L’audiologia proibita allo Juventus stadium

Esistono accadimenti che, per loro natura o per loro conseguenze oggettive, diventano fatti la cui portata ed il cui rilievo comportano attenzione, riflessione, critica, dibattito, scontro etc. Ve ne sono altri che, pur essendo oggettivamente irrilevanti o addirittura insignificanti, assurgono a grande importanza per la distorta sensibilità collettiva, spesso accesa a livello mediatico. Un lungo giro di parole per dire come la più banale delle cazzate possa monopolizzare l’attenzione e la discussione di tanta gente. È sicuramente il caso dell’innocuo e banale gesto rivolto da José Mourinho al pubblico dello stadio torinese al termine della partita di calcio, a livello di champions league, tra Juventus e Manchester United, finita inaspettatamente con la vittoria della squadra inglese allenata dal suddetto tecnico portoghese. Ci casco anch’io e porto acqua al mulino chiacchierone delle futilità.

Dopo aver sopportato cori offensivi durante l’intera partita, alla fine, ringalluzzito dalla clamorosa rimonta della sua squadra avvenuta con due goal negli ultimissimi minuti di gioco, Mourinho si è rivolto al pubblico portando la mano all’orecchio per chiedere provocatoriamente cosa avessero intenzione di urlare in quei momenti di grandissima delusione o se avessero perso improvvisamente la voce. È vero che il rapporto tra questo tecnico e il pubblico juventino è molto teso e risale al fatto che Mourinho abbia allenato l’Inter, la storica acerrima rivale della Juventus, ottenendo nella stessa stagione la vittoria nelle tre competizioni calcisticamente più importanti, vale a dire il campionato italiano, la champions league e la Coppa Italia. Lui si è sempre fatto scudo del cosiddetto triplete per rispondere alle critiche, lasciando intendere che i tifosi juventini devono starsene zitti e potranno parlare quando la loro squadra avrà raggiunto un simile articolato traguardo.   Alla spazzatura da rissa di cortile fa riscontro una rivalsa da asilo infantile.

Detto questo vorrei capire cosa c’è stato di tanto sconveniente e censurabile in quel gesto, peraltro praticato da tutti i calciatori beccati dal pubblico e successivamente autori di goal. Mio padre la chiamava “arlìa”. Certo, se praticata da imbecilli, può diventare l’innesco per offensivi scontri verbali o addirittura per sfoghi di violenza.  Io non ho trovato nulla di scandaloso nel comportamento di Mourinho, se non la “giusta” rivalsa verso chi lo voleva ridicolizzare. I grilli parlanti, irritati dalla sconfitta della vecchia signora, l’hanno messa sul piano della mancanza di professionalità. Ma fatemi il piacere…Nel mondo del calcio la correttezza professionale è un optional per tutti: giornalisti che friggono il tifo per poi lamentarsi delle scottature, giocatori che si comportano come viziati bamboccioni, allenatori malati di “primadonnismo”, arbitri pagati per commettere errori, presidenti che giocano a sfondare i bilanci e a quadrarli con la fantasia, tifosi che non fanno il tifo, ma vanno allo stadio per sfogare le loro frustrazioni e i loro peggiori istinti. Non si salva nessuno, è un mondo sempre più malato e sporco. Smettiamo quindi immediatamente i panni moralistici, accettiamo la sconfitta con quell’eleganza, che effettivamente non è il pezzo forte del bizzoso allenatore del Manchester United.

Mio padre era maestro nello sferzare il calcio, un gioco che amava e seguiva con grande interesse, ma da cui restava disgustato ogniqualvolta veniva oltrepassato il limite del buongusto e della sacrosanta rivalità sul campo e negli stadi. Durante un Parma-Sampdoria di coppa Italia di parecchi decenni fa, nelle file della blasonata e simpatica squadra di Genova militava un fuoriclasse a fine carriera, il quale aveva espresso il meglio di se durante i campionati precedenti giocati nella Fiorentina: si trattava di Lojacono. Il suo aspetto esteriore era quello tipico del giocatore a fine carriera: qualche chilogrammo in più, il passo un po’ lento, forse qualche capello grigio. Per la verità ricordo che la sua, in quell’occasione, non fu una prestazione di rilievo. Venne trotterellando, senza fretta, quasi con scetticismo, a battere un calcio d’angolo nella zona di campo prospiciente la gradinata dove tra gli altri era piazzato anche mio padre (c’ero anch’io). Il solito assurdo e stonato tifoso non trovò di meglio che far tuonare (intorno c’era silenzio) la propria voce nell’urlo di scherno “Lojacono bidone”, che fu sentito distintamente da tutti, compreso l’interessato il quale, scrollando il capo, senza voltarsi verso il suo detrattore, allargò simpaticamente le braccia in un gesto, che voleva dire tutto e niente, ma che certamente sdrammatizzava con intelligenza la situazione e ridicolizzava lo sfogo del tifoso parmense. A quel punto mio padre, che amava bollare le vicende ridicole e non si lasciava sfuggire la possibilità di sottolinearle in modo sarcastico, lanciò il suo acido e personale commento di sintesi e disse rivolto all’incauto tifoso: “A sarìss cme där dal povrètt a Barìlla s’al magna ‘na sigolla”.

In conclusione, il pubblico juventino avrebbe fatto meglio a tacere o almeno ad aspettare la fine della partita e forse Mourinho avrebbe fatto meglio a prendere lezione da Lojacono: un personaggio del quale non gli è forse nota la storia. I giornalisti sarebbe meglio che si andassero a nascondere. Io avrei fatto meglio a non prendere in considerazione questo fatto(?), ma la frittata è fatta.

Elezioni di midterm per una mid-democracy

Donald Trump nel 2016 è stato eletto presidente degli Usa dalla minoranza degli americani (circa due milioni di voti in meno rispetto alla Clinton), nel 2018 viene politicamente confermato sulla base di risultati elettorali in cui il partito democratico esce vincente e controlla la Camera dei rappresentanti, mentre il partito repubblicano, sempre più controllato da Trump, si accontenta di mantenere la maggioranza dei seggi al Senato.

Ai tempi del fascismo e del nazismo gli oppositori a questi drammatici regimi cercavano di fuggire negli Usa alla ricerca di un po’ di libertà e democrazia, oggi se dovesse mai succedere che in Italia si instauri un regime autoritario (mai dire mai) avrei parecchie perplessità ad orientare la mia fuga verso gli Stati Uniti. Perché? Una democrazia istituzionalmente zoppa, con un sistema elettorale e rappresentativo assurdo, con una mentalità di governo chiusa, presuntuosa ed invadente. Pensiamo se la rinascita italiana ed europea, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, avesse dovuto dipendere dagli Usa di Trump: poveri noi. Alla cortina di ferro si sarebbe sostituita immediatamente una cortina di burro e noi saremmo stati sballottati perennemente fra Russia ed America, l’Europa unita non sarebbe mai nata e forse ci saremmo fusi con la Jugoslavia. Sto scherzando, ma non troppo.

Al momento non sono riuscito a capire come la pensa la maggioranza degli americani: nel ginepraio del voto statunitense ho la netta impressione che la democrazia venga nascosta e sacrificata sull’altare di un finto presidenzialismo, con il Parlamento a fare da mero supporto a chi governa dalla Casa Bianca. Il sistema, fino al momento in cui esprimeva presidenti ragionevoli, pur con tutti i limiti e i difetti possibili ed immaginabili, reggeva sul piano democratico, nel momento in cui è spuntato un folle incantatore di serpenti il sistema democratico  è andato in crisi, è stato di fatto invertito, perché non dà garanzie di rappresentatività e soprattutto perché è privo di contrappesi istituzionali. Chi governa non è un leader, che risponde a tutta la nazione, ma un capo che comanda in nome dei suoi sostenitori (oltretutto sono e continuano ad essere una minoranza). Fanno tenerezza e (quasi) pena i bagni di folla pre e post elettorali: sempre più fastidiose americanate e sempre meno feste democratiche.

Il problema sta nei riflessi che tale anomalia democratica sta avendo sul mondo intero e sull’Europa in particolare. La democrazia si sta dileguando, gli equilibri internazionali stanno andando a gambe quarantotto, l’economia sta friggendo la politica, emergono i fantasmi del passato. Ho sempre ritenuto gli Usa, pur in mezzo alle contraddizioni imperialistiche di non poco conto, un punto di riferimento e di appoggio imprescindibile per l’Europa, ma soprattutto per l’Italia. L’alleanza con gli Stati Uniti è sempre stata un punto di forza per un Paese debole come il nostro. Anche adesso sembra che Trump ci voglia bene, che ci allunghi la mano (e i nostri attuali governanti per mille stupidi motivi la stanno accarezzando): sì, ma per andare nel fosso in cui lui sguazza benissimo mentre noi rischiamo di affogare.

La caduta degli asini

Non c’è giorno in cui non scoppi un piccolo o grande contenzioso all’interno del governo e della sua maggioranza parlamentare. È la volta della “prescrizione”, vale a dire di un istituto giuridico che porta all’estinzione di diritti o di reati a seguito del trascorrere di un determinato periodo di tempo. La questione è molto delicata, perché tocca da una parte principi giuridici fondamentali come la certezza del diritto, la durata ragionevole del processo, il reinserimento sociale del reo e dall’altra parte il diritto dello Stato a fare comunque giustizia per i suoi cittadini.

Su questo tema si scontrano, al di là delle scaramucce di metodo, peraltro di una certa importanza che vedremo fra poco, due impostazioni politiche nettamente contrastanti, sinteticamente condensabili in giustizialismo e garantismo. Tendenzialmente giustizialisti sono i pentastellati, i quali vogliono dare almeno l’immagine dei rigorosi pulitori del sistema: tendenzialmente garantisti sono i leghisti, che preferiscono coniugare il loro populismo con la rigorosa difesa dei diritti del singolo contro l’invadenza dello Stato e della legge.

Nel cosiddetto contratto di governo è contenuta la riforma della prescrizione: scrivere così non significa però nulla, perché cambiare le regole della prescrizione può significare accorciarne o allungarne i tempi, renderla più o meno stringente, farne uno stimolo o una salvaguardia per la magistratura lumaca, etc. etc. Qui casca il primo asino: se il programma di governo doveva essere all’insegna del cambiamento e per ciò stesso doveva essere preciso e puntuale a differenza dei soliti generici e onnicomprensivi documenti programmatici, non ci siamo in quanto anche il contratto pentaleghista  ha evidentemente l’elasticità per dire tutto e niente.

I grillini intenderebbero poi inserire l’innovazione – vale a dire la sospensione dei termini prescrittivi dopo la sentenza di primo grado (in parole povere un allungamento dei tempi) – facendola confluire nel provvedimento legislativo anticorruzione (un fiore all’occhiello), mescolando capre e cavoli con un emendamento spot e magari con la quadratura del cerchio, aggiungendo cioè nel titolo del ddl Anticorruzione anche “in materia di prescrizione del reato”. E qui casca il secondo asino: la trasparenza e la linearità delle procedure parlamentari doveva essere una novità, mentre si ricade bellamente nella solita e confusa mescolanza di provvedimenti disorganici e incasinati fin dalla loro nascita.

Sullo sfondo dei lavori parlamentari poi spunta il discorso di porre la questione di fiducia su un altro provvedimento, quello inerente la “sicurezza”, per chiudere in qualche modo la disputa parlamentare su questo decreto, per il quale, tanto per cambiare, non c’è accordo. E qui casca il terzo asino: il ricorso ai voti di fiducia non era una pratica antidemocratica e antiparlamentare da evitare accuratamente e scupolosamente? Tutto dimenticato e superato!

L’asino più grosso casca però non tanto in senso metodologico o procedurale, ma in senso squisitamente politico: abbiamo un governo, che sui temi fondamentali non è omogeneo; non si comprende quale linea porti avanti in politica estera, nei rapporti con la Ue, in campo giudiziario, in campo assistenziale etc. etc. Avrebbero bisogno di un provetto mediatore a livello di presidente del Consiglio, un politico coi baffi che dipanasse le aggrovigliate matasse, mentre invece si sono affidati a un tecnico assai sprovveduto politicamente parlando e per di più tendono a sminuirne ruolo e poteri imbrigliandolo continuamente in un balletto salvinian-giorgettian-dimaiano da cui esce aggrovigliato lui stesso in mezzo ai  gomitoli governativi. Più che del governo di cambiamento si può parlare di governo “dell’ucasizzazione”, vale a dire affidato all’Ucas, ufficio complicazione affari semplici. Con l’aggravante che gli affari del governo Conte non sono affatto semplici e quindi la complicazione finisce con l’essere una solenne presa per i fondelli laddove la semplificazione doveva rappresentare una bella novità. C’è un detto popolare che avvalora una sciocca ma simpatica superstizione: “Frä barbä, béla novitä!”. Peccato che nel governo Conte non ci siano frati con la barba, ma ministri che fanno venire la barba.

I debiti ambientali giungono a scadenza

Abbiamo trovato il capro espiatorio. Dopo giorni di angoscioso ciarpame post-alluvionale siamo arrivati al dunque: tutta colpa dell’abusivismo. Piove, abusivismo ladro! L’importante infatti, nella nostra epoca “disumanista”, non è partecipare, ma incolpare.  Abbiamo violato a più non posso i divieti posti a salvaguardia del territorio e non sono arrivate ammende, sanzioni penali e civili, è giunta la spietata e imparziale vendetta ambientale.

Abbiamo storicamente ritenuto l’abusivismo un male necessario per uscire dalla miseria post-bellica: dobbiamo ammettere che il nostro boom economico degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso è dovuto all’abusivismo e all’evasione fiscale. Si costruiva dappertutto e si lavorava dappertutto. Le leggi erano un optional: eravamo dei poveri diavoli, che rubavano per mangiare e quindi ci sentivamo innocenti, addirittura bravi. Si chiama contestualizzazione e storicizzazione dell’abusivismo.

Poi l’appetito vien mangiando ed è iniziato l’abusivismo dei furbetti dell’ambientino, quelli della villetta in riva al fiume, dell’albergo in riva al mare, del residence dentro i boschi, etc. Abbiamo consentito autentici sfregi territoriali ed ambientali, talora in buona fede, spesso in odore di corruzione, concussione e mafia.

Poi, quando il rigore ambientalista ha fatto capolino, non ce la siamo sentita di spazzare via l’acqua sporca anche perché rischiava di trascinare il bambino: ecco i condoni, le sanatorie, le indulgenze plenarie a prezzo risibile. Qualcosa nella legislazione è cambiato, ma purtroppo non è mutata la mentalità del cittadino profittatore, quella del governante omertoso o addirittura complice, e abbiamo continuato a sopravvivere da un terremoto all’altro, da un’alluvione all’altra, accontentandoci di un piatto di lenticchie che copriva le annose brutture accumulate nel territorio.

Questo è il triste percorso da cui veniamo, lo sappiamo da tempo e ogni volta facciamo finta di scandalizzarci. Certo, nel frattempo il clima ci è venuto contro e ci ha scaricato addosso i debiti ambientali accumulati nel tempo. Paga chi ci resta sotto, colpevoli, innocenti, responsabili, irresponsabili, giovani ed anziani, ricchi e poveri.  Come la morte, che non guarda in faccia nessuno, ma non per questo la possiamo umanamente considerare giusta, ma solo imparziale.

Per rimediare è molto tardi. Il ministro Matteo Salvini ha fatto due affermazioni che meritano una certa considerazione (tutti i matti hanno le loro virtù): bisogna piantarla con l’ambientalismo da salotto, con la poetica difesa a tutti i costi dell’alberello e del torrentello, bisogna finirla col cretinismo ecologico, che sacrifica tutto sull’altare della protezione chiccosa, emozionale e parolaia della natura. Tuttavia se l’ambientalismo ha necessità di un bagno di pragmatismo, il pragmatismo ha bisogno di un bagno di ambientalismo e non di condonismo. Attenti dunque, perché ciò che può sembrare eccessivo ed esagerato oggi, potrebbe rivelarsi indispensabile e utile domani. A buon intenditor poche parole. Persino la difesa del posto di lavoro oggi può significare disoccupazione, malattia e morte domani o dopo domani.

La seconda intuizione salviniana riguarda la necessità di un progettone per la messa in sicurezza del territorio: sono più che d’accordo. Occorre una barca di soldi, stimabile in 40 miliardi. Credo a naso che siano pochi, ma comunque si potrebbe ragionare. Bisogna trovarli anche perché si tratterebbe di un volano socio-economico notevole per imprese, occupazione, giovani, turismo e chi più ne ha più ne metta. I finanziamenti potrebbero arrivare da tante parti, anche da un’imposta di scopo ben articolata e dosata. Mi dichiaro fin d’ora d’accordo e disponibile e rinuncio fin d’ora alle solite obiezioni: paghi chi ha sbagliato, non facciamo un assist alla mafia, facciamoceli dare dall’Europa, non serviranno a niente perché verranno rubati o sprecati come è già successo. Ci sto a rischiare, ma facciamo qualcosa sul serio e di serio. Subito!

Il prete nell’acqua

Abbiamo l’acqua alla gola. Non è un modo di dire per fotografare gli andamenti di politica economica, ma la fotografia della situazione climatica che stiamo vivendo. Ricordo che mio padre, con la sua solita e sarcastica verve critica, di fronte agli insistenti messaggi statistici sulla morte di un bambino per fame ad ogni nostro respiro, si chiedeva: «E mi alóra co’ dovrissja fär? Lasär lì ‘d tirär al fiè?». Lo diceva forse anche per mettere fine ai pietismi di maniera che non servono a nulla e vanno molto di moda.

Di fronte all’allarmismo giustificato, ma mediaticamente cavalcato e spropositatamente enfatizzato, ci si potrebbe chiedere: e allora cosa facciamo, ci chiudiamo in casa a piangere sull’acqua versata? Non usciamo più per paura che un albero ci caschi in testa?  Mi sembra che anche dal punto di vista climatico e meteorologico non si vada oltre la strumentalizzazione delle paure. La paura degli immigrati ci assolve dalle ataviche responsabilità nei confronti dei nostri simili, che vivono in condizioni disperate. La paura delle alluvioni ci può portare a sopravvivere rispetto agli andamenti climatici, a galleggiare nelle tempeste che ci colpiscono, in fin dei conti a voltarci dall’altra parte, ad alzarci in punta di piedi se l’acqua è troppo alta.

Il clima è cambiato, non so fino a qual punto sia ascrivibile ad una imprevedibile evoluzione naturalistica oppure ad una scriteriata mercificazione dell’ambiente. Non ho risposte precise e non penso di essere l’unico, anche se i grilli parlanti abbondano.  Tuttavia, se cambia il clima, se il territorio è devastato, se l’aria è inquinata e ci mette in guerra con l’acqua che ci sommerge, dovremo pure porci il problema di riequilibrare il nostro umano comportamento rispetto a questi sconvolgenti mutamenti. Non con l’allarmismo del momento, ma con il senso di responsabilità di dover rifare i nostri conti.

Da una parte siamo sommersi, oltre che dall’acqua, da una valanga mediatica angosciante quanto superficiale e spettacolare: basti pensare che certe televisioni chiedono ai loro spettatori di inviare immagini, le più choccanti possibili, dei rovinosi fatti alluvionali. Dall’altra, mentre si parla di miliardi di danni, la politica è in grado di raggiungere simili livelli finanziari di intervento in soccorso della popolazione disastrata. E non cedo alla facile demagogia del pretendere che siccome piove, il governo la smetta di essere ladro.

In mezzo dovremmo starci noi cittadini del mondo. Siamo disposti a convertire le nostre stucchevoli “maratone domenicali” in battaglie pedonali quotidiane? Siamo disposti a trasferirci armi e bagagli dai nostri “nidi” veicolari per frequentare gli squallidi casermoni dei bus urbani ed extra-urbani? Siamo disposti ad adottare un comportamento rigoroso in materia di gestione dei rifiuti? Siamo disposti a qualche sacrificio fiscale da indirizzare alla salvaguardia del territorio, a trasformare il famigerato e storico “soccorso invernale” in razionale difesa dell’ambiente in cui viviamo? Siamo disposti a piantarla con l’abusivismo e la rapina a mano disarmata del territorio? Siamo disposti a trasformare l’ambientalismo da salotto in un ambientalismo ruspante che ci tocchi nel vivo? Siamo disposti a diventare tutti operatori della protezione civile, senza fare casino e disturbare chi lavora, ma impegnandoci a fare qualcosa di concreto (meglio prima che dopo i cataclismi)? Forse sto facendo la poesia dell’antipoesia…

Sapete invece cosa stiamo rispondendo? Ci orientiamo a votare per chi tende a negare il problema dell’inquinamento atmosferico (leggi Donald Trump e suoi amici interni ed esterni). Facciamo un po’ di casino pre e post mediatico tra un’alluvione e l’altra. Scarichiamo colpe a destra e manca. Imprechiamo contro tutto e tutti. Buttiamo il prete nella…nell’acqua e chi si è visto si è visto…

“Bagoloni” e antipatici

Ho certi miei originali approcci psicologici assai poco canonici, ma molto ficcanti. Ad esempio preferisco di gran lunga avere a che fare con persone cattive ma intelligenti piuttosto che con soggetti buoni ma stupidi. Raramente si incontrano cattivi-stupidi e buoni-intelligenti. Dalla cattiveria infatti, seppur a fatica, ci si può anche difendere, ma con la stupidità non si può combattere, perché è tempo perso.

I politici del governo legastellato o pentaleghista (non uso la formula giallo-verde, perché il verde preferisco riservarlo alle forze ambientaliste), non sono né cattivi, né buoni (sono sentimenti troppo difficili…), men che meno sono intelligenti (siamo arrivati alla totale incapacità di discernimento). Qual è il contrario di intelligente? Stupido, idiota, lento, tardo, ottuso.   I grillini e i leghisti potrebbero chiedermi: allora tu vuoi dire che noi siamo stupidi? Risponderei: me ne guardo bene dal dirlo, quanto al pensarlo…è un altro discorso. Poi racconterei loro il breve aneddoto che amava mio padre.  Tizio dice a Caio: «Fra nuätor du a ghé un stuppid…mi n’al son miga…». Caio risentito gli risponde: «Co vrisot dir? Che mi son stuppid?». Al che Tizio si rifugia in corner: «A n’al so miga…at la dítt ti…».

La migliore definizione però la individuerei nell’aggettivo parmigiano “bagolón”, termine dal significato complesso, che mette insieme una quantità notevole di difetti, ma suscita un senso di bonario compatimento, quasi di simpatia. Infatti la traduzione italiana è “narratore di cose divertenti, ma non vere”. Insomma “bagolón”, ma “simpàtich”. Ebbene i grillini (nonostante uno dei genitori sia comico di professione), per la verità ancor più dei leghisti, alla “bagolonaggine” non riescono ad aggiungere un pizzico di simpatia, tipico dei ciarlatani alla “Dulcamara”.  Sono anche antipatici. Vogliono fare i primi della classe e già questo atteggiamento, appena sopportabile solamente in coloro che sono effettivamente tali, è alquanto irritante, soprattutto perché politicamente (e non solo…) sono ignoranti come talpe.

Queste divagazioni lessicali mi consentono di meglio giudicare una classe politica emergente su una piattaforma di menzogne a cui gli italiani credono. Quando si scopre un altarino si corre immediatamente a coprirne un altro: al cedimento sulla Tap ha fatto immediato riscontro l’irrigidimento sulla Tav, come da delibera del consiglio comunale di Torino. Prima o poi cederanno anche sulla Tav e sarà la volta del reddito di cittadinanza (sembra infatti che venga rinviato ad una seconda fase legislativa della manovra economica). Quando poi se la vedono brutta fanno le vittime, gridano al complotto dei poteri forti o all’aggressione di tutti gli altri. Se qualcuno, dall’interno del movimento ai diversi livelli, osa criticare, distinguersi, chiedere chiarimenti, viene immediatamente “smerdato” come amico del giaguaro.

C’è una via di paradossale sbocco in fondo al tunnel della “bagolonaggine”. Quando una persona racconta continuamente cose false, arriva il momento in cui non è più creduto anche quando ne dice di vere. Della serie: Chi l’ha dítt? Grillo! Oppure, Salvini! Lasämä pèrdor…

Dal “celodurismo” leghista al “viagra” pentastellato

Mentre il Presidente della Repubblica persevera nella sua meritoria moral suasion al fine di portare alla ragione il governo Conte e farlo scendere dalle assurde barricate frettolosamente e scriteriatamente innalzate nei confronti dell’Unione europea, i dati emergenti da certe indagini demoscopiche segnerebbero un netto calo di consenso nei confronti del M5S: le convincenti argomentazioni di Mattarella, invece di portare alla ragione il governo ed i partiti che lo compongono e sostengono, sembrerebbero (il condizionale è più che d’obbligo) ascoltate dalla gente, dagli elettori in vena di revisionare il consenso a distanza di qualche mese. Magari fosse così. Non ci credo!

Le motivazioni del calo di consenso ai grillini sono del tutto diverse ed assai poco promettenti: la subordinazione governativa alla Lega di Salvini, che infatti continua ad aumentare il proprio seguito; le contraddizioni programmatiche del movimento in balia delle onde ed in vena di rimangiarsi parecchie fondamentali promesse elettorali; i contrasti interni a livello di dirigenza, di rappresentanza parlamentare, di militanza movimentista e di adesione elettoralistica; le equivoche politiche pentastellata sui problemi fondamentali che stanno particolarmente a cuore alla gente.

La politica, a livello mondiale e nazionale, è ridotta ad una sorta di bar planetario con tanto di succursale italiana: in questo pubblico ed estemporaneo ritrovo chiunque può entrare e sparare cazzate a salve e può ricevere pernacchie, ma anche applausi, in un mix esplosivo funzionale a falsare la realtà, a illudere gli avventori più o meno coinvolti, a intronizzare chi la dice più grossa. In questo fantomatico bar della politica è a proprio agio la Lega salviniana, mentre il M5S appare come il bambino che per imitare il padre “scoreggione” finisce col farsela addosso.

I consensi improvvisati sulla base di promesse molto impegnative, possono improvvisamente essere perduti sulla base delle prime avvisaglie di inconcludenza e di titubanza. Se è vero che grossi, seppur localistici, serbatoi elettorali grillini erano fondati fanaticamente sulla ostilità alla Tap e alla Tav, nel momento in cui il governo pentastellato comincia a balbettare su questi punti nodali il fanatismo si sposta dal voto ultras al rogo delle schede elettorali. Se è vero che il consenso nel meridione è andato ai cinquestelle nell’attesa del cosiddetto reddito di cittadinanza, non appena questa possibilità comincia a scricchiolare, i possibili beneficiati sono presi dall’anticipata sindrome rancorosa. Allora, tutto sommato era meglio votare Salvini: almeno lui ha il coraggio di non mollare, di cantarle in musica a tutti, di interpretare fino in fondo il “celodurismo” di matrice leghista. I grillini ci provano, fanno ricorso ad un improbabile “viagra”, mostrando i loro attributi nei momenti e con gli interlocutori sbagliati (vedi l’assurdo attacco a Mario Draghi).

Ben venga questa possibile crisi identitaria purché non sfoci in un pedissequo rilancio dei propri connotati, utilizzando la chirurgia estetica dei Di Battista, la cosmesi dei Fico o addirittura il fregoliano travestimento in panni di seconda mano. Il M5S sta facendo la pessima imitazione del nostrano leghismo, non ha il retroterra culturale e storico per sposare le cause dell’ambientalismo tedesco, non ha la freddezza e la razionalità per ripiegare sul riformismo di sinistra, non ha le carte in regola per farsi trascinare dal vento pseudo-fascista, che imperversa in tutto il mondo, non è né carne né pesce. L’antipolitica regge fino a mezzogiorno, poi, quando l’appetito si fa sentire, torna in gioco la cucina della politica ed il rischio è che gli affamati cerchino di sfamarsi rivolgendosi al self-service zeppo di nostalgici e vomitevoli piatti riscaldati.

 

Le travi di Salvini e le “pagliuzzone” di Macron

Non v’è dubbio che le contestazioni del Viminale al comportamento delle forse dell’ordine francesi in materia di “caccia all’immigrato” abbiamo un carattere strumentale: una sorta di “sputtanamento” di chi vuol fare il primo o il secondo della classe a livello europeo contro un’Italia fanalino di coda e Stato piantagrane. Obiettivamente però la Francia non sta tenendo una condotta esemplare, se è vero che la polizia d’oltralpe usa maniere piuttosto spicce per ributtare gli immigrati sul nostro territorio (minorenni compresi), anche se le autorità francesi tendono a declassare questi episodi a puri errori.

Un furgone della gendarmeria francese è stato avvistato dalla polizia italiana a Claviere, sulle Alpi del Torinese al confine con la Francia, mentre scaricava migranti di origine africana in territorio italiano, così violando leggi, confini e accordi. Non è la prima volta che succedono fatti del genere e che la polizia francese viene sorpresa con le dita nella marmellata. Al di là del mancato rispetto delle norme in materia, la Francia dimostra un atteggiamento improntato all’ostilità o, quanto meno, al burocratico respingimento di soggetti in gravissime difficoltà, trattandoli come se fossero dei rifiuti di cui sbarazzarsi velocemente e di soppiatto. Non è una bella immagine e soprattutto non è una dimostrazione di civiltà.

Chi è senza peccato scagli la prima pietra: è perfettamente inutile che Emmanuel Macron faccia il fenomeno, accusando l’Italia di comportamento pseudo-razzista, di populismo e di altre colpe – rimbrotti peraltro meritati – messe in rilievo da un pulpito assai poco credibile. La Francia ha codoni di paglia molto imbarazzanti nel suo passato colonialista, nella sua stupida e gravissima spinta al conflitto con la Libia e nel suo presente opportunista. Siamo in presenza del bue che non dà del cornuto all’asino, ma ad un altro bue.

Non mi piace il modo fascistoide di Salvini di reagire alle violazioni da parte di un altro Stato: esistono canali diplomatici e possibilità di chiarimento ben più democratici e civili. Ma non accetto nemmeno la supponenza con cui il presidente Macron tratta l’attuale governo italiano e respingo al mittente le lezioni di democrazia che intende impartirci. Se noi abbiamo Matteo Salvini, lui ha Marine Le Pen che non è certo da meno in fatto di populismo e sovranismo: se la Francia avesse votato col nostro sistema elettorale non so come sarebbe finita.  Se noi stiamo impostando una vergognosa campagna anti-immigrati, la Francia e gli altri Paesi europei non brillano certo per accoglienza e disponibilità a farsi carico del problema, se l’Italia ha imboccato una assurda strada di violazione delle regole comunitarie in materia economico-finanziaria, la Francia non è un esempio di correttezza ed ha fatto ripetutamente i “cazzi propri” leccando piedi e quant’altro alla Germania.

Sono perfettamente consapevole di non essere troppo complimentoso nei confronti dei cugini d’oltralpe, ma, quando ci vuole, ci vuole. Ognuno infatti ha le sue rogne da grattare o le sue gatte da pelare. Non vorrei che la presenza nel governo italiano di due disastrosi personaggi come Salvini e Di Maio, con tutto quel che ne segue, autorizzasse chiunque ad ergersi presuntuosamente a nostro maestro. Torniamo in ambito istituzionale e lì ognuno faccia la sua parte. Se la Francia ci aiuterà a liberarci dalla cappa grillo-leghista, le saremo grati. Se però insisterà con questi atteggiamenti altezzosi ed arroganti finirà col fare il loro gioco ed accentuare il nostro giogo.

Con Ulisse contro i proci governativi

Se è vero, come sosteneva Alcide De Gasperi, che gli statisti pensano alle future generazioni, mentre i politici pensano alle prossime elezioni, tutto comunque dovrebbe avere un limite segnato dal buongusto più che dall’opportunismo. Di governi ne ho visti parecchi, ma così spudoratamente e demagogicamente orientato a incantare il serpente elettorale come quello attuale, non ne ricordo. È vero che leghisti e grillini devono incassare in fretta la rendita protestataria, devono fare in fretta a cogliere l’acqua che passa, devono raccogliere ancor prima di seminare. Ogni dichiarazione, peraltro molto spesso contraddittoria, punta a lisciare il pelo a qualche categoria di elettori in cerca di autore. Abbiamo il governo del cambiamento in base al vento che tira: la scientifica strumentalizzazione di tutto, di fronte alla quale i pur maestri comunisti della prima repubblica erano mostri di obiettività culturale ed equilibrio politico.

Faccio un piccolo passo indietro per ricordare la recente sparata dimaiana contro l’apertura domenicale dei negozi: una boutade, che peraltro aveva avuto l’aperitivo in musica nella famigerata (per i pentastellati) e sconsiderata (per il quotidiano dei vescovi) intervista di Beppe Grillo ospitata da Avvenire. La liberalizzazione degli orari dei negozi, introdotta nel 2011 (il decreto “Salva Italia” del governo Monti), starebbe infatti, a detta del vangelo secondo Di Maio, distruggendo le famiglie italiane e quindi bisognerà ricominciare in fretta e furia a disciplinare orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali.  Naturalmente i sindacati dei lavoratori, specializzati, purtroppo da parecchio tempo, in facile demagogia a dispetto della difficile battaglia per il lavoro, si sono dichiarati d’accordo. E la Chiesa? Attenti al tranello in cui era caduto Avvenire qualche tempo fa.  In passato la gerarchia cattolica sapeva individuare i leccapreti giusti, non i primi che passavano davanti al Vaticano. Non vorrei che nella confusione politica regnante il clero cattolico prendesse lucciole per lanterne e si lasciasse infinocchiare dal primo grillino che la spara grossa.

In quasi tutto, dalla Tav alla Tap, Di Maio è regolarmente e prontamente smentito da Salvini alla ricerca di consenso fra le forze economiche. Così come Di Maio prontamente sconfessa Salvini in materia di magistratura d’assalto: i giudici non si toccano. La conflittualità all’interno dell’attuale governo non ha precedenti: ormai non c’è più da prestare alcuna attenzione alle dichiarazioni, che vengono regolarmente e prontamente smentite il giorno successivo. L’effetto comunque c’è stato ed è quel che conta. Fino a quando continuerà questa pantomima? La sintetica quadratura del cerchio rispetto alla litigiosità e contraddittorietà sta nella manovra economica varata all’insegna della spesa facile: si è trovato così il collante per tener insieme un governo che cade a pezzi.

Mentre la maggioranza parlamentare era invischiata nell’assurda e stupida querelle sui vaccini (prima rinvio dell’obbligo, poi ripristino dell’obbligo, poi…non ci capisco più niente), il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, intervenendo all’apertura del meeting “Le due culture” nel centro di ricerca Biogem, ha dichiarato: «Nei confronti della scienza non possiamo esprimere indifferenza o diffidenza verso le sue affermazioni e i suoi risultati. Non sempre l’uomo interpreta bene la parte di Ulisse alla ricerca della conoscenza e nel saper distinguere il vero dal falso». Verrebbe spontaneo parafrasare Dante Alighieri: «Fatti non foste a viver come Salvinian-dimaiani, ma per seguir virtude e canoscenza».

Il paradigmatico neofascismo di Bolsonaro

Ho letto su Adnkronos un “agghiacciante” profilo politico del neo-presidente brasiliano Jair Bolsonaro: “populista di estrema destra, vincitore delle elezioni presidenziali con il 55,2% dei voti, su Fernand Haddad del partito dei lavoratori, grazie ad una retorica nazionalista, provocatoria, violenta e incendiaria con la quale ha promesso di fare piazza pulita di delinquenti e corrotti. Una retorica che si ispira al presidente americano Donald Trump, ma anche e quello filippino Rodrigo Duterte. La sua fama è legata soprattutto alla retorica aggressiva di estrema destra, con dichiarazioni choc di stampo omofobo, razzista e misogino. Nel 2008 non ha esitato a dire che l’errore della dittatura militare è stato quello di torturare e non uccidere gli oppositori, mentre un’altra volta ha liquidato una deputata di sinistra dicendo che era così brutta da non meritare di essere violentata. Quando ha approvato la destituzione della Presidente Dilma Rousseff, ha dichiarato in aula di dedicare il suo voto al soldato che la torturò quando era una giovane guerrigliera. Nell’aprile 2017 ha detto che gli afro-brasiliani non servono neanche a procreare. Sostenitore del libero mercato, presenta come sua principale proposta la liberalizzazione del possesso di armi per permettere ai cittadini di difendersi dalla criminalità. Bolsonaro ha il sostegno degli imprenditori e dei latifondisti, che apprezzano il suo orientamento liberista e la promessa di abolire il ministero dell’Ambiente, uscire dagli accordi sul clima di Parigi e lasciar mano libera allo sfruttamento economico delle zone protette dell’Amazzonia. Ma il candidato populista piace anche al ceto medio-basso impoverito dalla crisi economica e preoccupato degli alti tassi di criminalità, ad un elettorato religioso e conservatore che rifiuta il matrimonio omosessuale e l’aborto, anche sull’onda della crescente influenza delle chiese evangeliche. Hanno giocato a suo favore poi le paure del comunismo di fronte al disastro della crisi venezuelana. Bolsonaro è riuscito a conquistare anche gran parte dell’elettorato conservatore moderato che guardava alla destra nazionale, screditata dalle inchieste di corruzione che hanno colpito i principali partiti”.

Rimango quasi senza parole di fronte a questa deriva planetaria di stampo chiaramente fascista. Il fascismo infatti, checché ne dica il pur bravissimo giornalista Corrado Augias, non è un regime relegabile e confinabile nello storico ventennio, ma un modo di pensare la società e di impostare la politica. Me lo ha insegnato mio padre, il quale, prima e più che in senso politico, era un antifascista in senso culturale ed etico: non accettava imposizioni, non sopportava il sopruso, non vendeva il cervello all’ammasso, ragionava con la sua testa, era uno scettico di natura, aveva forse inconsapevolmente qualche pulsione anarchica, detestava la violenza. Ce n’è abbastanza?

Posso aggiungere solo due telegrafiche riflessioni. Il pericolo fascista è sempre in agguato: sfrutta il malessere socio-economico e le varie paure, cavalca la sfiducia e il qualunquismo, illude la gente con promesse irrealizzabili e contrarie ai principi umani e democratici. Che a livello mondiale esista un forte ripresa di queste pulsioni anti-democratiche deve preoccupare molto seriamente. C’è un filo nero, che lega certi processi in atto e sta tessendo una ragnatela in cui rischiano di cadere intere popolazioni. Nei vari Stati le svolte autoritarie assumono connotati diversi, ma sono comunque riconducibili ad un unico e globale disegno di stampo populista di estrema destra (se vogliamo proprio usare un eufemismo per evitare di evocare il fascismo).

E in Italia? Già l’esperienza berlusconiana aveva ripreso non pochi contenuti di stampo fascista: dal culto della personalità, all’anticomunismo viscerale, alla falcidie delle forze intermedie, alla difesa di mera facciata dei principi legati alla famiglia con tanto di lasciapassare delle gerarchie cattoliche, ad una certa misoginia strisciante, alla sbruffonaggine italianista. Persino certi episodi di stampo berlusconiano vengono riportati alla memoria dall’incipit di Jair Bolsonaro.

Attualmente, sulle ali della paura della criminalità e della criminalizzazione degli immigrati, sulla base della sfiducia nella politica tradizionale sporcata da inconcludenza e corruzione, stanno venendo avanti esperienze assai vicine alla deriva di cui sopra: la demagogica arroganza leghista e  la strumentale  illusorietà del nuovismo grillino, tenute insieme dal collante sovranista e populista e combinate nello sfruttamento elettoralistico del disorientamento della gente, ci stanno trasformando in volubili farfalle che scherzano col fuoco. Sull’antifascismo, proveniente dalla nostra democrazia così come impostata dalla Costituzione repubblicana, non si può sorvolare tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina: coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti perché (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär“.