Padre, figlio e poco spirito santo

Quando per squalificare l’avversario politico si va a rovistare nella sua vita privata, vuol dire che lo scontro si è portato su un terreno inadatto e inaccettabile. Un tempo erano i figli che squalificavano i padri. Storico ed emblematico il caso, risalente agli anni cinquanta del secolo scorso, di Attilio Piccioni, ministro ed esponente di primissimo piano della Democrazia Cristiana, stroncato nella sua carriera politica per il coinvolgimento del figlio Piero (alla fine assolto) nella famosissima vicenda giudiziaria relativa alla morte di Wilma Montesi. Altrettanto memorabile il caso del presidente della Repubblica Giovanni Leone, letteralmente martirizzato per i comportamenti disinvolti dei suoi figli. Anche il più volte ministro e capo di una corrente democristiana Carlo Donat Cattin dovette sobbarcarsi le ripercussioni dei comportamenti del figlio Marco, militante dell’organizzazione terroristica di estrema sinistra Prima Linea.

Non è quindi soltanto un vezzo della moderna società mediatica gettare sui politici manciate di fango a vanvera, è sempre stato un pessimo vizio della lotta politica. Ultimamente sono i figli a scontare le ipotetiche trasgressioni dei padri. Il ministro Maria Elena Boschi fu colpevolizzata per il comportamento del padre vice-presidente di una banca. Matteo Renzi fu tirato in ballo per le accuse rivolte a suo padre in merito ad affari di carattere economico-imprenditoriale. Oggi tocca a Luigi Di Maio rispondere per il padre, imprenditore edile che avrebbe pagato in nero un suo operaio. Qualcuno dirà che sto mescolando capre e cavoli ed in effetti ogni caso evocato ha una sua specificità ed una sua rilevanza, ma sono tutti omogenei nell’intenzione di voler impicciare i figli impegnati in politica con i comportamenti dei padri in altre faccende affaccendati.

Anche prescindendo dall’esito giudiziario delle inchieste, molto spesso chiuse con un nulla di fatto, quella di cui sopra resta comunque una “prassi vergognosa”, che oltre tutto si arricchisce di discriminazioni, in quanto per certi esponenti politici è (quasi) giusto ricorrere a questi mezzucci, mentre su altri non si può sparare. La faziosità arriva fino a questo punto: qualcuno rischia di essere martirizzato per le colpe del padre, mentre magari qualcun altro viene quasi santificato per essere così bravo nonostante la cattiveria paterna. Sto volutamente esagerando per rendere l’idea.

Sarebbe ora di finirla con questi atteggiamenti. Non si tratta tanto di distinguere tra pubblico e privato: discorso delicato che la Costituzione italiana risolve all’articolo 54, prevedendo che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Non si può finire col fare i bacchettoni, come succede negli Usa ed in altri Stati, ma occorre pretendere un comportamento globalmente credibile da coloro che rivestono cariche pubbliche.

Altro discorso è mescolare i rapporti privati con la politica al fine di far ricadere le eventuali colpe dei padri sui figli e viceversa. Al di là della squallida gara mediatica a simili scoop, i politici devono smetterla di scontrarsi a questo infimo livello e la gente deve sforzarsi di discernere la sacrosanta critica politica dalla calunniosa insinuazione. In poche parole a me non interessa e non deve interessare quel che ha combinato e combina il padre di Luigi Di Maio, ma quel che combina Luigi Di Maio come ministro della Repubblica. Ce ne sarebbe più che a sufficienza per mandarlo a casa senza ricorrere alle “marachelle” paterne. Tuttavia il grillismo, che si vuole distinguere per il “bigottistico” ardore della pulizia etica, sconta anche i propri errori: quando i suoi esponenti ricevono una comunicazione giudiziaria, quando scoppiano le risse per i reati di opinione all’interno del movimento stesso, quando emergono fedine penali non immacolate per i loro candidati, quando si dubita che abbiano regolarmente pagato i contributi per le colf, quando i loro papà non hanno il pedigree in ordine, etc., è automatica la riflessione “facevano tanto i puri…si guardassero in casa loro”.

C’era uno spot pubblicitario per la marca di un detersivo, che diceva: “Credevo che la mia camicia fosse bianca finché non ho visto la tua lavata con …”. A rovescio si potrebbe dire: “Credevo che certi politici fossero puliti finché non ho rovistato nella loro vita privata”. Non mi piace per niente! È normale che chi la fa l’aspetti, ma sarebbe auspicabile che nessuno avesse travi nei propri occhi e soprattutto che nessuno giocasse a cercare la pagliuzza altrui.

La cena delle beffe

Sarà vero che i dissidi matrimoniali si risolvono a letto (purtroppo invece si concludono con i femminicidi), che i contrasti negli affari si sanano intorno ad una tavola imbandita (purtroppo invece vanno ad intasare le aule giudiziarie), ma che la diatriba Italia Ue imbastita sulla manovra economica del governo possa svanire con la cena bruxellese di Juncker e Conti è veramente un’assurdità.

Può essere che i contendenti abbiano scherzato, poi, ad un certo punto, sia successo quanto mio padre diceva con molta gustosa acutezza: «Se du i s’ dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ch’a guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón». Saremmo dentro un teatrone della politica avvilente e disarmante.

Preferisco pensare che cominci a prevalere il buon senso, quella merce rara che non si compra dal pizzicagnolo, ma che si può scoprire strada facendo. È presto per poterlo dire ed è sempre tardi per poterlo sperare. Lascia ancor più di stucco il fatto che basti un incontro gastronomico di vertice per tranquillizzare i mercati, abbassare lo spread, ridare tono alle contrattazioni finanziarie. Che i mercati siano dominati dalle speculazioni è cosa nota, ma che basti un boccone di Conte per stuzzicare l’appetito delle borse, mi sembra un po’ troppo. Saremmo dentro un teatrone dell’economia, roba da mettersi le mani nei capelli.

L’ipotesi più attendibile però è che la cena sia stata architettata per buttare fumo negli occhi a tutti, per guadagnare tempo, per stemperare il clima, per indurre tutti a più miti consigli: una sorta di avanspettacolo in attesa che, dietro le quinte, si preparino i veri protagonisti della vicenda. E chi sarebbero questi primi attori-salvatori ad occupare la scena vera e propria? Azzardo un pronostico: Sergio Mattarella che dà a tutti lezioni di diplomazia politica, Mario Draghi che dà a tutti dimostrazioni di buona gestione finanziaria. I giochi sono finiti, gli scherzi hanno fatto il loro tempo, i bidoni si sono svuotati. Arrivano i nostri e sistemano finalmente le cose. Magari fosse così. Sarò un illuso, ma ci spero. Non è vero, ma ci credo. Nei giorni scorsi il discusso ministro Paolo Savona ha fatto una sibillina affermazione: “Non si tratta di cambiare la manovra, ma di cambiare il governo”. Cambiarlo su due piedi, non sarà cosa facile, ma depotenziarlo potrebbe essere possibile, anche perché, diciamola tutta, il governo Conte si sta depotenziando per proprio conto dietro le stupidaggini di Salvini e Di Maio.

Il giorno stesso dell’illusionistico boom delle borse, che sembravano brindare al termine della famosa cena, Mario Draghi ha fatto una nitida fotografia della situazione economica dell’Eurozona: «La crescita ha perso slancio, ma parte del rallentamento può essere anche temporaneo. Allo stesso tempo, i rischi legati al protezionismo, alla vulnerabilità dei mercati emergenti e alla volatilità nei mercati finanziari restano prominenti». Come dire, andiamo al sodo, le balle stanno in poco posto, parliamo sul serio.

Sergio Mattarella, dal canto suo, intervenendo a Torino all’Arsenale della Pace, sede del servizio missionario giovanile, nell’ambito delle celebrazioni del centenario della Grande Guerra, ha fatto la nitida fotografia dell’Europa Unita: «Qualcuno la critica e può avere dei difetti, ma l’esperienza di integrazione europea è guardata con ammirazione in tante parti del mondo come modello cui ispirarsi. Si deve proseguire su questa strada, senza pensare al ritorno di nazionalismi che fanno tornare indietro di secoli la storia e i rapporti tra i popoli». Come dire, piantiamola di giocare e guardiamo avanti seriamente.

Non sono un esperto di finanza, non faccio l’operatore di borsa, anzi, senza voler essere scurrile, la mia borsa è strapiena delle sciocchezze, che giornalmente ascolto dai governanti italiani. Colgo con grande speranza e una certa fiducia le cose serie che finalmente qualcuno ci propina. Sono autentiche flebo di verità e serietà. E il mio personale spread cala vertiginosamente.

L’anti-politica egemonizza la non-cultura

Dentro alla pattumiera televisiva riesco a recuperare ed a seguire con un certo interesse i programmi di carattere culturale, storico e politico (per questi ultimi occorre un attento discernimento, in quanto abbonda la robaccia pseudo-politica). Dalla visione critica di queste rubriche emerge un livello qualitativo piuttosto elevato di quella che potremmo definire, con un termine riduttivo ed aristocratico, l’intellighenzia nazionale. Ed allora sorge spontaneamente una domanda: come mai a questa solida e valida radice fa riscontro una pianta politica con rami mai così secchi come quelli attuali? come mai esiste una discrasia così evidente e clamorosa fra l’elaborazione culturale e la proposta politica? come mai non c’è collegamento fra le due sponde, quella culturale e storica da una parte e quella politica dall’altra. La difficoltà di rapporti fra questi mondi è sempre stata problematica, la crisi delle ideologie l’ha accentuata, il berlusconismo l’ha istituzionalizzata, ma il pentaleghismo l’ha drammatizzata e portata alle estreme conseguenze.

Non mi sono mai illuso che, per sposare indissolubilmente e proficuamente cultura (intesa come storica elaborazione scientifica ed artistica) e politica (intesa come approccio gestionale all’amministrazione della cosa pubblica), sia sufficiente piazzare un luminare della medicina al ministero della salute, un economista coi fiocchi al ministero dell’economia, uno psicoterapeuta di fama indiscussa al ministero dell’istruzione e via discorrendo. Quando modestamente ho avuto modo di impegnarmi a livello di programmazione e gestione teatrale, ho potuto verificare l’inguaribile inconcludenza di molti addetti ai lavori, dispersi nelle loro elucubrazioni teoriche a dispetto dei sipari, che attendevano concretamente di aprirsi. Un conto è parlar di morte, un conto è morire, anche se dovrebbe essere utile prepararsi a ben morire.

Tuttavia la politica, come la musica, non ammette cultori improvvisati: non ci si improvvisa sindaci, assessori, parlamentari e ministri, andando ad orecchio o per sentito dire. Dovrebbe quindi sussistere una certa osmosi fra chi incarna la politica e chi studia i fenomeni da governare. È pur vero che è più facile pontificare dall’alto di una cattedra universitaria piuttosto che affrontare i problemi della società, ma di qui a istituzionalizzare l’impreparazione al limite dell’ignoranza, per coloro che assumono importanti cariche, esiste molta ed incolmabile differenza.

L’inadeguatezza dei personaggi politici che attualmente vanno per la maggiore la si nota anche facendo il raffronto con i politici del più recente passato, senza scomodare i mostri sacri della cosiddetta prima repubblica. In certi esponenti leghisti e pentastellati (non solo in questi movimenti, ma soprattutto in essi) si riscontra la totale mancanza di cultura, di professionalità, di esperienza, coperta da un fanatismo parolaio e aggressivo. Come è possibile che gli italiani abbiano la dabbenaggine di mettere il Paese nelle mani di questi occasionali frequentatori dei palazzi della politica. Storicamente si osserva come un tempo il partito comunista sia riuscito a egemonizzare la cultura, mentre la democrazia cristiana egemonizzava la politica: non finiva tutto lì, perché la cultura era comunque in grado di stimolare la politica e la politica obtorto collo doveva ascoltare le proposte culturali emergenti o comunque fare i conti con esse.

Oggi abbiamo invece una certa (anti)politica che bypassa un po’ tutto per raggiungere direttamente il popolo, offrendo ad esso illusorie soluzioni quali risposte alle sue paure. La cultura, l’esperienza, la storia, la professionalità, la scienza sono considerati retaggi del passato, pericolose armi del potere, cianfrusaglie da mettere in cantina o in solaio. Sono atteggiamenti tipici dei regimi autoritari o comunque antidemocratici. Basta vedere con quanta sufficienza (non) vengono ascoltate le voci critiche, le analisi dissonanti, i discorsi contrastanti.  Tutti stupidi, tutti in mala fede, tutti a difesa dello status quo: dal presidente della BCE a quello della Repubblica, dai membri della Commissione europea alle agenzie di rating, dal Fondo monetario internazionale agli organismi mondiali impegnati ad osservare gli andamenti economici, dal Papa ai sindaci d’assalto, dalle Ong ai burocrati di Bruxelles, dai mercati finanziari alle banche, dalla Corte dei conti a chiunque ragiona con la propria testa. Non si entra minimamente nei contenuti, ci si limita a criminalizzare la critica da qualsiasi parte arrivi. Se questo non è fascismo, cos’è?

La guerriglia autoreferenziale

A volte serve ritornare sui propri passi. Nel maggio 2017, commentando l’elezione di Emmanuel Macron a presidente della repubblica francese, scrivevo che la politica deve ritrovare la forza di offrire seria, positiva e democratica rappresentanza alle istanze popolari abbandonando ogni e qualsiasi spinta populista, deve rilanciare l’ideale europeista sganciandolo dalle rigide e burocratiche impostazioni, deve aprire la società convincendo i cittadini che i problemi si risolvono aprendo porte e finestre e non chiudendole ermeticamente, deve prospettare una classe dirigente rinnovata e credibile, deve tarare istituzioni e programmi  sui bisogni dei cittadini e non il contrario. Mi chiedevo se Emmanuel Macron fosse in grado di avviare simili processi e se bastassero alcune interessanti premesse valoriali e di metodo: una certa credibilità gli veniva dal non essere legato agli schemi politici tradizionali; si era presentato come un europeista ultra-convinto; aveva un approccio alla politica anti-ideologico, moderno e pragmatico; prometteva di coniugare al meglio libertà, uguaglianza e solidarietà.

A distanza di oltre un anno il presidente francese non fa un bilancio positivo: quanto sta succedendo in Francia lo dimostra. La rivolta dei gilet gialli ne segna un brutto resoconto. Intendiamoci, non do alcuna credibilità a queste improvvisate rivoluzioni basate sulla generica indignazione dell’antipolitica, non concedo comprensione e tanto meno solidarietà agli “sfasciavetrine” della protesta fine a se stessa: senza politica queste rivolte si prestano alle strumentalizzazioni populiste dell’estrema destra in cerca di consenso e dell’estrema sinistra in cerca di identità. Sono destinate a durare l’espace d’un matin, lasciano sul campo macerie di ogni tipo, avvelenano il clima sociale nascondendo i problemi reali sotto l’inutile violenza. Sono tuttavia un sintomo del malessere e impongono serie riflessioni ai governanti.

In estrema sintesi direi che la politica deve ritrovare la capacità di condire la pragmaticità del mercato con la prospettiva della solidarietà. In Italia, mentre la sinistra ha fallito su questo piano, forse più dal punto di vista del consenso che da quello realizzativo, il movimento cinque stelle ha provato a intercettare queste spinte ribelli traducendole in rappresentanza politica e addirittura governativa. Ho concesso un minimo di credito iniziale a questo improbo tentativo, che si sta rivelando un fallimento estremamente pericoloso. In poche parole il suddetto difficile legame tra sviluppo e uguaglianza non ha trovato sbocco nella speranza solidale, ma nell’illusione populista, con la conseguenza di non evitare le macerie nelle strade, ma di portarle nelle istituzioni.

La rivolta francese mette in grave imbarazzo la presidenza di Macron, ma dimostra soprattutto che non si può vivere di indignazione continua; tutt’al più, scendendo in piazza con intenzioni bellicose, si sopravvive alla frustrazione del momento, ma si allontana la soluzione dei veri problemi. Resta aperto il problema della risposta politica. L’Italia, come detto, sta dimostrando che la scorciatoia del grillismo non porta da nessuna parte, anzi rafforza la destra estrema molto più capace di interpretare in senso deteriore le ansie popolari traducendole nel solito e storico populismo reazionario. Alle paure della gente non si sta rispondendo con la speranza delle riforme, ma con l’illusione delle risposte facili o con la concretezza delle risposte sbagliate. Io, con tutti i dubbi e le perplessità, non vedo altra strada rispetto alla sinistra politica seppur riveduta e corretta. Infatti anche la novità di Macron, chiusa nel suo respiro tecnicistico e burocratico, sta pagando dazio, non solo ma anche per effetto della guerriglia dei gilet gialli.

 

Un profumato vento di femminismo

In questi giorni ho visitato una mostra di pittura, che esponeva le opere creative di quattro donne: sono rimasto impressionato dalla loro capacità di coniugare e sintetizzare artisticamente, persona e natura, passato e presente, sacro e profano, sofferenza e speranza, innocenza e riscatto, amore e lotta. Solo la donna è capace di cambiare il mondo, è capace di “sviolentare” le religioni e i conflitti sociali, di combattere per la giustizia senza fare guerre, di proporsi con la forza della sua debolezza e con la debolezza della sua forza.

Quattro pittrici, Enrica Gibin, Agata Maugeri, Mara Montagna, Andreina Spotti: migliore testimonianza non poteva venire in vista della celebrazione della giornata contro la violenza sulle donne. “Tracce, frammenti, memorie” offerti con delicata convinzione: una piccola grande sfida, che non può venire solo dalle pionieristiche e fulminanti carriere delle “privilegiate”, ma dalle umili e pazienti testimonianze delle “impegnate”.

Andreina Spotti mi ha confidato, con malcelata timidezza, che, quando dipinge, riesce a creare intorno a sé un habitat artistico a misura di donna: c’è persino un profumo avvolgente e coinvolgente. Non faccio fatica a crederlo, guardando la femminilità prorompente e sgorgante dai suoi dipinti.  Una candidatura a donna di mondo nel suo piccolo (grande) laboratorio creativo.

Molti anni fa scrissi un provocatorio omaggio alle donne, ricordando emblematicamente mia nonna materna, una vedova autoemancipata, madre Teresa di Calcutta, la soluzione vivente al problema del sesso degli angeli, le suore di clausura, le migliori cosmetologhe possibili e immaginabili. Quanti rimbrotti ebbi da amiche e colleghe! Sono ancora sostanzialmente di quel parere a costo di fare la figura del retrogrado; continuo imperterrito a correre il rischio della retorica.

Il paradosso del mondo sta nel fatto che l’amore ci divide, la violenza ci accomuna. E che ci accomuna è soprattutto la violenza contro le donne: da una parte ci scandalizziamo delle torture e delle discriminazioni operate dai musulmani salvo poi cadere sostanzialmente nelle stesse prassi rivedute e corrette (?).

Mi sembra resti aperta nell’Islam (non solo quello radicale o radicaleggiante), grande come una casa, la questione femminile. Non è certo di buon auspicio che i musulmani, anziché affrontarla con serietà e umiltà, facciano una camaleontica difesa d’ufficio delle loro usanze pseudo-religiose, inventando assurde mode da “ultima spiaggia”.

Dal canto nostro, nella (in)civiltà occidentale, abbiamo ridotto la donna a bambola gonfiabile e non ci accontentiamo di agitarla prima dell’uso, ma la distruggiamo dopo l’uso. La violenza contro le donne è una costante della storia: dalle streghe messe al rogo alle bambine infibulate, dai chador imposti alle donne musulmane ai nudi imposti dal più bieco consumismo, dalle diavolesse agli angeli del focolare, dalle macchine per fare figli alle prostitute bambine.

Sotto queste violenze c’è oltretutto sempre l’inganno: da una parte l’illusione di essere “padrone di casa”, dall’altra il miraggio della parità di difetti.  Il maschilismo cambia pelle, ma rimane intatto nella sua portata culturale, politica e religiosa. Il femminicidio altro non è che la punta di un iceberg. Non voglio esagerare, ma mi sembra che l’unico capovolgimento radicale e globale nei confronti della considerazione e rivalutazione del mondo femminile sia quello predicato e praticato da Gesù. E non fu un caso se andò in croce e se sotto la sua croce si ritrovarono solo uno sparuto gruppo di donne. Ricordiamo che la prima persona a capire la novità assoluta del cristianesimo fu una donna (Maria Maddalena la prima a credere al Risorto). Non i membri di qualsiasi sinedrio, non gli zelanti osservanti di qualsiasi religione, non gli intellettuali di qualsiasi epoca. Una donna! E noi? Delle donne sappiamo solo fare scempio: su questo ci troviamo tutti d’accordo.

La scena del sonnambulismo

“Chi poteva in quel vegliardo tanto sangue immaginar?”, così il delirante canto di lady Macbeth durante la scena del sonnambulismo dell’opera verdiana: la pazzia la distrugge col tragico ricordo dell’assassinio del re Duncano, compiuto per la conquista del trono da parte della coppia infernale.

Valdis Dombrovskis, il vice-presidente della commissione europea che sta esaminando la manovra economica italiana e la sta bocciando con la seria minaccia dell’apertura di una procedura di infrazione dalle conseguenze facilmente prevedibili, ha spietatamente dichiarato: «Il rischio è che l’Italia proceda come un sonnambulo verso l’instabilità».  Non mi sono sentito affatto offeso, ma soltanto (sic!) interrogato e provocato: l’alto esponente dell’establishment europeo ha voluto scuoterci da una sorta di colpevole torpore che ci sta attanagliando.

Mi risulta che i contraccolpi dello scriteriato atteggiamento del governo italiano stiano già concretizzandosi a livello bancario: gli istituti di credito stanno reagendo all’impoverimento del loro portafoglio titoli detenuto a garanzia dei crediti concessi alla clientela, chiudendo drasticamente i cordoni della borsa o addirittura revocando, in tutto o in parte, gli affidamenti concessi, in proporzione alla svalutazione dei titoli di Stato a suo tempo comprati (lo spread non è un’invenzione per far paura a Salvini e Di Maio, è un inesorabile meccanismo mercatale che ci colpisce tutti). Vorrei chiedere a quanti hanno votato Lega o Cinquestelle se si sentirebbero di comprare titoli del debito pubblico italiano. Mio padre sosteneva che per scoprire le reali intenzioni della gente bisogna colpirla nel portafoglio. E allora è inutile fare i furbetti dell’euroscetticismo.

Mentre Matteo Salvini continua imperterrito ad insolentire le autorità comunitarie, mentre Luigi Di Maio vaneggia su una assurda resistenza allo strapotere dei mercati (siamo in un sistema capitalista e non sarà certo la presunzione grillina a rivederne i meccanismi), mentre il premier Conte rassicura stucchevolmente tutti sulla solidità dei conti italiani, giocando le sue carte alla tavola imbandita di Juncker, mentre il ministro Tria non sa più che pesci pigliare, mentre il ministro Savona butta la palla nella tribuna dei precedenti governi, gli italiani cominciano a soffrire sulla loro pelle il dramma di un’Italia figlia di nessuno alla ricerca di una fantomatica Europa diversa.

Ai partiti che sostengono e “ricattano” questo governo del cambiamento non interessa il bene degli italiani, ma il pieno di consensi da fare quanto prima, magari tornando in fretta e furia alle urne, prima o contemporaneamente alle elezioni europee, con la macabra spartizione del bottino fra nord e sud. Il tempo e l’Europa giocano contro di loro e quindi bisogna accelerare e passare all’incasso quanto prima.

Il presidente Sergio Mattarella, nella sua esemplare correttezza costituzionale, ha tollerato un matrimonio di interessi, anche se gli improvvisati sposi venivano da idee e programmi opposti. La mia speranza è che, vedendo andare in crisi questa unione di fatto, che ci sta effettivamente trascinando nel baratro, riesca ad annullarla o a bypassarla in qualche modo, istituzionalmente corretto, ma coraggiosamente spinto a farci uscire dal tunnel in cui ci siamo ficcati. Sono sicuro che anche Mario Draghi stia lavorando sotto traccia per quadrare il cerchio: vedo, con l’ottimismo della volontà e mettendo da parte il pessimismo dell’intelligenza, un asse di salvezza Mattarella-Draghi-Moscovici, che dovrebbe perbenisticamente “stritolare” l’andazzo dell’attuale compagine governativa. Come? Non lo so. Lasciatemi sognare Matteo Salvini che nel suo sonnambulismo canta: “Chi poteva in quel Dombrovskis tanta forza immaginar…”.

Da Metternich a Bismarck a…Trump

Donald Trump ha preso visione del rapporto finale della Cia sul caso Khashoggi, da cui emerge la (quasi) certezza che il principe saudita sia il mandante dell’omicidio, vale a dire colui che ha ordinato a una squadra della morte guidata dai suoi fedelissimi di andare ad Istanbul ad eliminare l’odiato giornalista, che sulle colonne del Washington Post continuava a infangare la sua immagine.

Ebbene, dopo aver tuonato ripetutamente contro questa schifosa operazione, oggi, giustificandosi col fatto che il principe ereditario “forse sapeva e forse no” e che “forse non sapremo mai veramente tutti i fatti”, ha ripiegato sulla più smaccata realpolitik: «Il regno dell’Arabia Saudita resta un grande alleato degli Stati Uniti. Il mantenimento dell’intesa è volto ad assicurare l’interesse del nostro Paese, di Israele e di tutti gli altri alleati nella regione».

Quindi l’interesse americano è al di sopra di ogni tentazione di alzare il tiro e non esiste la necessità di ulteriori misure punitive.  Khashoggi giace, Trump si dà pace e il principe Mohammed è salvo. Le indagini sono corredate da una montagna di informazioni e dal famigerato audio consegnato dalle autorità turche, quello che Trump sembra non abbia voluto nemmeno ascoltare per paura fosse troppo crudele. Di quell’audio sono uscite nuove indiscrezioni da un giornale turco, che spiega come si senta Jamal Khashoggi protestare appena entrato nel consolato saudita di Istanbul: “Cosa credete di fare”, urla mentre lo afferrano per un braccio e lo trasportano in una stanza appartata. Poi la voce dei suoi aguzzini che gli promettono di fargliela pagare prima di iniziare il massacro. Ma Trump non arretra e fa pubblicare dalla Casa Bianca una dichiarazione in cui ribadisce la piena lealtà degli Usa verso la monarchia di Riad, in nome del suo mantra ripreso in calce al comunicato: “America First”.

«L’Occidente non può combattere Daesh e, nello stesso tempo, stringere la mano a Riad. Il jihadismo cresce grazie alla propaganda voluta dai regnanti wahabiti». Così l’analisi di Kamel Daoud, scrittore algerino: «Daesh nero, Daesh bianco. Il primo taglia le gole, uccide, lapida, taglia le mani, distrugge il patrimonio dell’umanità e disprezza l’archeologia, le donne e i non musulmani. Il secondo è vestito meglio, ma fa le stesse cose. Lo Stato Islamico; l’Arabia Saudita. Nella sua lotta al terrorismo, l’Occidente fa la guerra con una mano e stringe le mani con l’altra. Questo è un meccanismo di negazione, che ha un prezzo: conservare la famosa alleanza strategica con l’Arabia saudita rischiando di dimenticare che anche il Regno degli Emirati poggia su un’alleanza con il clero che produce, legittima, diffonde, predica e difende il wahabismo, la forma ultra-puritana dell’Islam a cui Daesh si ispira. L’Arabia Saudita è un Daesh riuscito. Colpisce come l’Occidente lo neghi: saluta la teocrazia come suo alleato, ma fa finta di non notare che è il principale sponsor ideologico della cultura islamica».

Questo equivoco pazzesco, fondato sugli interessi economici petroliferi, non solo mette a repentaglio l’etica nei rapporti internazionali, ma rende persino schizofrenica la Realpolitik. La rozzezza culturale e politica di Trump evidenzia ancor più queste contraddizioni, esistenti da tempo immemorabile nella politica occidentale. Di fronte a tali luridi equilibri, davanti alla vita umana retrocessa a mera pedina sulla scacchiera internazionale, c’è da rimanere soffocati e sconvolti. Le reazioni sono due: o si prende atto e ci si adegua adottando, anche a livello individuale, questi parametri di opzione politica (è quanto molti nel mondo stanno facendo appiattendosi sul consenso e sul voto a personaggi totalmente disancorati dai valori) oppure si cerca di combattere contro i mulini a vento, di contrastare e combattere a mani nude la violenza (il)legittima che ci opprime. Forse non ci rendiamo conto che mai come oggi il mondo è a un bivio e siamo tentati di stare a guardare: non è possibile, bisogna scegliere, costi quel che costi, tra i valori fondamentali dell’uomo e le convenienze dell’egoismo individuale e collettivo.

Autorelegati nel sottoscala europeo

Un mio compagno di scuola andò a consultare il tabellone che esponeva l’esito dell’anno scolastico: “respinto”. Non fece nemmeno una piega, inforcò il suo lussuoso motorino e si presentò disinvoltamente sotto le finestre di casa: “Mamma, sono stato bocciato! Devo scappare, mi aspettano gli amici…”. Mi chiesi cosa sarebbe successo a me, se mi fossi comportato in quel modo, durante ed alla fine dell’anno scolastico.

La differenza, fra la bocciatura Ue della manovra economica del governo Conte e quella del mio compagno di cui sopra, consiste nel fatto che la famiglia del ragazzo respinto era molto ricca e, seppure a malincuore, poteva sopportare ed assorbire un simile comportamento irresponsabile del figlio, mentre l’Italia non è ricca e non può permettersi un simile lusso e purtroppo soffrirà, più o meno, le conseguenze di un comportamento irresponsabile del suo governo.

Mi sono sentito mortificato dalle parole con cui i commissari Ue, durante un’attesa conferenza stampa, hanno motivato la bocciatura del nostro Paese, che porterà ad una procedura d’infrazione con tutte le ripercussioni a livello dei rapporti con l’Unione europea ed a livello dei mercati finanziari. C’era nelle parole dei massimi esponenti politici europei un dispiaciuto avvertimento al popolo italiano, che rischia di avere danni consistenti dalla testardaggine trasgressiva dei suoi attuali governanti.

Non sono un rigorista spinto, non ho l’abitudine di fare l’antitaliano, non sono un esterofilo e nemmeno un eurofilo per partito preso, vedo i limiti ed i difetti della Ue e dei suoi membri più autorevoli, leggo nella storia una memoria corta dei nostri partner, i quali hanno ottenuto enormi aiuti e vantaggi ed ora fanno i primi della classe e ci fanno, come si suol dire gli uomini addosso. Questa menata però ce la potevamo risparmiare: ci stiamo facendo un autogol per il gusto masochistico di voler essere “padroni in casa nostra”, ben sapendo che non viviamo in una lussuosa villetta monostatale, ma in un grosso e problematico condominio sovranazionale.

Tutti ricorderanno la barzelletta del marito che, per schivare gli improperi e le bastonate della moglie, si rifugia sotto il letto. Al reiterato e autoritario invito della moglie ad uscire dal penoso nascondiglio, egli, con un rigurgito di machismo, risponde: «Mi fagh cme no vôja e stag chi!». Noi facciamo come vogliamo, ma rischiamo di essere ficcati nel sottoscala europeo in attesa di tempi migliori. Ma perché tanta velleitaria presunzione, perché tanta cocciuta difesa di una linea di politica economica criticata aspramente da tutti non tanto per la violazione dei parametri, ma per la contraddizione insita nella mancanza di una sua logica espansiva? A volte ci può stare anche la scelta di indebitarsi ulteriormente, ma con uno scopo ben preciso, quello di investire in qualcosa che ci darà in prospettiva un vantaggio tale da poter diminuire i debiti, e non allo scopo di continuare a vivere al di sopra delle proprie possibilità. Prima o dopo arriva la mazzata!

Nelle parole dei commissari europei c’era un messaggio di questo tipo: guardate che non state facendo un dispetto all’Europa, ma al popolo italiano. “Chi se ne frega di Juncker, Dombrovskis e  Moscovici”, dice Matteo Salvini, la punta di diamante della linea sovranista e populista del governo Conte. E se per caso avessero ragione? Non dico di bere a gargamella quel che dicono, ma proviamo almeno a ragionare con calma. Forse siamo ancora in tempo.

Ritiratevi tutti, è cambiato il mondo!

L’attuale governo sta facendo un casino pazzesco: affronta i problemi con grande superficialità, improvvisa soluzioni illusorie, litiga continuamente al proprio interno, è in rotta di collisione con l’Unione europea, fa indubbiamente molto fumo e poco arrosto (forse addirittura brucia l’arrosto). Dà però l’idea di impegnarsi, di buttare all’aria la casa per ripulirla, di voler cambiare l’aria, di voltare pagina.

I cittadini italiani, con tutto il rispetto, non sono mostri di intelligenza e cultura, non hanno grande capacità critica, si lasciano facilmente infinocchiare ed infatti sta succedendo proprio che la gente, esasperata dai problemi, dalle inefficienze, dalle contraddizioni, dalla corruzione, ascolta chi la sa raccontare meglio e le promette facili soluzioni. Bisogna però sforzarsi di mettersi nei panni di tante persone effettivamente in grosse difficoltà, che quindi sono portate ad affidarsi anche al primo che passa, visto che in precedenza magari non passava nessuno.

Il governo legastellato dà di sé un’immagine di confuso attivismo, di contraddittorio efficientismo, di inconcludente populismo, di indispettito sovranismo: da questo bailamme molti vengono storditamente impressionati e fanaticamente coinvolti. Non è facile spiegare che nel casino politico non si costruisce niente, anzi si distrugge quel poco o tanto che esiste. L’ansia del nuovo e del pulito induce nell’errore di rottamare, distruggere ed eliminare senza discernimento. Abbiamo tutti fatto l’esperienza di un trasloco: alla fine ci si accorge immancabilmente di aver buttato qualcosa che poteva ancora servire.

A questo scenario di artificiosa apocalisse politica fa riscontro un altro casino, quello del partito democratico: il Pd dà l’immagine opposta, vale a dire di una forza politica avvinghiata ai riti del passato, sussiegosamente ed altezzosamente lontana dai problemi concreti, inguaribilmente malata di un protagonismo fine a se stesso, incapace di dialogare con la gente, non per irriderne le paure, ma per rimuovere le cause di tali disagi. Di fronte ai tanti problemi emergenti qual è l’idea offerta dal partito democratico: scontrarsi su chi sarà il nuovo segretario! So benissimo che non è proprio così, che la scelta della dirigenza è fondamentale, che i congressi servono, che i problemi vanno inquadrati in una strategia complessiva, che la politica non è uno sbrigativo toccasana per chi sta male. Ci sono però momenti, e forse quello che stiamo vivendo lo è, in cui occorre fornire un’idea convincente, in cui occorre bucare il video, in cui bisogna sforzarsi di affiancare il cittadino prima di indicargli una strada.

Non aveva tutti i torti Katia Tarasconi, immediatamente bollata come “pasionaria del Pd, la quale, intervenendo nel dibattito dell’ultima assemblea nazionale del partito, ha avuto il provocatorio coraggio di affermare dalla tribuna: “Ritiratevi tutti, è cambiato il mondo. Non basta cambiare segretario ogni due anni, servono idee e un nuovo schema di gioco. Siamo rimasti un partito ottocentesco”. Una delle solite e velleitarie sparate? Può darsi, ma per Katia Tarasconi mi è immediatamente nata una certa simpatia.

Mi sovviene lo strafalcione di un mio simpatico conoscente. Quando spuntava qualche amico, di cui aveva appena (s)parlato, esclamava: «Ecco, tabula rasa!». Voleva dire “lupus in fabula”, ma faceva lo stesso. Non vorrei che il “tabula rasa” di Katia Tarasconi venisse snobbato con una sorta di “lupus in fabula”, affibbiatole come se fosse uno dei soliti sgangherati nuovisti rottamatori. Provino a darle ascolto, a ritirarsi in buon ordine ed a cambiare schema di gioco. Chissà che…

 

Il PD a prescindere da Renzi

La mia modesta esperienza di partecipazione alla vita politica attiva, a livello di partito (democrazia cristiana) e a livello istituzionale (consiglio di quartiere), mi ha insegnato che per capire cosa avviene nei consessi (assemblee, congressi, comitati) bisogna essere presenti e non accontentarsi delle cronache giornalistiche, dei retroscena, delle ricostruzioni più o meno fantasiose.

All’assemblea del Pd, che ha avviato la fase congressuale del partito, non ho partecipato (non sono nemmeno iscritto), non ho notizie di prima mano (da chi ha effettivamente partecipato ai lavori) e quindi vado a tentoni e faccio molta fatica a capire cosa stia bollendo nella pentola di questo partito.

Un altro insegnamento derivante dall’esperienza è quello della “presenza degli assenti”. Quando qualche pezzo grosso brilla per la sua assenza (generalmente studiata dall’interessato), il dibattito rischia di incartarsi sul significato da dare a questa sedia vuota, sulla critica alla diserzione o sull’apprezzamento del passo indietro, che molto spesso vuole essere un grande passo avanti. L’assenza di Matteo Renzi alla recente assemblea precongressuale del Pd ha catalizzato l’attenzione mediatica: cosa sta succedendo? L’ex premier ed ex segretario cosa sta facendo o cosa sta pensando di fare? Come minimo un nuovo partito? Come massimo una nuova corrente…di pensiero? Sicuramente Renzi fa parte dell’ampia categoria dei protagonisti a tutti i costi ed avrà tatticamente ritenuto conveniente snobbare l’assemblea per essere appunto protagonista, assai più che se fosse intervenuto direttamente per esporre le proprie idee. È un giochetto che funziona in modo proporzionale alla levatura culturale e politica dell’assente: può essere un fatto traumatico se il personaggio è di grande peso, può essere addirittura un fatto patetico se il personaggio è in crisi irreversibile. Non so sinceramente dove collocare Renzi in questa fase e temo che stia rivelando la sua peggiore fisionomia: quando era sulla cresta dell’onda governativa, la sua verve aveva un senso e otteneva anche una mia personale (relativa) simpatia; fuori dal governo gli altarini si scoprono e la capacità politica diventa un problema serio: una sorta di prova del nove. Al momento non torna e credo serva a poco abbandonare la scena per preparare un rientro alla grande, magari anche recitando un’altra commedia.

Aldo Moro in una fase della vita democristiana, abbandonò gli incarichi di partito, si fece da parte perché non condivideva la linea politica portata avanti dalla segreteria: non si eclissò, non ipotizzò un nuovo partito, non si divertì a rompere le scatole ai colleghi impegnati negli organi di partito. Parlò dalle colonne del quotidiano “Il giorno” con editoriali di grande spessore culturale. Prima o dopo lo andarono a cercare…Con tutta la stima che posso avere nei confronti di Renzi, mi sembra tutto un altro film.

Il partito democratico credo abbia abbondanti risorse culturali e umane a prescindere da Matteo Renzi: non si faccia quindi condizionare, svolga al meglio il suo congresso, metta in campo i suoi uomini migliori, si chiarisca le idee, si presenti alla gente in modo credibile e convincente. Men che meno si lasci coinvolgere nel referendum pro o contro l’alleanza con il M5S. In una parola, faccia politica, il resto si vedrà.