibili, lasciano il tempo che trovano, rinviano i problemi a data da destinarsi.

Appellarsi ad una situazione eccezionale, peraltro prevista dagli accordi europei, non è oggettivamente sostenibile: la giustificazione è fasulla e posticcia e quindi non può essere presa in seria considerazione. Che uno sforamento del 2,4 % a livello di rapporto defici/pil faccia parte della normale dinamica UE, dopo che l’Italia si era impegnata a puntare allo 0,8 %, è sinceramente un’argomentazione ridicola (lo stesso Tria risulta aver battagliato per non alzare la previsione del deficit fino a quel punto). Prevedere che, se non si otterranno i risultati di crescita, verranno cambiate le misure, sa tanto dell’infantile promessa di “fare i bravi” dopo aver sgarrato a più non posso.

Mi auguro che Giovanni Tria, se ancora possibile, lavori sodo sul Def e poi, visto che non ritiene opportuno dimettersi, cerchi almeno di spiegarsi meglio e di tenere un atteggiamento corretto nei confronti dell’Unione Europea. Non può traccheggiare, fare il finto tonto, prendere tempo. Abbia il coraggio di dire che in questa fase politica l’Italia ritiene di allontanarsi dai propri impegni europei, chiedendo transitoria comprensione e tolleranza. Per stare sempre a Bohème, al nostro ministro non resta, parafrasando Mimì, che cantare: “Altro dell’Italia non saprei narrare, sono il vostro vicino che vi vien fuori d’ora a importunare”. Speriamo che queste citazioni operistiche non siano dei lapsus freudiani, dal momento che “Bohème” significa “Vita povera e disordinata”.

Il popolo festeggia il lupo e snobba l’agnello

Luigi Di Maio vide il Partito Democratico in piazza che protestava contro la manovra economica del governo pentaleghista e gli venne voglia di sputtanarlo con qualche pretesto. Standosene sul Blog delle Stelle cominciò ad accusare il PD di creare terrorismo mediatico per far schizzare lo spread, di essere irresponsabile e nemico dell’Italia e amico dei poteri forti annidati in Europa.

Il PD gli fece notare che lo spread non dipende dal partito democratico, ma dal grado di fiducia degli investitori verso chi governa e che i mercati non guardano al PD, ma alle linee di politica economica che mettono a rischio la tenuta del Paese, contenute nel documento di economia e finanza varato dal governo, irresponsabile e cialtrone, di cui i democratici sono all’opposizione.

Venutogli meno quel pretesto, Di Maio allora disse: «Ma voi del PD avete governato in passato e i mercati si ricordano di voi e soprattutto di Renzi, ecco perché le borse crollano. È colpa vostra!». E il PD a spiegargli che quando governavano Letta, Renzi e Gentiloni, lo spread era in netto calo e la situazione economico-finanziaria tendeva a migliorare. E poi, se proprio vogliamo scaricare le colpe sul passato, anche gli attuali alleati del M5S, i leghisti, hanno governato per parecchi anni fino a portare l’Italia sull’orlo dell’abisso europeo.

«Bene» concluse Di Maio, «se siete così bravi a trovare delle scuse, noi non possiamo rinunciare a darvi tutte le colpe e a farvi mangiare dal popolo. Infatti abbiamo oltre il 60% di consenso, fatevene una ragione. La manovra economica per la prima volta fa il deficit per dare ai più deboli e non alle banche».

Dalla piazza risposero i democratici, una volta tanto uniti fra di loro: «La vostra è una manovra contro il popolo, perché ne aumenta i debiti. Il deficit sarà ben più alto di quanto previsto e il Paese è a rischio». E Di Maio, spazientito come non mai, rispose: «Metteremo mano alle forbici e abbatteremo il debito tagliando spese inutili».

A quel punto, visto che contro chi ha deciso di avere ragione a tutti i costi, non c’è argomento che tenga, il PD si rassegnò. Riprese a litigare al proprio interno fra coloro che vorrebbero dialogare e collaborare con i grillini e quanti non li vogliono nemmeno vedere, fra coloro che vorrebbero restare in piazza per ripartire dal popolo, non quello osannante sotto le finestre di Palazzo Chigi, ma quello storico per una nuova sinistra, e quanti pensano di rimandare tutto al congresso in cui decidere se farsi mangiare definitivamente dal popolo o provare a resistere in nome di un’Italia che non è minoritaria e cerca di reagire.

La favola finisce qui, chiedendo scusa a Fedro per avere liberamente adattato la sua (Il lupo e l’agnello) alla sciocca prepotenza grillina e alla pigra arrendevolezza piddina.