Mattarella all’opera

L’Attila, con il quale la Scala di Milano ha inaugurato la sua stagione operistica (spettacolo bello pur nella sua pesantezza scenografica, registica e financo musicale), passerà alla storia non per gli interpreti vocalmente prestanti (Verdi era ancora legato più ai ruoli che ai personaggi), non per la direzione di Riccardo Chailly esageratamente propenso a spremere l’impossibile da un’opera che ha la sua bellezza nella stringata alternanza tra momenti banali e puntate sentimentali, non per la messa in scena colossale e ridondante di ammiccamenti (a quando la fine delle ormai logore e stucchevoli trasposizione storiche?), non per la solita sarabanda alla milanese di elegantone con generosi seni in precaria e provocatoria visibilità, di personalità in impettita permanente esibizione e di media attenti solo al lussuoso guscio dell’evento, non per il successo generosamente e genericamente tributato dal pubblico, ma per il più lungo applauso che un presidente della Repubblica  potesse incassare al netto del solito vuoto cerimoniale.

Il folto pubblico della Scala ha tributato un’accoglienza strepitosa a Sergio Mattarella con un interminabile e partecipato applauso. Tutti hanno colto la particolarità del fatto, forse pochi hanno cercato di capirne il poliedrico e profondo significato.  Quando Riccardo Chailly, sorpreso dall’intensità e dalla lunghezza dell’applauso, si è girato verso il palco reale con la bacchetta alta e con un chiaro cenno di adesione alla festa, si è capito che tutta l’Italia voleva dare un segnale di apertura a tutto il mondo tributando un chiaro elogio ed un solidale invito al Presidente: l’elogio per come viene interpretato il suo massimo ruolo istituzionale, per lo stile con cui viene svolta la sua funzione, per la sobrietà dei suoi modi, per la credibilità della sua storia personale, per la sua capacità di rappresentare le migliori istanze e caratteristiche del Paese. Fin qui la strameritata deferenza a livello istituzionale e costituzionale.

Ma c’era dell’altro: la franca e cordiale richiesta al presidente affinché ci liberi dal cialtronismo dilagante e prevaricante, ci restituisca la politica nella sua più alta accezione, ci riapra dignitosamente le porte dell’Europa e del mondo, ci riconsegni un Paese, come lui spesso afferma, unito e solidale nella ricchezza delle diversità, lontano dalla povertà delle lacerazioni. Siamo alla riproposizione della cultura democratica contenuta nella Costituzione.

Ma come non vedere in quei frenetici battimani, in quei “bravo presidente”, una sintonia politica: la voglia di uscire dal tunnel governativo del nulla per tornare ad essere governati e non strumentalmente aizzati contro tutto e tutti. Così come Mattarella ha correttamente preso atto della volontà espressa dagli elettori, non esitando a rinfoderare le sue sacrosante armi di fronte allo sconfortante balletto dei vincitori, emerge la speranza che ora faccia un altrettanto corretto pressing istituzionale su chi sta predicando male e razzolando ancor peggio. Non so cosa sia passato nel cervello e nel cuore del Presidente durante quell’interminabile applauso, sfociato in un inno nazionale coinvolgente come non mai. Avrà rivisto il corpo esanime del fratello ucciso dalla mafia e si sarà detto: allora non tutto era ed è perduto. Avrà rivisto tutta la sua lunga testimonianza politica ed istituzionale ed avrà pensato: allora la politica esiste ancora. Immerso in una città come Milano, in un teatro come La Scala, in un evento seguito in tutto il mondo avrà riflettuto: allora l’Italia è una grande nazione, che sa guardare oltre i propri confini. Forse si sarà commosso. Io, davanti alla televisione, lo ero veramente e sinceramente.

 

Il coraggio della rinuncia

“Mi ritiro dalla corsa”. Marco Minniti in una intervista a Repubblica spiega di avere preso questa decisione “per salvare il PD”. Infatti, dice “c’è il rischio che nessuno dei candidati raggiunga il 50% e arrivare al congresso così “sarebbe un disastro”. “Con Renzi non ci siamo sentiti – dice – ma spero che nessuno pensi a scissioni perché indebolire il PD oggi significa indebolire la democrazia italiana (…) e una scissione sarebbe un regalo ai nazional populisti”. Poi punta il dito contro Lega e M5S: “Abbiamo un governo che in 6 mesi ci ha portato a un passo dalla recessione”.

Peccato! Una persona seria e capace fatta fuori sbrigativamente o meglio, un esponente politico, che capisce la delicatezza del momento e si fa da parte per tentare di semplificare la bagarre all’interno del PD. Ritirandosi dalla corsa, Minniti fa tre inviti che mi sento, nel mio piccolo, di condividere pienamente. Innanzitutto mettere ordine nel pollaio dove troppi galli si contendono le galline, mentre le galline andrebbero rispettate, capite e aiutate. In secondo luogo non pensare e lavorare per allestire un altro pollaio: la volpe e la faina non aspetterebbero altro. In terzo luogo fare opposizione ad un allevatore di polli, che ci sta costringendo ad essere vegetariani.

Chiedo scusa della similitudine animalesca, che tuttavia penso renda l’idea. Perché in politica, ma non solo in politica, le persone serie non riescono ad incidere sulle situazioni e sono costrette a farsi da parte? Viviamo l’epoca del trionfo dei cialtroni, favorito dalla insulsa bagarre mediatica e dalla superficialità ai limiti del menefreghismo. Guardavo con una certa attenzione a Marco Minniti: lo ritenevo adatto a guidare il PD nella fedeltà ai principi, ma anche nella concretezza delle soluzioni. Lo ritenevo un politico serio, capace di sintetizzare la storia della sinistra italiana e di trasferirla dal campo delle velleità a quello delle volontà risolute ed efficaci. Evidentemente sono diventato una sorta di Re Mida a rovescio: tutto quello che politicamente mi piace svanisce in breve tempo. I casi sono tre: o non capisco niente di politica o la politica non fa per me oppure il mondo è talmente cambiato che non riesco a tenergli dietro. Magari di tutto un po’.

Ammetto di essere rinunciatario per natura e quindi di ammirare coloro che hanno il coraggio di rinunciare. Qualcuno pensa che questo atteggiamento dipenda da presunzione e da pigrizia. Per me può anche darsi. Per Minniti non credo. Mio padre rispettava ed ammirava i veri maestri ma non sopportava i finti maestri, supponenti e chiusi nella loro presunta superiorità accademica. Riporto in merito un piccolo episodio che raccontava con un po’ di dispetto e di astio verso chi sa darsi dell’importanza, verso chi si fa dare del lei dal garzone, ma alla fine mostra la sua grassa ignoranza.

Al termine dei lavori di costruzione di una moderna chiesa periferica di Parma, così essenziale da essere definita da mio padre “l’amàs dal gràn”, gli architetti si accorsero con sorpresa che il soffitto a capanna sembrava piatto, perché la pendenza dei due lati era insufficiente (la terminologia non è precisa e chiedo scusa agli architetti, a quei due in particolare). Mio padre si scandalizzò ma non disse nulla e tra sé pensò che “l’amàs dal gràn” stava emergendo inequivocabilmente ed irrimediabilmente. Era tardi e non si poteva ovviare, pena rifare completamente il tetto (rimedio inattuabile). La pensata per uscire dalla clamorosa impasse fu di dipingere il soffitto a due tonalità diverse di colore in modo da prendere lucciole per lanterne. Mio padre eseguì e tacque, ma non digerì la questione che divenne paradigmatica per bollare l’atteggiamento dei progettisti supponenti.

Se da una parte simpatizzava per l’umiltà dell’impegno, dall’altra finiva per cedere amaramente, peraltro solo a parole, alle convenzioni di un mondo sbagliato: “S’at spét che l’importansa a t’la daga chiètor…bisogna lavorär ‘d gommod”. Evidentemente Marco Minniti ha preferito risparmiare i propri gomiti, puntare l’indice della propria mano per poi mettersi le gambe in spalla.

 

Il Fico fruttuoso

Rispondendo ai cronisti a margine di un evento ai Lincei, il presidente della Camera Fico ritiene che il Global Compact sulle migrazioni vada “assolutamente firmato”. “Invito tutti a leggere bene il testo”, dice, “perché se si legge bene il testo” si vede che “è una gestione globale fatta con gli altri Paesi e quindi un’affermazione del multilateralismo sull’immigrazione. Serve all’Italia per non isolarsi sulla questione”. Fico si esprime indirettamente anche sul dl sicurezza: “La mia assenza al voto finale interpretata come presa di distanza? È stata interpretata bene”.

È quasi fisiologico che un politico investito di una della più alte cariche dello Stato prenda le distanze dal suo partito per mettersi, entro certi limiti, al di sopra delle parti. Roberto Fico proviene dal M5S e, pur essendo stato eletto alla presidenza di Montecitorio in base ad un accordo tra i pentastellati e il centro-destra, riesce a svolgere il suo ruolo in modo corretto, obiettivo ed imparziale: mosca bianchissima in un momento politico in cui la faziosità tende a trasformarsi in rissa continua.

Le esternazioni di Roberto Fico vanno però oltre la mera correttezza istituzionale, intesa in senso burocratico, per tentare di andare direttamente al cuore dei problemi del Paese ed esprimere un pensiero, libero dagli stretti vincoli di partito ed attento alla vita del Paese ed ai suoi primari interessi. Non ha paura quindi di smarcarsi dalla rigida disciplina del suo movimento per ragionare ad alta voce con la sua testa, in base soprattutto al buon senso prima ancora che a considerazioni di carattere politico. Forse è stato collocato su quell’alto scranno proprio in quanto “grillino anomalo”, probabilmente per neutralizzarne l’eventuale atteggiamento critico verso le scelte pentastellate. Anche il suo pedigree lo colloca ad un livello nettamente superiore ai colleghi di partito, per preparazione, esperienza e carriera politica. Aggiungiamo pure che evidenzia, anche umanamente parlando, un atteggiamento ragionevole e dialogante.

Non intendo dare significati eccessivi e fuorvianti al comportamento di Fico, ma non mi dispiace il suo modo di ricoprire l’alto incarico assegnatogli ed aggiungo che i suoi interventi sono sempre molto pertinenti e obiettivi, quasi a richiamare i colleghi deputati a mettere innanzi a tutto gli interessi dei cittadini rappresentati. Non credo si tratti del grillino buono che stempera le cattiverie dei grillini cattivi, nemmeno del contraltare moderato e simpatizzante al rigido e antipatizzante Luigi Di Maio, men che meno di una riserva di lusso del M5S da mettere in campo nei tempi duri che verranno.

Fatto sta che osa distinguersi continuamente, anche se discretamente, dalle scelte del governo e della maggioranza parlamentare, in particolare rispetto a quelle condizionate e caratterizzate dalla Lega. Non è un caso che il vice-presidente Salvini lo abbia ripetutamente invitato a stare al suo posto, a rispettare i patti, in poche parole a starsene zitto e buono. In merito al decreto sicurezza il ministro degli Interni, contro le perplessità espresse da Fico in modo piuttosto clamoroso, ha ribattuto: “Chi contrasta il dl sicurezza non ho capito se lo ha letto”, lasciando intendere un’accusa di ignoranza e/o di faziosità preconcetta. Il presidente della Camera non fa neanche una piega, va per la sua strada e fa benissimo. Spero che la sua lezione sia recepita a livello di cultura istituzionale, ma anche di opportunità politica e serietà strategica. Se poi metterà in crisi il M5S o almeno aprirà una crepa all’interno dello stesso è affare soprattutto del grillismo attivo e passivo, di cui non faccio parte.

Il caos rovinoso del PD

Notizia del giorno: il grande freddo cala come una coltre di neve tra Marco Minniti e Matteo Renzi. Il primo intende candidarsi alla guida del Pd, il secondo sembrava orientato ad appoggiarlo, ma ultimamente snobba vistosamente il congresso, in ben altre faccende affaccendato. Robe che avevano poco senso quando i partiti erano all’apice della loro credibilità, immaginiamoci oggi in una contingenza politica che li vede come il fumo negli occhi.

Se “non” si vuole risolvere un problema si fa una commissione; è il caso di aggiungere malinconicamente che se “non” si vuole fare politica si fa un congresso. Siamo arrivati a questo punto. Devo nostalgicamente riandare con la mente al congresso democristiano a cui, giovanissimo componente degli organi di partito a livello provinciale (si badi bene non del movimento giovanile, ma del partito vero e proprio), partecipai, seppur come uditore, a Roma nel 1969. Un assise vera e palpitante, con scontri al limite delle seggiolate: Aldo Moro fece uno storico intervento, col quale divenne il leader della sinistra interna e durante il quale si scatenò un putiferio tale da far temere il peggio. Solo l’astuzia e l’abilità dei due cavalli di razza evitò una rissa clamorosa: Fanfani, che presiedeva il congresso, si scambiò alcune battute ironiche con Moro, il clima si stemperò e ritornò la calma, anche se le idee forti continuarono a caratterizzare lo scontro. Quelli sì che erano congressi…

Il partito democratico ha avviato in questi giorni la fase congressuale: emergono parecchie candidature alla segreteria e fin qui niente di scandaloso, anzi. Fra i tira e molla del “mi candido-non mi candido” si colloca il posizionamento strumentale dell’ex segretario Matteo Renzi: non si capisce se vuol partecipare al dibattito congressuale o se sta pensando a fare l’ennesimo partito della sinistra oppure una nuova ed anacronistica Democrazia Cristiana oppure un partito nuovo di zecca a sua immagine e somiglianza. La malattia del protagonismo a tutti i costi è entrata nel PD e non c’è calo di consensi che tenga: si rischia di impostare un congresso a prescindere dal Paese, andando alla spasmodica ricerca di un posto al sole in tempo di eclissi.

Il PD è nato dalla combinazione tra i valori della sinistra progressista cattolico-democratica e quelli dei post-comunisti riveduti e corretti: finalmente le due correnti politiche fondamentali del dopoguerra, imprigionate dalla guerra fredda, contrapposte sul campo dei principi della democrazia, condizionate dall’interruzione del percorso compromissorio che avrebbe dovuto portare alla terza fase ideata da Aldo Moro, trovavano una sintesi per arrivare a costituire il partito di centro sinistra nel contesto del bipartitismo nascente. Purtroppo il concepimento di questa nuova creatura politica era più frutto del sacrosanto tatticismo antiberlusconiano che non del lancio di una sinistra democratica e riformista capace di coniugare i valori storici, vale a dire libertà ed uguaglianza, sviluppo economico e giustizia sociale, capitalismo e riformismo, collocazione occidentale ed europeismo. Questa fusione, che molti hanno definito “a freddo”, non ha funzionato ed è rimasta impigliata nel groviglio fra un nuovismo pragmatico e choccante e un burocratismo conservatore, retrogrado e schematico. Dei valori di partenza si è perso il profumo e la spinta.

Si sente la mancanza di una forza politica che sappia interpretare in modo moderno il socialismo democratico e riformista. Almeno io sento questa mancanza. Mio padre si considerava ed in effetti era un socialista senza socialismo (almeno a livello nazionale) e lo si deduceva da come spesso sintetizzava la storia della sinistra in Italia, recriminando nostalgicamente sulla mancanza di un convinto ed autonomo movimento socialista, che avrebbe beneficamente influenzato e semplificato la vita politica del nostro paese. Siamo ancora lì, al palo. Nel frattempo contro il berlusconismo, bene o male, abbiamo fatto diga, ma adesso ci sono da fare i conti con una destra reazionaria ed estremista paradossalmente alleata con un movimento dell’antipolitica populista: una fusione a caldo da cui rischiamo di essere seriamente scottati.

In questo scenario preoccupante il Pd è nel caos, non un caos calmo, ma un casino pazzesco. Possibile che non si riesca a trovare la quadra per rilanciare un partito credibile di sinistra? Le schermaglie e le scaramucce congressuali non servono a nulla, i personalismi sono deleteri e fuorvianti. La smettano per favore di litigare sui tatticismi del niente (allearsi o meno col M5S) e comincino a confrontarsi seriamente sui contenuti e sulla strategia (i problemi visti in una speranza costruttiva della loro soluzione). La gente, pur confusa e imbarazzata, aspetta questo. Non faccio nomi di esponenti del PD, chiedo solo che riprendano a fare politica con la dovuta serietà. La gente capirà…

 

 

 

La improbabile Boccia…tura del governo

Nel nostro Paese c’è il brutto vizio di puntare più alla pesante critica verso l’operato altrui piuttosto che tentare di fare al meglio il proprio mestiere. Vale a livello di base, ma anche e soprattutto a livello di vertice. L’idraulico, prima di cominciare il proprio lavoro di manutenzione e riparazione, non manca di scuotere il capo su chi ha progettato e installato l’impianto. Il presidente vuole insegnare al direttore come tenere la penna in mano, il direttore punta a fare il presidente. I Parlamentari, anziché impegnarsi a fare buone e chiare leggi, con la scusa di tenere i rapporti con i loro elettori, diventano veri e propri operatori mediatici, che fra un’intervista e l’altra (non) trovano il tempo di elaborare provvedimenti legislativi adeguati alle problematiche del Paese. Si potrebbe continuare, ma mi soffermo invece, con un commento più lungo del solito, sulle organizzazioni imprenditoriali.

In questi giorni a Torino si sono riuniti almeno 3 mila imprenditori in rappresentanza di una dozzina di categorie produttive, Confindustria, artigiani cooperative, commercianti, imprese edili, definiti il partito del Pil. Dopo settimane durante le quali hanno chiesto al governo interventi per sostenere lo sviluppo, gli investimenti e la realizzazione delle grandi opere, sono andati giù duri: «Se siamo qui significa che siamo ad un punto quasi limite di pazienza, per mettere insieme 12 associazioni tra cui alcune concorrenti tra loro. Se siamo qui tra artigiani, commercianti, cooperative, industriali, qualcuno dovrebbe chiedere perché. La politica è una cosa troppo importante per lasciarla solo ai politici. Noi stiamo facendo proposte di politica economica per evitare danni al Paese. Siamo 12 associazioni che rappresentano 3 milioni di imprese, oltre il 65% del Pil, un segnale importante che si vuole dare al governo del Paese. Si parte dalla Tav chiaramente, si pone la questione infrastrutture, in senso largo, grandi e piccole infrastrutture per il Paese, e si pone un auspicio, che è quello di un’attenzione alla crescita. Gli interventi messi in campo dal governo stanno trascurando il motore della crescita. La manovra è tutta spostata sulla spesa corrente senza però strumenti per sostenere la crescita». Così si è espresso, a nome dell’intera e larga platea, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, il quale ha concluso il suo discorso in questi termini: «Se fossi in Conte convocherei i due vicepremier e gli chiederei di togliere due miliardi per uno, visto che per evitare la procedura d’infrazione bastano 4 miliardi. Se qualcuno rifiutasse, mi dimetterei e denuncerei all’opinione pubblica che non vuole arretrare. Una promessa a Di Maio: se ci convoca tutti non lo contamineremo. A Salvini, che ha preso molti voti al nord, dico di preoccuparsi dello spread».

Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Purtroppo le organizzazioni imprenditoriali di peccati ne hanno parecchi: infatti sono in evidente crisi di rappresentanza e credibilità nei confronti dei loro associati e probabilmente questo affondo anti-governativo è strumentale a riprendere voce e peso più all’interno che all’esterno. Ricordo molto bene la sciagurata scelta confindustriale di sposare tout court il berlusconismo, strategia rivelatasi a dir poco sbagliata, intrapresa ancor più smaccatamente e irrazionalmente dalla Confcommercio (che arrivò ad esprimere chiara ostilità elettorale a Romano Prodi). Per onestà intellettuale bisogna fare queste premesse.

Dopo di che posso essere perfettamente d’accordo (o quasi) nel merito delle critiche sostanziali mosse al governo e confesso di avere una reazione analoga a quella del famoso musicologo Rodolfo Celletti, a proposito del pubblico e del loggione del Teatro Regio, diceva: «Quando strigliate qualche grosso cantante dimostrando di non avere timore reverenziale verso i mostri sacri dell’opera lirica, confesso che, sotto-sotto, ci godo…». Mi chiedo però chi abbia votato questi signori che ci stanno portando alla deriva. Non mi si dirà che i tre milioni di imprese (a livello elettorale sono molti di più, considerando almeno i soci e i loro familiari) non abbiano nemmeno parzialmente sostenuto Lega e M5S. Allora, prima di sbraitare bisogna fare ammenda. Poi si può anche pontificare, altrimenti i Salvini e i Di Maio la butteranno nel luogo comune dei poteri forti autoreferenziali e faranno orecchie da mercante, a meno che in vista delle sicure elezioni europee e delle probabili elezioni politiche, non si spaventino e non facciano pubblica ed operosa ammenda. Non ci credo troppo e soprattutto non è così che si deve sviluppare il dialogo tra politica e forze intermedie.

Quanto al presidente Conte non mi sento di affondare i colpi: a volte lo sento parlare e, usando l’espressione cara a mio padre, ammetto che “non è un gabbiano”; poi alla prova dei fatti lo vedo come l’evanescente e poco dignitoso ostaggio dei suoi vice. Un opportunista? Purtroppo sì. Se Salvini e Di Maio toglieranno in tutto o in parte i quattro miliardi relativi alle loro promesse elettorali, non sarà certo per un’impennata di carattere del presidente Conte, e forse nemmeno per la sollevazione del parterre economico, ma per ben più alte, prestigiose ed autorevoli insistenze e pressioni. Più che verso la piazza imprenditoriale la mia speranza è indirizzata ai palazzi istituzionali italiani ed europei. Non c’è bisogno che dica di più.

Una questione di Var

Oggi entro di prepotenza nel bar sport e mi unisco alle discussioni e polemiche sul VAR: si tratta del Video Assistant Referee, vale a dire il metodo di arbitraggio che prevede due ufficiali di gara, che collaborano con l’arbitro in campo, esaminando le situazioni dubbie della partita di calcio tramite l’ausilio di un video su cui possono rivedere, con relativa calma, le azioni difficilmente valutabili in tempo reale.

Le polemiche sorgono prevalentemente dal fatto che l’arbitro in campo fa ricorso con una certa ritrosia a questo metodo, che lo dovrebbe peraltro mettere al coperto da eventuali possibilità di errore. Forse esiste il timore di essere ridotto ad una sorta di robot, telecomandato e condizionato dall’esterno (la difesa del proprio ruolo e del proprio status). È pur vero che non si può pretendere l’intervento del Var ad ogni piè sospinto, ma un uso più puntuale e coraggioso non guasterebbe, eviterebbe agli arbitri brutte figure e toglierebbe il dubbio dei favoritismi all’una o all’altra squadra, soprattutto alle grandi squadre: nel calcio infatti, come in molti altri campi, non esiste la tendenza a stare dalla parte del più debole, ma quella di schierarsi dalla parte del più forte. Quando poi si incontrano due grandi fra di loro, il pasticcio diventa ancora più imbarazzante.

In questi giorni finalmente l’attenzione si era portata sui comportamenti razzisti e grotteschi delle tifoserie, sugli atteggiamenti isterici dei fuoriclasse del pallone (forse sarebbe meglio ribattezzarli fuoriditesta), delle spese enormi sostenuta dallo Stato per garantire l’ordine pubblico prima, durante e dopo gli incontri, della violenza insinuatasi anche nel calcio minore, laddove i ragazzini-giocatori vengono aizzati dai loro genitori contro arbitri ed avversari. È durata poco, perché il Var si è ripreso il centro della scena e tutto il resto è stato rapidamente dimenticato.

Se devo essere sincero, del Var non mi interessa un bel niente, faccio come un carissimo amico di mio padre: era un amante della compagnia e ad essa sacrificava i propri gusti; non gli interessava il calcio, ma a volte andava con gli amici allo stadio; non era un giocatore di carte, ma osava cimentarsi con lo scopone scientifico. Tutto pur di stare in compagnia, senza rinunciare alla propria personalità.

Dagli spalti lanciava le sue provocazioni. Durante la partita, magari in una fase piuttosto tranquilla a centro-campo, si metteva a gridare: «Opso! Arbitro, opso!». Era la sua versione dell’inglese off-side, fuori-gioco in italiano. A chi gli faceva osservare che il problema in quel momento non esisteva, rispondeva: «Cò vót ch’a sapia mi, andì sémpor adrè con cl’opso lì…». Faceva il finto tonto, in realtà sapeva benissimo di cosa stava parlando, ma gli piaceva prendere in giro la gente nei suoi eccessi, anche quelli del tifo calcistico. Tra l’altro, dava sempre ragione all’arbitro. Quando tutti inveivano contro il direttore di gara, lui lo difendeva a spada tratta: «Al gh’à ragión, al gh’à ragión». Un provocatore nato. Chissà cosa direbbe del Var. Provo a ipotizzare una battuta: “As pol savér cò l’è col bagàj lì? Ani catè la manéra ‘d fär ancòrra pù cazén. Ag n’era miga abàsta…, ànca al Var…”.

Può darsi che anche l’Unione europea finisca con l’adottare una sorta di Var nei confronti del governo italiano: arriveranno tre arbitri e passeranno alla moviola i nostri conti pubblici. Non so come potrà finire la partita. Ammonizione con ammenda? Espulsione? Squalifica? Sconfitta a tavolino? Retrocessione? Non sarà meglio evitare il gioco scorretto, darsi una regolata, andare in ritiro prima di riprendere il gioco? La smetto, perché hanno capito dove sto andando a parare e mi stanno cacciando fuori dal bar sport in malo modo. Chissà perché mi è venuta voglia di entrarvi…ben mi sta!

Il Pil? O famo strano!

“Si ferma la crescita, nel terzo trimestre il Pil scende dello 0,1%. È il primo dato negativo dopo 14 trimestri di crescita. Tutti i principali aggregati della domanda interna registrano diminuzioni con un calo dello 0,1% dei consumi finali nazionali e dell’1,1% per gli investimenti fissi lordi”. Parole prese da titolo e sommario di un articolo della redazione economica del Corriere della sera. “Pil e disoccupazione: ogni giorno si perdono 627 posti di lavoro”. È sempre quel che si legge sul sito del Corriere a commento dei dati Istat sputati in faccia al Paese Italia. I dati statistici vanno sempre presi con le molle, non hanno valore assoluto, ma segnano tendenze ed andamenti, soprattutto se vengono raffrontati omogeneamente nel tempo. In parole povere, le cose nell’economia italiana non stanno andando bene.

Lasciamo perdere la notizia riguardante le spese per il Natale 2018, che, secondo quanto emerge da un’analisi della Coldiretti sulla base dei dati Deloitte, salirebbero complessivamente a 541 euro a famiglia, il 3% in più dello scorso anno, con il nostro Paese che si classifica al quarto posto fra i Paesi europei dove si spende di più per il Natale, preceduto da Gran Bretagna, Spagna e Austria.  Non so come combinare questi dati con quelli dell’Istat: mi limito a considerarli “misteri dell’economia”. Lungi da me comunque ironizzare o sottovalutare le difficoltà economiche dell’economia italiana.

Di fronte a questi dati, oggettivamente preoccupanti, si è scatenato il solito giochetto allo scaricabarile. Da una parte non solo i politici, ma anche gli analisti, dicono e/o scrivono: questi mesi dimostrano che non può esserci crescita se il governo non garantisce in primo luogo la stabilità finanziaria. Se non lo fa, le aziende non investono e le banche, cariche di debito pubblico, tagliano le linee di credito e generano così fallimenti e disoccupazione.

Dall’altra parte, quella dell’attuale governo, si tende a far risalire la responsabilità di questi andamenti negativi ai precedenti governi, in particolare il governo Monti, quelli presieduti successivamente da Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, tutti governi che avevano all’opposizione gli attuali partiti di maggioranza (Lega e M5S). Quei governi avrebbero solo stressato gli italiani per far quadrare i conti pubblici, creato enormi disparità sociali, gonfiato l’occupazione con interventi penalizzanti per i lavoratori, distribuito mance rivelatesi ininfluenti o addirittura controproducenti per i consumi. A chi gli chiedeva un commento sulla revisione al ribasso del Pil da parte dell’Istat, primo calo congiunturale dal 2014, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a Buenos Aires per il G20, si è limitato a rispondere: «Lo faremo crescere». Forse avrebbe potuto e dovuto parafrasare la storica battuta del film di Carlo Verdone “Viaggi di nozze”: «E come o famo il Pil? O famo strano».

Non annetto un potere miracolistico ai governi ed alle loro tattiche: l’economia spesso e volentieri si muove su sentieri diversi, in un ambito quasi estraneo rispetto agli equilibri politici. Gli stessi italiani, che in maggioranza apprezzano il governo, sembrerebbero non credere alle prospettive del Paese: gli acquisti di beni durevoli delle famiglie sono calati, la spesa per impianti e macchinari è crollata. Viene spontaneo chiedersi: e allora chi ha votato per i partiti che esprimono e sostengono l’attuale governo, che solleva tante perplessità e scoraggia famiglie ed imprese. Forse solo i disoccupati ingolositi dal reddito di cittadinanza, i pensionandi stuzzicati dalla revisione della legge Fornero, gli spaventati rassicurati dal blocco degli immigrati?

Non mi sento di addossare tutte le colpe di questa preannunciata quasi recessione alle goliardate anti-europee ed alle stiracchiate e contraddittorie linee economiche di un governo, concepito nel “peccato” delle urne, nato col forcipe contrattuale di Salvini e Di Maio, allattato al seno della demagogia e dell’illusionismo, svezzato nei continui contrasti fra partiti e ministri, rimbrottato continuamente dal presidente della Repubblica, compatito dai cosiddetti poteri forti. Ammettiamo pure che l’economia italiana fosse già comunque in qualche difficoltà, che mostrasse sintomi piuttosto equivoci, che avesse in sé latente il virus della decrescita, che fosse già, insomma, malata.  Ebbene, non ha certamente preso un brodo rigenerante e ricostituente pentaleghista o legastellato: semmai è stata messa in isolamento, in quarantena, a letto, in cure palliative, in suicidio assistito. Un mio caro e simpatico amico sosteneva che, quando non si hanno soldi, non resta altro da fare che andare, soli e soletti, a letto presto e spegnere la luce. Così stanno facendo gli innovatori del piffero. Personalmente aggiungo una nota masochistica: se sono tormentato da disturbi fisici di varia natura, a chi mi consiglia accertamenti e terapie varie, rispondo grottescamente: so io quel che devo fare, mi vado a sedere davanti al cimitero e aspetto con pazienza che arrivi il momento…in compagnia del governo Conte…

Eccesso colposo in demagogia istituzionale

Il titolare di una rivendita di gomme di Monte San Savino, in provincia di Arezzo, all’alba ha sparato e ucciso uno dei ladri scoperti all’interno della sua azienda, dove dormiva dopo aver subito 38 furti in pochi mesi. L’uomo ha raccontato al Pm di essersi svegliato per il rumore dell’ascia usata dai malviventi per spaccare una finestra e di aver sparato d’istinto 3 colpi di pistola. Il 29enne moldavo, colpito all’arteria della gamba, si è accasciato ed è morto. L’altro è riuscito a fuggire. Applausi e grida: “Bravo Freddy” da parte di amici e conoscenti davanti alla sua azienda, mentre la procura lo ha messo sotto indagine per il reato di eccesso di legittime difesa.

“Dopo il decreto sicurezza arriverà in Parlamento la nuova legge sulla legittima difesa. Io sto con chi si difende. Entrare con la violenza in casa o nel negozio altrui, di giorno o di notte, legittima l’aggredito a difendere se stesso e la sua famiglia. La mia solidarietà al commerciante toscano, derubato 38 volte in pochi mesi: conti su di noi!”. Così il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha commentato l’accaduto. Il legale di Freddy Pacini ha riferito che il ministro Salvini ha telefonato al commerciante per rappresentargli “la vicinanza delle istituzioni”. “Pacini non se l’è sentita di parlare con il ministro perché è troppo scosso”.

Il tema, già di per sé caldo, è stato surriscaldato da questo paradossale episodio e Salvini non si è lasciato sfuggire l’occasione per cavalcare la tigre della paura. Mi ha colpito il fatto che la persona in questione sia talmente scossa da non sentirsi di parlare con il ministro: significa che questo problema non può essere affrontato con strumentale semplicismo ed ancor meno con demagogica e velleitaria rassicurazione. Uccidere una persona, seppure per legittima difesa, è comunque un dramma, che lascia un segno nell’autore del gesto. Non c’è niente e nessuno da applaudire, non c’è da gridare dei “bravo” a scena aperta, non c’è da scatenare alcuna guerra, ci sarebbe solo da tacere, riflettere e agire con senso di responsabilità ed equilibrio.

Dal momento che esiste la legge sarebbe molto meglio lasciare alla magistratura il difficile compito di applicarla, individuando il limite fra il consentito e l’eccessivo, considerando tutti gli elementi psicologici e umani del caso. Non credo che una sorta di legittimazione della difesa sempre e comunque possa contribuire a risolvere il problema. Da una parte esiste l’ingenua illusione di affrontarlo aumentando le pene o, ancor prima, dando a tutti la possibilità di difendersi con le armi in pugno: mio padre credeva così fermamente alle regole ed alla necessità di rispettarle da ipotizzare addirittura la prevenzione dell’evasione carceraria apponendo un cartello “chi scappa sarà ucciso”. Dall’altra parte c’è chi soffia sul fuoco volendo creare un clima di tensione tale da giustificare la politica del pugno duro.

Ai tempi in cui ero impegnato concretamente in politica, seppure a livello di base, avevo il coraggio di prendere in considerazione l’eventuale disarmo della polizia nei conflitti di lavoro. Mi sentii urlare in faccia che la polizia era meglio rifornirla di cannoni. Storia vecchia! Mia sorella sosteneva che, tutto sommato, non eravamo riusciti a toglierci di dosso le scorie di una mentalità fascista. Non voglio esagerare, ma probabilmente non aveva tutti i torti. Il fascismo, con la scusa di combattere la criminalità, combatteva con violenza anche gli oppositori del regime, previa loro criminalizzazione ideologica e politica.  Stiamo ben attenti a non teorizzare e legittimare le cosiddette “maniere forti”: il più è cominciare, poi non si sa mai dove si va a finire.

Il signor Pacini ha tutta la mia comprensione, posso capire la sua esasperazione, il suo comportamento così come il suo dramma di avere comunque ucciso un uomo. Sono sicuro che il magistrato saprà giudicare equamente la sua difesa. Resta il problema della delinquenza per il quale non mi illudo possa trovarsi una rapida ed efficace soluzione varando una legge del tipo “chi delinque potrà essere ucciso dalla vittima”. Chi ha intenzione di rubare e di aggredire lo farà prendendo le precauzioni del caso, vale a dire operando a mano armata e sparando senza alcuna pietà. Chi subirà l’aggressione, se ne avrà il tempo, sparerà. Alla fine potrebbe succedere come nei film western: una mia amica voleva ironicamente chiedere l’intervento delle pompe funebri per ripulire gli spalti.

Il voltafaccia fa perdere la faccia

Come al solito si scatenano bagarre politico-dibattimentali su questioni senza che qualcuno tenti almeno di chiarirne la sostanza. Anche i media hanno la loro parte di grave responsabilità al riguardo. In questi giorni si fa un gran parlare polemico di “global compact sull’immigrazione” e della prossima riunione mondiale finalizzata alla firma del documento Onu in tale materia: il problema sta nel fatto se debba parteciparvi il governo italiano condividendo i presupposti di questa iniziativa oppure se sia più opportuno lasciare la patata più o meno bollente nelle mani del Parlamento. A prima vista sembrerebbe una questione meramente procedurale o tutt’al più istituzionale. In verità c’è sotto molto di più.

Il “Global Compact for migration” è un documento dell’Onu, i cui punti cardine sono la lotta alla xenofobia ed allo sfruttamento dei lavoratori, il contrasto del traffico illegale dei migranti, l’assistenza umanitaria, il potenziamento delle politiche di integrazione, la messa a punto di programmi di sviluppo e la definizione di procedure di frontiera che rispettino la Convenzione sui rifugiati del 1951. I Paesi firmatari devono promuovere anche “il riconoscimento e l’incoraggiamento degli apporti positivi dei migranti e dei rifugiati allo sviluppo sociale”. L’accordo prevede, inoltre, un maggiore sostegno agli Stati che accolgono il maggior numero di rifugiati.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, al momento ci sono 258 milioni di migranti in tutto il mondo, 85 milioni in più rispetto al 2000. Ciò vuol dire che circa una persona su trenta è costretta a lasciare il proprio Paese d’origine per cercare fortuna in uno Stato d’accoglienza. Tra le tante persone coinvolte nel fenomeno migratorio negli ultimi anni ci sono anche 50 milioni di bambini. Dal 2000 ad oggi oltre 60mila migranti hanno perso la vita nelle pericolose traversate per arrivare ai Paesi più ricchi.

Nonostante appena due mesi fa avesse detto, in sede Onu tramite il suo presidente Conte, che avrebbe sottoscritto tale documento, il governo italiano sembra avere cambiato idea ed ha deciso di parlamentarizzare il dibattito e rimettere le scelte definitive all’esito di tale discussione” per via delle tematiche “particolarmente sentite dai cittadini”.

In Marocco, fra il 10 e 11 dicembre, si terrò un summit a Marrakech per la sottoscrizione del suddetto documento, che non è vincolante, ma si pone23 obiettivi che rispecchiano norme già previste dal diritto internazionale ed esortazioni a una maggiore cooperazione fra gli Stati.  La maggior parte dei Paesi europei, anche quelli più interessati dai flussi migratori come Francia e Germania, hanno annunciato che firmeranno il documento: fra i Paesi europei che non lo faranno ci sono quelli tradizionalmente piò ostili ai migranti come Ungheria, Polonia e Slovacchia. L’ufficio stampa dell’Onu, in un comunicato ripreso dall’Ansa, aveva scritto che Conte aveva confermato la firma dell’Italia durante un incontro col segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, seguendo un impegno preso nel 2016 dall’allora presidente del consiglio Matteo Renzi.

Cosa è successo nel frattempo? Cosa nasconde questa improvvisa e strana parlamentarizzazione del discorso? Abbiamo l’ennesimo contrasto all’interno del governo con furbesco relativo scarica barile? Che il Parlamento prenda atto e discuta una simile materia non è certamente cosa sbagliata e inutile, ma sembra una pilatesca e vergognosa lavata di mani governativa. Probabilmente è un documento imbarazzante per l’attuale compagine governativa italiana e il suo modo di impostare la politica in materia di immigrazione. “Va’ avanti ti ch’am scapa da rìddor”, dice una nota battuta dialettale. “Linea al collega che stava parlando”, farfugliano i radiocronisti sportivi di tutto il calcio minuto per minuto. Purtroppo nel caso del Global Compact non c’è da ridere e nemmeno da passare sbrigativamente la mano. Oltre tutto tra le linee del documento in questione esistono punti chiaramente favorevoli al nostro Paese ed al suo forte coinvolgimento nel fenomeno.

L’importante non è  aderire a principi universalmente riconosciuti, l’importante non è  porsi seriamente di fronte al problema immigrazione che, volenti o nolenti, caratterizza  la situazione mondiale, l’importante non è nemmeno trovare aiuti, appoggi e sostegni nella nostra qualità di Paese in prima linea, l’importante non è coinvolgere il Parlamento nel discorso, l’importante non è dare segnali di coerenza e continuità a livello internazionale, l’importante è tirarsi indietro mantenendo il vergognoso impegno di respingere, rimpatriare, criminalizzare i migranti, che vengono a romperci i coglioni. Se questo è il prezzo richiesto a Giuseppe Conte per rimanere in sella, gli consiglierei caldamente di ritornare a fare il suo mestiere, prima di perdere la faccia sul piano politico (sarebbe tutto sommato il meno) e su quello etico (qui il discorso si fa molto, ma molto pesante).

Il cavalier servente del centro-destra

La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha chiuso senza una sentenza la vicenda del ricorso di Silvio Berlusconi contro l’applicazione della legge Severino, che lo obbligò a lasciare il suo seggio al Senato nel 2013 e gli impedì di candidarsi a elezioni, comprese quelle del 2018. Questo dopo la rinuncia al ricorso, decisa dal leader di Forza Italia visto l’iter molto lungo, 5 anni. Quindi è intervenuta la “cancellazione dal ruolo” del ricorso, come chiesto dai legali di Berlusconi. “Non c’era più necessità”, spiegano, visto che lui nel frattempo era “tornato nella pienezza dei propri diritti politici”. “Ha inteso assolutamente evitare tensioni nella già più che complessa vita del Paese”.

La notizia, anche se non è di quelle che meritano grande attenzione, induce tuttavia a qualche riflessione. Quando Berlusconi recupera buon senso, equilibrio, credibilità è proprio il momento in cui perde consenso: il cavaliere andava bene alla (sua) gente quando diceva e faceva sciocchezze a proprio uso e consumo, ora che parla meno e riesce finalmente a dire qualcosa di sensato è in caduta libera di consensi. Forse per conquistare la fiducia degli elettori bisogna prenderli in giro, come si dice, in chiave smaccatamente e pericolosamente maschilista, relativamente alle donne: “Per farle innamorare e conquistarle bisogna trattarle male”.

Tutti ricordiamo nel 2003 il clamoroso e, a dir poco, imbarazzante esordio berlusconiano, quale presidente del Consiglio europeo per il semestre italiano: un discorso al Parlamento europeo durante il quale invitò ironicamente l’allora capo-gruppo dei socialisti, il tedesco Martin Schulz, a farsi scritturare come “kapò” in un film sui nazisti. E le corna durante la foto di gruppo del vertice Ue? Un tipico gesto da asilo infantile, che voleva significare la totale mancanza di considerazione e rispetto per le istituzioni europee. E gli epiteti riservati alla cancelliera Merkel, definita una “culona intrombabile”, nonché la scortesia di lasciarla in attesa mentre telefonava convulsamente sul cellulare e tutte le altre gaffe, più o meno volute e studiate, per svaccare l’Europa e il mondo intero? Una sequenza di episodi che ci portò ad essere considerati gli zimbelli della politica internazionale. Non erano altro che le prefigurazioni dell’attuale, ancor più grave, impasse nei rapporti con gli esponenti europei: non c’è grande differenza tra il “kapò” affibbiato a Schulz da Berlusconi e “l’ubriacone” lasciato chiaramente intendere da Salvini nei confronti di Juncker.

Ora Berlusconi, forse solo per puro tatticismo, si erge a difensore dell’Unione europea assieme al suo pretoriano preferito, quell’impettito e rigonfio Antonio Tajani, che recita la stucchevole parte dell’europeista (non) convinto e soprattutto non convincente. Fatto sta che almeno non ci espone più a memorabili figuracce: per gli italiani, stando ai sondaggi di opinione, era meglio prima, ancor meglio l’attuale Salvini che gioca a sputtanarci in tutto il modo, strizzando l’occhio ai peggiori fichi del bigoncio mondiale. Durante l’ultima campagna elettorale e nel dopo elezioni il leader forzista non ha fatto altro che irridere ai grillini considerandoli dei perfetti ignoranti, dei pulitori di cessi per vocazione e competenza, delle mine vaganti per la democrazia. È diventato il più deciso sostenitore del presidente Mattarella, con cui addirittura si sforzava, senza successo, di improvvisare qualche siparietto durante le consultazioni per la formazione del governo.  Ma dire la verità non paga: era ben più stimato e considerato ai tristi tempi in cui raccontava balle a raffica come il più sfacciato dei venditori ambulanti.

Quando era sotto processo, un giorno sì e l’altro pure, per una sfilza di reati di ogni tipo, veniva considerato un furbacchione capace di fare i cazzi suoi; ora che ha fatto un gesto apprezzabile, anche se solo di pura convenienza, nei confronti della giustizia, viene considerato un vecchietto per cui è difficile trovare una collocazione: è rimasto con pochi ed opportunistici amici, saluta ancora con la manina anche se non si capisce chi saluta, perché in realtà è la gente che sta salutando lui per abbandonarlo ad una ben misera fine politica.

È vero che fino ad ora, ogniqualvolta lo si è dato politicamente per spacciato, ha ritrovato la verve per tornare a galla: credo sia difficile una risurrezione in extremis, anche se, tutto sommato e con questi chiari di luna, ci sarebbe quasi da augurarselo. Qualcuno pensa stia brigando in Parlamento per ribaltare gli equilibri con i salviniani, affondare il governo pentaleghista, ripresentarsi come padre nobile di un centro-destra riveduto e corretto in salsa europea ed in chiave moderata. Ad un quarto di secolo dalla sua prima discesa in campo, si candida non più a giocare in tutti i ruoli, ma a svolgere il ruolo di allenatore, sperando di catturare la simpatia dei tifosi, che però nel frattempo si sono fatti incantare da altri giocatori.  Personalmente non bazzico quegli stadi, ma un occhio da semplice cittadino-elettore glielo deve buttare.