Il burocratico silenzio che grida contro i disperati.

Da tempo mi sono chiesto cosa stiano a fare nel governo i cosiddetti ministri tecnici, i Tria e i Moavero, tanto per non fare nomi. Qualcuno sostiene che siano utili contrappesi alla strafottenza dei pentaleghisti, altri che rappresentino un punto di riferimento europeo a protezione dalle derive euroscettiche, altri ancora che siano lo specchietto delle allodole per chi si illude di ottenere moderazione da un governo sostanzialmente estremista, per finire c’è chi favoleggia di quinte colonne mattarelliane all’interno del governo giallo-verde.

Tutte ipotesi teoricamente plausibile, ma effettivamente inconsistenti. Certo lo stile sciorinato da questi ministri è un tantino più equilibrato rispetto a quello messo in campo dai ministri più fortemente e politicamente connotati. Tuttavia non sono né carne né pesce; se proprio li vogliamo considerare carne, li possiamo ritenere cibi precotti da scaldare a bagnomaria senza aggiunta di condimenti; se invece pensiamo siano dei pesci in barile, serviamoli in tavola come pesci lessi, che non hanno odore e sapore e che non fanno male alla digestione in quanto a bassissimo contenuto calorico.

L’ultima chicca di lor signori riguarda la caldissima questione dei naufraghi sballottati in mare. Contemporaneamente a questa situazione emergenziale si è tenuta una riunione dei ministri degli Esteri dei Paesi europei a cui ha partecipato l’italiano Enzo Moavero Milanesi. I cronisti si sono precipitati a chiedergli se l’argomento sarebbe stato discusso in quella sede. Lui, con imperturbabile e distaccato tono, ha risposto che non era all’ordine del giorno e quindi che probabilmente non se ne sarebbe parlato: “Non è detto che se ne discuta”: queste le sue testuali parole. Ma di cosa è fatta questa gente? Facciamo tanto gli schizzinosi con i burocrati europei, rei di coprire gli spazi propri della politica e poi, quando tocca a noi, inviamo a Bruxelles dei politici, che sembrano la brutta copia dei burocrati, dei gelidi e insignificanti incroci tra politica e burocrazia. Possibile che a Moavero non sia venuta l’ispirazione di chiedere un confronto con i colleghi sulla vicenda Sea Watch e Sea Eye, battendo magari anche, se necessario, i pugni sul tavolo: sembrava un alieno capitato per caso in terra.

Spero lo abbia fatto magari sotto traccia, diplomaticamente parlando, per sondare almeno gli umori degli altri governi e riportare in sede italiana l’aria che tira. Ho seri dubbi e spero vivamente di sbagliarmi. Quando ho colto in televisione la freddezza con cui il ministro degli Esteri italiano ha liquidato le giuste aspettative per un dibattito, anche improvvisato, in sede comunitaria, ho reagito in malo modo indirizzando parole grosse e offensive all’indirizzo di questo personaggio sgusciante ed insignificante. Ero solo davanti al video e non le ripeto, perché non ho alcuna intenzione di fare spazzatura e non intendo scendere nelle solite bagarre contenute nei social. Però, potrò dire che un simile ministro, pur preparato ed esperto che sia, mi fa venire il latte alle ginocchia? Si sbilanci, dica qualcosa, faccia qualcosa.

È pur vero che mio padre ammirava le persone che parlano poco in quanto evitavano, a suo parere, il rischio di dire cazzate. Forse varrà anche per il ministro Moavero? Può darsi non voglia unirsi al coro dei suoi colleghi, che di cazzate ne sparano in continuazione, facendo di esse la vernice mediatica con cui nascondere le loro incapacità. Il più bel tacer non fu mai scritto! Ma chi glielo spiega a quei quarantanove disgraziati che aspettano da giorni un gesto di accoglienza e che hanno iniziato persino a rifiutare il cibo, non per protesta ma per rassegnata sottomissione alla totale noncuranza della politica nei loro confronti. Signor Ministro degli Esteri, per favore, dica qualcosa, chieda qualcosa ai suoi colleghi. Mi risulta che decenni or sono un convinto europeista come il ministro dell’agricoltura Giovanni Marcora sbottasse di brutto durante le riunioni comunitarie, chiedendo cosa avrebbe dovuto riferire agli agricoltori che aspettavano risposte ai loro problemi. Abbia il ministro Moavero un analogo sussulto di dignità e di iniziativa per sapere cosa dire a quei quarantanove migranti in fila per sei col resto di uno.

I buchi nelle ciambelle di salvataggio

Papa Francesco ha lanciato un pressante appello a favore dei 49 migranti a bordo di Sea Watch e Sea Eye, le navi delle ong, che da giorni attendono di sbarcare in qualche porto. Durante l’Angelus del giorno dell’Epifania il pontefice si è rivolto seccamente ai governanti dei Paesi dell’Europa: “Da parecchi giorni quarantanove persone salvate nel mare Mediterraneo sono a bordo di due navi di ong in cerca di un porto sicuro dove sbarcare. Rivolgo un accorato appello ai leader europei perché dimostrino concreta solidarietà nei confronti di queste persone”.

Tra le vergognose risposte di chi gioca a ping-pong sulla pelle di questi disgraziati o a scaricabarile fra gli Stati chiamati in causa, ho colto la più forbita dal punto di vista giuridico: un appunto alle ong le quali avrebbero soccorso un barcone che non era in pericolo di affondare e/o persone che non stavano affogando; una seconda critica per aver soccorso un’imbarcazione navigante in acque libiche e quindi per essersi intromesse in un mare non di loro competenza. Non ho ben capito da quale eccelso cervello siano state partorite queste sciocche, provocatorie e risibili argomentazioni.

Si deve aspettare ad intervenire quando ormai la situazione è in balia delle onde? Si deve stare a sottilizzare in quali acque ci si trova mentre diverse persone stanno rischiando la vita? Questo non è diritto internazionale, questa è follia marinara. Si dica chiaramente che non si vuole intervenire a costo di lasciar perire decine di naufraghi e si lasci perdere il diritto. Devo ammettere che almeno il ministro Salvini dice fino in fondo come la pensa: i suoi discorsi sono inaccettabili, ma chiari. Altri si nascondono dietro il dito dell’accoglienza a donne e bambini, separati dagli uomini lasciati a ballare in mare aperto. Altri scaricano le colpe su Malta: ma cosa si può pretendere da uno Stato largo come un cappello? Altri continuano col solito ritornello della spartizione dell’accoglienza, mentre i potenziali immigrati aspettano i comodi dei potenziali Paesi ospitanti, capaci solo di litigare fra di loro. Altri arriverebbero a concedere un’accoglienza limitata e contingentata, senza far sbarcare le navi nei porti italiani.

Siamo in presenza di una penosa, irritante, e delinquenziale diatriba che mette a repentaglio la vita di parecchi esseri umani. Fateli sbarcare, concedete una prima accoglienza e poi discutete fin che volete! Qualcuno sostiene che il papa faccia il suo mestiere, lasciando intendere che non dovrebbe impicciarsi e dovrebbe rassegnarsi alle decisioni dei governanti eletti dal popolo. Meno male che c’è qualcuno che fa il proprio mestiere, perché in troppi non lo stanno facendo affatto. L’unica parola adatta a sintetizzare e definire la vicenda è “vergogna”. Non capisco come certa gente possa andare a letto tranquillamente, postarsi e pavoneggiarsi sui social, sparare cazzate a raffica, ben sapendo che dalle sue decisioni dipende la salvezza o la morte di tanti esseri umani disgraziati e ridotti in condizioni penose: qualcuno in preda alla disperazione si è persino lanciato in mare. Meno male che papa Francesco tiene accesa una fiammella etica su cui peraltro molti soffiano a pieni polmoni per spegnere ogni e qualsiasi possibilità di incendio umanitario.

Non è possibile continuare con questo stillicidio razzista e populista. Bisogna cominciare a pensare veramente che non basta commuoversi, ma occorre muoversi, come dice don Luigi Ciotti. Non so se la strada sia la disobbedienza civile, la protesta di piazza, l’intromissione etica, la testimonianza religiosa, il coraggio di gridare allo scandalo. Durante il periodo fascista pochissimi furono i docenti universitari che si rifiutarono di prestare il giuramento di fedeltà al fascismo: una quindicina su 1251 e persero la cattedra. Ricominciamo da capo: ribelliamoci, disposti a rimetterci di persona, sforzandoci di trovare spazi di accoglienza. Negli anni sessanta e settanta del secolo scorso si scendeva in piazza per molto meno. Oggi esistono i social, ma un sit-in sotto le finestre dei due pubblici amministratori di Trieste e Monfalcone, autori di gesti razzisti belli e buoni, non sarebbe da scartare. Mettere pressione a chi sta (s)governando il fenomeno migratorio. Certe leggi e certi regolamenti vanno violati, certi comportamenti governativi vanno duramente rifiutati e contestati se non addirittura calpestati. Non abbia timore la presidente del Senato Alberti Casellati: questa non è anarchia, è solo ribellione civile. Matteo Salvini dichiara che occorre mettersi il cuore in pace perché è lui a decidere. E lui si metta il cuore in pace perché ci sarà chi non gli ubbidisce.

 

Il rigore costituzionale

Il durissimo scontro parlamentare sulla legge di bilancio, in mezzo ad inaccettabili forzature di metodo ed a stravaganti equivoci di merito, ha riservato anche qualche bella espressione democratica: dopo il pianto istituzionale di Emma Bonino, l’invettiva costituzionale di Guido Crosetto.

Il parlamentare di Fratelli d’Italia, ha pronunciato un discorso molto importante e interessante, affermando con foga: «L’articolo 72 della nostra Costituzione dice che ogni disegno di legge è esaminato dalla commissione e poi dalla Camera stessa che l’approva articolo per articolo. La stessa Costituzione prevede che per il disegno di legge finanziaria ci sia una procedura rafforzata. La finanziaria è qualcosa di diverso nel quale la Costituzione interviene e dà ancora più diritti al Parlamento…Se domenica una squadra avesse iniziato a giocare la partita non mettendo la palla al centro, ma sul dischetto del rigore, ci sarebbero 630 deputati qui a stracciarsi le vesti, perché le regole non vanno cambiate. Invece, se si infrange la Costituzione, ce ne sbattiamo e ci passiamo sopra, perché la maggior parte delle persone non ne capisce la gravità».

Guido Crosetto, per quanto conosco di lui, è un parlamentare che riesce a ragionare sempre con la sua testa, andando spesso e volentieri al di là della sua appartenenza politica. E non è poco! Questa volta si è superato: ha fatto una intelligente, appassionata e motivata difesa della Costituzione, partendo dai banchi di un partito, che non ha sicuramente una simile storia e una tale tradizione alle proprie spalle.  La cosa assume un rilievo ancora maggiore. Mi perdonerà l’onorevole Crosetto, ma se per tornare al dettato costituzionale abbiamo bisogno del forte e puntuale richiamo di un esponente della destra di ispirazione non proprio storicamente in linea con la nostra Carta fondamentale, bisogna dire che siamo arrivati, anche e soprattutto per “merito” dei giallo-verdi, nei bassifondi della democrazia. Ben venga il richiamo al rispetto delle regole democratiche, da qualsiasi parte arrivi, anche se non sembra sortire un grande effetto.

Sì, perché Guido Crosetto ha capito molto bene anche un’altra cosa: che la politica non si sta facendo con la Costituzione alla mano, ma considerando gli effetti mediatici sulla gente e, come lui ha acutamente osservato, siccome la maggior parte delle persone non riesce a cogliere i termini delle questioni in ballo, si alzano le spalle, si va avanti “come se niente fudesse” e come se la Costituzione fosse un arnese usurato e superato.

Si sta cioè, come sostiene opportunamente Massimo Cacciari, avallando un processo di revisione anti-democratica delle coscienze, tacitandole o sporcandole con ripetuti messaggi demagogici e populisti. Non c’è in ballo solo la manovra finanziaria del 2019, non sono in precario equilibrio solo i rapporti con l’Europa, non è solo in pericolo la quadratura dei conti pubblici, non è solo discutibile il contenuto della manovra, stiamo arrivando alla frutta della democrazia rappresentativa e parlamentare. Il problema è far sì che se ne accorga la gente, il cittadino comune stordito dai proclami pentaleghisti e dalle manfrine legastellate. Ben vengano i Crosetto con i loro aiuti imprevisti, che valgono doppio.

Voce uscita dalla pattumiera leghista

L’assessore comunale alla Sicurezza del comune di Monfalcone, Massimo Asquini, ha postato sui social questa filastrocca: “Il migrante vien di notte con le scarpe tutte rotte; vien dall’Africa il barcone per rubarvi la pensione; nell’hotel la vita è bella nel frattempo ti accoltella; poi verrà forse arrestato e l’indomani rilasciato”. Quando ho ascoltato la notizia, successivamente verificata su internet, ho fatto letteralmente un balzo sulla seggiola. Non è possibile, ma purtroppo è vero.

Siamo giunti a questo punto: un amministratore pubblico si diverte sulla pelle dei migranti. Ecco il clima che stiamo respirando in Italia. Avevo appena ascoltato don Luigi Ciotti dichiarare, con la sua solita partecipazione emotiva e con il suo solito coraggioso impeto, la necessità di gridare “vergogna” per come l’Europa e l’Italia stanno gestendo il problema degli immigrati. Ebbene non solo si porta avanti una politica vergognosa, ma qualcuno ha addirittura il pessimo gusto di deridere persone che vivono drammi umani incredibili.

L’interessato si è difeso: “Non c’è nulla di offensivo, è quello che tutti gli italiani pensano. La filastrocca non è roba mia, l’ho copiata dal web. In ogni caso non è un’offesa per nessuno. È uno scherzo in tema con la leggerezza del giorno della Befana”. La difesa è ancor peggio dell’offesa. Ho riflettuto prima di riportare e commentare questo episodio: forse era meglio sorvolare. Alla fine ho ritenuto di non ignorare questa penosa vicenda. Per diversi motivi. Il primo per il fatto che fotografa effettivamente un sentire piuttosto diffuso tra la gente: non tutti gli italiani, non certamente il sottoscritto, ma molte persone arrivano a tanto.

Mio padre, nella sua disincantata e implacabile ironia al limite del sarcasmo, sottolineava come suscitasse generalmente grande ilarità la caduta di una persona, mentre davanti alla caduta di un cavallo ci si intristisce: “Povra béstia…”. Non si sbagliava affatto. Quell’assessore non oserebbe parafrasare la filastrocca della Befana applicandola al suo cane: avrebbe se non altro timore di offendere tutti coloro che possiedono un animale domestico. Con gli immigrati si va invece sul velluto. Roba da matti.

In secondo luogo questo triste e vergognoso episodietto dimostra come in politica seminare vento possa comportare raccogliere consenso: la Lega sta scherzando col fuoco, finisce col portare acqua al (suo) mulino razzista, ma prende caterve di voti. Si badi bene che la filastrocca non è stata lanciata in un triviale bar di periferia, ma da un assessore comunale di Monfalcone. Questo comune è stato governato dalla sinistra dal 2011 al 2016. Ora imperversa la Lega. Leggete cosa scriveva una certa Sara il 30 maggio 2011 alle ore 20,18 a commento delle elezioni comunali di Monfalcone vinte appunto dal centro-sinistra: “Mi son de Monfalcone e fiera della mia cittadina!!! Come se fa a dir Ke i Bangla non servi a niente??? Xe persone non bestie, fin che xe certa “gente” che parla cussi no andremo da nessuna parte”. Sara sprofonderà, come tutti i monfalconesi e gli italiani con un minimo di cervello e di coscienza, nella vergogna di vedere gli immigrati considerati come bestie da soma, da sfruttare e oltre tutto da deridere.

Cosa è successo nell’elettorato di sinistra? Ci possono essere tanti motivi psicologici, sociali ed economici per spiegare il passaggio di larghe fasce di elettori dalla sinistra alla Lega (non sarà, ne sono certo, il caso della citata Sara): di fronte a questi episodi clamorosi speriamo che qualcuno si ravveda e capisca lo schizofrenico errore commesso. L’opposizione in comune di Monfalcone ha reagito, ha chiesto le dimissioni dell’esponente leghista e la convocazione di un Consiglio comunale urgente, con la presenza del Questore e del Prefetto. Il sindaco leghista invece dice che Asquini non voleva offendere nessuno e se l’ha fatto si scusa. Le scuse sono quelle sopra riportate. “Voce dal sen sfuggita poi richamar non vale: non si trattien lo strale, quando dall’arco uscì”.

Sia chiaro non intendo infierire su una seconda o terza fila leghista, non voglio speculare su un infortunio di un poveraccio, che forse effettivamente dovrebbe togliere il disturbo.  Ben altro politico a terger dèssi l’offesa! Vediamo cosa avranno da aggiungere Salvini e c., specialisti in messaggi facebook e twitter. Sghignazzeranno assieme ad Asquini, si incazzeranno per la dilettantesca caduta di stile, rincareranno la dose, la butteranno in rissa, daranno la colpa all’Europa e alla sinistra? Resta, al di là della politica e delle pattumiere social, lo sconfortante interrogativo di Adriana Lecouvreur, vittima di una vendetta amorosa perpetrata con fiori avvelenati inviati dalla sua rivale in amore: “Ma perché mai discendere a tanta scortesia?”.

 

La fabbrica del freddo e della paura

Siamo effettivamente condizionati da un surplus informativo forse più alienante della carenza di notizie. È molto più comodo creare i fatti in modo artificioso, enfatizzando la normalità, che approfondire i fatti reali cercandone le cause. In questi giorni tutti i telegiornali aprono e si dilungano sul freddo intenso che ha colpito l’Italia: servizi giornalistici sulle nevicate, ansia da temperature polari, ghiaccio paralizzante su strade, aeroporti e ferrovie. Vorrei capire cosa c’è di strano che in gennaio faccia freddo, che il termometro scenda abbondantemente sotto lo zero, che il gelo stringa l’ambiente in una morsa, che nevichi abbondantemente. Sarebbe più strano e farebbe notizia che perdurasse l’insolito tepore a cui ci siamo abituati, dando la colpa al surriscaldamento atmosferico dovuto all’inquinamento. Invece è tornato il freddo e non possiamo farcene una ragione.

Ricordo negli anni della mia fanciullezza e giovinezza le temperature polari, i geloni ai piedi, la neve che imperversava da dicembre a marzo senza soluzione di continuità, il ghiaccio che consentiva il pattinaggio nel laghetto del giardino pubblico, ma che purtroppo provocava cadute e infortuni, la viabilità compromessa, le polemiche sullo sgombero della neve fra pubblico e privato, le malattie da raffreddamento che rendevano problematica la presenza a scuola e sul lavoro. Oltre tutto gli ambienti erano molto meno riscaldati di oggi, i mezzi tecnici per affrontare le emergenze erano assai più scarsi e inefficaci, non esistevano i vaccini anti-influenzali, il solo uscire di casa rappresentava un serio problema, certe attività lavorative soffrivano uno stop con ricadute in termini di redditualità. Si conviveva col freddo molto più intenso di quello odierno per il quale creiamo ansia e preoccupazione eccessive.

I casi sono due: o eravamo fatalisti e accettavamo i disagi stagionali con troppa filosofia o siamo diventati insofferenti a tutto, pretendendo addirittura di guidare e controllare gli andamenti stagionali. L’informazione ci mette in questa strana situazione e crea problemi laddove non esistono o, se esistono, rientrano nella normalità. Tutto quanto fa notizia, soprattutto quanto non è notizia. Sono stanco di questo andazzo, anche perché vedo i veri problemi, i veri fatti, tranquillamente bypassati dall’informazione civettuola e superficiale.

Faccio un esempio passando alla situazione finanziaria ed ai mercati borsistici: Wall Street crolla perché il mercato informatico di Apple si sta esaurendo. Ci voleva poco a capirlo: la gente è piena zeppa di telefonini, smartphone, computer, etc., non potrà mangiarseli per fare un piacere ai mercati del settore. Cosa c’è quindi di strano e catastrofico? Che prima o poi la borsa americana dovesse scontare le smargiassate di Donald Trump era più che prevedibile: stiamo bruciando non risorse economiche reali, ma miliardi di aria fritta. Niente di spaventoso, come vogliono farci credere i media da strapazzo. È molto più comodo cavalcare le tigri di carta che andare alla ricerca di quelle vere.

In questo bailamme informativo siamo tutti sommersi non solo da notizie false, ma da non-notizie, che pretendono di orientare le nostre scelte e i nostri comportamenti. È normale che in questo clima fasullo trionfino i ciarlatani di turno. Il fenomeno migratorio rientra perfettamente in questo clima ansiogeno creato dai seminatori di paura. Se abbiamo paura del freddo immaginiamoci dell’arrivo di migliaia di nostri simili che ci vengono a chiedere conto del nostro passato e ci presentano la lista degli errori commessi. Ma anche qui i dati sono fantasiosi, le notizie gonfiate, le situazioni enfatizzate. La paura fa novanta, forse addirittura novantuno. A quando recuperare il senso della realtà e la dimensione dei problemi? Viviamo di ansie, mentre dovremmo vivere di idee.

 

Una sassata nei vetri o nello stagno?

Ho l’impressione che il sindaco di Palermo Leoluca Orlando abbia tirato un “sassone” nella piccionaia legastellata. Egli infatti ha annunciato la sospensione, nella sua città, degli effetti del decreto sicurezza, soprattutto con riferimento all’impossibilità per gli immigrati di iscriversi all’anagrafe alla scadenza del permesso di soggiorno per motivi umanitari con la conseguente esclusione da una serie di diritti in campo sociale. Orlando ha avuto il coraggio di mettere il dito nella piaga dal punto di vista costituzionale, ma anche sul piano politico.

Non ho approfondito la materia giuridica per la quale non mi sento dotato di preparazione ed esperienza. Da quanto ho potuto capire il discorso riguarda il riconoscimento e il rispetto di diritti fondamentali previsti dalla nostra Costituzione per soggetti pur precariamente accolti ed inseriti nel nostro contesto economico e sociale. Se ben ricordo già il Presidente della Repubblica aveva espresso dubbi e riserve su un’opera legislativa delicatissima, impostata ed attuata con il garbo di un elefante in un negozio di cristalleria. Ora ci torna sopra con decisione il sindaco di una importante città a cui peraltro si sono aggiunti altri suoi colleghi, seppure con sfumature e convinzioni diverse, da Luigi de Magistris (sindaco di Napoli) a Giuseppe Falcomatà (primo cittadino di Reggio Calabria), da Federico Pizzarotti (sindaco di Parma) a Dario Nardella (sindaco di Firenze) e Alessio Pascucci (sindaco di Cerveteri). Si tratta di una levata di scudi istituzionale, motivata sul piano giuridico in difesa dei principi costituzionali.

La reazione governativa è per il momento quella del ministro degli Interni Matteo Salvini, l’ispiratore di questo provvedimento legislativo: il primo acconto pagato all’elettorato particolarmente sensibile al discorso del contenimento tout court dell’immigrazione. Il vicepremier, come suo solito, la butta in rissa, minimizzando la questione e dipingendola come un’iniziativa di qualche sindaco di sinistra per dar contro a Salvini e alla Lega,  sollevando brutalmente il discorso dell’obbligo di rispettare la legge con eventuali conseguenze personali sul piano legale, civile e penale,  evocando un eventuale verifica elettorale con i sindaci ed i loro cittadini, cavalcando lo stucchevole e pretestuoso motivo conduttore del “prima dobbiamo pensare ai milioni di italiani poveri e disoccupati, difendendoli dai troppi reati commessi da immigrati clandestini”, mettendo in discussione il diritto all’assistenza sanitaria gratuita per qualsiasi clandestino (sono testuali parole del ministro), nascondendosi dietro altre misure ad effetto contenute nello stesso decreto (lotta alla mafia e all’abusivismo, potenziamento delle forze dell’ordine, conferimento ai sindaci di poteri straordinari), finendo con la formula di rito (“Per scafisti, trafficanti di esseri umani e mafiosi è finita la pacchia. Forse qualcuno di questi sindaci rimpiange business miliardari”).

La mossa orlandiana, opportuna dal punto di vista etico ed istituzionale (non è un caso se avviene, con perfetto tempismo e omogenea intonazione, rispetto all’intervento in chiusura del 2018 del Presidente Mattarella), ha precisi significati ed effetti politici. Innanzitutto punta a ricollocare con chiarezza le forze politiche: a destra chi è di destra, a sinistra chi è di sinistra. Non è certo un caso che Forza Italia, impegnata in un attacco antigovernativo in materia di manovra economica, abbia immediatamente aggiustato il tiro, schierandosi in difesa del decreto sicurezza e facendo quadrato sulle misure in esso contenute. Il partito democratico, seppure con una certa timidezza e mettendo in evidenza un certo ritardo nei tempi ed un certo spiazzamento nella strategia, si è schierato dalla parte dei sindaci.

E il movimento cinque stelle? Il decreto sicurezza era già terreno di scontro interno: le espulsioni delle ultime ore sono legate soprattutto a questo provvedimento più subito che voluto dai pentastellati. I sindaci coinvolti nella polemica non sono lontani dall’elettorato grillino. Gli elettori di questo anomalo partito come reagiranno? Continueranno a berla da botte o cominceranno a porsi qualche domanda?

E il mondo cattolico, a cui peraltro Leoluca Orlando è legato da antica ma forte ispirazione e frequentazione, cosa dirà? I cattolici mi sembrano stretti nella morsa valoriale tra Mattarella e papa Francesco, sollecitati, seppure in modo piuttosto soft, dai nuovi vertici della Cei, messi in crisi di coscienza da un governo che si colloca sempre più lontano dai principi cristiani. Non c’è da illudersi: il richiamo della foresta securitaria è sempre molto forte, ma… Non so se la provocazione del sindaco di Palermo avrà solo l’effetto di una sassata contro i vetri governativi alquanto infrangibili oppure quello di una pietra gettata nello stagno, che smuove le acque delle coscienze dei cittadini e provoca onde concentriche sulla superficie della politica.

Le repubbliche degli ignoranti

L’ex candidato presidenziale repubblicano Mitt Romney ha lanciato un duro attacco al presidente americano Donald Trump, proponendosi come nuova voce critica del Grand Old Party dopo la morte di McCain e l’uscita di scena di alcuni senatori ‘dissidenti’. Romney sostiene che la condotta di Trump “negli ultimi due anni, in particolare le sue azioni in questo mese, sono la prova che il presidente non è stato all’altezza dell’incarico” e che la presidenza Trump è “caduta profondamente” in dicembre con “le partenze del capo del Pentagono Jim Mattis e del capo dello staff della Casa Bianca John Kelly, la nomina di alti dirigenti di minore esperienza, l’abbandono degli alleati che hanno combattuto accanto a noi”.

In Italia il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi, si è dimesso dal suo incarico con motivazioni inquietanti: “Questo governo ha posizioni antiscientifiche. Un vicepremier dice che per lui, da padre, i vaccini sono troppi e dannosi. Ma che vuol dire? Frasi insensate anche su termovalorizzatori e legami tra immigrazione e malattie”. Non mi interessa se effettivamente i motivi della rinuncia siano questi o rientrino in un gioco politico e in scontri polemici con pesanti accuse reciproche. Il punto sta nel fatto che le accuse di Ricciardi al governo sono oggettive e trovano ampio ed indiscutibile riscontro.

Due episodi che nella loro gravità ci stanno a dimostrare ulteriormente che, per quanto concerne Trump, il mondo è nelle mani di un personaggio culturalmente, prima che politicamente, inadeguato, mentre, per quanto riguardo l’Italia, l’attuale governo è, addirittura, scientificamente inaffidabile. Prima della politica dovrebbero venire la scienza, la cultura, la preparazione, l’esperienza: sono diventate un optional, non servirebbero a nulla, sarebbero un fastidioso orpello in mano ai poteri forti. Della serie meglio ignoranti che venduti al potere.

Mio padre mi ha insegnato che durante il periodo fascista il più ignorante e stupido personaggio, per il solo fatto di avere in tasca la tessera di partito, poteva essere tranquillamente collocato in importanti posizioni non solo politiche, ma anche culturali e scientifiche. Un male che purtroppo dal fascismo (e da tutti i regimi anti-democratici) è stato trasmesso al partitismo. Mentre però il partitismo è una degenerazione della democrazia, l’autoritarismo nega la democrazia nei suoi presupposti, fra cui ci dovrebbe essere il pieno riconoscimento dell’autonomia della scienza e della cultura. Stiamo cioè rischiando grosso, sovvertendo, in nome di un fantomatico potere popolare, l’impostazione delle regole democratiche (l’autonomia della cultura, l’indipendenza della scienza, la separazione dei poteri, il ruolo del Parlamento, il rispetto della professionalità dei quadri dirigenti).

C’è un filo nero che collega Trump, Putin, Erdogan, Bolsonaro, Duterte, Orban, Salvini e Di Maio: il sentirsi autorizzati, in base ad un mandato elettorale, talora assai discutibile nella quantità e qualità dei consensi, a rimettere in discussione le basi della vita di una società democratica. Passiamo dalle monarchie assolute alle repubbliche ignoranti: molto più pericolose le seconde rispetto alle prime.

Ricordo i rari colloqui tra i miei genitori in materia politica: tra mio padre antifascista a livello culturale prima e più che a livello politico e mia madre, donna pragmatica, generosa all’inverosimile, tollerante con tutti. «Al Duce, diceva mia madre con una certa simpatica superficialità, l’à fat anca dil cozi giusti…». «Lasemma stär, rispondeva mio padre dall’alto del suo antifascismo, quand la pianta l’é maläda in-t-il ravizi a ghé pòch da fär…». Poi si lasciava andare a sintetizzare la parabola storica di Benito Mussolini, usando questa colorita immagine: «L’ à pisè cóntra vént…». Non so quale sarà la parabola dei suddetti inquietanti personaggi, mi preoccupa molto cosa sarà di noi che stiamo perdendo il buon senso della democrazia.

 

Un premier di cartone

Ho seguito, seppure parzialmente, la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: non riesco a definire compiutamente questa performance di stampo pirandelliano. Il premier italiano è un personaggio molto strano, che viaggia sul filo del rasoio della pseudologia fantastica o bugia patologica, vale a dire dell’elaborazione intenzionale e dimostrativa di esperienze ed eventi molto poco probabili e facilmente confutabili. Il suo parlare resta costantemente in bilico tra verità e bugie, quando non riesce ad essere clamorosamente sgusciante.

Ascoltandolo, si passa continuamente da un cauto giudizio di relativa abilità e capacità a una netta e inappellabile condanna per impreparazione politica e tecnica: non ha infatti le conoscenze e l’esperienza tecnica per supplire alle evidenti carenze di carattere politico. Il tutto viene condito con un certo savoir faire, col quale si sottrae alle polemiche stringenti ed alle critiche pesanti. È molto attento a non esporsi troppo in prima persona, ben consapevole dei condizionamenti partitici che lo stringono da ogni parte, nello stesso tempo è abilmente capace di smarcarsi dai tallonamenti grillini e leghisti ponendosi come mediatore tra queste forze politiche assai diverse e molto imprevedibili.

Non mi sentirei di definirlo un “bagolone” e nemmeno un “gabbiano”. È dotato di una certa abilità dialettica, con la quale riesce a districarsi nelle situazioni più ingarbugliate. Porta una certa moderazione di toni in un governo di urlatori, aggiunge un tocco di classe ad una compagine sgangherata, brutale e rozza. Tutto sommato si riesce ad ascoltarlo, ma, quando ha finito di parlare, ci si chiede cosa abbia detto.

Faccio qualche piccolo esempio. Gli viene imputato il fatto di aver fatto approvare la manovra economica a livello parlamentare con un drastico “prendere o lasciare”. Fortunatamente non nega l’evidenza, ma si giustifica con i tempi stretti imposti dalla faticosa trattativa con la Commissione europea e con la conseguente necessità di trovare i correttivi di bilancio per renderla digeribile in sede Ue. È stato necessario correre per evitare la procedura d’infrazione e trovare la quadratura del cerchio. Non è proprio così: si doveva partire per tempo col piede giusto invece di puntare ad un pericoloso tiro alla fune con le istituzioni europee. Quando si è capito di non poter esagerare e si è scesi a più miti consigli, i tempi stringevano e il Parlamento è andato a farsi benedire.

Gli viene contestato il fatto di avere trascurato punti importanti del programmo (contratto) di governo, come la lotta all’evasione, l’alleggerimento fiscale per il ceto medio, il sostegno alle imprese, ed altro: lui si sottrae alle critiche, chiedendo tempo e garantendo la durata istituzionale del suo governo. Non è proprio così: il problema è che tra il dire elettorale e il fare governativo c’è di mezzo il mare della finanza pubblica. Quando gli si fa presente come le forze che lo sostengono siano piuttosto litigiose e marchino nette differenze su punti programmatici assai rilevanti, lui si schermisce e si rifugia nel suo fantomatico carisma di “primus inter pares” e nella sua vacua capacità di mediare. Infatti, di carisma ne ha ben poco, di abilità mediatrice ancor meno, il tutto si risolve nella confusione o nel rinvio.

Devo ammettere di averlo inizialmente sottovalutato e successivamente snobbato. Ora che il suo profilo emerge con maggiore evidenza, confesso di essere perplesso e sfiduciato. Mia sorella, per certi versi più netta di me nei giudizi, direbbe, usando una gustosa espressione dialettale: “niént pighè in t’na cärta” oppure “da lù a niént da sén’na…”. Mio padre lo assolverebbe con un generoso “al n’é miga un stuppid”. Io rimango sulle mie, non mi sento di buttargli la croce addosso, ma nemmeno di dargli credito. È un uomo garbato, non è uno sbruffone, non è antipatico, sa stare al suo posto. Cosa riesca a combinare è tutto un altro discorso…

Vivamente presidente

Una lezione di stile. La classe non è acqua. Mi sento di commentare così, a caldo, l’intervento di fine anno del Presidente Mattarella. Mia madre dalle persone investite di alti incarichi pretendeva molto, esigeva persino ingenuamente “le physique du rôle”. I medici, ad esempio, li voleva alti, distinti, brizzolati e occhialuti; anche gli uomini di Chiesa: non concepiva un vescovo piccolo e dimesso. Ricordo una interpretazione televisiva del grande Sergio Fantoni, che impersonificava un neurochirurgo di grande fama, nel contesto di una storia struggente. Di fronte a tale figura sbottai bonariamente verso mia madre dicendo: “At tazrè! Al la sarà col lì un dotor!”.

Sergio Mattarella non ha una particolare prestanza fisica, ma possiede lo stile, molto più importante, che non è forma, ma sostanza, in cui mette una credibilità fatta di storia personale, di competenza professionale, di esperienza istituzionale e dotazione valoriale. È il Presidente! Mio padre diceva: «L’è al ton ca fa la musica». Il capo dello Stato lo ha dimostrato ancora una volta, riuscendo con grande rispetto e misura a dire il suo parere su tutto ciò che bolle in pentola nella vita del nostro Paese. Molti si affannano a chiosare il suo discorso, ad evidenziarne particolari passaggi, ad esprimere concordanze. Non c’è niente da aggiungere e da commentare: un tutt’uno da prendere o lasciare. Egli esprime un’idea di Paese comunitariamente unito, solidale, dialogante, collaborativo, aperto, responsabile, equilibrato. Se ho parecchie difficoltà a riconoscermi nella classe politica italiana, dopo aver ascoltato Mattarella, mi sento pienamente italiano.

Egli riesce a “intromettersi” nella politica con eccezionale sobrietà e non le manda a dire ai governanti, gliele dice tutte con rispetto dei ruoli e delle funzioni. Riesce a dialogare coi cittadini richiamandoli all’ordine con la serietà e la serenità necessarie. Dice, con sincerità abbinata a comprensione, tutto a tutti: ognuno può ritrovarsi dentro le sue parole e dentro la sua visione. Che Presidente! Attento, senza pietismi e demagogie, ai problemi della gente, mettendo in fila i valori: sì, perché è tutta questione di priorità nei principi. Se si sbaglia la scala si è perduti. Ed è quanto sta succedendo nelle attuali vicende e scelte governative.

Non posso esimermi dal sottolineare un passaggio del discorso di fine anno, un semplice aggettivo, probabilmente aggiunto rispetto al testo predisposto, detto col cuore: “vivamente”.  Lo ha speso quando ha invitato tutti, vivamente, a riconsiderare nel metodo e nel merito la manovra economica, la legge di bilancio. Qualcuno la chiama “moral suasion”, io preferisco chiamarla rimprovero costruttivo. Sergio Mattarella non fa che rimproverarci, ma lo sa fare così bene che non possiamo irritarci, anzi siamo costretti a ripensare quanto facciamo. Un parlamentare amico, già durante la scorsa legislatura, mi diceva: «Non hai idea di quanti siano, pur nella massima correttezza istituzionale e nei limiti rigorosamente rispettati, gli interventi sotto traccia del Presidente della Repubblica al fine di evitare errori, svarioni, inconvenienti…». Tutto senza prevaricare, senza debordare, senza pesare. La gente lo capisce e lo apprezza. Resta da chiedersi perché non lo capisca e non lo apprezzi quando entra nella cabina elettorale. Questo interrogativo non se lo pone Mattarella, il quale rispetta sempre e comunque la volontà degli elettori, me lo pongo io, ancor più dopo avere ascoltato il suo discorso augurale.

L’abito non fa la politica

Durante le animate ed approfondite discussioni con l’indimenticabile amico Walter Torelli, ex-partigiano e uomo di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta constatavamo che alla politica stava sfuggendo l’anima, se ne stavano andando i valori e rischiava di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restava che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti: dopo il craxismo, che aveva intaccato le radici etiche della democrazia, venne il berlusconismo a rivoltare il sistema creando un vero e proprio regime ed eccoci arrivati all’antipolitica che fa di ogni erba un fascio o, se vogliamo essere cattivi, che fa del fascio un’erba accattivante.

La politica ha perso identità, assieme all’acqua sporca dell’ideologia abbiamo buttato anche il bambino dei valori e nel giro di qualche decennio ci siamo trovati democraticamente nudi. In una pappagallesca gara al peggior offerente, tentiamo disperatamente di coprire le vergogne, inalberando cartelli e indossando magliette e gilet. Se i grillo-leghisti eccellono nella improvvisata e incoerente ostentazione di maglie (siamo tutti poliziotti, siamo tutti protettori civili), i forzisti, rimasti senza voti, senza piazza e senza dignità (un passo oltre la perdita dell’identità), fanno indossare ai deputati, durante il dibattito (?) alla Camera sulla manovra economica, pettorine azzurre con scritte di vario tipo: “Basta tasse”, “Giù le mani dalle pensioni”, “Giù le mani dal no-profit”.

Non ne faccio una questione di merito (la manovra di bilancio è in continua involuzione, di essa non si capisce niente, quel poco che emerge è senza dubbio censurabile), ma di metodo.  Un Parlamento, dove succedono tutte le cose suddette e forse anche di peggio, può essere tranquillamente ribattezzato “pirlamento”, come ho sentito dire a margine di una lucida e spietata analisi politica formulata da una simpatica anziana signora. Se finisce così, stiamo facendo un perfetto assist qualunquista alle forze dell’antipolitica. Berlusconi vorrebbe allargare la protesta portandola in piazza. Se può avere un senso la sua ansia di riportare il discorso sull’economia per recuperare il consenso delle forze intermedie imprenditoriali, deluse dall’inconcludenza e dalla contraddittorietà leghista, non ha alcun senso scopiazzare il compito in classe altrui, anche perché l’esperienza scolastica insegna che per copiare bisogna essere capaci, altrimenti si aggiunge la scorrettezza all’ incompetenza e all’impreparazione.

In piazza bisogna saperci stare e faccio fatica a vederci Berlusconi con i suoi azzimati e petulanti adepti. Un tempo la cavalcata delle piazze era una specialità della sinistra e dei sindacati dei lavoratori: fanno molta fatica anche loro a recuperare credibilità e consenso a questo livello. Rimane una stucchevole rincorsa alla protesta. La sinistra andava a nozze quando si trattava di essere sistematicamente “contro”: contro i padroni, contro i neo-fascisti, contro i clericali, contro la Nato, contro l’Europa, contro gli Usa, contro i democristiani, etc. etc. Il “contro” oggi è interpretato, in un mix tra destra e sinistra, dall’accozzaglia penta-leghista. Non basta adottarne il metodo per recuperare credibilità e consenso. Meglio cambiare tattica. Forse bisognerebbe soprattutto avere una strategia.