Decreto di sussistenza disorganica

Ho seguito con estrema attenzione e senza alcuna prevenzione la conferenza stampa con la quale il governo ha presentato il decreto-legge su reddito di cittadinanza e quota 100: sono intervenuti il presidente del consiglio Giuseppe Conte e i due vice-premier Salvini e Di Maio. Parto dai contenuti così come emergenti da questa prima sintetica illustrazione.

Onestamente non mi sento di liquidarli come provvedimenti di stampo meramente elettoralistico e propagandistico. Sotto ad essi c’è un’impostazione di politica economica, ci stanno scelte sociali di un certo tipo.  L’obiettivo di fondo di una seria politica dovrebbe puntare alla ripresa economica collegata ad un significativo aumento dell’occupazione. Il decreto va in questa direzione? A prima vista sembrerebbe di sì. Purtroppo se si va al di sotto della crosta ci si accorge che in realtà non si punta a rimettere in moto l’economia per creare nuovi posti di lavoro, ma si parte da teorici nuovi posti di lavoro (in conseguenza di pensionamenti accelerati) per sperare in un rilancio dei consumi interni. Nel frattempo si concede qualche ristoro a chi non ha lavoro e reddito. Il meccanismo è invertito e il provvedimento potrebbe essere quindi denominato “decreto di sussistenza disorganica”: è il solito meccanismo di aiuto, peraltro piuttosto confuso e improvvisato, che non tocca il sistema e non dà risposte organiche al problema di fondo.

Le considerevoli risorse che verranno impiegate concedono una momentanea bombola di ossigeno, da non disprezzare, ma non influiscono sulla capacità di respirare con i propri polmoni. L’eccezione, che comunque va presa in seria considerazione e curata, rischia di diventare la regola. Mandare in pensione anticipatamente la gente è come illudersi di rendere respirabile l’aria con un turnover (peraltro tutto da dimostrare e verificare nel tempo) di respiranti, anziché con l’apertura di finestre e l’entrata di aria nuova. Dare un aiuto reddituale a chi non lavora rischia di essere una flebo ricostituente per un malato di cui non si affronta la vera e propria malattia. Si dirà: sempre meglio di niente…Mi sembra un po’ poco per chi si candida a cambiare il sistema. Se si deve viaggiare da Milano a Roma in modo più veloce e sicuro, non basta accelerare per un breve tratto per poi tornare alla bassa velocità: la durata finale non cambierà, anche se all’inizio si poteva sperare.

Qualche breve considerazione di metodo. I componenti del governo, ai quali concedo una notevole capacità comunicativa, sprizzavano ottimismo dai pori della pelle, vendevano troppo bene una merce dubbia, enfatizzavano risultati ancora tutti da verificare sulla carta e da ottenere nella realtà. Non mi sembra giusto gufare a tutti i costi verso un governo che ha l’aria di recitare a soggetto, ma bisogna uscire dalla bolla mediatica per atterrare sulla materia programmatica. I contratti si possono rispettare o si può far finta di rispettarli. Per ora, con tutte le cautele e le comprensioni del caso, mi sembra si stia verificando la seconda ipotesi.

La politica vive anche di ricordi

In questi giorni di gennaio 2019 ricorrono due anniversari: cento anni dall’appello  di don Luigi Sturzo e dei dirigenti del neonato partito popolare “a tutti gli uomini liberi e forti”, con il conseguente programma “sociale, economico e politico di libertà, di giustizia e di progresso nazionale, ispirato ai principi cristiani” del nuovo partito, una formazione politica cristiana appunto nell’ispirazione, ma laica nell’impostazione e nei comportamenti; il centenario della nascita di Giulio Andreotti uomo politico importantissimo del secolo scorso, democristianissimo uomo più di governo che di pensiero, che interpretò, lui laico, in modo molto blando rispetto a Sturzo sacerdote, la laicità della democrazia cristiana, il partito erede dei popolarismo sturziano.

Metto in collegamento questi due eventi celebrativi proprio per sottolineare come soprattutto nella storia italiana, ma non solo in essa, la gerarchia cattolica abbia cercato e avuto un ruolo invadente e compromissorio col potere politico al fine di ottenere vantaggi e privilegi e per garantirsi illusori spazi di presenza religiosa. Quando il Vaticano intravide la possibilità di stipulare con relativa facilità e immediatezza patti col partito e col regime fascisti, non esitò a scaricare don Luigi Sturzo, provocandone le dimissioni e l’esilio, anche se per la verità questo prete, che intendeva separare nettamente la vita religiosa da quella politica, era sempre stato piuttosto indigesto se non inviso agli esponenti di vertice ed a parecchi personaggi di base del cattolicesimo italiano.

Il Vaticano ed il cattolicesimo più integralisti e conservatori ebbero, dal secondo dopoguerra e per quasi tutto il novecento, l’interlocutore politico privilegiato in Giulio Andreotti: egli, così com’era spregiudicato e disinvolto nei metodi, era particolarmente e rigorosamente attento e legato alle volontà clericali. Mentre De Gasperi frequentava le chiese per pregare, Andreotti preferiva le sagrestie per confabulare coi preti. Così dice un noto aforisma di non so chi. A chi gli chiedeva ironicamente il perché di tanto feeling tra lui e gli ambienti clericali rispondeva, con altrettanta arguzia, che probabilmente la ragione stava nel fatto che i preti lo conoscevano meglio dei giornalisti e dei politologi.

Al di là delle battute e dei giudizi sommari su Giulio Andreotti, resta questo vizio antievangelico di intromissione religiosa nelle cose della politica. La Democrazia Cristiana seppe resistere abbastanza bene alla tentazione di cedere alle pressioni vaticane: l’ultimo sofferto cedimento fu quello del referendum abrogativo dell’istituto del divorzio, anche perché, in quello come in parecchi altri casi, la furbizia clericale consisteva nel far esporre i democristiani per poi ripiegare frettolosamente quando le cose si mettevano male.

La presenza dei cattolici nella politica ha offerto all’Italia un serbatoio fondamentale di classe dirigente: l’ultimo dei giusti di questa salutare osmosi è probabilmente Sergio Mattarella, e si vede. Conclusa in modo negativo la parabola democristiana, periodicamente nasce la nostalgica domanda se esista ancora in Italia un ruolo per un partito cristiano. Se si intende ripetere pedissequamente l’esperienza della Democrazia Cristiana credo non si vada da nessuna parte. Se invece, come sostiene acutamente Alberto Guasco nel numero di gennaio del mensile Jesus, si volesse riscoprire il patrimonio ideale e politico di Sturzo, Dossetti, La Pira, Moro, Fanfani, la lezione di Montini e la capacità di coniugare libertà personale e giustizia sociale, potrebbero aprirsi interessanti praterie di approfondimento culturale, di formazione di classe dirigente, di riscoperta etica.

Nel maggio scorso il presidente della Conferenza episcopale italiana Gualtiero Bassetti ha lanciato un rinnovato appello ai “liberi e fori”, alla “responsabilità di uomini e donne che nell’arena pubblica “sappiano usare un linguaggio di verità”. Parole sante e opportune nell’attuale e penoso clima politico italiano. Attenzione però a non vivere di ricordi. Lo dico io, che nei miei libri ho ripetutamente apposto un sottotitolo: “si vive anche di ricordi”. Forse, non voglio essere presuntuoso, sviscerando quell’”anche”, potrebbe nascere o rinascere qualcosa di buono.

Le porte girevoli della brexit

Ammetto di essere piuttosto prevenuto contro gli inglesi, ma la loro menata sulla brexit è decisamente vergognosa da tutti i punti di vista. Hanno pazzamente lasciato che il popolo sfogasse le sue frustrazioni in una decisione scriteriatamente antistorica, dettata da motivazioni che quasi nulla avevano a che fare con la Ue, hanno improvvisato uno stile di democrazia diretta su un tema che non si presta per niente ad un simile esercizio, si stanno rivelando incapaci di gestire l’emergenza dell’uscita, infilandosi in un quasi comico meccanismo di porte girevoli, dimostrando tutta la debolezza del loro tanto decantato senso democratico a livello popolare ed istituzionale.

Dopo il clamoroso no da parte del parlamento britannico all’accordo negoziato con la Ue, si aprono scenari piuttosto incerti e variegati. Il leader della minoranza laburista Corbyn punta decisamente allo scioglimento del Parlamento con elezioni anticipate: poco senso di responsabilità, molta strumentalizzazione di un problema europeo a fini interni, fino ad ora poche probabilità di riuscita. La Gran Bretagna potrebbe andare fino in fondo alla strada intrapresa ed uscire dalla Ue sbattendo la porta, senza un accordo, in un insensato clima di contrasti e ripicche: una sorta di divorzio al buio con tutte le conseguenze possibili ed immaginabili.

Il governo, dimostratosi incapace e inadeguato a gestire questo passaggio stretto e difficile, potrebbe preparare un nuovo accordo e sottoporlo al Parlamento, prima o dopo averlo contrattato con la Ue: una scelta del tirare a campare in ossequio al pensiero andreottiano tanto chiacchierato in questi giorni di celebrazioni del centenario dalla nascita del personaggio (sempre meglio che tirare le cuoia, diceva l’inossidabile Giulio, il quale peraltro avrebbe tutto da insegnare a Theresa May). Un’altra possibilità sarebbe quella di chiudere questa fase e indire un nuovo referendum: la speranza in un improbabile ravvedimento operoso del popolo britannico o in una sua testarda conferma, entrambe le ipotesi tali da mettere le istituzioni britanniche in grado di saltarci fuori (?) in una qualche maniera.

Tutto ciò succede a presuntuosamente voler “pisciare contro vento” e a voler essere più democratici della democrazia. Questa antistorica vicenda ha l’aria di essere partita male e di risolversi ancor peggio. Ne vengono due insegnamenti di cui fare tesoro. Il mondo è progredito, ma si è anche complicato: i problemi sono enormi e non possono essere affrontati e risolti con una semplicistica e anacronistica fuga nel particolare. Se l’Europa ha limiti e debolezze, figuriamoci i singoli Stati chiusi a riccio nelle loro illusorie certezze.

Una seconda riflessione riguarda il sistema democratico, che proprio un famoso politico inglese, Winston Churchill, ha definito, con un suo pragmatico ma saggio aforisma, “la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre”. La democrazia rappresentativa non ha alternative praticabili, è una strada obbligata: provare a sperimentare scorciatoie dirette porta a perdere la bussola. I referendum sono armi a doppio taglio e molto difficili da maneggiare: chi in Gran Bretagna lo aveva promosso o frettolosamente subito pensava di rafforzarsi, invece si è indebolito tutto il sistema che si è avvitato su se stesso e rischia di impantanarsi.

C’è di che spaventarsi anche perché in Italia tirano venti assai simili alla brexit e ai referendum spropositati: c’è chi vagheggia una sostanziale presa di distanza dalla Ue, chi guarda al di fuori di essa, chi la vorrebbe ridimensionare se non snaturare; quanto alle derive referendarie c’è chi rincorre una fantomatica democrazia diretta a livello informatico. Demenzialità belle e buone. Teniamoci strette l’Europa e la democrazia rappresentativa. Stiamo nei primi danni e non andiamo a muovere del freddo per il letto.

 

Vestivamo alla democratica

Il sindaco di Danzica è morto accoltellato mentre partecipava a una manifestazione di beneficienza. Era esponente di punta dell’opposizione al governo polacco sovranista e conservatore di Jaroslaw Kaczynski. L’aggressore è stato arrestato: sarebbe un soggetto psichicamente disturbato, uscito recentemente dal carcere dove aveva scontato una pena per reati comuni. Si sospetta comunque un delitto politico.

Pawel Adamovicz era una figura di riferimento dell’opposizione liberale, capofila dei sindaci progressisti, politico tollerante, difensore dei diritti delle minoranze, favorevole all’accoglienza degli immigrati nella sua città. In poche parole rappresentava l’altra faccia della Polonia, quella filoeuropea, aperta e dialogante, erede delle conquiste liberali risalenti a Solidarnosc.

Danzica, la città dei cantieri navali, dei grandi scioperi e delle battaglie per la libertà ai tempi del regime comunista, gli ha reso omaggio con una fiaccolata assai significativa del clima di contrapposizione culturale e politica esistente in Polonia. In Italia, come nel resto d’Europa, poche righe per fotografare l’inquietante vicenda. Un tempo saremmo scesi in piazza in difesa della libertà, oggi scendiamo in piazza solo per difendere la tav.

In Europa si sta giocando grosso, si scontrano due visioni socio-culturali prima che politiche. Probabilmente questo scontro caratterizzerà le prossime elezioni. Ho evocato le manifestazioni transnazionali di un tempo per sottolineare come l’Unione Europea la si difenda e la si rilanci in una logica che va oltre i confini nazionali: in questo periodo la geopolitica viene prima della sociopolitica. È molto importante il contesto entro cui si vogliono affrontare e risolvere i problemi. Il sovranismo, vale a dire la logica nazionalista riveduta e (s)corretta, che tende a ripiegare gli Stati su loro stessi, sfocia nel populismo, vale a dire nello stile demagogico e strumentale di (non) mettere mano, o meglio di mettere pancia pancia, ai problemi della gente.

Questi fermenti malefici, che si stanno propagando, devono essere combattuti per tempo e in campo aperto: senza tentennamenti tattici e senza ripiegamenti all’interno dei confini nazionali. In questa logica si è perdenti in partenza rispetto all’avanzata degli egoismi e dei particolarismi.

Danzica non si smentisce. È sempre una città che fa storia. Il suo attuale sindaco ci ha rimesso le penne. Non interessa se il suo uccisore sia un pazzo isolato o lo strumento di un attacco politico. Adamovicz era un liberale, un uomo moderno e aperto, un europeo convinto, un oppositore dell’attuale regime polacco. È sicuramente rimasto vittima del clima negativo fatto di intolleranza  e di chiusura, montato in Polonia e non solo. Cerchiamo di aprire la mente e il cuore: la sua morte ce lo chiede. Torniamo alla politica e scacciamo i fantasmi nazionalpopulisti del passato vestiti alla sovranista.

 

La grande tristezza

In questi giorni ho ascoltato una bellissima affermazione di Marta Cartabia, vice-presidente in carica della Corte Costituzionale. La riporto a senso: “Bisogna essere convinti che il distruggere non serve per migliorare la società”. Un monito che viene dal rispetto dell’etica individuale e collettiva, dal profondo della coscienza democratica, dall’esperienza della storia e dalla sana spinta della politica. La miglior chiosa culturale possibile al fallimento di tutti i terrorismi, in particolare di quello sviluppatosi in Italia nel secolo scorso. L’arresto di Cesare Battisti, il latitante terrorista pluriomicida, segna una grande tristezza: la misera fine di una illusione che diventa delinquenza; l’ansia di giustizia e di progresso che rovina nella più brutale violenza; la sconfitta del bene ad opera del male ammantato di bene.

Ho sentito esprimere soddisfazione. Ma quale soddisfazione!? È un episodio ulteriore di una tragedia che ci ha colpito tutti. Finisce giustamente anche l’illusione di coprire con il giudizio benevolo della storia i reati collegabili al terrorismo politico.  La follia omicida di chi pretendeva di cambiare il mondo con l’odio e la violenza viene rimessa al suo posto e come tale giustiziata. Quante vittime innocenti sull’altare di una rivoluzione fasulla!

Non sentiamoci però buoni e bravi, non mettiamo a posto la nostra coscienza facendo pulizia in quella di chi si è macchiato di crimini orrendi in nome di una fantomatica rivoluzione. Abbiamo tutti di che riflettere, di che sentirci colpevoli, di che fare ammenda, di che cambiare individualmente e collettivamente. Non ha senso vivere questi fatti come una tardiva vendetta. E tantomeno imbastire anacronistiche polemiche su chi ha tentennato nel condannare, nel prendere le distanze, nel vagheggiare assurdi colpi di spugna. Non si sentano giusti e assolti nella loro ingiusta politica coloro che cercano legittimazione nei tragici errori dei nemici. Meditino seriamente anche quanti amano correre sul filo del rasoio della violenza politica.

Di fronte all’epilogo della vicenda giudiziaria di Cesare Battisti vengo colto da una profonda tristezza: è il fallimento della vita di una persona che fa ancora fatica a prenderne atto, è il fallimento di una pazza ideologia terroristica, è il fallimento di un’epoca, è il fallimento di un’ansia trasformata in violenza distruttiva, è il fallimento di un sistema che non riesce a rispondere alla voglia di giustizia sociale, è il fallimento di una democrazia che non ha gli anti-corpi necessari a combattere le sue malattie, è il fallimento della politica incapace di affrontare  i problemi e li lascia marcire, è il fallimento di un mondo che divora gli aneliti progressisti vomitandoli nel letamaio della violenza criminale.

Non basta giustiziare i colpevoli, spettacolarizzandone insensatamente la cattura, strumentalizzando vergognosamente le operazioni di polizia. Bisogna capire e approfondire le colpe e rimuoverne, per quanto possibile, i presupposti. Occorre un bagno di umiltà nel sangue di tutte le vittime dell’ingiustizia. Occorre tornare alle spinte ideali che hanno vinto la violenza e hanno trasformato la nostra società. Occorre prendere in mano la Costituzione italiana, piangerci sopra e ricominciare a fare politica, a costruire con pazienza.

 

 

 

Il fascino indiscreto della “grilletica”

Siamo in mezzo ad una bagarre politica che si tinge di ideologia. Prendiamo le questioni e le scelte che connotano l’azione del governo giallo-verde, ma, all’interno di esse, soprattutto quelle sostenute dai cinque stelle. Ne tento una rapida e sintetica rassegna.

Caldissima e contrastatissima è la “tav”, la controversa linea ferroviaria ad alta velocità, la Torino Lione, in via di realizzazione, ma sottoposta a riesame; abbiamo la “tap”, il gasdotto trans-adriatico; sono rispuntate le trivelle nel mar Ionio per la ricerca del petrolio; tengono sempre banco i forni inceneritori, impianti per lo smaltimento dei rifiuti tramite combustione ad alta temperatura; cambiando completamente campo, ci imbattiamo nella crisi delle banche dovuta a gravi difficoltà finanziarie; nel settore sociale incontriamo in tanto discusso reddito di cittadinanza, un sostegno alle persone in gravi difficoltà per mancanza di lavoro e insufficienza di reddito; potremmo concludere con la lotta alla corruzione, ai privilegi, ai conflitti di interesse.

Sono i temi principali su cui basa il proprio consenso il M5S, facendone oggetto di una vera e propria strategia mediatica, accoppiata ad una demagogica tattica elettoralistica. Non si può affermare che siano questioni risibili o insignificanti. L’aspetto inaccettabile, a volte persino intollerabile, sta nel taglio con cui vengono più cavalcate che affrontate: una logica moralistica, che arriva a prefigurare un vero e proprio stato etico, una strategia anti-sistema, una sorta di anti-politica proposta in chiave populistica, vale a dire mirata a soddisfare epidermicamente le pulsioni protestatarie di base indipendentemente dalla loro effettiva ed organica soluzione.

Singolarmente e sostanzialmente esaminate sono nient’altro che i punti critici ed i nodi del sistema liberal-capitalistico: lo sviluppo economico condizionato dalla difesa dell’ambiente; un reddito di sussistenza garantito a tutti a prescindere dalle leggi del mercato; la finanza piegata agli interessi della collettività; la moralità pubblica difesa col giustizialismo. Esistono due approcci a queste tematiche: un radicale vagheggiamento pseudo-rivoluzionario, che l’esperienza storica ha rimosso dal popolarismo consentendo solo un ripiegamento sul populismo; un riformismo sistemico, che la storia ha rivalutato, ma che la prassi ha squalificato, rendendolo poco credibile e quindi “facilonariamente” rifiutabile.

Il secondo approccio è, o dovrebbe essere, quello della sinistra sempre più incapace di coniugare le idealità con gli interessi generali e questi ultimi con la gradualità della politica. Alle crescenti difficoltà della sinistra si aggiunge la sempre maggiore incapacità della destra liberale e moderata di governare il sistema partendo dalla difesa degli interessi privati e dal mercato in un quadro di compatibilità sociale.

Privati di questi due riferimenti, i cittadini restano in balia mediatica dei grillismi e dei leghismi, vale a dire delle scorciatoie illusionistiche. E allora partono i “no” assoluti alle infrastrutture funzionali al sistema, i “no” ai salvataggi degli istituti di credito visti come la cassa mafiosa di regime, il conflitto di interesse e la corruzione vissuti come la degenerazione progressiva ed inarrestabile delle classi dirigenti, i contentini sociali per recuperare fuori dal sistema i soggetti in bilico. Si rinuncia cioè a fare i conti col sistema per riformarlo e cambiarlo e si ripiega sull’esorcizzarlo e combatterlo alle grida.

Qual è il rischio storico che si ripresenta puntualmente? Il populismo di destra alla fine viene riassorbito e finisce col fare da supporto alla destra di regime, in un miscuglio in cui non si riesce più a capire fin dove arriva la velleitaria voglia di nuovo e la testarda difesa del vecchio. Il populismo di sinistra non si piega alla politica e disperde tutto e tutti in una confusione fine a se stessa, che finisce con l’essere funzionale alla destra. Bisognerebbe rompere al più presto questi schemi, prima che sia troppo tardi, prima che il leghismo diventi l’anticamera di un nuovo fascismo riveduto e camuffato e il grillismo diventi la brutta copia delle tentazioni aventiniane. I tempi per smantellare questi equilibri perniciosi sono misurabili in un ventennio con tanto di guerre mondiali; senza guerre andremo per le lunghe e la maggior parte dei viventi non ne vedrà la fine.

 

La politica nel pallone

Aspettavo al varco il ministro Matteo Salvini sul problema della violenza negli stadi. Aveva lanciato qualche provocazione interessante allorché aveva dichiarato insostenibile l’onere a carico dello Stato per garantire l’ordine pubblico dentro e intorno agli stadi e quando si era scagliato contro il comportamento diseducativo dei fuoriclasse del pallone. Mi ero detto: vuoi vedere che siccome tutti i matti hanno le loro virtù, Salvini avrà il coraggio di mettere il dito nella piega su cui finora si sono esercitati i pietosi medici rendendola sempre più puzzolenta? Come spesso succede, tanto tuonò che non piovve.

Ne sta uscendo la solita politica dei pannicelli caldi, che parte da due presupposti sbagliati. Il primo consiste nel considerare ristrette minoranze quelle degli ultras, contrapposte demagogicamente alla stragrande maggioranza dei tifosi perbene. Non è proprio così. Dal punto di vista quantitativo il fenomeno non è affatto marginale: è consistente, diffuso, generalizzato, politicizzato, scatenato. Che fa opinione nelle tifoserie sono questi grossi gruppi di prezzolati ed esaltati, i quali riescono a condizionare l’intero mondo del calcio, dalle società agli allenatori, dai media ai giocatori. Riescono a tenere in scacco le forze dell’ordine, sempre troppo prudenti rispetto all’atteggiamento tenuto nei confronti delle proteste politiche e sociali. Proviamo a chiederci cosa succederebbe dentro e fuori gli stadi se la polizia usasse lo stampo dell’interventismo adottato col G7 di Genova: furono autenticamente massacrati, con violenza inaudita, i giovani che protestavano contro i potenti a convegno. Facendo le debite proporzioni, i tifosi violenti dovrebbero essere sterminati con i gas nervini.

Il secondo presupposto sta nel considerare le misure estreme di lotta alla delinquenza calcistica come una resa della società ai violenti. È lo stesso discorso che si fa con i terroristi islamici: non ci faranno cambiare il nostro stile di vita. Nel caso dei terroristi calcistici: non ci faranno sospendere le partite, non ci costringeranno a chiudere gli stadi, a vietare le trasferte, a sequestrare gli striscioni. In poche parole non ci rovineranno il bel giocattolo pallonaro col quale milioni di persone si trastullano. Il fenomeno calcistico ha in sé ormai ben poco da salvare: non è sport, non è costume, non è spettacolo, non è divertimento. È diventato un puro business per chi ci campa sopra, più o meno lautamente, ed un puro sfogo individuale e collettivo per chi vuole momentaneamente allontanare le proprie frustrazioni. Questa è la verità!

Il governo non ha nessun interesse a toccare i fili di questa alta tensione perché rischierebbe di essere fulminato. Silvio Berlusconi utilizzava anche il calcio per accreditare la sua immagine di benefattore del popolo. Matteo Salvini non può permettersi il lusso di violare il suo populismo intaccandone il pilastro portante del calcio. E allora continueremo coi pannicelli caldi, con qualche occasionale sfuriata, con grida scandalizzate che lasciano il tempo che trovano. Come potevo illudermi che un personaggio che fa politica da bar sport potesse sovvertire l’ordine costituito degli stadi.  Il razzismo triviale dei tifosi è ben poca cosa rispetto all’elegante (?) neo-razzismo dei governanti. La strategia dell’urlo adottata dai tifosi non è che la parafrasi sportiva dell’impostazione politica ormai dominante. L’incontenibile entusiasmo delle curve è la versione calcistica delle illusioni politiche vissute nell’attuale momento storico. Toccare il calcio vorrebbe dire autoflagellarsi, masochisticamente segnare i limiti della presuntuosa incapacità politica di chi è nel pallone.

La vergognosa tifoseria dei fratelli coltelli

Parenti serpenti, cugini assassini, fratelli coltelli: questi detti significano che più stretta è la parentela tra i litiganti, maggiore sarà il livore che ognuno serberà nei confronti dell’altro. I protagonisti dell’attuale stagione politica italiana sono partiti con l’astuzia dei serpenti in una coalizione governativa parentale, una sorta di patto di non belligeranza, stipulato per convenienza e impostato contrattualmente per tirare a campare e guadagnare tempo. Strada facendo, l’insorgere delle varie emergenze, l’aggravarsi dei problemi, il cercare soluzioni concrete li hanno necessariamente avvicinati, costretti a diventare cugini pronti a battagliare fino all’ultimo sangue pur di non soccombere l’uno all’altro in una malcelata sfida demagogica alla conquista della supremazia elettorale. Le sempre più bellicose intenzioni si sono via via accentuate e sono cominciati a spuntare i coltelli tra fratelli con genitori in comune (populismo e sovranismo), ma con il problema della spartizione dell’eredità elettorale. E quando c’è di mezzo un’eredità sappiamo che tutto il peggio può succedere in un crescendo di violenza non solo verbale.

Non c’è questione su cui non scoppi un litigio, volano parole grosse, si incrociano accuse pesanti, emergono idee opposte, i coltelli sono sotto il tavolo di palazzo Chigi dove il premier Conte fa finta di non vederli, ma poi si scende in piazza, quella mediatica e quella reale, e lì i conflitti esplodono apertamente e brutalmente.  Non regge più il gioco di scaricare le colpe sull’Unione europea, sul partito democratico, sui poteri forti, sulle banche, sul passato più o meno recente. L’esternalizzazione delle colpe non regge più, gli sfoghi asimmetrici non bastano, le rassicuranti dichiarazioni di stabilità governativa hanno l’effetto di calmare il pelo dell’acqua sotto cui ci si avvicina al redde rationem. I tifosi non stanno più nella pelle e si schierano apertamente.

Marco Travaglio capisce di avere fatto una scelta insensata e si para il culo facendo dei continui distinguo, arrampicandosi sugli specchi di una diversità politica fra i contendenti, sempre più invisibile, a difesa dell’indifendibile M5S. Gli ho sentito dire che i grillini sarebbero di sinistra in quanto promotori di aiuti ai poveri (reddito di cittadinanza), come se la storia non insegnasse che i regimi di destra si sono sempre ammantati populisticamente di misure sociali per coprire le loro sostanziali mire anti-democratiche (Benito Mussolini fece ben più e meglio dei grillini nel campo dell’assistenza sociale). Si sta rivelando apertamente infatti il tasso di consanguineità politica e proprio per questa ragione aumenta vertiginosamente la necessità di distinguersi tatticamente in conflitti di maniera, di duellare sui ring elettoralistici, di chiamare a raccolta le proprie truppe e di stipulare alleanze in vista della guerra.

Anche Forza Italia è costretta dopo tanto rancore anti-salviniano a soccorrere l’infido alleato leghista, proponendogli il ritorno ad un problematico letto pseudo-coniugale: l’atteggiamento del coniuge tradito, disposto a scordare il passato pur di tornare ai vecchi amori. Non parliamo dei Fratelli d’Italia, i “guardoni” che tifano Lega pur non occupando la curva degli ultras. Ormai si ha la netta sensazione che il governo faccia da cenere rispetto ad un fuoco che cova in attesa di esplodere al momento opportuno.

Nel frattempo come Paese stiamo perdendo la faccia e la dignità. Come Italiani stiamo perdendo la coscienza. Giustamente Massimo Cacciari in una incontenibile invettiva televisiva, partendo dalla distinzione tra giustizia e legge, gridava “vergogna” alla patetica ministra Giulia Bongiorno. “Vergognatevi, ripeteva, ossessivamente, abbiamo tenuto per giorni e giorni una cinquantina di disgraziati in alto mare, vergognatevi…”. Poi, ad un certo punto, ha cambiato la voce del verbo vergognarsi e gridava: “Vergogniamoci”, lasciando intendere che non gli interessava tanto la buffonata continua di Salvini, ma il destino dell’Europa e delle coscienze della gente.  Il pericolo che sta dietro i fratelli coltelli è proprio quello che vede lucidamente il professor Cacciari: diventare più o meno consciamente tifosi di una guerra immorale, antistorica, antipolitica, antitutto ciò che di buono è stato costruito in democrazia.

 

 

I cortili transazionali ed antieuropei

Sono cominciati ufficialmente i viaggi pastorali alla ricerca delle pecorelle europee da ingaggiare in vista delle prossime ed imminenti elezioni. Salvini e Di Maio litigano su quasi tutto: è il riflesso di una convivenza governativa obbligata e travagliata, ma anche del posizionamento in vista della consultazione elettorale europea, che dovrebbe costituire la prova del fuoco per il futuro di Lega e M5S.

I bambini, quando litigano, si ritirano indispettiti nei propri cortili a giocare con gli amicissimi, salvo poi litigare anche con i più fedeli compagni. Ebbene anche Salvini e Di Maio sono alla spasmodica e dimostrativa ricerca dei loro cortili europei, forse sarebbe meglio dire dei loro pollai, dal momento che in essi esistono troppi potenziali galli in competizione sovranista e populista.

Matteo Salvini fa l’amicone col polacco Kaczynski, con l’ungherese Orban, con la francese Le Pen, con lo svedese Akesson, con l’olandese Wilders: una squadretta niente male a servizio degli ultras nazionalisti, con il chiaro obiettivo di buttare all’aria l’Europa, facendone l’improbabile coacervo degli egoismi nazionali.

Luigi Di Maio vede i suoi futuri possibili alleati nel polacco Kukiz, nel croato Sincic, nella finlandese Kahonen, leader di movimenti alternativi, nei loro rispettivi Paesi, ai partiti tradizionali: la variegata combriccola dell’anti-politica, schierata, lancia in resta, contro i fantomatici poteri forti dell’Europa ed i burocrati invadenti della Ue.

Sono cominciate le grandi (?) manovre, che intendono intaccare la storica contrapposizione tra popolari e socialisti. Non so quale sarà la risposta di questi due nemici/alleati: si chiuderanno nei loro gusci europeisti cercando di isolare e marginalizzare i contestatori a destra e manca oppure corteggeranno questi rompicoglioni, facendo finta di disprezzarli per poi comprarli in una confusionaria bottega europea.

La politica è condizionata da una scelta di fondo: tornare allo schematismo ideale e valoriale destra-sinistra, che a livello europeo si connota nello scontro tra europeismo ed euroscetticismo, oppure rimescolare tutto nella pentola in ebollizione ed estrarne nuove minestre sulla base di sconclusionate ricette. La situazione è assai problematica per essere governata a livello di pentolone europeo e allora ogni Stato membro potrebbe ripiegare sulla propria pentola, in una cucina incasinata dove odori e sapori finirebbero col nauseare gli elettori, allontanandoli ulteriormente dalla rimanente e modesta sensibilità europea.

Purtroppo non vedo leader in grado di ergersi a livello transnazionale, capaci di rilanciare in senso deciso ma innovativo il progetto di Europa: in questo caso la politica ha più che mai bisogno di pensare in grande, mentre la cultura dominante è tutta ripiegata sul piccolo. Il futuro passaggio elettorale potrebbe ricacciarci indietro nella storia: esistono molti segnali negativi e preoccupanti. L’Italia ne è portatrice: tutti ci guardano in cagnesco, siamo i lebbrosi dell’Europa. Ci stiamo chiudendo nel nostro lazzaretto pentaleghista, ma facciamo anche incursioni in campo aperto col rischio di propagare l’infezione sovranista e/o il virus populista.

Di fronte a questo marasma sostanzialmente antieuropeo sarà meglio puntare a un grande rassemblement a difesa delle attuali istituzioni europee o ad un coraggioso, selettivo e rifondante ritorno ai valori pionieristici da cui partirono i “sognatori” europei? Meglio il pragmatico consolidamento dell’esistente o la rischiosa e fantasiosa ripartenza ideale? Siccome la politica senza ideali non porta bene…

 

 

 

 

La sviolinata gialla

Il movimento cinque stelle è ormai senza ideologia e senza guida: ha perso il suo “moderno e paradossale Suslov” che si celava dietro le teorie di Casaleggio senior (il figlio non ha la stoffa, la testa e il carisma del padre), ha visto allontanarsi il militante impegno del suo capo-comico Beppe Grillo. È rimasto col vuoto doppiopettismo di Luigi Di Maio in combinato maldisposto col rivoluzionarismo da strapazzo di Alessandro Di Battista. Sono pecore senza pastore, che cercano qua e là un ovile in cui rifugiarsi e difendersi dalle intemperie immanenti. Lo cercano in quel che passa il convento della storia o, meglio, della cronaca dei nostri giorni.

Eccoli a contatto con l’ambientalismo più spinto, quello dei no a Tav, Tap, etc. etc. Ma la necessità di tirare a campare li mette in crisi ed allora bisogna ripiegare sul colpo al cerchio del ribellismo ecologico e alla botte dell’infinita e impossibile analisi dei costi-benefici, delle trivellazioni nel mar Ionio e, alla più brutta, del dare tutte le colpe a chi è venuto prima. Eccoli a cavalcare la dittatura del proletariato in versione “reddito di cittadinanza”, salvo accorgersi che la dittatura dei poveri è franata sotto le macerie di chi aveva in testa qualche idea in più di loro. Eccoli alle prese con i guai delle banche, pronti a sposare la causa dei danneggiati dai terremoti finanziari, costretti ad usare i soldi pubblici per, seppure indirettamente, sostenere l’odiato sistema bancario.

Gli appigli non mancano ma durano lo spazio d’un mattino: l’inganno si scopre e qualcuno comincia a storcere il naso tra gli eletti e gli elettori. E allora quale migliore soluzione dell’affidarsi a quanto avviene fuori dai confini nazionali, nella patria degli odiati e odianti cugini transalpini: i gilet gialli sono una ghiotta occasione da non perdere, hanno il vento protestatario in poppa, sono talmente confusionari da andar bene per tutte le stagioni, interpretano l’antieuropeismo del “si salvi chi può”, picconano l’establishment macroniano in versione “puzza sotto il naso”, hanno un bell’appeal a cui tatticamente legarsi.

“Gilet gialli non mollate”, questo il motto sfornato da un Di Maio con il lanternino in mano alla disperata ricerca del “cambiamento” dell’Europa promesso dai grillini ai propri elettori. In una lettera ai contestatori francesi fa loro una sviolinata ed offre supporto logistico attraverso la piattaforma Rousseau e, soprattutto, un’alleanza alle urne in vista delle prossime lezioni europee. Sembrano più le mosse donchisciottesche di un finto generale con le truppe allo sbando che una seria, seppur disperata, strategia di attacco. Quando si è in difficoltà nel governare all’interno si è soliti spostare l’attenzione con mosse bellicose all’esterno.

Questi escamotage stanno creando attriti con i pentastellati di vertice e di base oltre che con l’alleato leghista che si vede scavalcato e spiazzato. Il governo francese ha invitato Di Maio a fare pulizia a casa propria, vale a dire in Italia. Sinceramente non ho capito la battuta, probabilmente uscita dalla infastidita fretta di reagire polemicamente in qualche modo alle provocazioni grilline. Mi sembra che si possa delineare un movimento internazionale: “Incapaci di fare politica di tutto il mondo unitevi!”. Non so se durerà e quanto durerà la stagione dei gilet gialli. Per i pentastellati mi sembra più un ulteriore e pericoloso legame contro natura, che un interessante aggancio strategico. Quando si è allo sbando tutto può fare comodo, ma per poco tempo. Forse nemmeno fino alle prossime elezioni europee.