Le dimissioni della (o dalla) dignità

Due questioni gettano discredito, negatività e preoccupazione sul nostro Paese. L’economia, secondo le stime e le valutazioni del Fondo monetario internazionale e della Commissione europea, sta andando male, molto peggio rispetto agli altri Paesi Euro, con una crescita ridotta al lumicino, con lo spettro di una vera e propria recessione, con la probabile necessità di dolorose correzioni sui conti pubblici, con la festa del dopo manovra appena cominciata e già finita. Il governo nega l’evidenza, attacca in modo scriteriato il Fmi, non prende sul serio gli avvertimenti comunitari, gioca a fare la vittima e conferma sostanzialmente le proprie rosee previsioni: la parte recitata in Parlamento da Giovanni Tria, ministro dell’economia e delle finanze, è risultata come una penosa e stucchevole difesa d’ufficio.

Poi c’è la questione francese. I cugini d’oltralpe si sono stufati di essere attaccati dal nostro governo: su parecchi capitoli sono state lanciate autentiche bordate contro la politica francese in materia di immigrazione, di rapporti con l’Africa, di rifugio ai terroristi, di Tav, di gilet gialli. Quasi ogni giorno parte un siluro polemico verso la Francia: un vice-premier e leader del più importante partito di governo che fa la corte alle frange più estremiste dei ribelli francesi non è certamente un segno di rispetto e amicizia nei confronti di un Paese alleato e di un partner europeo. Enzo Moavero Milanesi assiste silenzioso a questi incidenti diplomatici: è stato addirittura ritirato l’ambasciatore a Roma (il precedente risale al 1940, dopo che la dichiarazione di guerra di Mussolini venne consegnata alla Francia). La politica estera del governo gli passa sopra la testa e lui, come si suol dire, abbozza.

Questi signori erano entrati al governo per fare da contrappeso tecnico agli strafalcioni politici, per riequilibrare e moderare le spinte oltranziste di un governo sbilanciato e sbracato: missione totalmente fallita. Qualcuno ritiene che Moavero e Tria siano le quinte colonne quirinalizie all’interno del governo Conte. Se Mattarella pensava di avere in essi punti di riferimento e di controllo delle situazioni, ha sbagliato per eccesso di fiducia. Ma lasciamo perdere Mattarella, che sta facendo tutto il possibile, anche troppo, per pararci i colpi. Questi due ministri, se avessero un minimo di dignità, dovrebbero dimettersi e andarsene a casa, facendo un po’ di ordine a livello di governo, togliendo ad esso le loro foglie di fico che non servono a nulla, prendendo atto di avere fallito la loro missione (se mai ce l’avessero avuta).

Invece continuano a scaldare le loro scomode seggiole, stanno perdendo reputazione e, tutto sommato, fanno un pessimo servizio al Paese. A questo punto serve chiarezza: non si può continuare a governare nell’equivoco e nell’incertezza. Battano un colpo e tolgano il disturbo. Potrebbero ancora recuperare in extremis un briciolo di credibilità. Se lo sapranno fare, meriteranno un grazie di vero cuore. Diversamente, quando li vedremo ai loro posti, non potremo che compatirli.

 

 

Le istituzioni trascinate in piazza

Mi è venuto spontaneo tentare un parallelismo tra la vicenda Lockheed e quella della nave Diciotti: confronto piuttosto arduo per i tempi molto distanti, per i reati ipotizzati assai diversi, per i riferimenti normativi cambiati nel frattempo, per le classi politiche quasi completamente mutate. Resta tuttavia un valido parametro di confronto: il discorso istituzionale.

Aldo Moro, in un memorabile intervento davanti al Parlamento riunito in seduta comune per discutere della messa in stato d’accusa di alcuni ministri davanti alla Corte Costituzionale, fece un’affermazione che viene spesso ricordata: non ci faremo processare nelle piazze. Ma espresse anche altri importantissimi concetti, riuscendo a trovare la sintesi fra la necessità di riconoscere il ruolo fondamentale della magistratura e l’orgogliosa e doverosa assunzione di responsabilità della classe politica rappresentata in Parlamento: «No, non basta dire, per avere la coscienza a posto: noi abbiamo un limite, noi siamo dei politici, e la cosa più appropriata e garantita che noi possiamo fare è di lasciare libero corso alla giustizia, è fare in modo che un giudice, finalmente un vero giudice, possa emettere il suo verdetto. No, siamo in ballo anche noi; c’è un dovere di informarsi, di sapere, di decidere in prima persona». Fin qui Moro e il suo altissimo senso politico ed istituzionale espresso in un momento delicatissimo della cosiddetta prima repubblica.

Matteo Salvini, dopo un tattico tira e molla, in una lettera al Corriere della Sera in ordine all’autorizzazione a procedere nei suoi confronti chiesta dal Tribunale dei ministri e riguardante il suo comportamento sulla nota vicenda Diciotti, scrive: «Dopo aver riflettuto a lungo su tutta la vicenda, ritengo che l’autorizzazione a procedere debba essere negata. E in questo non c’entra la mia persona. Innanzitutto il contrasto all’immigrazione clandestina corrisponde a un preminente interesse pubblico, posto a fondamento di precise disposizioni e riconosciuto dal diritto dell’Unione europea.  In secondo luogo, ma non per questo meno importante, ci sono precise considerazioni politiche. Il governo italiano, quindi non Matteo Salvini personalmente, ha agito al fine di verificare la possibilità di un’equa ripartizione tra i Paesi dell’Ue degli immigrati a bordo della nave Diciotti. (…) In conclusione, non rinnego nulla e non fuggo dalle mie responsabilità di ministro. Sono convinto di aver agito sempre nell’interesse superiore del Paese e nel pieno rispetto del mio mandato. Rifarei tutto. E non mollo».

Non credo che l’opzione del ministro dell’Interno sia orientata a ribadire il ruolo centrale del Parlamento nel giudicare l’operato ministeriale nei suoi limiti e nei suoi contenuti. C’è infatti un Parlamento (il Senato nel caso specifico): dovrebbe verificare che gli atti in questione siano di natura politica. Considerato che il confine tra l’azione personale e quella politica è molto labile e discutibile, che il giudizio parlamentare rischia di essere partitocratico e guidato da interessi di bottega elettorale, soprattutto che i senatori non mi sembrano in grado di informarsi, di sapere, di decidere in prima persona (come auspicava Moro), è da ritenere comunque preferibile rimettere la questione al magistrato (un vero giudice come diceva Moro, non la piazza). Evidentemente Salvini preferisce farsi giudicare dalla piazza, che in questo momento gli è molto favorevole e chiede aiuto in tal senso al Senato. Mira inoltre a mettere in chiara difficoltà l’alleato di governo: siete legati a me, non potete scappare. Non si spiega diversamente la brusca inversione di marcia dalla difesa nel processo alla difesa dal processo.

Ho già scritto sulle conseguenze politiche che questa vicenda giudiziaria dovrebbe comunque avere; oggi, sulle ali nostalgiche del pensiero di Aldo Moro e dei giganti della nostra Repubblica democratica, mi soffermo a riflettere sulla totale mancanza di senso delle istituzioni, sul duro colpo che ad esse viene comunque inferto, e sull’attuale piccolezza politica degli uni e degli altri: la Lega vuole sottrarsi al giudizio del magistrato perché sente di avere il vento populista in poppa; il M5S preferirebbe (staremo a vedere se non si piegherà alla realpolitik per salvare il governo) passare la patata al giudice ordinario in nome di un giustizialismo demagogico e piazzaiolo ante-litteram, cavalcato a più non posso e che nulla ha da spartire con una seria considerazione delle funzioni e dei poteri della magistratura. La funzione del Parlamento, come già avvenuto di recente (legge di bilancio e manovra economica), è ridotta a registrazione delle convenienze politiche delle forze di governo: ecco perché sarebbe meglio, come detto sopra, rimettere il giudizio alla magistratura.

In questi giorni di confusa vita politica ed istituzionale mi viene oltremodo spontaneo tornare a personaggi che hanno fatto la storia italiana: i De Gasperi, i Moro, i Dossetti, i La Pira, i Togliatti, i Fanfani, i Berlinguer, etc. etc. Durante il dibattito parlamentare sulla fiducia al primo governo Berlusconi nell’ormai lontano 1994, un esponente di Forza Italia (non ricordo il nome) polemizzò con l’opposizione di allora, costituita da forze di centro-sinistra non ancora riunificate nel partito democratico: “Rimpiangiamo il partito comunista”, disse polemicamente. Rispose altrettanto polemicamente Massimo D’Alema: “E noi rimpiangiamo la Democrazia Cristiana”. Chiuso nel mio piccolo guscio democratico a prova di bomba pentaleghista, aggiungo: “E io rimpiango la democrazia cristiana e il partito comunista!”.

La tav…olata del governo scombinato

Non ho capito se la questione TAV sia effettivamente un argomento divisivo nei rapporti tra cinquestelle e leghisti o se sia soltanto il pretesto per far finta di litigare per poi magari litigare sul serio e arrivare alla separazione. Da quanto è dato sapere il problema (non) era affrontato nel contratto di governo. In esso infatti è scritto: “con riguardo alla linea ad Alta Velocità Torino-Lione, ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia”.

L’analisi costi-benefici a cui si è tentato di legare la soluzione del problema è arrivata a precisare i costi: due miliardi per fermare i lavori, tre miliardi per completarli. Quanto ai benefici è praticamente impossibile quantificarli, perché si spalmano nel tempo sull’intera comunità in termini di migliori comunicazioni, di minor inquinamento, di impulso ai traffici, di collegamenti più veloci, etc. I grillini scantonano, valutando cosa si potrebbe fare di meglio a livello di infrastrutture con gli stessi soldi: altro discorso piuttosto astruso e demagogico. C’è sempre un modo migliore per spendere: siamo al benaltrismo degli investimenti pubblici infrastrutturali.

La popolazione è divisa: lo scontro avviene più ideologicamente che programmaticamente: da una parte gli sviluppisti al limite dello scriteriato “andare avanti anche se si rischia di andare a sbattere”; dall’altra parte gli ambientalisti al limite del “cretinismo ecologico”. Il problema va tolto dalle secche ideologiche per essere portato sul piano delle scelte strategiche di uno sviluppo compatibile. L’operazione andrebbe fatta da una classe dirigente governativa competente e lungimirante: due qualità che mancano all’attuale compagine governativa.

I debutti governativi dei grillini sono sempre caratterizzati, a qualsiasi livello, da questioni strutturali affrontate con l’accetta: forni inceneritori per i rifiuti, Tav e Tap. Chi si pone in antitesi (non in alternativa) rispetto al passato ha bisogno di dare eclatanti segnali rivoluzionari di cambiamento, che poi generalmente si rivelano fuochi fatui, perché la continuità sistemica incalza e impedisce la distruzione di quanto già esiste.

Allora, o ci si converte frettolosamente al pragmatismo con il contraccolpo populista del tradimento o si insiste col fanatismo nuovista e ci si condanna alla paralisi governativa. I leghisti non si vogliono far stritolare da questa macchina “schiacciapartiti”; anch’essi puntano all’antipolitica, ma tendono a sposare la tesi del continuismo economico coniugandola con la versione egoistica del garantismo sociale. Credo sia questo il nodo fondamentale che si stringe attorno ai rapporti tra M5S e Lega. Sulle tante questioni, che quasi giornalmente emergono, si staglia lo spettro di cui sopra.

Fin che sarà possibile proveranno a tirare a campare, gara sempre più dura; quando non sarà più possibile tireranno le cuoia. Qualcuno dirà che negli accordi di governo è sempre stato così: non è vero. C’erano idee diverse, linee politiche diverse, priorità diverse, personalismi vari. Non c’era alla base il proposito di picconare il sistema e non si litigava sul piccone da usare. Oggi invece è così.

 

Il panico dell’ignoranza

All’articolo 87 della Costituzione Italiana, che fissa i poteri del Presidente della Repubblica, bisognerebbe aggiungere una dizione rispecchiante quanto sta avvenendo, fortunatamente e clamorosamente, nei fatti: “Individua gli errori del governo e ne propone la relativa correzione”. Siamo alla Costituzione materiale.

Di fronte alla penosa balbuzie governativa emergente di fronte alla situazione venezuelana, il Capo dello Stato è intervenuto con pazienza e classe infinite, dettando la linea a chi straparla o “stratace”, portando il nostro Paese all’isolamento e alla deriva internazionale. L’ambiguità del governo è inaccettabile: gioca a nascondino con l’Ue, facendosi dettare la linea da un illustre sconosciuto di nome Alessandro Di Battista, che osa farneticare: «Ci vuole coraggio a mantenere una posizione neutrale in questo momento, lo so. L’Italia non è abituata a farlo. Ci siamo sempre accomodati in modo vile agli esportatori di democrazia. L’Europa dovrebbe smetterla una volta per tutte di obbedire agli ordini statunitensi. Il mondo va avanti. Suggerisco coraggio e lungimiranza e soprattutto una difesa sostanziale dell’articolo 11 della Costituzione». Parole sparate sul filo dell’ignoranza totale, con la conseguente presunzione di un nano a giudicare la storia su cui hanno lavorato i “giganti”, da De Gasperi a Moro, da Fanfani a Saragat, tanto per fare qualche nome.

In poche soppesate e significative parole Sergio Mattarella ha smontato le contraddizioni di un governo assurdo e seppellito le velleitarie esercitazioni dei dilettanti allo sbaraglio. Si è limitato ad auspicare “chiarezza su una linea condivisa con tutti i nostri alleati e i nostri partner europei” e ha aggiunto che “la scelta è tra la volontà popolare e la richiesta di autentica democrazia da un lato e dall’altro la violenza della forza”.

Il Presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri dovranno assumersi le loro responsabilità e smetterla di portarci in giro per il mondo a fare la parte dei cretini. Anche Matteo Salvini ha dovuto riconoscere che non stiamo facendo una bella figura. Lui dovrebbe starsene zitto, ma, sfoderando il minimo dei minimi di senso politico, forse ha capito che su certe cose non si può improvvisare o scherzare.

So benissimo cosa dirà la gente: cosa ce ne importa di Maduro e di Guaidò? Guardiamo in casa nostra! I venezuelani se la vedano fra di loro e decidano cosa vogliono fare! Questi commenti triviali fanno eco ad una classe politica, che usa le istituzioni italiane per giocare alla playstation. Probabilmente Mattarella riuscirà per l’ennesima volta a toglierci le castagne dal fuoco. Non manca più che dichiarare guerra alla Francia e bombardare la Tav finora realizzata: a parole sta già succedendo.

Quanto a Trump ed alla sua strampalata politica estera, il suo stratega Bannon non si è dichiarato il sensale del matrimonio pentaleghista e non ha una passione per il Movimento 5 stelle e per Beppe Grillo, di cui apprezza la rabbia sciorinata sulla scena politica? Improvvisamente Trump è diventato un golpista petrolifero?  Putin è un forte riferimento internazionale per grillini e leghisti: lui sta con Maduro e potrebbe avere speso una parola sulla loro mano per ottenere almeno una neutralità che fa comodo al dittatore venezuelano. E questo sarebbe il coraggio della neutralità? Forse è solo il panico dell’ignoranza!

Il setaccio congressuale delle idee

Il congresso del Partito democratico sta faticosamente prendendo corpo e vita: sono usciti tre contendenti che si apprestano a confrontarsi e misurarsi alle primarie, laddove il bacino si allarga dagli iscritti agli elettori, laddove le proposte politiche si dovrebbero meglio precisare e i gruppi dirigenti dovrebbero uscire allo scoperto.

L’attuale debolezza di questo partito rischia di condizionarne il futuro riducendo il dibattito alla politica delle alleanze: dialogo con il M5S o chiusura ad esso? Come se un soggetto con scarsi mezzi economici, prima di pensare a guadagnare di più, si ponesse il problema di cercare un partner economico con cui mettersi in affari. Ripristino di una certa cinghia di trasmissione con la CGIL o rispetto comunque dell’autonomia del sindacato? Sarebbe come se un soggetto che si sente isolato cominciasse a promettere stretti legami ai parenti con cui non ha frequentazione facile e spontanea. Ricucitura con i fuorusciti di sinistra o presa d’atto di un recente travaglio che è stato una importante concausa dell’indebolimento? Sarebbe come se due coniugi, che vivono separati, chiedessero ai figli il parere su una eventuale riconciliazione.

Un altro grosso rischio è quello di rimettere i contenuti in un anacronistico setaccio destra-sinistra, partendo dalle ideologie e non dalla realtà, privilegiando gli schieramenti rispetto ai problemi. Il partito democratico deve sforzarsi di affrontare le problematiche moderne (difficoltà economiche, disagi sociali, disoccupazione, povertà emergenti, etc.) non in chiave velleitaria, ma in una logica riformista, che riesca ad imporre sacrifici in una credibile prospettiva di crescita equilibrata.

Non basta rincorrere spasmodicamente ed episodicamente le periferie: bisogna andare incontro con realistiche proposte alle loro esigenze. Volendo usare una metafora, che mi è ormai spontanea, occorre portare la politica dalla irrazionale “pancia” in cui è sprofondata (le paure) alla preoccupante tasca in cui fare i conti (le reali difficoltà economiche e sociali) ed al fine cervello con cui ragionare di gradualità riformista (la miscela tra le libertà individuali ed economiche e le esigenze di uguaglianza e giustizia sociale). Non si può aspettare che emergano le contraddizioni altrui per poi riprendere il controllo della situazione. Sarebbe come aspettare sulla riva del fiume il cadavere dell’avversario senza accorgersi di essere in pericolo di morte.

L’ultimo rischio da evitare è quello di avere paura dell’Europa e stare alla finestra in attesa che l’Ue riprenda vigore. Il partito democratico si deve “testardamente” presentare come europeista, senza timore di essere considerato visionario, inconcludente e fuori moda. Su questa linea europeista convinta vanno cercate alleanze interne ed internazionali: l’opzione europea viene prima di tutto e quindi non ha senso temere di compromettersi con movimenti e manifesti non perfettamente inclusi nell’anagrafe del partito.

Senza l’ansia di recuperare i consensi, senza la paura di chiarire (troppo) bene i contenuti, senza il timore di mettere in piazza le soluzioni dei problemi, senza il pudore di confrontarsi apertamente tra dirigenti vecchi e nuovi, senza la vigliaccheria di coprire gli errori commessi, senza cedere alla tentazione di cominciare tutto daccapo, senza vergognarsi di essere (troppo) democratici. Chi ci sta ci sta!

 

 

L’unica certezza è l’incertezza

La recessione economica in cui l’Italia sta sprofondando è dovuta ad errori passati, a fattori esterni o all’inettitudine dell’attuale governo? Domanda dettata più dalla presunzione degli ignoranti che dall’umiltà degli intelligenti. “Bisogna ragionare”, risponderebbe giustamente il filosofo Massimo Cacciari. Provo allora a ragionare, facendomi aiutare dal governatore della Banca d’Italia e da autorevoli commentatori. A detta di costoro, quel che fa la differenza italiana, rispetto al già problematico e sofferente contesto economico internazionale, sta nel clima di incertezza venutosi a creare con l’entrata sulla scena politica del governo giallo-verde.

L’incerta alleanza tattica fra due partiti diversi per non dire opposti; l’incerta politica nei confronti dell’Europa; l’incerta manovra economica; l’incerto atteggiamento su importanti problemi; l’incerta politica estera; l’incerta politica dell’immigrazione; l’incerto quadro dei rapporti istituzionali. L’unica cosa certa di questo governo è l’incertezza. Questo clima influisce notevolmente sulle scelte economiche di chi investe e di chi consuma, che tende ad aspettare, a rinviare, a non decidere in attesa di tempi migliori e di conseguenza l’economia langue. Sei mesi di incertezza hanno fatto danni rilevanti ancor più delle scelte sbagliate, i cui effetti al momento ancora non si sentono.

Il governo a livello comunicativo riesce, almeno per ora, a colmare le lacune dell’incertezza con le illusioni del decisionismo. Si va avanti a sparate: anziché ragionare sui problemi per proporre eventuali soluzioni, si sparano soluzioni per evadere i problemi. Non so quanto potrà durare questo gioco, che evidentemente i mercati, gli operatori economici, gli imprenditori, i consumatori hanno scoperto fin dall’inizio.

Allora sorge spontanea una domanda: chi opera, più o meno, in economia non è anche cittadino elettore? Sul fronte economico regna la sfiducia, mentre sul fronte elettorale cresce il consenso. Non riesco a capacitarmi di questa strana contraddizione. Silvio Berlusconi ha colto questo nodo gordiano e tenta di fare l’Alessandro Magno della situazione: vuole cioè trasferire il meccanismo del consenso dalle illusioni intestinali alle incertezze mentali, dalla pancia al portafoglio. La soluzione non è così semplice e aneddotica.

Cosa può interrompere questo clima di incertezza per tentare di ridare fiato alle prospettive economiche del Paese? Come succedeva durante il periodo dei governi berlusconiani, all’estero hanno la freddezza e il distacco necessari per rendersi conto della nostra situazione, mentre noi siamo coinvolti senza accorgercene in una deriva pericolosa da tutti i punti di vista.

Devo fare riferimento ancora una volta al professor Cacciari, l’unico intellettuale che ha il coraggio di esporsi e di dare una lettura coraggiosa della situazione.  Durante un movimentato dibattito su La7, il ministro della giustizia Bonafede, non riuscendo a controbattere nel merito alle provocatorie affermazioni del filosofo, si è rifugiato in una battuta ironica: «Lei professore sa proprio tutto…». Al che Cacciari ha controbattuto: «Sì, sì, so tutto, so che il vostro governo mi fa schifo!». Temo purtroppo che il partito cacciariano abbia poco seguito: io mi sono iscritto da tempo, ma…

 

Il concorso della stupidità

Un mio ex-collega, quando aveva in programma di partecipare ad un incontro di lavoro che si preannunciava piuttosto vivace e conflittuale, si preparava andando a far visita alla suocera: si scaldava, come fanno i calciatori prima di entrare in campo. Iniziare a freddo può essere rischioso.

I vice-premier italiani si stanno scaldando per la prossima campagna elettorale e non trovano di meglio per scaldarsi i muscoli che attaccare la Francia sui migranti, sulle estradizioni, sul colonialismo, sul seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, sul caso Stx- Fincantieri, sul dossier Alitalia. Ogni pretesto è buono per duellare verbosamente con i cugini d’oltralpe.

La ministra per gli affari europei, Nathalie Loiseau, ha così commentato questi stucchevoli corti circuiti: «Non vogliamo giocare al concorso di chi è più stupido. Con l’Italia abbiamo molte cose da fare e vogliamo continuare a farle. Mi recherò in Italia quando il clima si sarà calmato. In Francia si dice che tutto ciò che è eccessivo è insignificante. Quando le dichiarazioni diventano eccessive per toni e quantità, diventano dunque insignificanti. La Loiseau, che ha definito “inutili” gli attacchi del governo gialloverde al suo Paese, si è chiesta: “Cosa ci guadagnano gli Italiani? Contribuiscono forse al benessere del popolo italiano, che è generalmente l’obiettivo di ogni governo? Non penso”.

Il concorso a chi è più stupido! Subito, leggendo le dichiarazioni della ministra francese, ho pensato che alludesse alla gara a chi la spara più grossa fra Di Maio e Salvini, poi rileggendo meglio ho capito che esorcizzava la gara fra i due Paesi ad attaccarsi in modo stupido. Mi resta un piccolo margine di dubbio, ma lasciamo perdere. Quanto afferma Nathalie Loiseau è dettato dal buonsenso, che viene prima della politica. Purtroppo è merce rara, che non si compra dal pizzicagnolo e che scarseggia negli attuali ministri italiani, almeno quelli politicamente più in vista.

Cosa ci guadagnano gli italiani da queste schermaglie polemiche innescate a turno da Di Maio e Salvini? Niente, se non l’illusione di contare qualcosa a livello europeo ed internazionale in conseguenza della capacità di rompere le palle: prima o poi all’estero qualcuno abbandonerà la comprensione verso gli italiani e ci presenterà un conto salato da pagare. La corda potrebbe strapparsi e allora nessuno ci toglierà il primato nel concorso a chi è più stupido.

Il premier Giuseppe Conte invece fa lo stupido per non pagar dazio. A margine del Forum economico mondiale di Davos, ha introdotto un tema molto caro ai grillini, ossia quello di un seggio Onu all’Ue e non a un singolo stato: “Se la Francia vuole mettere a disposizione il proprio seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, parliamone e facciamolo nel contesto europeo, se davvero vogliamo dare importanza a tale contesto”. Sui migranti afferma: “Noi ci stiamo battendo da mesi, nessuno vuole realmente pervenire a sforzi comuni per un meccanismo realmente europeo. Faremo da soli, in Italia la nostra politica, come vedete con gli sbarchi, sta raggiungendo dei risultati”. Mi chiedo se Conte stia facendo uno stage da premier sulla nostra pelle. È pur vero che sbagliando si impara, ma cerchi almeno di contenersi.

“Nessuno vuole uno scontro, né con la Francia né con la Germania. Non dico che non ce lo possiamo permettere, ma non lo vogliamo”, dice il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Buono a sapersi. Quanta voce in capitolo ha Tria? A volte le apparenze ingannano: speriamo sia così.

L’ex premier e presidente della Commissione Ue, Romano Prodi a chi gli ha chiesto di commentare gli attacchi italiani alla Francia ha così risposto: “Mah, io quando vedo sta roba, non riesco neanche a capacitarmi. Problemi così complessi e raffinati non vanno affrontati con questa superficiale brutalità”. Non sono un prodiano sfegatato, ma forse qualcosa in più degli attuali governanti ne capisce.  Infatti è fuori concorso.

 

Il governo italiano è “immaduro”

Il Parlamento europeo riunito in sessione plenaria ha riconosciuto Juan Guaidò come legittimo presidente del Venezuela. La mozione, che non è vincolante per l’intera Unione Europea, è stata approvata con 439 voti a favore, 104 contrari e 88 astensioni. Guaidò è il leader di fatto dell’opposizione venezuelana e la sua autoproclamazione a presidente al posto di Nicolás Maduro ha aperto una crisi politica piuttosto delicata e complessa, sulla quale si sono venuti a creare vecchi (Trump-Usa con Guaidò e Putin-Russia con Maduro) e nuovi (Ue incerta e Italia omertosa) schieramenti a livello internazionale. Fra gli astenuti ci sono anche gli europarlamentari del M5S e della Lega, che hanno finalmente trovato un problema su cui sono d’accordo. Il governo italiano è attestato su posizioni vaghe: il ministro Moavero Milanesi è afono, il premier Conte è (in)cautamente sgusciante; ha parlato il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano dicendo che l’Italia non riconosce Guaidò.

Una giornalista del Manifesto (di cui non ricordo il nome), comodamente seduta nell’irritante salotto televisivo mattiniero del pierino catodico di rainews24, Roberto Vicaretti, nel contesto di un confuso dibattito sull’attualità politica in cui era inserita la situazione venezuelana, ha fatto una affermazione di stampo bolscevico a cento anni dalla rivoluzione d’ottobre: “Il voto del Parlamento Europeo non conta niente”. Quindi si è lasciata andare al solito retroscenismo anti-americano, facendo risalire a Trump la svolta politica venezuelana, e attestandosi su una posizione non allineata di stampo titino.

Che un Parlamento eletto democraticamente da milioni di cittadini europei non conti niente la ritengo un’affermazione (pur se inserita in un ragionamento complessivo) gravissima di stampo burocraticamente comunista (la lingua dice quel che nella storia duole). Sarà pur vero che la mozione adottata non sia vincolante, che gli Stati europei tendano a fregarsene altamente delle Istituzioni europee; da qui a sostenere che un consesso democratico di tale entità sforni decisioni irrilevanti il passo è lungo e antistorico. Se vogliamo rilanciare l’Ue dobbiamo rafforzarne le istituzioni e non svaccarle in questo modo. La giornalista del Manifesto è rimasta in linea con l’ideologia politica di riferimento della sinistra, che sta indirettamente e paradossalmente portando acqua al mulino pentaleghista in nome di un essere contro tutto, il che equivale, in quel caso sì, a non contare niente.

Infatti ecco la traduzione politica di quella mentalità ideologica fintamente neutralista, che è sempre stata contro gli Usa, contro la Nato, contro l’Europa unita, contro l’Occidente: l’astensione dei partiti di governo che col loro voto buttano una ulteriore secchiata di acqua gelida italiana sulla massima istituzione europea. Quel voto ha il triste significato di volersi distinguere dall’Europa e di non voler dialogare all’interno dell’Europa. È un voto ideologico, populista, antipolitico ed antidemocratico. Stiamo facendo clamorosi e pericolosi passi indietro a prescindere dal merito della situazione venezuelana, che certamente non si potrà risolvere con l’accetta trumpiana, ma nemmeno con le titubanze italiane.

La colpa è sempre degli altri

L’allenatore della Juventus, Massimiliano Allegri, ha fatto fatica ad accettare la netta sconfitta subita dalla sua squadra contro l’Atalanta, costata l’eliminazione dalla Coppa Italia. Dopo aver subito il secondo goal ha inscenato una clamorosa protesta, facendone risalire la colpa ad una inesistente svista arbitrale, oltretutto relativa ad un episodio avvenuto precedentemente dall’altra parte del campo: si è tolto il giaccone, lo ha sbattuto per terra e alla fine si è meritato una inevitabile e giusta espulsione. Per fortuna nell’intervista del dopopartita ha fatto ammenda, recuperando un atteggiamento amaramente e formalmente professionale, ammettendo la sconfitta e lasciando perdere timori e preoccupazioni: prima o poi doveva capitare, non si può sempre vincere, meglio così perché siamo costretti a rifare criticamente il punto della situazione.

Cambiamo campo e trasferiamoci in quello economico. Nel quarto trimestre 2018 l’economia ha registrato un calo dello 0,2%. È il peggior risultato degli ultimi cinque anni, cioè dal quarto trimestre 2013, e il secondo trimestre consecutivo di contrazione del Pil dopo il -0,1% del periodo luglio-settembre. Lo ha comunicato l’Istat in base ai dati provvisori. Il Paese entra quindi così in recessione tecnica. In base ai dati trimestrali grezzi, nel 2018 il Pil registra una crescita dell’1%, in netta frenata rispetto all’1,6% del 2017. Corretto per gli effetti di calendario il Pil segna +0,8%. Anche se il dato pienamente confrontabile sarà quello che l’Istituto di statistica renderà noto il primo marzo, l’andamento è negativo e preoccupante.

In conferenza alla Camera, il vicepremier Di Maio ha detto: “I dati Istat testimoniano una cosa fondamentale. Chi era al governo prima di noi ci ha mentito. Non ci ha mai portato fuori dalla crisi. Nonostante la congiuntura difficile, non credo ci sia bisogno di correggere le stime.  Poi si è ulteriormente lasciato andare: “In questo Paese, priorità non è l’immigrazione: milioni di persone aspettano reddito di cittadinanza e quota 100. I dati sull’asta titoli Btp e sul lavoro sono incoraggianti e testimoniano che le balle dette sul decreto dignità erano balle. I cantieri sono aperti, ma bisogna velocizzare il lavoro smantellando parte del codice appalti”.

La reazione del leader (?) grillino è analoga a quella irrazionale e sconclusionata di Allegri di fronte al goal dell’atalantino Zapata. Peccato che la politica non preveda un arbitro col potere di espulsione. Il ragionamento dimaiano è molto semplice: tutta colpa di chi c’era prima che raccontava balle (i dati Istat avevano segno positivo, ma erano balle); noi stiamo giocando bene e vinceremo.

Il mondo economico e quello sindacale hanno reagito con preoccupazione ai dati dell’Istat sul Pil. Il presidente del Consiglio ha invece lanciato messaggi di altro genere. “È un fattore transitorio, anche agli analisti più sprovveduti non sfuggirà che c’è una guerra di dazi Usa-Cina che ci troverà tutti perdenti, guerra che si sta componendo e che incide soprattutto sull’export”, così ha commentato il premier Conte. “È una contrazione che era nell’aria, pronosticata dagli analisti e legata a fattori esterni alla nostra economia. Non c’è ragione di perdere fiducia, c’è molto entusiasmo per il 2019; non temo che la Ue chieda Manovra bis”, così ha aggiunto.

La posizione di Giuseppe Conte ricalca nei toni quella moderata e sbiadita del secondo Allegri davanti ai microfoni. La principale responsabilità viene da fattori esterni, in primis dalla guerra dei dazi. Ma non è il suo amicone Donald Trump ad averla dichiarata? Cerchi di parlargli fuori dai denti e lo convinca a desistere. Il calo del Pil era nell’aria? Allora bisogna cambiare aria, il che equivarrebbe a cambiare politica. Il clima di entusiasmo persiste e non c’è motivo di allarmarsi. Come mai tutti invece, dal Fmi alla Ue, ci guardano con preoccupazione e con parecchi dubbi sul presente e sul futuro. L’Italia andrebbe benissimo se navigasse come la Juventus, che può comunque consolarsi (sic!) perseguendo gli obiettivi prestigiosi del campionato e della coppa campioni. L’Italia può consolarsi solo con le labili speranze che Trump la smetta di fare il buffone, che l’Europa ci sopporti e che i fattori esterni ci lascino in pace. Alla più brutta faremo un Istat grillino che ci manderà via internet messaggi di incoraggiamento.

Il circo senza rete

Per la seconda volta, dopo un penoso e vomitevole tira e molla sulla pelle di decine di disperati, si è trovato in extremis un accordo fra gli Stati europei per accogliere i migranti parcheggiati su una nave, dopo la Diciotti siamo ad una nave gestita da una Ong (la Sea Watch), suddivisi fra ben sette Paesi disposti ad accoglierli pro quota. Il premier italiano Conte si pavoneggia per avere svolto il ruolo del mediatore ed aver ottenuto un risultato di facciata: il governo usa il bastone, ma poi al momento opportuno sa tirare fuori la carota, gioca a fare il duro fino ad un certo punto, poi trova gli accordi per uscire dalle situazioni a dir poco imbarazzanti.

“Missione compiuta! Ancora una volta, grazie all’impegno del governo italiano e alla determinazione del Viminale, l’Europa è stata costretta a intervenire e ad assumersi delle responsabilità”, dice il vice-premier Salvini a proposito della vicenda Sea Watch. “Sei Paesi hanno accettato di accogliere gli immigrati a bordo della Sea Watch, coordinandosi con la Commissione europea. Si tratta di Francia, Portogallo, Germania, Malta, Lussemburgo e Romania” aggiunge Salvini, il quale poi auspica che “venga aperta un’indagine sul comportamento della Ong”.

Perbacco, così si fa, si tiene duro e si ottiene. Cosa? Che l’accoglienza venga comunque garantita anche se gestita ai minimi termini e parcellizzata, che la chiusura dei porti sia una manfrina inutile tanto nessuno viene respinto, che mal comune sia mezzo gaudio anche per l’immigrazione, che un progetto politico continui ad essere di là da venire, che le parole grosse coprano il vuoto dei pensieri piccoli.

Il personaggio più ridicolo, tutto sommato, non è Matteo Salvini, ormai lo conosciamo (tutti i mali, se li conosci, li combatti meglio), ma il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il quale si sta specializzando nel raccogliere i rifiuti organici dei suoi vice-premier e nello smaltirli negli occasionali fornetti inceneritori europei. Se questo vuol dire fare politica e fare Europa…

La prossima volta, in occasione del prossimo carico umano in balia delle onde mediterranee, consiglierei di fare così: ripetere la stessa manfrina in poche ore, contenendola in qualche scambio polemico ormai collaudato; ribadire che è tutto merito del ministro dell’Interno; fare un hip hip urrà agli Stati europei più morbidi; portare in trionfo Giuseppe Conte; augurare lunga vita al governo giallo-verde; scaricare le colpe sulle Ong.

Se non ci fosse comunque di mezzo la vita di tanti migranti, sarebbe il caso di farci sopra quattro risate: il circo Salvini ha i trapezisti per far tenere il fiato sospeso, gli equilibristi per tenere in piedi le situazioni, i domatori di leoni per mostrare coraggio, i prestigiatori per cambiare le carte in tavola, i clown per alleggerire la tensione. Non sarà difficile classificare i governanti attuali in queste categorie. E la rete? Ne siamo sprovvisti, ma…applausi.