Maglie per tutte le occasioni

Insomma, questi autorevoli (?) vicepremier non ne azzeccano una. Un po’, effettivamente, esagerano a livello di esposizione mediatica, un po’ sono in continua e smaccata propaganda, un po’ non hanno l’equilibrio necessario a coprire certi incarichi, un po’ non sono mostri di coerenza, un po’ c’è chi non aspetta altro che beccarli con le dita nella marmellata. Luigi Di Maio è andato in visita ai luoghi etnei colpiti dal terremoto ed ha indossato la maglia della Protezione civile. L’ex capo di questo Dipartimento, Guido Bertolaso, in una lettera aperta gli ha chiesto di togliere quella maglia, indossata, a suo dire, per motivi propagandistici.

Nella missiva pubblicata dal Corriere della Sera, Bertolaso si è rivolto con toni non proprio “soft” al ministro del Lavoro: “Capisco che deve cercare di scimmiottare il suo collega che con la maglia della polizia si fa fotografare con avanzi di galera, ma quello almeno è coerente e ha inoltre la delega per quel settore. Lei, con i suoi colleghi e opinionisti, signor Di Maio, non ha mai esitato nel gettare fango su quell’istituzione della quale oggi si ammanta, ci ha insultati a L’Aquila, dove solo oggi si rende giustizia al nostro operato anche, ahimè, facendo paragoni dolorosi con le recenti tragedie. Se vuole indossarlo, quello stemma, caro Ministro, cominci con il rendere omaggio alle tre medaglie al merito civile che quella maglia si è guadagnata nei primi anni di questo millennio e chieda scusa per quell’abominevole tassa sul terzo settore dal quale provengono quegli splendidi volontari che non hanno mai avuto vergogna ad indossarla, quella maglia”.

Dalle parole di Bertolaso traspare tutta l’amarezza e la rivalsa per essere stato in passato messo brutalmente sul banco degli imputati con accuse riguardanti la sua gestione della Protezione civile. Come troppo spesso accade nel nostro Paese a livello giudiziario, a distanza di tempo è stato scagionato, quando ormai la frittata era fatta. Tuttavia se togliamo questo dente avvelenato, nelle sue dure parole troviamo una perfetta sintesi fotografica del modo di stare in politica di Luigi Di Maio e compagnia cantando.

Quando erano all’opposizione, in Parlamento e nelle piazze distruggevano sistematicamente e continuamente tutto ciò che passava loro dinnanzi: istituzioni, strutture, leggi, regolamenti, strumenti; tutto rientrava, a loro dire, nella pattumiera di regime dei cosiddetti poteri forti. Buttavano via precipitosamente e demagogicamente il bambino assieme all’acqua sporca; ora che si sono installati al governo, i bambini gettati tra i rifiuti organici tornano d’attualità e si trovano a doverli gestire e per forza di cose a doverli rivalutare e utilizzare. Non solo, ma addirittura, facendo buon viso a cattiva sorte, cavalcano quelle tigri che un tempo volevano abbattere, perpetuando una sorta di circo equestre della politica. A volte però sfugge loro di mano la situazione e si danno martellate sulle dita, attaccando e danneggiando proprio quelle cose su cui dovrebbero imbastire la tanto sbandierata loro azione rinnovatrice.

Ne sortisce l’effetto teorico e pratico di un polpettone populista, per ora gradito a molti cittadini, che presto diventerà stomachevole o addirittura vomitevole. Tanto va la gatta ala lardo che ci lascia lo zampino. Vale per i cinquestelle ed i leghisti, che non perdono occasione per “fanfaroneggiare”; vale per i cittadini che li hanno eletti, i quali si trovano improvvisamente, come sta succedendo per i pensionati, ad essere impallinati dalle armi degli amici. Nelle guerre si dice siano parecchie le vittime del fuoco amico e siccome questi signori hanno dichiarato guerra alla politica, tra gli applausi degli ingenui e degli arrabbiati, molti rimarranno sul campo a leccarsi le ferite lievi, a digrignare i denti per le ferite gravi, a morire per i colpi più brutali o più difficili da evitare. E guerra sia, con tanto di magliette indossate per l’occasione, cambiando idea così come si cambia una maglia.

La politica in pasticceria

Pietro Ferrero, un pasticcere piemontese, ha l’idea di creare una pasta dolce con nocciole, zucchero e il poco cacao disponibile subito dopo la seconda guerra mondiale. Le dà la forma di un panetto, in modo da poterla tagliare e gustare su una fetta di pane e la battezza “Gianduiot”. Siamo nel 1946. Questa deliziosa pasta nel 1951 viene trasformata in una crema spalmabile chiamata “Supercrema”: è l’antenata della famosa “Nutella”. Nel 1964 dopo prove ed esperimenti nasce la crema più famosa al mondo, battezzata appunto “Nutella”.

Non ce li vedo proprio Aldo Moro ed Enrico Berlinguer che si lasciano fotografare mentre fanno colazione con la “Nutella”. Lo ha fatto invece in questi giorni Matteo Salvini. Di prima mattina, il ministro dell’Interno si scatta il solito selfie gastronomico: «Il mio Santo Stefano comincia con pane e Nutella, il vostro?». La foto – nel giorno del terremoto a Catania ed a 24 ore dall’agguato al parente di un pentito di ndrangheta a Pesaro – va subito di traverso a parecchi. “Un selfie demenziale”. “Si deve dimettere”. Scoppia un interminabile putiferio polemico in cui Salvini guazza con la sua verve popolana, che tanto piace agli italiani (almeno così sembra).

I social possono diventare una macchina infernale con la quale si scherza su tutto e le sguaiate risate diventano consenso politico. Quanti si abbassano a polemizzare a questo infimo livello finiscono col fare il gioco di chi sta rendendo la politica un gioco.  D’altra parte mi sono imbattuto sulle reazioni social al terremoto in provincia di Catania: roba agghiacciante, da far accapponare la pelle, non per la drammaticità dell’evento, ma per la superficialità e l’esibizionismo con cui veniva affrontato e commentato. La Nutella viene spalmata su tutto e tutti: non si riesce a parlare seriamente. Tutto fa (avan)spettacolo.

Forse un tempo la politica era imbalsamata in una gelida ritualità. Oggi è svaccata in una bollente trivialità. Una volta era ovattata in un linguaggio ricercato e felpato; in questi tempi è ostentata in un lessico rimbombante e fragoroso. Se sotto le parole prima si nascondevano le frigide ideologie, attualmente si copre l’impetuoso e ardente nulla. Preferivo aristocraticamente delegare la politica a coloro che la sapevano interpretare piuttosto che farne populisticamente materia di un contendere grossolano e scherzoso.

La sera stessa Matteo Salvini torna a bomba: «Un pensiero ai politici ed ai giornalisti di sinistra, che vivono male anche durante le feste. Pensare che oggi per molti siti il problema era Salvini che fa colazione con pane e Nutella. Avete dei problemi. C’è gente che ha rubato e mangiava caviale e champagne». Come volevasi dimostrare. Tutto serve, tutto fa brodo. Bisognerebbe avere il coraggio di tacere e di seppellire col silenzio i buffoni di corte, perché, prima o dopo, come avvenne a Rigoletto, arriva un Monterone assai convincente con la sua maledizione, che però colpisce non solo i buffoni, ma anche i loro incolpevoli parenti e amici. E ciò mi preoccupa molto più della Nutella a colazione.

Torno all’excursus storico con cui ho iniziato: da Pietro Ferrero a Matteo Salvini. Nel 2018 la politica usa Nutella per addolcire il palato amaro degli elettori e la ricetta sembra funzionare. Qualcuno sostiene che la Ferrero non abbia mai sbagliato il lancio di un prodotto. Forse è il caso che la sinistra si faccia inventare una contro-nutella. La politica diventerà – la è già – il gioco delle torte in faccia.

L’insana Scala del calcio

Mi sembra di ricordare che negli stadi calcistici i tifosi nordisti abbiano ripetutamente invocato un’eruzione del Vesuvio per seppellire i colleghi sudisti. Chiedo scusa, ma bisogna      cinicamente ammettere che il grido è stato ascoltato: anziché il Vesuvio si è messa in moto l’Etna. Forse delusi e innervositi da questo svarione vulcanico, i tifosi di Inter e Napoli han tentato di farsi giustizia da soli, scatenando il putiferio prima della partita di calcio, che allo stadio San Siro vedeva di fronte le loro squadre: un morto, alcuni feriti, etc. etc. La rissa è avvenuta un’ora prima della partita, che si è però regolarmente giocata. Poi durante la sfida calcistica c’è stata la solita performance razzista, scatenata contro il nero giocatore del Napoli Koulibaly a suon di cori insultanti, a cui il giocatore ha risposto con un equivoco applauso di scherno (rivolto all’arbitro, che lo aveva nel frattempo ammonito per un intervento di gioco scorretto, o al pubblico o a tutti due?), che gli è costato l’espulsione dal campo.

Fuori e dentro lo stadio di San Siro è andata in scena l’ennesima tragicommedia del calcio italiano. Le cassandre del giorno dopo invocano squalifiche, penalizzazioni, chiusura delle curve, provvedimenti duri. Potevano essere adottati prima della partita e durante la stessa. L’incontro non si doveva giocare: il preludio di morti e feriti doveva imporre di chiudere drasticamente il sipario. Invece si è giocato e durante la partita i tifosi, non contenti dell’apericena di via Novara, hanno brindato nei calici razzisti. L’arbitro, i suoi collaboratori, i responsabili dell’ordine pubblico non sono intervenuti: la partita andava immediatamente sospesa, invece il direttore di gara se l’è presa con il giocatore oggetto dei cori e lo ha espulso, perché ha osato irridere, con un gesto innocuo (un applauso), un po’ tutti, chi lo ha insultato a lungo, chi ha permesso che ciò avvenisse, chi gli ha sventolato il cartellino prima giallo e poi rosso, non capendo la sua esasperazione (per arbitrare serve il regolamento, ma anche il buon senso e un po’ di umana comprensione).

Il sindaco di Milano chiede scusa a nome della città, il questore chiuderà la curva, le autorità federali disporranno la disputa di due partite a porte chiuse più una terza con l’ingresso vietato ai soli tifosi della curva.  Il comportamento arbitrale viene sostanzialmente difeso o almeno giustificato. Le diverse autorità chiamate in causa non nascondono una certa qual polemica fra di loro. Che razza di casino… E tutto per una partita di calcio! Si intuisce chiaramente che non si vuole disturbare più di tanto il circo calcistico: troppi interessi in gioco. Lo scandalo durerà qualche giorno, sì e no il tempo di seppellire i morti e curare i feriti. Poi tutto tornerà come prima: lo spettacolo deve continuare.

I tifosi violenti (quelli che la partita non la guardano nemmeno, urlano improperi agli avversari, si scatenano nei pre e post partita, dettano legge a giocatori, allenatori, presidenti, spadroneggiano gli stadi e le zone intorno agli stadi) sono vissuti come terroristi del pallone, che non devono condizionarci e cambiare le nostre abitudini. Sì, continuiamo a tenere aperti gli stadi, a giocare come se niente fosse, facciamo finta di indignarci, salvo mettere non poco sale mediatico sulle ferite dell’antagonismo, prendiamo qualche provvedimento di facciata e tutto finisce lì.

Il sindaco di Milano ha dato una spruzzata alla torta: «Chiedo scusa a Koulibaly, a nome mio e della Milano sana. L’Inter? A me piacerebbe che a Empoli Asamoah portasse fascia di capitano». Un velo di zucchero sulla ciambella senza buco. Siamo ben lontani dalla Milano che, pochi giorni or sono alla Scala, aveva tributato un interminabile applauso al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Occorrerebbe un interminabile fischio verso il mondo del calcio di cui Milano si considera la capitale. San Siro non è forse considerata la Scala del calcio? E allora coraggio!

Le volpi leghiste e i gatti piddini

Il Natale leghista, stando ai numeri di un recentissimo sondaggio, porterebbe consensi in crescita a livello generale (tra il 30% e il 40%), ma un netto calo, negli ultimi mesi, al nord-ovest (3% in meno) ed al nord-est del Paese (8%), da sempre culle del movimentismo separatista prima e sovranista ora. La diffusa imprenditoria di queste aree si starebbe stancando delle menate salviniane: il malcontento delle categorie economiche sarebbe dovuto alle risposte lacunose in materia di grandi opere (le incertezze sulla Tav) e alle misure contenute nel decreto “Dignità” (provvedimenti in materia fiscale e di lavoro), visto come il fumo negli occhi.

Mi sembra che i sondaggisti facciano un po’ la punta al lapis: la Lega naviga sulla cresta dell’onda ed è piuttosto pignolo farle le pulci al nord, quando sta sfondando dappertutto. Probabilmente nel settentrione le aspettative covavano da tanto tempo ed erano cresciute a dismisura e quindi un po’ di delusione è inevitabile. Tuttavia l’elettorato leghista del nord-Italia e piuttosto disincantato e non si lascerà impressionare dal Salvini pensiero e aspetterà al varco la nouvelle vague governativa. Mentre il consenso pentastellato raccoglie tutti gli scontenti dell’antipolitica, quello leghista si basa su precise aspettative in materia di immigrazione, ordine pubblico ed economia.

Voglio essere fin troppo pragmatico. Saluterei con soddisfazione il passaggio dell’adesione elettorale dalle motivazioni di una fantomatica maggior sicurezza alle aspettative dettate dagli interessi economici: sarebbe comunque un passo avanti, dalle chiacchiere al portafoglio. Se uno come il sottoscritto, incallito idealista a tutti i livelli, arriva a tanto minimalismo spicciolo, vuol proprio dire che stiamo messi molto male. Credo, sotto sotto, sia la speranza berlusconiana: ricatturare l’elettorato di centro-destra su un discorso di convenienza economica, abbandonando ai cinquestelle le sirene moraliste e pauperiste.

In effetti, così come l’anticomunismo viscerale faceva finta di basarsi sulla difesa della libertà per puntare in realtà alla intransigente difesa dei soldi nelle proprie tasche, il leghismo potrebbe nascondere dietro il paravento delle paure per immigrazione e delinquenza l’ansia per la difesa dei propri interessi economici. Matteo Salvini ha tolto ogni e qualsiasi legame ideologico (separatismo ed autonomismo) ai programmi del partito e lo ha farcito di demagogia sociale ed economica. Se sul sociale la demagogia può reggere anche a lungo, in materia economica le balle stanno in poco posto e i nodi vengono rapidamente al pettine. Sarà così? In effetti se così succederà, per la sinistra saranno tempi sempre più duri, in quanto verrà ulteriormente schiacciata fra lo pseudo-idealismo, cavalcato dal M5S e ridotto ad antipolitica e demagogia populista, e il subdolo pragmatismo del centro-destra, eventualmente ricompattato su basi liberiste spinte con venature di populismo riformatore. Per la sinistra urge conquistare spazi di manovra e segnare il proprio territorio. Come fanno i gatti. Lasciamo stare come lo fanno.

 

Il fiume carsico del maschilismo

Ogni femminicidio ha dietro di sé una specifica e tragica storia, dove l’amore diventa odio, il tradimento sfocia in vendetta, la nostalgia chiama il rancore, il rimpianto sconfina in disperazione, la sofferenza esplode in violenza. Nessuna vicenda è uguale all’altra, ognuna ha una sua tortuosa e delittuosa strada.

Di fronte a queste tragedie provo un senso di grande pena. Non mi scandalizzo, soffro pensando al dramma dei protagonisti, mi commuovo di fronte alla fine impietosa a cui vengono sottoposte le donne, al collaterale tremendo coinvolgimento dei figli, alla scia improsciugabile di sangue lasciata in queste famiglie. E gli uomini autori di queste violenze? Se si suicidano chiudono un cerchio autenticamente infernale (perso il barlume di paradiso, si buttano a capofitto all’inferno), se rimangono in vita dovranno fare i conti con un incancellabile rimorso. Siamo di fronte a fatti di sangue, che hanno qualcosa in più di negativo, perché hanno l’ardire di giustificare la trasformazione del bene in male e di mettere ordine nei sentimenti con la violenza torturatrice e mortifera.

Nei femminicidi, assieme a deformazioni e deviazioni umane particolari, troviamo la sintesi storica, culturale e persino religiosa dei mali del maschilismo: la sotterranea e generale sottovalutazione della donna trova sfoghi, così come il magma endogeno viene in superficie a livello vulcanico.  C’è quindi un’antica e diffusa responsabilità a cui molto difficilmente si riuscirà a far fronte: il vento seminato nei secoli comporta la raccolta di tempeste. Molto probabilmente il maschilismo rimaneva sotto traccia nel senso che la donna sopportava la violenza quotidiana, la prevaricazione sociale, la colpevolizzazione subdola: dal momento in cui essa si ribella ed esce dalle inaccettabili convenzioni, portando allo scoperto scontri latenti e soffocati, diventa il bersaglio contro cui si scatenano le reazioni della belva- maschio che si sente ferita.

Intendiamoci bene, la donna non è un angelo e l’uomo non è un demonio. Questo schema è stato addirittura strumentalizzato, considerando ipocritamente la donna quale “angelo del focolare”, che, come tale, se trasgredisce, diventa l’angelo ribelle, il demone da giustiziare. Fin tanto che la donna accetta supinamente il suo ruolo subordinato, merita rispetto e considerazione; quando si mette in posizione eretta diventa il nemico da combattere senza esclusione di colpi. E allora partono gli angeli vendicatori, che di angelico non hanno niente e di vendicativo hanno tutto. Addirittura può scattare una sorta di “occhio per occhio, dente per dente”: a farne le spese, chissà perché, sono soltanto gli occhi e i denti delle donne.

Non credo troppo alla socializzazione del conflitto. Ben vengano manifestazioni di protesta e solidarietà. Sono auspicabili iniziative sociali a difesa delle donne in difficoltà. È doverosa la preventiva attenzione poliziesca e giudiziaria ai drammi delle donne perseguitate da maschi inconsolabili (o soltanto violenti, perché toccati nel loro pretestuoso orgoglio). L’inversione di marcia sta però nella rifondazione culturale e sociale del nostro vivere. La rottura di una convivenza non è un fatto positivo, ma nemmeno la causa per distruggere tutto. La tanto bistrattata indissolubilità del matrimonio, giustamente criticata a livello religioso in quanto fossilizzata in un dogma penalizzante e discriminante, viene somatizzata nel privato al punto da costituire un fatto irrinunciabile, pena la morte della donna. Il divorzio, istituto giustamente salutato a livello politico come conquista di libertà e come diritto civile, non è mai entrato nella mentalità ed è tuttora vissuto come tragedia foriera di ulteriori tragedie. Siamo progressisti in casa altrui e retrogradi in casa nostra.

Il femminicidio è un male che mi sento addosso, come maschio, come uomo, come cittadino, come cristiano, come persona. C’è qualcosa di troppo che anch’io devo rimuovere, nella mia mentalità, nella mia cultura, nella mia vita. Un cammino in cui devo lasciarmi prendere per mano dalla donna. Solo lei può guarirmi. Vale per me, forse vale per tutti.

 

…e vieni al freddo e al gelo…in una nave Ong

Sea watch 3, nave di una Ong (bandiera olandese), chiede di portare in Italia 33 persone (immigrati), soccorse in prossimità delle coste libiche. La risposta del ministro Salvini è sempre la stessa: i porti italiani sono chiusi. “La Libia non è un porto sicuro, afferma la Ong. L’ultimo rapporto Onu parla di orrori inimmaginabili per i rifugiati e i migranti catturati, esortiamo i governi europei a fornire un porto”.

Alla vigilia di Natale questo atteggiamento di netta chiusura del governo italiano grida veramente vendetta al cospetto di un Dio, che è venuto nel mondo più o meno alle stesse drammatiche condizioni di questi disperati, abbandonati in mare o perseguitati in Libia. Il presidente del consiglio Conte ha fatto visita in contemporanea alle autorità libiche: avrebbe dovuto rinfacciare loro il maltrattamento che riservano ai migranti, invece, almeno apparentemente, …calorose strette di mano. Spero abbia speso una parola in tal senso. La diplomazia ha le sue regole!

I maghi venuti dall’Oriente andarono da Erode a chiedere notizie di un bambino piuttosto importante e lui se ne fece un baffo, anzi si preoccupò di farlo fuori ordinando una strage. Una Ong chiede aiuto al governo italiano per soccorrere un nutrito gruppo di naufraghi, il governo se ne frega, anzi rimanderebbe tutti in Libia dove, a quanto si dice, i migranti vengono ammassati e trattati come rifiuti. Non c’è molta differenza, la storia si ripete.

Non so come faccio io a celebrare il Natale, circondato da tanta gente in grave sofferenza, ma, a maggior ragione, non so come facciano a trascorrere le feste di Natale in serenità i governanti che alzano muri, sbarrano confini e chiudono porti in faccia a dei disgraziati, che allungano una mano per chiedere di essere salvati. Non ha molto senso la beneficenza una tantum dei vari telethon, ma almeno a Natale un gesto di accoglienza si poteva fare. Niente.

Si dirà che la politica ha le sue regole, che il buonismo delle Ong non risolve le questioni, che il problema dell’immigrazione è enorme e non si risolve a colpi di sporadica generosità, che occorrono progetti articolati e condivisi. Sì, tutto quello che si vuole, ma quei 33 migranti, che passeranno il Natale su una nave, non certo per una crociera, assomigliano troppo a quel Gesù che passa il suo primo Natale in una grotta. Lui aveva vicino i suoi genitori, due animali che lo riscaldavano, i pastori che lo soccorrevano. I migranti hanno le Ong, che vengono addirittura criminalizzate nella loro opera di salvataggio. Le situazioni tendono addirittura a peggiorare. E abbiamo il coraggio di scambiarci gli auguri di Buon Natale!?

Sarò un nostalgico, un sentimentaloide da strapazzo, un buonista incallito, un cristiano di facciata, un uomo che parla bene e razzola male, ma quei 33 migranti, assieme a tutti i poveri del mondo e in loro triste rappresentanza, mi causano non pochi rimorsi di coscienza. Se il nuovismo e il cambiamento consistono nell’essere duri di cuore e limitati di mente, auguro a tutti i cittadini italiani di accorgersi che stiamo sbandando e in mezzo al mare, oltre i barconi dei migranti, c’è anche il barcone Italia, che va alla lussuosa deriva dell’egoismo.

Ci lasceremo alla stagion dei fior

Di casini in politica ne ho visti parecchi, nessuno batte quello che si è verificato sulla manovra economica del governo giallo-verde: sono riusciti a combinare tutti i possibili guai, dai contrasti con l’Europa a quelli con le forze economiche, dalle contraddizioni sulle misure programmate agli errori nella loro formulazione, dai battibecchi fra ministri alle risse parlamentari, dal balletto delle cifre alla pantomima istituzionale. Intorno a questa legge di bilancio, con decreti annessi e connessi, si è sollevato un polverone tale da non capirci più dentro niente. Emendamento su emendamento, modifica su modifica, alla fine uscirà un testo legislativo rabberciato a più non posso, che si rivelerà inadeguato per forza di cose e creerà nel tempo equivoci e sorprese. Non mi stupirei se fra qualche mese, a livello di opinione pubblica e di categorie sociali, gli attuali favorevoli alla manovra diventassero contrari e viceversa.

Non invidio i tecnici ministeriali impegnati nella quadratura del cerchio della elaborazione di misure economico-finanziarie sparate alla viva il parroco o per meglio dire alla viva il pensionato. Passata la festa, gabbato lo santo: i pensionati, non quelli d’oro o d’argento, ma quelli di bronzo, se non addirittura di latta, si stanno già accorgendo della buffonata perpetrata alle loro spalle. Presto succederà ai potenziali fruitori del sostegno al reddito. Non sto gufando, stanno autogufandosi addosso.

Se le forze di governo escono massacrate da questa vicenda, per la verità non è che l’opposizione raccolga risultati trionfali. Basti pensare all’insistente richiamo al rispetto dei patti europei per poi, dopo il raggiungimento dell’accordo con la Commissione Ue, rinfacciare d’aver scritto la manovra sotto dettatura di Bruxelles. Ci sono poi le code di paglia accumulate in passato, che non si possono nascondere facilmente e che gettano una luce sinistra su tanti errori, clamorosamente portati all’estremo dall’attuale compagine governativa.

Verrebbe la tentazione di accantonare il regolamento di conti a dopo le feste natalizie, come se queste servissero a decantare la situazione, rendendola più semplice e più facile.  Mi ha sempre disgustato questa tattica al rinvio: forse l’unico aspetto positivo di tutta la vicenda sta proprio nel fatto di costringere i parlamentari a lavorare anche durante le feste, ma solo per ratificare o meno quanto già deciso in altro loco. A qualcuno sicuramente il cenone andrà di traverso: penso agli italiani che hanno votato per il cambiamento e si trovano sulla tavola un boomerang colossale, una brutta letterina di Natale, una sorta di Bignami della cattiva politica recitato a pappagallo dai nuovisti dei miei stivali.

Servirà la triste lezione? Non ne sarei così sicuro. La maggioranza degli italiani sarebbe favorevole al contenuto della manovra. Vorrei, prima di un simile sondaggio, poter verificare cosa essi abbiano capito di questa manovra. Fare casino spesso serve a qualcosa, a coprire o deviare la realtà. Stando ai più acuti commentatori, la manovra economica sarà l’interlocutorio approdo politico delle forze di maggioranza, dopo il quale ci sarebbe la conta elettorale europea della prossima primavera. Della serie “ci lasceremo alla stagion dei fior”, come tra Mimì e Rodolfo nella pucciniana Bohème. Per arrivare a maggio servirà comunque fare ulteriore casino per poi raccoglierne i frutti bacati.

La maggioranza rumorosa

Nel mio patetico girovagare televisivo alla ricerca di qualcosa di culturale che possa riscattarmi dall’attuale piattume, mi sono imbattuto in un fenomeno nato nel 1971 a Milano, quale movimento della media borghesia lombarda, vale a dire la cosiddetta “maggioranza silenziosa”, entrato poi storicamente nel linguaggio politico italiano (e non solo) come termine e concetto caratterizzante non pochi passaggi della vita politica a livello nazionale.

La “maggioranza silenziosa” è quella parte ritenuta maggioritaria in una data società, che non esplicita pubblicamente le proprie opinioni ed è generalmente scarsamente partecipante alla vita politica, ma che spesso la influenza in forma passiva. Pietro Nenni parlò al riguardo di “piazze piene e urne vuote”, Giuseppe Saragat di “destino cinico e baro”: espressioni che volevano fotografare la paradossale contraddizione tra l’eclatante consenso delle piazze e financo dei circoli culturali a certe idee e teorie politiche e la loro sostanziale sconfitta nella latente opinione della gente.

La storia democratica è piena di queste esperienze: spesso la maggioranza silenziosa non ha determinato il corso degli eventi, ma solo un reazionario freno alla loro evoluzione. I regimi riescono generalmente a rendere esplicito il mugugno della protesta silenziosa, trasformandolo nel grido dell’illusione popolare. L’attuale fase storica vede nel nostro Paese una notevole saldatura fra umore sommerso ed espressione anti-politica: Lega e M5S vanno a gara in questo senso e riescono a interpretare nelle urne e nelle istituzioni il sentimento di rifiuto e stanchezza rispetto ai problemi, vuoi riportandoli da una dimensione mondiale ed europea ad una logica nazionalistica, vuoi reagendo alle sfide della globalizzazione con il ritorno alle rassicuranti identità di popolo e di razza, vuoi seminando, nel campo della paziente gradualità delle soluzioni, la zizzania delle facili illusioni.

La sinistra, di fronte a questo micidiale rischio di liquidazione della politica a livello di stomachevole e fastidiosa cianfrusaglia, è tentata di reagire chiudendosi nei salotti perbene dove si pontifica teoricamente, si snobbano le ansie della gente comune e si prescinde da un rapporto reale con le persone. Mentre la maggioranza silenziosa esce dal proprio silenzio, la minoranza rumorosa entra nella propria clausura.

Il berlusconismo nel suo ventennio di fulgore era riuscito a tradurre il silenzio maggioritario in voto silente: le urne non a caso davano risultati molto diversi rispetto ai sondaggi d’opinione. Pubblicamente quasi ci si vergognava di seguire la strada tracciata da un affarista cinico e baro, ma nel segreto dell’urna si buttava il portafoglio oltre l’ostacolo. L’intruglio pentaleghista ha addirittura spazzato via ogni residua inibizione, sostituendo alla politica degli affari quella delle paure e delle illusioni. Di male in peggio. Questa situazione, se si vuole, è plasticamente rappresentata dalla rissa continua e condivisa del governo contro tutto e tutti, mentre dall’altra parte il partito democratico si rifugia sull’Aventino a guardarsi l’ombelico in tutta solitudine.

Anche durante il periodo della cosiddetta prima repubblica era evidente la distinzione tra clamore sociale e culturale, egemonizzato fino ad un certo punto dal PCI, e consenso elettorale ottenuto dalla DC.  Poi al Pci sfuggì di mano la ribellione socio-culturale e fu terrorismo rosso; la DC perse gradualmente l’etica governativa; in mezzo il PSI craxiano si (im)pose quale forza moderna (?) di proposta intermedia. Diventarono tutte minoranze rumorose o silenziose, finché un bel mattino non si svegliò Silvio Berlusconi e disse: diventerò capo del governo e tutti staranno in silenzio ad adorarmi. Non fu proprio così, ma quasi.  Ed eccoci piano piano arrivati ai giorni nostri: la stragrande maggioranza silenziosa ha preso il potere è diventata rumorosa e osa gridare senza ritegno: tutti ladri! tutti stupidi! viva Grillo, viva Salvini, viva Trump. Un tempo la minoranza più rumorosa gridava nelle piazze: viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse Tung. Corsi e ricorsi storici?

Un Paese contrattato alle grida

Umanamente toccante e politicamente importante l’intervento di Emma Bonino nell’aula del Senato durante la striminzita e compressa discussione sulla manovra economica dopo il raggiunto accordo tra Governo italiano e Commissione europea. In tutta questa paradossale vicenda il Parlamento ha svolto un ruolo di mero appoggio al governo e di semplice ratifica delle decisioni adottate a livello governativo. La senatrice ha levato la sua voce in difesa del ruolo del Parlamento e delle Istituzioni, rimproverando la maggioranza di non avere alcun senso delle Istituzioni stesse, terminando il suo intervento, al burocratico invito del presidente di turno (in esso ho intravisto qualcosa di più di un semplice richiamo al regolamento: la voglia di zittire uno scomodo ed autorevole rimprovero), con voce rotta dalla commozione: «Termino il mio intervento, ma non il mio impegno in difesa delle Istituzioni».  Non so se erano peggio le grida di scherno indirizzate anni or sono dal centro-destra verso i senatori a vita, quando osavano esercitare il loro diritto di voto, rispetto alle insulse pantomime in svolgimento di questi tempi nelle aule parlamentari.

I cittadini del nostro Paese, un po’ per ignoranza, un po’ per distrazione, un po’ per superficialità o dabbenaggine, non si accorgono dei continui sfregi portati da una massa di esagitati, che spadroneggiano infantilmente, in nome di un mandato elettorale impropriamente enfatizzato, ed attentano al funzionamento della nostra democrazia: esistono solo Lega e M5S, il loro penoso contratto e il loro ingannevole collegamento, via web, con la (loro) gente. Tutto il resto è fuffa. Nel tradizionale scambio di auguri al Quirinale il capo dello Stato ha, ancora una volta, richiamato al rispetto dei limiti della Costituzione, dell’indipendenza dei poteri e della centralità del Parlamento.

Il nostro sistema democratico, messo nelle mani di questi improvvidi demagoghi da strapazzo, corre non pochi rischi. Non so se basterà il freno a mano costantemente tirato dal presidente della Repubblica. La piazza, sia quella reale sia quella informatica, non basta a garantire il rispetto della democrazia. Nemmeno, a stretto rigore, il ricorso alle urne, figuriamoci il continuo richiamo ad un fantomatico popolo. Le Istituzioni italiane vengono costantemente e bellamente dribblate, quelle europee vengono addirittura insultate e derise. Dopo il raggiungimento dell’accordo economico-finanziario con l’Ue, in risposta alla sacrosanta intenzione della Commissione europea di tenere monitorata la situazione per controllare il rispetto degli impegni presi, il ministro Matteo Salvini ha risposto con la sua solita arroganza che il governo italiano farà altrettanto riguardo al bilancio europeo, lasciando intendere una sfida continua al posto di dialogo e collaborazione. Siamo nelle mani di personaggi di questo calibro. Per non parlare dei cinquestelle, forse ancor più pericolosi nella loro ignoranza coperta da sfrontatezza.

È molto più importante e delicata questa partita rispetto ai contenuti della manovra, peraltro assai discutibili e contraddittori. Le manovre infatti si possono anche correggere, cambiare, invertire: anche se con danni incalcolabili, sono ribaltabili e capovolgibili. Le regole democratiche invece devono essere mantenute ferme in tutta la loro portata. A parti invertite i legastellati chissà cosa farebbero per protestare: in passato lo hanno fatto per molto meno. Ora tocca a loro e si stanno comportando molto peggio dei loro predecessori. Dove sono finite le tanto loquaci vestali della Costituzione?

 

Dai cessi di Mediaset agli altari di Forza Italia.

In questi ultimi giorni si è fatto particolarmente insistente e incalzante l’attacco di Silvio Berlusconi alla maggioranza giallo-verde, a suo dire ormai arrivata al capolinea e sul punto di implodere miseramente per lasciare campo libero ad un governo di centro-destra. Mi sono chiesto con quale ardita lente d’ingrandimento il cavaliere osservi le vicende politiche italiane. C’è una Lega in dilagante e devastante crescita, c’è Forza Italia in disperato calo di consensi (sono ormai vicini alle percentuali da prefisso telefonico), c’è un grillismo invadente ed insinuante, che non accenna a diminuire d’intensità dialettica e mediatica, c’è un patto di governo che, pur tra parecchie difficoltà e contraddizioni sembra tenere almeno sul piano dell’opportunistico equilibrio contrattuale in vista delle elezioni europee, ci sono minoranze politiche e parlamentari di destra e sinistra poco incisive e quasi rassegnate, c’è un rapporto con la Ue che si sta rasserenando seppure in una stiracchiata trattativa poco edificante.

Poi improvvisamente ho letto alcuni retroscena illuminanti nella loro paradossale e maliziosa portata. Tra i parlamentari del M5S starebbe montando un notevole malcontento: niente di strano pensando a come viene gestito dall’alto questo movimento, con inammissibilità di ogni e qualsiasi dissenso, con minacciosi avvertimenti di espulsione al primo sintomo di critica o di comportamento giudiziariamente border line, con un programma imbarazzante e confusionario, con una strategia assai poco trasparente ed una tattica zigzagante. Che stupisce è lo strano sbocco a cui penserebbe il gruppo dei dissidenti, numericamente tale da tenere sulla corda il governo Conte: starebbero pensando di confluire, seppure in modo coperto e graduale, nelle fila berlusconiane. Pioniere di questa azzardata tendenza sarebbe Matteo Dall’Osso, 40enne bolognese al secondo mandato da deputato, affetto da grave malattia, che avrebbe dato l’addio al M5S imputato di aver respinto un emendamento che potenziava il fondo per i disabili. Lasciando il gruppo grillino, ha spiegato di avere la convinzione di come “il presidente Berlusconi mi consentirà di lavorare liberamente per gli altri”. Musica per le orecchie forzitaliote, fracasso per quelle grilline.

Lo scouting di Forza Italia verso i 5stelle sarebbe iniziato tempo fa con l’operazione “adotta un grillino”. Il pressing sugli scontenti della linea dimaiana non è mai finito e il cavaliere, non a caso, va ripetendo che bisogna ascoltare il malessere che c’è nella maggioranza, soprattutto fra i grillini, consapevoli che le truppe pentastellate sono un mondo tutto da scoprire, non certo un esercito compatto. Basterebbe monitorarlo con attenzione dove si annidano i mal di pancia più forti. Della serie: chi disprezza compra, magari selezionando l’offerta. Non stupisce la tattica berlusconiana già ampiamente sperimentata con un certo successo in passato, tramite manovre al limite o al di là della legalità.  Stupisce la potenziale opzione degli scontenti grillini: finire in braccia al più acerrimo nemico, rifugiarsi sotto le ali dello psiconano, dialogare con il diavolo. Sarebbe la dimostrazione di come l’antipolitica distrugga la politica nei suoi presupposti.

Non so quanto ci possa essere di vero e di concreto in questi discorsi. Probabilmente parecchie sono le forzature dialettiche e polemiche, ma un pizzico di verità potrebbe anche esserci. Guardo con sofferenza a queste ipotetiche vicende politiche: stiamo veramente arrivando al fondo da cui sarà difficilissimo risalire. Non colpevolizzo Matteo Dall’Osso, anzi ne capisco il dramma psico-politico. Non butto la croce addosso a chi, nel movimento grillino, sta cercando di reagire ad un miserevole andazzo disciplinare di tipo stalinista. Però, consiglierei di essere attenti a non cadere dalla padella pentastellata nella brace forzitaliota. Berlusconi non è uno sprovveduto, anzi è capace di strumentalizzare la sprovvedutezza altrui: dai cessi di Mediaset agli altari di Forza Italia il passo può essere anche breve , ma sconvolgente.