La buccia di banana del “Diciottigate”

«Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale».

Una legge costituzionale ha istituito il cosiddetto tribunale dei ministri, il quale ricevuti gli atti riguardanti  gli ipotetici reati, compie indagini preliminari, sente il pubblico ministero e può decidere l’archiviazione oppure la trasmissione degli atti con una relazione motivata al procuratore della Repubblica, affinché chieda l’autorizzazione a procedere alla camera di appartenenza degli inquisiti, la quale – sulla base dell’istruttoria condotta dall’apposita giunta – può negare, a maggioranza assoluta, l’autorizzazione ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo. Se viene concessa l’autorizzazione a procedere, il giudizio di primo grado spetta al tribunale ordinario del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio e non al tribunale dei ministri. Per le impugnazioni e gli ulteriori gradi di giudizio si applicano le norme del codice di procedura penale.

Nel caso del comportamento tenuto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini in occasione della nota vicenda della nave Diciotti, in prima battuta la procura di Agrigento aveva investito della questione il tribunale dei ministri; questo, dopo aver disposto indagini preliminari ed aver acquisito il parere del pubblico ministero – il quale riteneva  che non si configurasse un reato – , ha ritenuto che  il ministro debba essere rinviato a giudizio ed ha trasmesso gli atti con una relazione motivata alla  procura della Repubblica affinché chieda l’autorizzazione a procedere al Senato. La pratica, giudiziariamente parlando, è arrivata a questo punto.

I reati a carico di Salvini sono sequestro di persona a scopo di coazione, omissione di atti d’ufficio e arresto illegale: sarebbero stati commessi lo scorso agosto, quando il ministro ordinò alla Diciotti, nave militare della Guardia Costiera, di rimanere nel porto di Catania senza far sbarcare nessuna delle 190 persone partite dalla Libia e dirette in Italia, che si trovavano a bordo. Ora il Senato della Repubblica dovrà decidere se il ministro Salvini abbia o meno agito, come detto sopra, per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante oppure per il perseguimento di un preminente interesse pubblico.

L’interessato, quando la procura di Agrigento gli aveva comunicato l’apertura delle indagini nei suoi confronti, aveva detto che intendeva farsi processare e che non avrebbe puntato a salvarsi con un voto parlamentare; poi, invece, sembra che Salvini si aspetti che il Senato neghi l’autorizzazione a procedere.

Il parlamento deve giudicare se il comportamento del ministro sia costituzionalmente e pubblicamente giustificabile. Non a caso il ministro Salvini continua a sostenere di avere agito a difesa della inviolabilità dei confini e per garantire la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico. Siamo nella opinabilità politica o siamo nella trasgressione legale? La forza politica più imbarazzata sembra essere il movimento cinque stelle, oscillante fra la pedissequa linea giustizialista, che vuole il comportamento dei politici sottoposto rigorosamente al vaglio della magistratura, e la repentina virata garantista a salvaguardia degli equilibri di governo sempre più traballanti. In effetti il tribunale dei ministri ha tirato un bel sasso nella piccionaia “pentaleghista”. Sembra prevalere un compromesso “giusgarantista”, dettato più dal timore del calo di consensi e dai contrasti interni alla compagine movimentista che non da una piena assunzione di responsabilità politica. “Si faccia processare e sarà assolto”: questa sembra essere la linea grillina.

Non ha senso, perché, se Salvini ha violato le leggi dalla Costituzione in giù, gli altri componenti del governo non possono sostenere di essere estranei (non c’ero) o di non essersene accorti (se c’ero dormivo); se invece Salvini si è comportato correttamente, significa che i ministri pentastellati erano d’accordo con lui nel metodo, ma anche nel merito e non possono di conseguenza adottare alcuna presa di distanza dal suo operato. Stiano ben attenti a quel che fanno e dicono, perché se Salvini dopo essere stato rinviato a giudizio dovesse essere ritenuto colpevole, la colpevolezza, direttamente o indirettamente ricadrebbe su tutto il governo che si dovrebbe dimettere.  Se dovesse essere scagionato in Parlamento o assolto in tribunale, i grillini dovranno ammettere di essere con lui solidali a tutti gli effetti e di condividere la linea della fermezza (io la definirei “linea della infermità mentale”).

I grillini sembrano dire: “Non muoia Sansone e non muoiano i Filistei”. Ma in ogni caso dovrebbe morire Sansone con tutti i Filistei. L’imbarazzo è grande e si profila all’orizzonte una sorta di “Diciottigate”: una consistente buccia di banana, che potrebbe avere effetti notevoli. Per i pentastellati si profilerebbe la prematura fine del miracoloso ballo durato poco più di una estate. Per Salvini potrebbe essere una vittimizzazione tale da cannibalizzare il grillismo destrorso per poi ributtarsi nel centro destra con una Lega più bella e più superba che pria. Tutto se…

Politica estera tra mozione degli odi e degli affetti

Se c’era una linea politica su cui lo Stato e il governo italiani hanno brillato, dal secondo dopoguerra in avanti, per lungimiranza, coerenza, autonomia e serietà, quella era  la politica estera: un filoatlantismo che non ha mai rappresentato una piatta e acritica assonanza, una scelta filoamericana che non ha impedito all’Italia di distinguersi con aperture verso l’Est e verso i Paesi arabi, una vocazione europeista che ha visto il nostro Paese tra i promotori e i più convinti realizzatori della collaborazione fra i Paesi europei e i protagonisti di un forte impegno a livello delle istituzioni europee, una sensibilità ed un’apertura alle problematiche dei Paesi sottosviluppati, una forte difesa delle democrazie contro i totalitarismi e le dittature.

L’attuale governo sta riuscendo a distruggere quanto faticosamente costruito in oltre settant’anni, scompaginando il senso delle storiche alleanze, indebolendo le scelte fondamentali, assumendo atteggiamenti stravaganti e ondivaghi, confondendo la capacità critica con l’ostilità preconcetta, puntando a nuove, misere e opportunistiche alleanze. La politica estera è un difficile banco di prova: ogni giorno a livello mondiale la matassa tende ad ingarbugliarsi ed occorre intelligenza, pazienza e prudenza per dipanarla.

Innanzitutto abbiamo almeno quattro personaggi che la dettano e che non riescono a fare sintesi: il ministro dell’Interno, che non si capisce quali competenze abbia al riguardo se non quelle di collocare l’Italia in un autentico casino populista e sovranista col quale non abbiamo nulla da spartire; l’altro vice-presidente del consiglio, Luigi Di Maio, che se conosce la geopolitica come conosce la lingua italiana, fa molta fatica a capire se l’Italia è in Europa, in America o in Africa; un ministro degli Esteri, Moavero Milanesi, messo a reggere il moccolo pentaleghista e a tenere aperte le porte che tutti vogliono sbattere; un presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che cerca disperatamente e penosamente di fare sintesi nel pollaio governativo con l’autorevolezza di un cappone.

Poi arrivano gli eventi che quasi giornalmente complicano il quadro internazionale e lo rendono ulteriormente complesso e problematico: ultima, la crisi politica venezuelana di fronte alla quale l’Italia rischia, come ormai sta succedendo spesso, di trovarsi isolata e/o spiazzata e/o confusa.   Il governo italiano è diviso e non si schiera: mena il can per l’aia. Il premier Conte, il ministro competente (?) Moavero e la Lega (che strana contingente assonanza…) vorrebbero associarsi ai leader europei schierati per Guaidò, dando una sorta di ultimatum a Maduro: o indice nuove elezioni entro pochi giorni o dovrà subire il riconoscimento dell’autoproclamato presidente Guaidò.

Ad un certo punto spunta un certo Alessandro Di Battista, un grillino doc, che non si sa da dove venga, chi rappresenti e che funzione abbia, ad assestare un colpo basso agli esponenti del governo ed al loro orientamento: «L’ultimatum è una stronzata galattica». Salvini naturalmente non si fa scappare l’occasione: «Dibba parla a vanvera…». Dibba per chi non lo sapesse è il soprannome affibbiato a Di Battista. Personalmente non condivido il soprannome, ma aggiungo una battutina dialettale in rima per meglio definirlo: «Vón che prima al la fa e po’ al la pista». I cinquestelle insomma, con il loro solito cerchiobottismo o “pesceinbarilismo” (come dir si voglia) dicono, sciacquando in Arno le cazzate dibattistane: «Presto al voto, ma no a interventi impositivi».

E allora ecco spuntare la mediazione di Giuseppe Conte, il quale dichiara testualmente: «L’Italia sta seguendo con costante attenzione la situazione in Venezuela. Auspichiamo la necessità di una riconciliazione nazionale e di un processo politico che si svolga in modo ordinato e che consenta al popolo venezuelano di arrivare quanto prima a esercitare libere scelte democratiche, senza interventi impositivi di altri Paesi». Il ministro degli Esteri Moavero Milanesi da parte sua aggiunge ed afferma: «Ci riconosciamo pienamente nella dichiarazione comune che gli Stati membri dell’Ue hanno diffuso oggi sulla situazione in Venezuela, alla redazione della quale abbiamo partecipato. Chiediamo una vera riconciliazione nazionale e iniziative costruttive che scongiurino sviluppi gravi e negativi, assicurino il rispetto dei diritti fondamentali e consentano un rapido ritorno alla legittimità democratica, garantita da nuove elezioni libere e trasparenti».

Alla fine di questa girandola di pareri e dichiarazioni ho capito poco quale sia la posizione europea ed ancor meno quale sia quella italiana. Anche a non dire niente bisogna essere capaci. Gianfranco Fini veniva ironicamente definito “uno che non sa un cazzo, ma lo dice bene”. Gli attuali governanti italiani non sanno un cazzo, ma lo dicono male.

Quei cara…battole di immigrati

Ho cercato di fare ordine mentale nel ginepraio del sistema nazionale di accoglienza (?) dei migranti, consistente in diversi tipi di struttura.

Gli Hotspot sono i luoghi attrezzati per lo sbarco, dove si svolge la prima fase delle operazioni di soccorso, prima assistenza sanitaria, pre-identificazione e fotosegnalamento, informazione sulle procedure dell’asilo e della relocation.

I Cara (Centri di accoglienza per i richiedenti asilo) sono destinati all’accoglienza dei richiedenti asilo per il periodo necessario alla loro identificazione e/o all’esame della domanda d’asilo da parte della competente Commissione Territoriale. I Cara sono gestiti dal ministero dell’Interno attraverso le prefetture, che appaltano i servizi dei centri a enti gestori privati attraverso bandi di gara. Queste strutture di prima accoglienza si trovano isolate dai centri urbani e sono senza servizi di collegamento.

I Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio) sono strutture per chi non ha diritto di stare in Italia e che attende di essere rimpatriato.

I Cas (Centri di accoglienza straordinaria) accolgono in prima istanza chi arriva via mare e funzionano nell’ipotesi in cui, a causa di arrivi consistenti e ravvicinati di immigrati, i posti disponibili nelle strutture di prima e seconda accoglienza non siano sufficienti.

Fin qui, si fa per dire, la prima accoglienza. Poi c’è il sistema Sprar, il Servizio centrale di protezione per i richiedenti asilo, che viene attivato dagli enti locali in collaborazione col Terzo settore e che ospita i rifugiati per la durata massima di un anno: dovrebbe essere il modello di “accoglienza integrata” e di inclusione sociale sulla base di progetti di inserimento al lavoro.

In questi giorni è stato chiuso il Cara di Castelnuovo di Porto, comune della città metropolitana di Roma: un centro sovraffollato, che però sembra funzionasse discretamente. La decisione della chiusura si è abbattuta come un autentico ciclone sugli immigrati in essa ospitati, i quali si sono visti sbattuti fuori improvvisamente con l’immaginabile ulteriore dramma di non sapere dove andare a finire la loro drammatica vicenda. Ci si augura che vengano ricollocati in altre strutture, ma, da quanto ho potuto capire, sono stati costretti ad abbandonare un minimo percorso di integrazione sociale avviato con un notevole impegno dall’ente gestore. Tutto azzerato in fretta e furia: gli immigrati rimessi allo sbando, i dipendenti senza lavoro, drammi giovanili e familiari: un vergognoso casino! La gente trattata come pacchi da trasportare, senza alcun riguardo, da un posto all’altro. Roba da matti! E questa sarebbe la nuova politica di integrazione del governo del cambiamento?

Una seria politica dell’immigrazione non esiste in Italia e purtroppo non esiste nemmeno negli altri Paesi europei: si naviga a vista, anzi si accoglie alla carlona o si respinge chi naviga a rischio e pericolo della propria vita. L’Europa ha tentato di proporre meccanismi di collaborazione fra gli Stati: non hanno funzionato in quanto alcuni non si sono resi disponibili all’accoglienza, preferendo la politica di innalzamento dei muri.

A fronte di questa pochezza culturale, politica ed organizzativa a livello governativo, si tende a criminalizzare chi soccorre in mare e chi accoglie in terra: sarebbero protagonisti di un business inammissibile, che si aggiungerebbe a quello dei trafficanti. Sul banco degli imputati vanno le Ong con le loro navi che si affacciano alle coste italiane e i gestori dei centri di cui sopra. Le prefetture faticano a districarsi, a volte trovano scarsa disponibilità a livello territoriale. I comuni fanno quel che possono. La magistratura fa le pulci a tutti. Il governo fa la voce grossa: non intende accogliere più nessuno, vuole buttare fuori quanti non riescono ad inserirsi nel farraginoso sistema, lascia testardamente e vigliaccamente centinaia di immigrati in balia delle onde, sballotta da un centro all’altro gli immigrati entrati in Italia. Non era possibile gestire la chiusura del Cara di Castelnuovo in modo più graduale e umano? Non era doveroso parlare con questa gente per proporre alternative minimamente condivise? Non si poteva aprire un dialogo con l’ente gestore per verificare il da farsi e per affrontare la situazione in modo più ragionevole? Evidentemente si ha fretta di lanciare messaggi duri sulla pelle degli ultimi e a poco servono le lacrime di coccodrillo del ministro Bonafede, il quale confessa di commuoversi di fronte a certe scene: veda piuttosto di fare l’impossibile per evitarle! Non è umanamente necessario soccorrere i disperati: poi ci sarà tempo e modo di ragionare, di programmare, di razionalizzare, financo di litigare.

La recente politica di responsabilizzazione della Libia, quale Paese di transito dei flussi provenienti dall’Africa (politicamente motivata e razionalmente avviata), sta rischiando di diventare il modo per far morire i disperati nei campi di concentramento anziché in mare aperto. I Paesi europei infatti non sono in grado di controllare e contenere i trattamenti disumani riservati dalla Libia a chi vuole tentare di emigrare, fuggendo da situazioni insostenibili nei Paesi di origine.

Al termine di questa breve e sommaria ricognizione mi sento costretto ad accogliere l’invito ripetutamente lanciato da Massimo Cacciari: “Vergognamoci!!!”. Alla misura già quasi colma l’attuale governo pentastellato (non mi interessano i distinguo tra gli urlatori alla Salvini, i ragionatori alla Di Maio e i mediatori alla Conte) sta aggiungendo un surplus di ferocia e di propaganda pseudo-razzista. Invece di cercare pazientemente soluzioni e progetti nuovi, si alzano vecchi muri ideologici e demagogici verso i disperati che chiedono aiuto, per i quali sarebbe finita la pacchia (frasi vergognose che gridano vendetta: arriverà con ulteriori disastri sociali che ci investiranno nel tempo). Chissà che prima o poi non finisca anche la pacchia elettorale di chi ci sta sgovernando. Poi sapremo cambiare registro e aprire le coscienze? Ho molti seri dubbi. Speriamo non sia troppo tardi.

 

 

 

 

Le sabbie mobili del razzismo

Oggi si celebra il Giorno della Memoria ovvero la “Giornata internazionale di commemorazione delle vittime della Shoah”, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni unite, che ha voluto ricordare le vittime dell’olocausto e «condannare tutte le manifestazioni di intolleranza, incitamento, molestia o violenza contro persone o comunità, sia su base etnica che religiosa». È stata scelta la data del 27 gennaio perché quel giorno nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa fecero irruzione nel campo di concentramento di Auschwitz, liberando gli ebrei che vi erano rinchiusi e svelando fino a che punto si era spinta la ferocia nazifascista.

Siccome l’odio è un sentimento “globale” che esce dalla coscienza individuale per contagiare la comunità intera, il ricordo della Shoah deve toccare il proprio animo, ma deve anche ripercuotersi sugli assetti sociali contemporanei.

A livello individuale mi sento in dovere di ripulire la coscienza da ogni e qualsiasi pulsione discriminante e intollerante verso gli altri: non si è mai finito di fare questa pulizia, anche perché le tentazioni sono tante ed è facile cascare dentro certe derive rivedute e scorrette. Se giustamente è cambiato il comune senso del pudore, ingiustamente è mutato il comune senso dell’antirazzismo e dell’antifascismo. A volte mi coglie persino il dubbio che nel fondo delle coscienze sia rimasto incrostato un fondo di razzismo e fascismo che viene smosso e ritorna a galla alla prima occasione. Forse avevamo solo dato una frettolosa mano di vernice sulle colpe e col tempo lo sporco della storia ritorna in primo piano ed in bruttissima evidenza. Bisogna rimuovere profondamente e continuamente un passato che tende a farsi presente.

Accanto alla coscienza individuale si forma quella collettiva e a questo livello siamo attualmente in zona rischio. I moderni predicatori di odio sono subdolamente pericolosi: usano le paure più assurde ed ingiustificate per condurre la gente ad una sorta di “odio difensivo”, socialmente contagioso e politicamente nervoso. È un percorso esattamente contrario a quello della “celebrazione della Memoria”: stiamo lavorando alacremente alla “rimozione della Memoria”, che va ben oltre i rigurgiti negazionisti e i revisionismi di comodo, per giustificare le nuove forme dialetticamente sofisticate di razzismo.

Quando si afferma che prima vengono gli italiani e poi gli altri, si sta teorizzando una nuova dottrina che sostanzialmente risciacqua nelle acque leghiste e confonde nelle nebbie grilline il discorso della purezza razziale. Stiamo ben attenti: quando si lasciano in balia delle onde centinaia di naufraghi alla ricerca  di un porto in cui sbarcare e concretizzare il diritto alla vita; quando si sbaraccano gli immigrati come se fossero animali pericolosi da tenere lontani; quando si tollerano i campi di concentramento allestiti in Libia; quando si esorcizzano coloro che cercano di salvare il salvabile, assimilandoli a trafficanti di esseri umani; quando si arriva a questo, si è ad un millimetro dal razzismo, anzi forse vi si è già dentro fino al collo.

Urge un risveglio delle coscienze, ma chi lo potrà promuovere? Gli attuali governanti sparsi per il mondo: no.   I partiti politici alle prese con l’ansia del consenso a tutti i costi: nemmeno. I media che rincorrono le cazzate di turno e trascurano i valori di fondo: Dio ce ne scampi e liberi.  Gli uomini di cultura che non osano disturbare il manovratore e non rifiutano la tessera perché devono pur vivere: il coraggio non è il loro forte. E allora? Dopo aver ascoltato papa Francesco, bisognerebbe scendere in piazza, senonché la piazza è già piena di stronzi che agitano cartelli demenziali e fuorvianti. Forse occorre ricominciare tutto daccapo, dalle aste e dai puntini dell’etica e della politica. Gli insegnanti di un tempo facevano così. Il sussidiario fortunatamente lo abbiamo: la Carta Costituzionale.

 

Le galline taciturne della sinistra

Durante un convegno di carattere politico ero seduto fra i partecipanti vicino ad un caro amico a cui certo non faceva difetto la vis polemica. Il dibattito si trascinava stancamente, mancava l’acuto: chi meglio del mio amico poteva risvegliare la platea? Lo convinsi ad intervenire e lo caricai a dovere, invitandolo a “tirare giù senza pietà”. Mi diede retta, lo fece al di là delle mie più rosee aspettative: salì al podio e cominciò ad attaccare con una tal veemenza e soprattutto con una tal genericità da irritare alquanto l’uditorio. Fin qui, missione compiuta. Il bello fu che ad un certo punto, quasi automaticamente, anch’io mi sentii costretto a contestarlo apertamente, gridandogli di smetterla e di andarsene a casa. Lui dal podio mi guardava e non capiva: proprio io che lo avevo aizzato, ora lo attaccavo clamorosamente. Ci volle del bello e del buono per ripristinare l’amicizia, solo la sua innata bontà riuscì a superare l’incidente di percorso.

Ho ricordato questa simpatica gag, perché la ritengo abbastanza significativa di quanto sta avvenendo negli atteggiamenti critici verso l’opposizione di sinistra: a detta di molti commentatori politici non sa fare il suo mestiere, non ha ancora metabolizzato la cocente sconfitta elettorale dello scorso anno, non riesce a cogliere l’attimo e l’argomento giusto per attaccare, non ha il coraggio di ripristinare il collegamento col suo tradizionale elettorato, sta “gioghicchiando” alla meno peggio nascondendosi dietro penosi personalismi, e via di questo passo.

Poi, quando il partito democratico o qualcuno appartenente alla sua area trova il rigurgito di vitalità per opporsi alle derive populiste e sovraniste, imperanti a livello mondiale, europeo ed italiano, o almeno tenta di recuperare la forza di fare argine a queste ondate estremamente pericolose, gli stessi spietati critici gli si rivoltano comunque contro, sostenendo che l’opposizione dura finisce col fare il gioco del governo e col legittimare ulteriormente populismo e sovranismo. Allora cosa si deve fare? È proprio vero, come sosteneva mio padre, che, quando le cose vanno male, a parlare e, ancor più ad agire, si sbaglia sempre e sarebbe meglio aspettare che passi la buriana prima di intervenire attivamente.  Nella vita personale si possono fare simili scelte tattiche attendiste, nella vita politica è molto più difficile e problematico.

Per carattere sono portato a prendere posizione, ad esprimere apertamente il mio pensiero, a schierarmi senza opportunismi e quindi sono per una strategia politica interventista: alla lunga paga. Certo bisogna saperci fare, ma questo è un altro discorso, riconducibile alla qualità del personale politico più che all’opportunità delle battaglie.  Carlo Calenda sta tentando di mischiare le carte prima di darle: vuole trovare le disponibilità piuttosto sparse e sparute, ricondurle ad un minimo comune denominatore europeista e solidale per poi attaccare l’avversario, costituito appunto dalle forze nazionaliste e populiste tatticamente unite nel paradossale discorso storico di “andava meglio quando andava peggio”.

Apriti cielo: Calenda sbaglia, fa un assist ai populisti, liquida il partito democratico, è malato di protagonismo, non sa nemmeno lui quel che vuole, etc. Stando ai si dice, D’Alema e Bersani sarebbero addirittura per un’alleanza tattica con i pentastellati, per non regalarli al fronte sovranista. La malattia della sinistra di autoflagellarsi, dividendosi continuamente, cercando il pelo nell’uovo, non finisce mai. La prima gallina che canta ha fatto l’uovo. Il primo che prende un’iniziativa sbaglia, meglio aspettare Godot. La storia non ha insegnato niente. Peccato…

 

La legge del cosa vogliamo essere

“Mi ricordo che tanti anni fa, mentre discutevamo della legge sul divorzio, allora sottoposta a referendum, mio padre Aldo – da buon giurista – ebbe modo di spiegarmi che una legge non contiene solo delle norme, ma definisce anche che cosa vogliamo essere come Paese, come società e come persone”. Da questo mirabile insegnamento parte Agnese Moro, l’indomani della cattura di Cesare Battisti, scatenante demagogici, inutili, e vendicativi atteggiamenti, per affrontare, coraggiosamente, coerentemente e credibilmente, il problema dell’impostazione del nostro sistema penale e dei principi che debbono reggerlo.

Proprio mentre gran parte della classe politica e dell’opinione pubblica si esercitano nel fegatoso gioco al massacro dei rei, la figlia della vittima più emblematica e significativa del terrorismo, si schiera a favore della tesi Costituzionale, in base alla quale chi ha commesso un errore, anche gravissimo, deve essere fermato, giudicato, aiutato con ogni mezzo e risorsa ad un ripensamento serio; e, se privato della libertà, trattato, comunque, con la dignità e il rispetto che merita ogni persona, buona o cattiva che sia.

Siamo in presenza di una commovente lezione di vita: Aldo Moro aveva seminato molto bene, nella sua famiglia, tra i suoi allievi, nella politica, nella società. Non dimentichiamo i suoi insegnamenti: è vissuto ed è morto per essi. Proprio lui, che teorizzava la testarda ricerca del riscatto del condannato, è stato violentemente sequestrato, ingiustamente processato, follemente condannato a morte, barbaramente ucciso. Non so cosa proverà Cesare Battisti leggendo la testimonianza di Agnese Moro. Non credo che potrà rimanere indifferente o scettico. Sarà costretto a riflettere e a ripensare. Glielo auguro.

Tutti però dovremmo riflettere e ripensare, abbandonando lo scudo fatto dell’amarezza e della rabbia delle vittime, con il quale, come sostiene Agnese Moro, faremmo prevalere la linea vendicativa, che porta fuori dalla nostra Costituzione e moltiplicheremmo anche la forza di quella catena del male, che parte da ogni gesto di violenza, privato o pubblico che sia, e che si allarga e si rinforza continuamente.

Agnese Moro ha giustamente applicato l’insegnamento paterno al discorso del sistema giudiziario penale, paradossalmente sollecitata dall’angoscioso evento dell’arresto e della consegna al carcere “fine pena mai” di un sedicente terrorista, condannato per crimini peraltro assai poco politici e molto comunemente delinquenziali.    A me viene spontaneo allargare il discorso alla “criminalità pubblica” che si sta scatenando sugli immigrati. Anche qui esistono due visioni e chiedo scusa ad Agnese Moro se rischierò di parafrasare il suo discorso.

Una prima visione sostiene che si debba aiutare solo i più disperati fra i disperati, respingendo o rimpatriando gli altri; che si debba scoraggiare e bloccare le partenze per diminuire le morti in mare; che si debba fare guerra ai trafficanti comprendendo fra di essi tutti e comunque coloro che danno una mano a queste masse di disgraziati; che si debbano chiudere i porti e alzare i muri in attesa di regolamentare la spartizione dell’accoglienza; che si debba combattere senza pietà la clandestinità in quanto causa assoluta di criminalità. Queste sono regole, che stante quanto sosteneva Moro, definiscono prima di tutto cosa vogliamo essere: un Paese chiuso, una società razzista, persone egoiste.

La seconda visione non nasconde le enormi difficoltà, non sostiene di accogliere tutti “buonisticamente” e scriteriatamente, ma si ricollega ai principi costituzionali della protezione delle persone nei loro diritti fondamentali e nella loro dignità, quali esseri umani senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Dopo avere chiarito se vogliamo essere un Paese civile e aperto, una società che non discrimina, persone solidali, possiamo scrivere le regole. Altrimenti le regole non si possono accettare: la legge viene dopo la giustizia, dopo il rispetto dei diritti umani e la solidarietà verso i propri simili. Come dice Massimo Cacciari, scadiamo nella legge di Creonte, che impedisce di seppellire i morti, di soccorrere il naufrago in mare, etc.  Buttiamo tremendamente a mare, assieme ai migranti, i principi di giustizia della cultura europea.

La pelle di Fico e il muro pentastellato

Il presidente della Camera Roberto Fico non perde occasione per prendere clamorosamente le distanze dal governo e dal suo movimento. In materia di immigrazione ha dichiarato: «L’accoglienza è un valore sempre. È scritto nella Costituzione. La legge suprema dell’umanità ti chiede di aiutare le persone in sofferenza o in naufragio: una regola che va oltre le norme scritte, i governi, i parlamenti».

A chi gli ha fatto osservare di avere una posizione isolata rispetto alle scelte dei vice-premier, Fico ha risposto: «Io non sono isolato, io non sono nel governo. Io ho un ruolo terzo e di garanzia. E come terza carica dello Stato vi dico che l’accoglienza e il salvataggio in mare sono valori fondamentali. Ogni volta che muore qualcuno nel Mediterraneo ci dobbiamo sentire coinvolti. Io personalmente mi sono sentito in lutto dopo la strage dei 117 immigrati. Vale anche quando ne muore uno, ma quella è stata una gravissima pagina». Poi quasi per farsi perdonare lo “svarione” buonista ha rimarcato le responsabilità “dell’Europa tutta” ed ha aggiunto: «Dobbiamo riuscire a fare un nuovo progetto per il Mediterraneo; va bene anche il piano di investimenti per l’Africa, ma deve essere chiaro e trasparente».

Non si è fermato agli immigrati ed è andato giù duro anche sulla restituzione dei fondi pubblici da parte della Lega: «Chi sbaglia deve pagare e si devono eseguire le sentenze». Ha commentato persino il baciamano avvenuto ad Afragola a favore di Salvini da parte di un simpatizzante della Lega: «Sono accadute anche a me situazioni imbarazzanti, che vanno smontate».

Vista la continuità e varietà di questi clamorosi distinguo, i casi sono due: o si tratta di un gioco elettorale, vale a dire di una strumentale copertura al M5S sul fronte di sinistra o comunque verso gli elettori contrari alla sempre più imbarazzante alleanza con i leghisti, oppure Roberto Fico deve prendere atto delle proprie sostanziali divergenze e abbandonare i pentastellati, senza necessariamente dimettersi da presidente della Camera, anche se sarebbe opportuno e darebbe ulteriore patente di correttezza lasciando l’alto scranno di Montecitorio.

Fino ad ora lo vedevo con una certa simpatia, adesso basta: il gioco è bello quando è corto. I sondaggi danno i grillini in chiara flessione di consensi, il piccolo test elettorale sardo ha evidenziato un notevole malcontento tra le file pentastellate. Alessandro Di Battista è tornato ad incarnare l’anima protestataria più spinta, mentre Fico fa la parte del poliziotto buono. Gino Strada non si è sputato nelle mani e ha dichiarato senza peli sulla lingua: «Quando alla fine si è governati da una banda dove una metà sono fascisti e l’altra metà sono coglioni, non c’è una grande prospettiva per il Paese». Mi aspetto provocatoriamente che Roberto Fico esprima solidarietà a Gino Strada e compia i conseguenti passi politico-istituzionali, diversamente rischia, prima o poi di essere incollato al muro come una pelle di fico, non tanto dagli avversari ma dagli amici.

À bas la France, viva l’Italia

La storia europea è sempre stata caratterizzata dal conflitto tra Francia e Germania: due Stati in cerca di un primato a costo di guerre e scontri epocali. I rapporti tra Francia ed Italia, senza esser così decisivi e fondamentali come quelli appena ricordati, non sono mai stati idilliaci. Mi basta ricordare aneddoticamente come un mio conoscente, volendo far capire i rapporti piuttosto burrascosi con la propria moglie, l’aveva soprannominata “Francia”.

Niente di strano quindi se ancor oggi i rapporti possono essere piuttosto tesi tra il nostro Paese e la Francia. L’assurdità sta nei pretestuosi e strumentali motivi del contendere: la Francia a detta del vice-premier Luigi Di Maio persisterebbe in una sorta di politica coloniale tesa a prosciugare ricchezze dei Paesi africani, impoverendoli e causando l’emorragia da cui provengono migliaia di immigrati annaspanti davanti alle nostre coste.

Se è vero che gli interessi economici europei hanno impedito ed impediscono un equilibrato sviluppo dei  Paesi africani (non solo quelli francesi, ma anche quelli italiani), se è vero che l’irreversibile casino libico post-Gheddafi  è una grossa e colpevole responsabilità francese  (leggi Sarkozy), se è vero che anche l’era Macron non ha sgombrato il campo transalpino da dubbi ed equivoci, è altrettanto vero che non esiste un comprovabile ed esauriente rapporto di causa-effetto tra le politiche internazionali francesi è la fuga dai Paesi africani verso l’Europa.

La polemica scoppiata, che ha portato persino le parti sull’orlo di una crisi diplomatica, ha infatti ben altre motivazioni e scopi. Innanzitutto parte col piede sbagliato: un vice-premier, all’insaputa del Presidente del Consiglio, del Ministro degli Esteri e del Capo dello Stato, parte lancia in resta per sputtanare i cugini d’oltralpe con atteggiamenti manichei e argomenti frusti. Si tratta molto probabilmente di pure scaramucce preelettorali volte a segnare una concezione europea spregiudicatamente rissosa e strumentalmente faziosa. Siamo già al solito tentativo di recuperare consenso all’interno scontrandosi all’esterno: il M5S sente puzza di bruciato nel calo di popolarità della sua azione di governo e quindi alza la voce contro i nemici per ricompattare gli amici. Storia vecchia decrepita!

Un secondo probabile motivo di questa levata di scudi antifrancese sta nella tattica unicamente polemica di due formazioni politiche. M5S e Lega, incapaci di fare serie proposte e specializzati nel demolire quelle altrui. Su ogni tema e problema il dibattito scende a livello squisitamente polemico e violentemente verboso. Quando un litigante si accorge di non avere argomenti è portato a urlare a vanvera per coprire il proprio sostanziale silenzio. La si butta continuamente in rissa e ogni pretesto è buono per scatenarla. In questi giorni il governo è in chiara difficoltà sui temi dell’immigrazione e dell’economia. Ebbene si reagisce tentando di demolire le istituzioni interne ed internazionali, che stanno sollevando, direttamente o indirettamente, dubbi e perplessità sull’azione di governo italiana: la Francia appunto, Bankitalia e Il Fondo Monetario Internazionale. Non si risponde ai loro argomenti, ma si preferisce ributtare la palla nella metà campo altrui invertendo le critiche: la Francia guardi la sua politica coloniale, la Banca d’Italia guardi le banche a cui non ha saputo prestare la necessaria attenzione, il Fmi guardi i disastri che ha combinato nel mondo economico-finanziario. È il modo per salvarsi in corner, ma per accentuare la propria posizione disperatamente difensiva, che porterà inevitabilmente ad incassare goal e a perdere le partite. Qualcuno nella confusione butta addirittura la palla in tribuna: un senatore grillino, nel commentare l’attuale momento storico, è arrivato al punto di adottare uno schema interpretativo che è stato uno dei capisaldi teorici che giustificarono lo sterminio nazista degli Ebrei (non faccio nomi e non entro nel merito, perché siamo nella follia pura e i malati di mente andrebbero curati e non spediti in Parlamento).

Ci sarebbe un terreno adatto su cui misurarsi con la Francia: quello di proporre un’alleanza sviluppista tra i Paesi del Sud-Europa. Sarebbe un bel chiarimento sulla politica economica, sempre imprigionata   nello scontro fra rigoristi del bilancio e sviluppisti del lavoro. Sarebbe uno scoprimento degli altarini franco-tedeschi, su cui si celebrano i patti di potere fra i due contendenti storicamente portati più a comandare che a collaborare. Questo sarebbe fare politica estera. Ci si accontenta invece di fare i politicanti: in Italia ci si può anche riuscire, fuori dai confini nazionali casca l’asino.

L’apparente non senso del dovere

Il civismo consiste nella consapevolezza e nell’alto senso dei propri doveri di cittadino e di concittadino, coscienza che si manifesta in azioni e comportamenti utili al bene comune. Al fine di alimentare e guidare questo atteggiamento nel 1958 Aldo Moro introdusse l’educazione civica come insegnamento nelle scuole medie e superiori, affidato al professore di storia. Dal 2010/2011 si è cambiato nome alla materia, passando al nome “Cittadinanza e Costituzione”. Comprende cinque argomenti: educazione ambientale, educazione stradale, educazione sanitaria, educazione alimentare e Costituzione italiana.

In una recente notte, lungo la superstrada Milano-Meda, un 47enne comasco si è fermato per soccorrere due fidanzati rimasti incastrati tra le lamiere della loro Fiat 600, speronata da un Audi il cui autista era scappato dopo lo schianto senza prestare soccorso. Il soccorritore ha indossato il gilet catarifrangente, ha tenuto accese le luci per segnalare la presenza del suo automezzo, ma quando è uscito dalla sua macchina è stato travolto da altri due automezzi. I due giovani fidanzati sono finiti all’ospedale in stato di choc, il conducente di uno dei due automezzi del tragico tap-in ha riportato qualche ferita, mentre il soccorritore è morto sul colpo.

Un dramma della strada in cui si sovrappongono la paura di ammettere le proprie colpe, la generosità del soccorso agli altri e la fatalità del non riuscire ad indicare in tempo la situazione di pericolo. L’accertamento delle responsabilità verrà fatto dagli organi competenti. Resta il paradosso della dinamica di un doppio incidente da cui esce ucciso colui che ha compiuto un gesto di alto senso civico. Guidare un automezzo è un’azione ad alto rischio per se stessi e per gli altri: non basta la prudenza, non basta la correttezza, non basta nemmeno la solidarietà. Sì, forse, se il primo investitore si fosse fermato e non si fosse fatto prendere dal panico, le cose sarebbero andate diversamente: avrà temuto il ritiro della patente, il non aver rispettato la distanza di sicurezza, aver tenuto una velocità oltre i limiti consentiti. Non mi sento di colpevolizzare nessuno, ma resta il fatto che chi ha agito con senso civico è diventato vittima della propria generosità.

Sono rimasto molto toccato da questo fatto. Posso immaginare il dolore straziante dei famigliari della vittima, posso immaginare la crisi di coscienza dell’automobilista fuggito, posso immaginare il dispiacere di chi si è salvato e di chi è rimasto coinvolto nel tragico e complicato incidente. Dante Alighieri ha introdotto nella sua Divina Commedia la regola del contrappasso: la pena alla quale sono sottoposti i peccatori nell’oltretomba riproduce i caratteri essenziali della colpa per analogia o per contrasto. In questa vita purtroppo molto spesso esiste una sorta di contrappasso a rovescio: vengono puniti i senza colpa o addirittura coloro che si sono dati da fare per aiutare gli altri. È follia! Non c’è spiegazione. Chi si comporta bene è spesso costretto a recitare la parte di un angelo capitato in terra per caso. Dovremmo diventare tutti angeli? Sarebbe l’impossibile soluzione. Cerchiamo almeno di essere un po’ meno demoni: ce lo chiede chi nelle battaglie fa obiezione di coscienza civica e ci lascia le penne.

Il pianto sul mare versato

Di fronte al vuoto pneumatico della politica ridotta a cassa di risonanza degli sfoghi egoistici e malpancistici della gente, urge un ritorno coraggioso e provocatorio alla vera ed alta politica, quella delle idee, delle visioni, dei valori. Accanto all’ideale europeo messo a durissima prova e che necessita di un forte rilancio a livello culturale, abbiamo il discorso dell’immigrazione sul quale stiamo rovinosamente precipitando con la chiusura delle menti, dei cuori e dei porti.

Di fronte ai continui e drammatici naufragi con il conseguente tragico bilancio di vittime, non è più il tempo di nascondersi dietro le colpe dell’Europa, di irrigidirsi sulla lotta alla clandestinità, di semplificare il problema riducendolo all’opera malvagia dei trafficanti, di rinviare l’ondata ai mittenti Paesi sottosviluppati incapaci di frenare l’emorragia, di illudersi sul freno della dissuasione, del respingimento e del rimpatrio, di criminalizzare e generalizzare certi comportamenti fisiologici all’interno del fenomeno. Bisogna prima di tutto e soprattutto risolvere il nodo etico e culturale: siamo o non siamo disposti ad accogliere queste persone alla ricerca di uno spiraglio di vita? Se sì, si può parlare di governo del fenomeno, di prevenzione dello stesso, di integrazione etc., altrimenti, se la risposta è no, è inutile bluffare e bisogna avere il coraggio di chiamare le cose col loro nome, vale a dire col ritorno, più o meno elegante, ad atteggiamenti di tipo intransigente, discriminatorio e razzista.

Si tratta di un confine sul quale stiamo ballando come nel caso del Titanic: siamo noi che stiamo andando a fondo con la nostra cultura del rifiuto, e il nostro naufragio è molto più grave di quello dei barconi dei migranti in fuga, di cui è peraltro la causa principale e storica. Le forze politiche devono avere il coraggio di fare chiarezza sulle loro intenzioni e la gente di fare le scelte conseguenti. È giunta l’ora! Non si tratta di buonismo o cattivismo, si tratta di una scelta di fondo da porre alla base dell’atteggiamento de tenere verso questo fenomeno, che assume proporzioni sempre maggiori ed incontenibili. La mentalità leghista è vomitevole e vergognosa, così come la commedia degli equivoci pentastellati non è ammissibile. La sinistra si sforzi di assumere atteggiamenti chiari di apertura su cui imbastire una politica positiva di gestione del fenomeno, senza preoccuparsi di perdere consenso (lo ha già comunque perso), senza precalcoli di convenienza e senza collocarsi a mezza strada nelle guerre fra poveri (i poveri sono tali e non vanno distinti a seconda del colore della pelle).

Non mi interessano le balle salviniane (mi fanno solo ribrezzo), non mi accontento delle oscillazioni dimaiane (mi fanno solo pena), non mi lascio fuorviare dalle stonature di un dibattito mediatico fine a se stesso (mi fanno rabbia),  non mi bastano le commozioni del momento (mi fanno pensare alle lacrime di coccodrillo); è ora di finirla di piangere sul mare versato sopra i barconi della vergogna, è ora di esigere chiari, seri e forti impegni sul problema enorme delle disuguaglianze, di cui i flussi migratori sono un effetto da non enfatizzare, ma da non sottovalutare. Ricominciare a fare politica oggi significa ascoltare la disperazione di chi preferisce morire piuttosto che rimanere nei campi libici di concentramento, molto simili a quelli nazisti. Anche allora le nazioni fecero finta di niente, si voltarono dall’altra parte, perfino il Vaticano rimase prigioniero della realpolitik religiosa. Mentre il Vaticano ha cambiato musica, noi stiamo tornando all’omertà razzista di un tempo.