La Lega non si lega

Mentre i contrasti all’interno del governo Conte risultano sempre più evidenti e clamorosi, mentre i commentatori politici si esercitano di conseguenza nella previsione di (scarsa) durata del governo stesso, cosa dicono i protagonisti. Di Maio dice di non essere preoccupato circa l’eventualità di elezioni, dopo l’incontro tra Salvini e Berlusconi: “È normale che si incontrino perché loro sono alleati sul territorio. Noi abbiamo un contratto di governo a livello nazionale, ma a livello regionale e comunale ognuno per sé”.

Salvini dal canto suo afferma: “Governeremo per cinque anni. L’incontro con Berlusconi? Abbiamo preso solo un caffè”. Silvio Berlusconi aspetta e spera: “L’anomalia del governo giallo-verde non può durare a lungo. Cominciano ad esplodere contraddizioni insanabili, presto il centrodestra avrà di nuovo la possibilità di guidare l’Italia. Presto ci saranno manifestazioni in tutte le piazze d’Italia contro una Manovra che mette a rischio il risparmio degli italiani. Quello dei grillini è un progetto inquietante di decrescita ed è un progetto di governo che ci porta fuori dall’Europa”.

Salvini sta giocando a fare il socialista nel senso peggiore del termine: gioca su due tavoli, uno nazionale e uno locale, per portare a casa i vantaggi maggiori nella spartizione del potere. Ricatta gli interlocutori che non possono fare senza di lui e fa così il bello ed il cattivo tempo. I socialisti erano maestri in questa tattica: si ponevano come alleati della Dc e facevano incetta di ministeri e di enti a carattere nazionale, mentre si tenevano le mani libere a livello locale laddove ricattavano i comunisti, conquistando fior di sindaci ed assessori. Per giocare in questo modo bisogna però essere abili e non so se i leghisti siano all’altezza di un simile gioco politico. I numeri elettorali ed i consensi in crescita sembrano comunque dare loro ragione e forza.

I cinquestelle sono in difficoltà, ma non hanno alternative: la devono bere da botte per potersi ubriacare. Un eventuale filo di collegamento con il Pd appare impossibile e quindi devono tenersi ben stretti alla loro ancora di “salvinitaggio”.

Quanto ai rimasugli del centrodestra sembrano fuori dai giochi: è inutile infatti che continuino a sottolineare le divergenze fra Lega e M5S. Indubbiamente ci sono, ma forse, tutto sommato, sono inferiori a quelle tra Lega e Forza Italia. A livello europeo c’è un abisso fra l’antieuropeismo leghista d’assalto e la linea espressa pedissequamente da Antonio Tajani, attualmente il più europeista di tutti i politici italiani, complice la sua carica di presidente del Parlamento europeo. Anche a livello di politica economica non so se il populismo leghista sia più distante da quello grillino o dal perbenismo mercatista e liberista del forzitaliota Renato Brunetta.

Quale dunque la prospettiva? La situazione è costretta, salvo miracoli elettorali o cataclismi economico-finanziari, a durare fintanto che la Lega non avrà ridotto ad inutili brandelli le altre forze (debolezze!) del centrodestra e non avrà spolpato la carica contestatrice del M5S indebolito dalle fronde interne e dal calo di consensi. Il Pd rischia di svolgere un ruolo insignificante e di assistere dall’esterno al duello fra Lega e cinquestelle. La speranza del malvestito partito democratico dipende dal buon inverno futuro: dalla resipiscenza di gran parte dell’elettorato grillino e dalle prospettive europee.

Andiamo verso una sorta di penoso tripartitismo imperfetto, dovuto a tanti fattori impazziti in una maionese acida e schifosa, in cui gli italiani (lo hanno in gran parte voluto e se lo tengano) perderanno la bussola, se non, come teme giustamente Cacciari, anche la coscienza (nel qual caso la scena si complicherebbe molto sul piano della tenuta democratica del Paese). Nel frattempo, se dovesse salire al Quirinale un re travicello, saremmo fritti in padella. Che squallore!

 

P.S. Dopo aver scritto queste riflessioni inquietanti e demoralizzanti, mi sono precipitato a rileggere la vita di Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro ed Enrico Berlinguer. Bisogna pur sopravvivere…sull’onda dei ricordi…

 

La politica dei muri e dei forni

All’esame di maturità, sostenuto al termine della frequentazione dell’istituto tecnico commerciale, durante l’interrogazione in “diritto”, peraltro andata molto bene, il professore mi pose una domandina sibillina, che mi mise in difficoltà: non era nelle mie conoscenze e non ricordavo di avere colto nei miei libri di testo quella particolarità (sinceramente non la ricordo nemmeno oggi). Risposi così: «Professore questo argomento non è nel libro su cui ho studiato…». Il colloquio continuò e con la coda dell’occhio vedevo che l’esaminatore sfogliava e risfogliava il libro di testo alla ricerca dell’argomento perduto. Impiegò diverso tempo, ma alla fine lo trovò: era contenuto in una nota a piè di pagina, di quelle per le quali occorre la lente d’ingrandimento. Me lo fece notare. Allargai sconsolato le braccia, lui mi tranquillizzò e, nonostante quel piccolo incidente, mi assegnò un gran bel voto. Avevo tuttavia fatto un po’ la figura del Pierino di turno. A diciotto anni, in preda a forte tensione, emozionato come non mai, ci poteva anche stare.

Mi è sovvenuto questo curioso episodio scolastico, ascoltando i patetici scambi di battute sulla questione rifiuti tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio: forni inceneritori sì, forni inceneritori no. Il leader leghista adotta il solito schema da bar sport, riconducibile al ragionamento terra terra: i rifiuti non si possono mangiare, se non li vogliamo buttare a mare, bisogna bruciarli, meglio se in un impianto ad hoc piuttosto che con i roghi della disperazione. Salvini dice dei forni inceneritori: «Li dovrebbero scegliere i sindaci e la Regione, ma tutti dicono di no. Quindi li faremo. E senza ceppa». L’espressione “ceppa” era stata usata da Di Maio (non servono a una ceppa, vale a dire a una mazza, a un cavolo, a un c…). A questa invettiva leghista il leader cinquestelle risponde: «Sono dispiaciuto di questa polemica sugli inceneritori, che crea tensioni. Si fonda su un tema che non è nel contratto di governo, quindi non si pone». Non so se l’argomento sia indicato in una noticina scritta a caratteri minuscoli: fatto sta che, così come è assai riduttivo e poco “maturo” sostenere un colloquio d’esame con il libro di testo alla mano, non si può governare seriamente e compiutamente sulla base di un semplice contratto. I problemi esistono e vanno affrontati.

Resta la pochezza di un patto di governo meramente strumentale (non tengono i matrimoni d’amore, immaginiamoci un matrimonio di convenienza) e resta lo stucchevole spettacolo dei due galli nel pollaio, che si beccano continuamente: non so se finiranno col fare la sorte dei polli di Renzo o se metteranno tutti gli italiani in padella o nel forno assieme ai rifiuti. Fuor di metafora, politicamente parlando, si scontrano continuamente due modi di intendere la politica. Il leghismo salviniano adotta il pragmatismo da osteria: un modo per farsi capire ed entrare in sintonia con il brontolio intestinale della gente, fatto di soluzioni “un tanto al metro”, di risposte sbrigative a problemi enormi. Il grillismo dimaiano adotta invece lo schema ideologico del “benaltrismo” illusorio ed inconcludente, fatto di risposte radicali ed aggrovigliate ai problemi semplici. Il punto d’incontro sta nel contestare tutto e tutti. Il punto di scontro sta nel far quadrare il cerchio delle scelte, non dico strategiche perché sarebbe chiedere troppo, ma nemmeno tattiche.

Tornando ai rifiuti, problema serio al di là dei triviali, volgari e lirici approcci, su questo tema si stanno scottando le dita gli amministratori locali di espressione grillina, da Parma a Roma: effettivamente non basta dire no ai termovalorizzatori, la politica dei no sta in poco posto. I leghisti al contrario provano a cavalcare i termovalorizzatori quale scorciatoia rispetto ad un problema molto più articolato e complesso: la risposta brutale a ciò che dà fastidio, dai migranti ai rifiuti il passo è breve. Posso dirla grossa, posso esagerare? Speriamo di non arrivare a scambiare le soluzioni: i muri per i rifiuti e i forni per gli immigrati.

 

 

Mattarella parla europeo

Non ho mai capito fino in fondo come si colleghino le visite ufficiali all’estero effettuate dal Capo dello Stato con quelle che hanno come protagonisti autorevoli membri del governo. Spero si coordinino fra di loro in modo tale da evitare di parlare all’estero lingue diverse. I miei dubbi sono considerevolmente aumentati in questo periodo, in cui emergono chiaramente impostazioni diverse fra la Presidenza della Repubblica e il Governo attualmente in carica, a livello culturale e di politica internazionale.

In questi giorni Sergio Mattarella è andato in visita di Stato in Svezia. Ha parlato la sua lingua politica, fatta di europeismo e di grande attenzione al problema dell’immigrazione. “Compito di ognuno di noi, cittadini europei, è mantenere viva la visione dei Padri fondatori, passandola intatta e sempre più solida, in una simbolica staffetta, alle generazioni future. Ci auguriamo che i Membri dell’Unione europea – tutti – riescano a identificare e perseguire politiche sempre più comuni, volte a governare con coraggio un fenomeno non certo destinato ad esaurirsi, come il flusso di migranti. L’Italia è impegnata senza riserve su questo terreno, a partire dalla drammatica emergenza dei salvataggi in mare e degli sbarchi di centinaia di migliaia di migranti. L’Europa affronta delle difficoltà, attraversa un momento non facile, dopo le elezioni europee bisognerà trovare il modo di rilanciare il ruolo dell’Ue. L’edificio che è stato costruito si deve completare, rafforzando il pilastro sociale dell’Ue perché i cittadini, che hanno sofferto per la crisi economica, si sentano davvero parte della casa europea”. Questi alcuni passaggi significativi dei discorsi tenuti da Sergio Mattarella, incontrando i rappresentanti delle massime istituzioni svedesi. Da ultimo ha invocato un Parlamento che unisca più che dividere: “Nel Parlamento quel che unisce è sempre di più di quel che divide. Esso è il luogo dove si esercita la volontà popolare”. Visitando l’aula parlamentare svedese ha commentato: “Sono rimasto colpito, vedendo che i posti dei parlamentari non sono divisi per partito, ma per appartenenza di collegio. È un messaggio importante”.

Nell’ultimo atto dell’opera Falstaff, la vicenda si svolge in una foresta e Sir John dice espressamente “ecco la quercia” per identificare il luogo dell’appuntamento. “Mo indò éla?”, gridò mio padre dal loggione, dal momento che la scena non aveva neanche l’odore della quercia. Maleducato? Sì! Aveva ragione? Almeno un po’, sì! Anche se il discorso sarebbe molto lungo e complesso, valga comunque l’episodio ad evidenziare come le giustissime ed autorevoli parole di Sergio Mattarella non possano colmare le lacune di un governo italiano che sostanzialmente non crede all’Europa, che considera i migranti carne di bassa macelleria, che vive le istituzioni democratiche come inciampo per una politica impostata populisticamente e “sovranisticamente”. Non so cosa avranno pensato gli svedesi, peraltro anch’essi alle prese con una difficile crisi politica e non esenti da simpatie verso le pulsioni che stanno contagiando l’Italia e non solo l’Italia. Non vorrei che con riferimento all’esistenza dell’Europa Unita, qualcuno dal loggione svedese avesse gridato: “Mo indò éla?”. Certamente si saranno dati di gomito e si saranno chiesti a bassa voce: “Come se la metterà Mattarella con Salvini che usa le ruspe contro i migranti? E con il governo che è in netta rotta di collisione con l’Unione europea? E con i partiti che in Italia vanno in Parlamento come se salissero su un ring?

Mi sovviene una barzelletta. Una lussuosa automobile investe un ciclista che viene notevolmente danneggiato. Dalla macchina scendono due splendide ragazze che si presentano al malcapitato. “Piacere io sono miss emilia” dice una. E l’altra pure: “Piacere, io sono miss Lombardia”. Il poveretto, che si reggeva a stento in piedi, rispose: “Mi, inveci a son miss mäl”. Credo che Mattarella potrebbe dire così, scuotendo malinconicamente il capo, guardandosi attorno e “contemplando” le vedette del governo legastellato, ormai note in tutto il mondo.

 

Lo “sviluppismo” senza sviluppo

Il governo italiano ha risposto alle perplessità europee sulla manovra economica con una lettera formalmente morbida, ma sostanzialmente rigida. Ad alzare i toni hanno pensato i leader (?) dei partiti di maggioranza: sono intenzionati a tenere ben aperto il contenzioso con la Commissione Ue fino alle prossime elezioni europee, in modo da incassare il dividendo dello scetticismo o addirittura dell’antieuropeismo montante. Poi si vedrà. Nel frattempo rischiamo di essere alla mercé dei mercati finanziari, ma chi se ne frega…

Nel bar frequentato abitualmente da mio padre c’era qualche persona un po’ dura d’orecchi, uno in particolare dotato di apparecchio acustico. Gli amici, i primi tempi di utilizzo dell’aggeggio, chiedevano al ringalluzzito compagnone: “Gh’ät piè la radio? Parchè s’a te gh’la zmors a t’ podèmma där dal stuppid”. Mi sembra un po’ l’atteggiamento dei legastellati o pentaleghisti, come dir si voglia, verso le Istituzioni europee trattate a pesci in faccia, con un senso di superiorità, che pagheremo assai caro. La gag di cui sopra può infatti capovolgersi rapidamente e la parte degli stupidi la faremo noi italiani, che ci lasciamo guidare da un governo di irresponsabili.

Ma torniamo alla manovra economica. Se proprio vogliamo andare alla sostanza della questione di politica economica si pone il confronto fra due linee programmatiche, le quali a loro volta si collegano a due scuole di pensiero: siamo cioè alla diatriba fra rigoristi e sviluppisti. Da una parte ci stanno coloro i quali ritengono essenziale ed irrinunciabile una politica di contenimento del debito pubblico e di quadratura dei bilanci; dall’altra parte si mettono quanti opterebbero per una linea comunque espansiva, ritenendo sia meglio rischiare di affogare nel mare grande piuttosto che farsi inghiottire dalle sabbie mobili di un infido stagno.

Per mia formazione culturale e preparazione scientifica (modeste entrambe) sono orientato verso lo sviluppismo anche perché il rigorismo, a livello europeo, ci ha effettivamente impantanato in un clima di scarsa crescita: siamo un po’ come belle (?) donne, che si accontentano di specchiarsi anche se non le corteggia nessuno.

Il discorso sulla manovra economica del governo italiano, detto da quasi tutti i commentatori più autorevoli, non è però tanto riconducibile alla contrapposizione suddetta, ma ad una scelta sviluppista senza sviluppo. Lo sforamento dei parametri europei non si accompagna e non si giustifica infatti con adeguate misure a livello di investimenti pubblici ed a sostegno di quelli privati, tali da lasciare intravedere una crescita capace di rimettere in moto economia e occupazione, ma si accompagna ad una dilatazione di spese correnti di dubbia efficacia dal punto di vista economico e sociale. In parole povere la linea di politica economica del governo Conte non è né carne né pesce, è solo un modo smaccato di pagare le cambiali rilasciate a certe abbondanti fasce di elettori con dubbie prospettive di sostegno all’occupazione e alla giustizia sociale. Mi riferisco al cosiddetto reddito di cittadinanza e all’alleggerimento dei requisiti pensionistici.

Si sta pertanto perseguendo un (non) dialogo fra sordi. A volte mio padre, per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, si alzava di soppiatto dalla poltrona e, quatto quatto, se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Lui con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?”; l’altro risponde:” No vagh a lét” E l’altro ribatte: “Ah, a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

 

 

Baubau contro il Baobab

A Roma, nei pressi della stazione Tiburtina, è stato sgombrato un campo profughi con intervento dei mezzi blindati della polizia e con tanto di ruspe, che hanno abbattuto capanne e baracche, mentre gli oltre duecento migranti ospitati in questa area sono stati portati all’ufficio immigrazione. Per molte di queste persone non è stata approntata nessuna soluzione alternativa: nei giorni precedenti l’assessore alle Politiche sociali del comune di Roma si era recata al campo, assicurando che il comune aveva trovato almeno 120 posti letto per la ricollocazione dei migranti del Baobab. Resterebbe scoperto un centinaio di persone delle quali il comune non si è ancora fatto carico e che rimarranno per strada.

“Zone franche, senza Stato e legalità, non sono più tollerate. L’avevamo promesso, lo stiamo facendo. E non è finita qui. Dalle parole ai fatti”, il commento del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Capisco che questi governanti debbano dimostrarsi capaci di mantenere le sciagurate promesse fatte agli ingenui elettori, ma non si potrebbe almeno, prima di effettuare teatrale e drammatici sgomberi, trovare un minimo di soluzione alternativa al fine di evitare la dispersione sul territorio di questi disperati alla ricerca di una collocazione di (s)fortuna? A quanto si può capire non c’è stato un raccordo operativo fra comune di Roma e ministero: in un vergognoso gioco sulla pelle di centinaia di profughi l’assessore ha fatto la parte del poliziotto buono e Salvini quella feroce del poliziotto cattivo.

Cosa potranno combinare questi immigrati abbandonati a loro stessi? Andranno probabilmente a rubare per poter mangiare, non ho idea dove andranno a dormire. I cittadini di Roma si sentiranno più sicuri dopo che sono stati messi in libera uscita questi disperati? Ho i miei dubbi. Anche prescindendo da motivazioni di carattere umanitario, il comportamento del governo appare comunque assurdo e controproducente. Forse si vuole solo convincere indirettamente i potenziali migranti a starsene a casa loro: non può funzionare, perché un’emorragia non si ferma sventolando un batuffolo di cotone emostatico.

Dopo le ruspe in azione di telecamera, dopo l’assedio dei cronisti assiepati dietro le transenne, dopo la sceneggiata propagandistica sulla pelle di duecento persone più o meno disperate, vorrei che il ministro dell’Interno e l’assessore comunale chiarissero cosa ne è stato di questi soggetti, dove sono finiti o dove finiranno. Se un’emergenza immigrazione esiste, non la si gestisce in questo modo. Chiunque, anche il più incallito dei sostenitori leghisti, lo dovrebbe capire.

Tempo fa conversando con un carissimo amico, chiedevo come potessero fare a dormire quei pubblici amministratori che non si fanno carico minimamente dei senza tetto, nostrani e di importazione non fa differenza, pensando che anche per la loro ignavia c’è gente che dorme sotto i ponti o all’aperto. Questo intelligente amico mi rispose: “Cosa vuoi che sia, pensa ai nazisti…”. Risposta choccante, che non voglio sviluppare per carità di patria. Non pretendo che Salvini faccia i miracoli per accogliere tutti, pretendo solo che la smetta di promettere miracoli per non accogliere nessuno.

I grillini straparlanti

“La sentenza di assoluzione per Virginia Raggi spazza via due anni di fango”, così ha commentato a caldo Luigi Di Maio la sentenza che ha mandato assolta la sindaca di Roma dal reato di falso. Poi Di Maio e Di Battista hanno apostrofato i detestati giornalisti definendoli “infimi sciacalli, puttane, pennivendoli, cani da riporto di Mafia Capitale”. “Eh no, quando ce vo’ ce vo’”, ha esclamato Di Maio quando su La7 gli è stato chiesto se volesse fare retromarcia rispetto alle dichiarazioni rilasciate in precedenza. Rocco Casalino, portavoce del premier, a sua volta ritiene quasi educativi gli insulti ai giornalisti: “I toni eccessivi a volte servono; la libertà di stampa è giusta, ma c’è un accanimento contro di noi, il cane da guardia fa questo”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, durante un’intervista su una rete Rai, ha dichiarato: “Non avrei usato quelle parole, ciascuno ha il suo stile, e non commento post di colleghi che esprimono il proprio pensiero; non mi scandalizzano quei termini, mi scandalizzano di più i due anni di massacro e fango sulla Raggi”.

“Al mattino leggo i giornali e i commenti che non condivido sono ancora più importanti di quelli che condivido, sono uno strumento su cui riflettere. Per questo la libertà di stampa è un grande valore”. Lo ha detto il Presidente Mattarella incontrando gli studenti.

“Sono fiero di essere giornalista e non accetto che si dica che i giornalisti siano delle prostitute, come hanno detto autorevoli rappresentanti del governo e del M5S”. Lo ha detto il presidente dell’Europarlamento Tajani, dopo gli attacchi di Di Maio e Di Battista alla stampa sul caso Raggi.

Interviene anche il presidente della Camera Fico: “La libertà di stampa va tutelata, ma manca una cultura dell’indipendenza”. Parla di “accuse infamanti” il presidente della Commissione di Vigilanza Rai, Barachini: “Mi riservo di verificare se le parole del ministro Di Maio possano configurarsi come pressione indebita o censura preventiva”.

Ammettiamo pure che i giornalisti esagerino e usino la loro libertà per attaccare, in modo pressapochistico e unilaterale, i politici in odore di reato: è successo e succede. Nessuno è senza peccato, stampa compresa. Non vado oltre nel merito delle accuse lanciate contro i giornalisti, mi limito a chiedere: come mai questi signori pentastellati non si sono mai scagliati contro la stampa per trattamenti ben più pesanti riservati ad altri esponenti politici e rivelatisi infondati dopo le sentenze emesse in sede giudiziaria. Forse in quei casi tutto faceva brodo e sporcare gli altri serviva a far emergere il loro “pulito”. Adesso che gli schizzi di fango arrivano anche a loro, danno fastidio. Storia vecchia!

Il discorso più pregnante sta però nel vero e proprio scontro a livello istituzionale: da una parte importanti ministri ed esponenti di un partito di governo attaccano la categoria dei giornalisti con toni da censura, mettendo sostanzialmente in discussione la libertà di stampa, lasciando intendere misure ritorsive; dall’altra parte i rappresentanti delle massime istituzioni italiane ed europee che prendono nettamente, seppure educatamente, le distanze, ribadendo il valore della libertà di stampa a prescindere.  È roba di tutti i giorni! I casi sono due: o il governo sta andando oltre i limiti costituzionali e qualcuno dovrà prenderne atto, oppure il rispetto delle istituzioni e dei principi costituzionali è diventato un optional e i cittadini (tanto reattivi e intransigenti nel caso della riforma costituzionale proposta da Renzi) ne dovrebbero prendere atto. Apprezzo molto il comportamento del Presidente della Repubblica, ma mi chiedo e mi permetto di chiedergli: in una situazione del genere, c’è qualcosa di più che possa essere fatto. Non è il caso di abbandonare il galateo istituzionale per andare al sodo delle questioni e chiedere conto ufficialmente a un governo che straparla e strafa in continuazione?

Luigi Di Maio, durante le consultazioni per la formazione del governo post-elettorale, era arrivato a minacciare il Capo dello Stato lasciando intendere una sua messa in stato d’accusa per alto tradimento o per attentato alla Costituzione: roba da matti…che ci siamo dimenticati. Ora, siamo sicuri che non comincino ad esistere i presupposti per sottoporre a giudizio alcuni ministri per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni e che non si possa sollevare davanti alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato? Non sarà il caso di ipotizzare un passaggio dalla moral suasion, vale a dire dalla pressione e persuasione morale, ad una vera e propria azione d’autorità nei confronti del governo o almeno di alcuni suoi esponenti? Fantasie pseudo-costituzionali? Può anche darsi, ma…

 

Democrazia a furor di popolo

In cosa consiste la democrazia? Sarebbe opportuno porsi questa domanda prima di sottovalutarla, snobbarla, bypassarla o rinnegarla. Stiamo vivendo un periodo in cui la democrazia è messa a dura prova dalla sua caricatura populista. Scrive Corrado Augias: «Il populista è colui che di fronte a dimostrazioni lampanti delle maggiori garanzie di equilibrio offerte in certi casi dalla democrazia delegata, continua a dire facciamo anche noi un referendum; se la costituzione non lo consente? Cambiamo la costituzione. Per fortuna si tratta solo di strepiti da comizio». Purtroppo il discorso non finisce lì e sta dilagando e rovinando coscienze e mentalità. La politica viene infatti impostata e trattata come un semplicistico e fuorviante “prendere o lasciare”. La deriva referendaria ha un suo appiglio nelle consultazioni vere e proprie di tale natura, ma è anche diventata un modo di approcciare i problemi riducendoli ai minimi termini di infantile e illusorio “sì o no”.

A Roma si è avuta una scarsa, scarsissima affluenza al referendum sull’azienda dei trasporti, un servizio da sempre disonore delle cronache per inefficienza, corse saltate e mezzi che vanno a fuoco. Si chiedeva ai romani di dire se erano d’accordo a liberalizzare il servizio attraverso gare pubbliche per far concorrere anche altri gestori oltre il monopolista ATAC e allargare il trasporto pubblico ad altre forme di trasporto collettivo. Ma i cittadini se ne sono sostanzialmente disinteressati o non hanno capito la portata ed il significato del quesito referendario. L’affluenza è stata lontanissima dal raggiungere il quorum del 33 per cento, anche se il referendum aveva soltanto un valore consultivo. Ha votato circa il 16% degli aventi diritto. A parte la scarsa informazione, la disorganizzazione ed il caos nei seggi, l’operazione, che voleva portare una ventata di democrazia nella travagliata città di Roma, è miseramente fallita. Il motivo? Non si può risolvere con uno sbrigativo “sì o no” il problema della pubblicizzazione-liberalizzazione dei servizi pubblici, un tema storicamente, culturalmente, economicamente e socialmente assai complesso.

A Torino si tende ad affrontare il problema Tav a furor di popolo, portando davanti ai cantieri o in piazza o sul web i favorevoli e i contrari tout court ad un’opera colossale, le cui motivazioni devono essere valutate ed approfondite in ben altre sedi, con ben altri metodi e con ben altre analisi ed argomentazioni. Non è giusto farne una materia di tardiva e piazzaiola diatriba, ideologizzando l’ambientalismo, radicalizzando il discorso finanziario, riducendo la questione anche a mera polemica pro o contro l’attuale sindaca Chiara Appendino.

Analogo discorso vale per la Tap, ridotta a buccia di banana per il M5S, reo di fare promesse impossibili e di rimangiarsele in fretta e furia. È inutile illudere i cittadini di contare mettendo in su o in giù il pollice. Anche la sondaggite acuta, che si scatena su partiti, governanti, problemi, questioni, tende a ridurre il tutto ad un superficiale giudizio che finisce con l’essere spesso un pregiudizio. La politica è conoscenza, è dibattito, è confronto, è mediazione. Il discorso, direttamente o indirettamente referendario, è l’eccezione alla regola della delega di rappresentanza e all’opzione della sostanziale partecipazione alla vita politica.

Non è un caso che lo strumento referendario sia stato e sia usato dai regimi autoritari e totalitari per approntare anestetizzanti e populistici bagni di falsa democrazia. Se andiamo avanti così, con un semplice clic informatico dichiareremo guerra ad un altro Stato, decideremo di fare un gasdotto o una ferrovia, di ospitare le olimpiadi, di costruire muri di blocco all’immigrazione, di sbattere fuori gli immigrati, di dotare chiunque di un’arma di difesa, di sfondare il bilancio dello Stato, di uscire dall’Unione europea, di tornare alla lira, etc. etc. E questa sarebbe democrazia diretta? No, questo è fascismo indiretto!

Ognuno ha le sue manciate di…“malta”

“I maltesi regalano bussola e benzina ai migranti per farli arrivare a Lampedusa”. La denuncia arriva dal Viminale e dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. “La Guardia costiera maltese ha intercettato imbarcazioni con migranti, fornito giubbotti di salvataggio e li ha scortati verso l’Italia. Troppi indizi ci fanno pensare a un vero e proprio atto ostile di un altro Paese Ue, dopo quello di Clavière. La sensazione è che l’Italia sia sotto attacco”, aggiunge Salvini.

Passi la polemica contro il sussiegoso e strafottente atteggiamento francese sull’accoglienza ai migranti, che fa un po’ a pugni col loro comportamento – d’altra parte scaricare a livello internazionale le tensioni interne è un classico dei regimi (e Salvini sta facendo incetta di regime) – ma prendersela con Malta fa effettivamente (sor)ridere. Può darsi che i maltesi ci stiano marciando, ammettiamo pure che siano fondati i dubbi sulla loro correttezza. Non facciamone però un pretesto per fare le vittime e gridare all’attacco Ue contro l’Italia. Non perdiamo la faccia in scontri, che hanno tutta l’aria di essere pure beghe di cortile.

Salvini ha bisogno, come se fossero pane, di questi miseri contenziosi: tutto fa brodo. Il ministro maltese Farrugia gli ha risposto: “Smetta di criticare e cominci a prendere nota di quello che si dovrebbe fare. L’Italia ha ripetutamente fallito nel rispetto degli obblighi”. Non ha tutti i torti, si difende come può. Noi italiani da queste stupide risse verbali abbiamo tutto da perdere, solo Salvini guadagna il surriscaldamento continuo del suo potenziale elettorato.

Mio padre, quando capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis  Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”.  Era una lezione di politica estera (sempre molto valida). Ho la netta impressione che Salvini vada alla ricerca scrupolosa di questi incidenti per poterci lavorare sopra “ideologicamente”. Oltre tutto è ministro dell’Interno e fa regolarmente il ministro degli Esteri con buona pace per Moavero Milanesi.

E i grillini? La bevono da botte! Basti pensare al fatto che Salvini sta addirittura cavalcando il sì alla Tav per creare loro ulteriore imbarazzo. Salvini contro tutti. Molti nemici, molto onore. Sono storie vecchie come il cucco, che tuttavia fanno ancora presa sulla mentalità popolare. E il Pd? Sarà il caso che esca dal letargo e cominci a fare politica. Mentre la Lega scarica sugli altri (all’interno ed all’estero) le contraddizioni della sua miope impostazione politica, il partito democratico sfoga su se stesso le tensioni esistenti a tutti i livelli, somatizzandole in una “lotta continua” al proprio interno, facendo il verso al correntismo democristiano, al centralismo comunista, al populismo estremista, al moderatismo centrista: una centrifuga da cui esce un beverone insipido e inconsistente. Siamo in emergenza democratica e allora bisogna mettere da parte le questioni di lana caprina e andare al sodo. Salvini ha la sua Malta al di fuori dei confini; il M5S ha le sue Malte in comune di Torino e Roma e laddove si rimangia bellamente la parola data; il Pd ha le sue Malte dentro il dibattito di partito. L’Italia ha la sua vera Malta a Bruxelles, dove rischia capricciosamente  l’irrilevanza. Con tutto il rispetto per lo staterello in questione, “malta” significa anche melma, fango…

 

Il barometro grillino in mano alle sindache

Mentre in molti si esercitano penosamente nella previsione sull’evoluzione della leadership nazionale pentastellata, mettendo in contrapposizione la realtà “dimaiana” con il sogno “dibattistano”, la vita grillina sembra attaccata alle sorti dei sindaci, in questo momento delle sindache. Non era infatti partito a Parma con Federico Pizzarotti il cursus honorum del M5S e non si è incrinata proprio lì la prima significativa esperienza gestionale di un movimento che prometteva la luna? E qual è stata la questione dirimente e deprimente per la sindacatura di Pizzarotti, al di là delle incomprensioni ben presto sorte con la dirigenza allora molto concentrata e centralizzata in Beppe Grillo? Il termovalorizzatore che non si doveva fare, ma che era già fatto.

Per Chiara Appendino, sindaca di Torino esiste invece la grana Tav: anche questa opera infrastrutturale si dovrebbe interrompere previa velleitaria analisi dei costi-benefici. Altra battaglia impossibile, sconfessata persino dagli alleati nel governo centrale, quella Lega, che si sta smarcando in periferia per fare il proprio gioco. Anche la piazza, che sembrava monopolio grillino, si è rivoltata contro la Appendino, ribadendo a gran voce che la Tav va proseguita e completata quale opera di fondamentale importanza. Tanto per non sbagliare i 30 mila manifestanti di piazza Castello hanno detto “Sì, Torino va avanti”, nuova lettura per l’acronimo Tav.  Sì inoltre alle olimpiadi invernali, per le quali Torino ha balbettato un inspiegabile e retrogrado no. Sembrava che la Appendino avesse innescato una sindacatura all’insegna del pragmatismo grillino nuovo di zecca e si ritrova catapultata in una vecchia deriva referendaria fine a se stessa.

Per Virginia Raggi, la improvvisa e malcapitata sindaca di Roma, il cammino è sempre stato in salita: enormi difficoltà e contraddizioni nella formazione della squadra; un no frettoloso alle olimpiadi appena attutito dal sì al nuovo stadio di calcio; complicazioni giudiziarie a dir poco imbarazzanti e frenanti; una irreversibile mala-amministrazione che è rimasta appiccicata alla nuova giunta grillina, rivelatasi inconcludente ed inadeguata. La Raggi sembra appena tollerata dal movimento e non sconfessata, al fine di evitare una clamorosa debacle del nuovismo alle prese con la dura prova della gestione della capitale. È arrivata l’assoluzione in tribunale dall’accusa di falso, perché il fatto non costituisce reato con legittima soddisfazione dell’interessata e inopportune e contraddittorie accuse di sciacallaggio indirizzate da Di Maio ai giornalisti. Quanto sciacallaggio ha mai fatto il M5S contro tutti i potenziali avversari in odore di reato!

Il barometro grillino oscilla quindi: bassa pressione per Appendino e alta pressione per Raggi. I due simboli piuttosto deboli, che cadono, con una certa facilità, dagli altari alla polvere.  La prova finestra dimostra che il bianco grillino non è smagliante. Tuttavia, se devo essere sincero e volendo restare fedele al mio inguaribile vezzo di andare controcorrente, sono portato a giudicare, nella complessiva azione politica grillina, molto più bonariamente queste due signore intente a smanacciare la realtà rispetto agli assurdi e chimerici padreterni governativi alla disperata ricerca di verginità. Per Virginia Raggi mi aspettavo l’assoluzione, considerata l’inconsistenza penale dei rilievi a lei mossi; da Chiara Appendino mi aspettavo più carattere ed una più spiccata capacità politica. Con le donne sono sempre pronto ad essere comprensivo, anche a costo di alleggerire il giudizio estremamente negativo sul movimento politico che le esprime. Resta il fatto tuttavia che a loro confronto il parmense sindaco Federico Pizzarotti appare come un gigante: ha avuto infatti il demerito di costituire “al primm cavagn c’al vôl bruzè”. Dopo di lui si sono viste ceste ben peggiori, piene di niente: provate, per credere, a passare in rassegna i ministri grillini del governo Conte. Tutto sommato molto meglio le Raggi e le Appendino…ed è tutto dire.

La grottesca parafrasi della profezia di Ezechiele

Comunque vada a finire, la faccenda del ritrovamento di ossa all’interno dei locali romani della nunziatura apostolica di proprietà vaticana risulta piuttosto inquietante. Se si è ben capito questi reperti scheletrici dovrebbero risalire al periodo in cui fu ristrutturata l’abitazione del custode, vale a dire agli anni ottanta, infatti le ossa erano sotto il pavimento di tale casa. Non resta che aspettare i risultati delle analisi e i riscontri eventuali a livello di Dna. Potrebbe trattarsi effettivamente di un colpo di scena nella vicenda legata alla stranissima e misteriosa scomparsa di Emanuela Orlandi, figlia di un commesso della Prefettura della casa pontificia, avvenuta nel giugno del 1983, intorno alla quale si sono sprecate inchieste, ipotesi, fantasie, malignità.

Rimane a monte la domanda su cosa ci facessero delle ossa umane in una simile struttura, presumibilmente appartenenti ad un corpo occultato. Non si tratterebbe di reperti archeologici o confinabili in un lontano passato in cui a livello di intrighi vaticani succedeva di tutto e di più. E allora? Mistero! Penso non sia il caso di scatenare ulteriormente la fantasia su un caso che ha già tenuto banco per decenni. Mi chiedo però perché la Chiesa istituzione debba farsi trovare impelagata in simili oscure vicende.

Può darsi che tutto si risolva in una bolla di sapone come nel 2012 in occasione del ritrovamento dei resti di Enrico De Pedis, boss della Magliana, sepolti in una tomba dentro la basilica romana di Sant’Apollinare: sembrava potesse esistere un legame con il caso Orlandi, visto che il killer di De Pedis era un certo Mario, che chiamò a casa di Emanuela Orlandi il giorno della sua scomparsa. La tomba fu aperta e non si trovò niente di particolare. Anche in quel caso però ci si pose una domanda: come mai venne data sepoltura in una basilica romana ad un personaggio di stampo delinquenziale. Viene spontaneo collegare questo fatto al vomitevole diniego del funerale religioso a Piergiorgio Welby, reo di essersene voluto andare in punta di piedi dopo annose e terribili sofferenze. In Vaticano c’è qualcosa che non va e capisco sempre più la barzelletta che vuole Gesù in viaggio di studio in Vaticano, dove ammette di non essere mai stato. Che papa Francesco lo possa definitivamente accogliere con tutti gli oneri e gli onori del caso.

Posso capire il gusto dissacrante di trovare in castagna la Chiesa, scoprendone gli “altaroni”, vedendola protagonista di oscure manovre e di autentici gialli a sfondo economico-finanziario, senza parlare delle copiose vicende sugli abusi sessuali. Essa però sembra fare tutto il possibile per rendersi accattivante in tal senso. Tutte le umane istituzioni hanno i propri scheletri nell’armadio: la Chiesa li ha in senso proprio, a nulla valendo la sua natura e valenza di ordine spirituale. Intendiamoci bene, nulla in confronto degli intrighi di palazzo, delle lotte e delle compromissioni col potere, delle crociate contro gli infedeli, della santa Inquisizione, delle porcherie varie commesse nei secoli. La sua sopravvivenza a tanta malvagità viene considerata una delle prove della sua missione ultraterrena. Preferirei di gran lunga che la dimostrazione della sacralità ecclesiale fosse data da una omogenea sequela di eventi ed esempi solo positivi.

Riflessioni a bassa voce in attesa dei referti scientifici, che possano chiarire l’appartenenza delle ossa ritrovate a Roma in via Po. Una cosa è certa, la visione profetica di Ezechiele sulle ossa aride in cui si concretizzò la promessa di Dio di riportarle in vita, vale anche in questo caso, ma…