I nazistelli in agguato

I gilet gialli hanno mostrato la loro faccia violenta. Un episodio incredibile ha visto un gruppo di essi aggredire il filosofo e accademico francese Finkielkraut, figlio di ebrei polacchi scampati alla Shoah e sopravvissuti alla deportazione ad Auschwitz: «Sporco ebreo, sporco sionista, la Francia è dei francesi, il popolo ti punirà». Non è purtroppo un episodio isolato, ma l’acme di una escalation razzista emersa nelle manifestazioni, che suscita orrore. Bastino le scritte e gli slogan riportati dalle cronache: ”La Francia muore di fame e gli ebrei accendono le luci di Channukkà”; “Macron, sei la puttana degli ebrei!”; “Macron, sei il pupazzo degli ebrei”.

La protesta di piazza o sulla rete può avere motivi seri e partire da rivendicazioni valide, ma, se il suo leitmotiv è la paura e il suo approccio è l’antipolitica, finisce col dare sfogo all’odio, egemonizzato dall’estremismo di destra e infiltrato dall’antisemitismo.   La storia e l’attualità vanno a braccetto: il vizio di far risalire la crisi economica ai poteri forti ed ai complotti demo-pluto-giudaico-massonici è una caratteristica dei regimi e delle ideologie fascisti e nazisti ed in esso stanno cadendo certi movimenti o almeno certe frange di movimenti apparentemente rivoluzionari, ma sostanzialmente reazionari.

Il movimento cinque stelle, non so se per ignoranza, dabbenaggine, ingenuità o convenienza, è caduto nella trappola, lasciandosi irretire dai gilet gialli, ritenendoli un interlocutore interessante: a poco valgono le tardive prese di distanza dalle posizioni più estremiste contenute nel ribellismo francese. Non voglio esagerare affermando che “ogni simile ama il suo simile”: fino a qualche tempo fa ero convinto che il grillismo avesse fatto da spugna democratica rispetto alle incontrollabili spinte protestatarie, garantendo, bene o male, una rappresentanza politica alle istanze popolari esprimentesi al di fuori dei partiti tradizionali. Non ce l’hanno fatta. In parte è loro sfuggita di mano la situazione, in parte la loro pochezza politica li ha costretti più a cavalcare la protesta che a interpretarla e rappresentarla, in parte la piazza, reale o virtuale, finisce col deviare nel segno della violenza.

Le paure hanno una istintiva radice, che, se non trova sbocchi politici adeguati, porta all’odio sociale e financo a quello razziale. Chi semina paura raccoglie odio. Il M5S sta brancolando nel buio e si attacca a tutto ciò che passa il convento della protesta in Italia e all’estero, avendo la presunzione di riuscire a tradurlo nell’innovazione politica. Quando la smania di cambiamento non è accompagnata da un forte senso democratico e non è radicata nella fiducia istituzionale, porta fuori strada laddove, come dice Bernard-Henry Levy, si possono incontrare anche fascistelli e/o nazistelli che aggrediscono uno scrittore francese al grido di “torna a Tel Aviv” e di “noi siamo il popolo”.

Senonché i fascistelli e/o i nazistelli possono anche rappresentare le variabili impazzite di movimenti borderline che trovano consensi di massa. Allora non basta il pur saggio, tempestivo e condivisibile auspicio di Bernard-Henry-Levy alla luce dell’episodio suddetto: «Possa questo scena allucinante polverizzare gli ultimi rimasugli di impunità mediatica di cui godevano i Gilet gialli». In Italia dobbiamo capire di aver messo al governo due forze politiche che, per ignoranza o convinzione o storia o ispirazione, giocano sul terreno minato delle paure fatte odio. La paura fa novanta e l’odio fa novantuno su una ruota dove i numeri della democrazia non escono mai.

I rospi da ingoiare o da baciare

La patata bollente, riguardante la decisione sull’autorizzazione a procedere della magistratura contro Matteo Salvini per reati commessi nella gestione della vicenda “Diciotti”, viene messa elegantemente in mano agli iscritti del M5S. La cosa per i grillini stava diventando troppo scomoda e delicata: dire no voleva dire rinsaldare gli equilibri di governo, ammorbidire i rapporti con la Lega, ma poteva significare scontentare gran parte dell’elettorato pentastellato abituato alla linea giustizialista (soprattutto per gli altri…). Dire sì avrebbe segnato un punto a favore della coerenza e dell’osservanza degli umori della base, ma avrebbe potuto creare problemi all’interno del governo, dopo che il presidente del Consiglio si era schierato politicamente in difesa del ministro degli Interni, addossandosi totalmente la responsabilità delle decisioni in odore di reato.

Durante la trasmissione radiofonica di “tutto il calcio minuto per minuto”, quando un cronista viene interrotto per un evento verificatosi su altro terreno di gioco, il collega interferente, al termine del suo flash, è solito concludere dicendo “linea al collega che stava parlando”.   “Decisione a chi ci vota”: così il M5S ha pensato di scaricare la questione sulle spalle dei grillini frequentatori del web. Al solo pensiero di buttare decisioni così delicate in pasto ad un banale clic, mi si gela il sangue nelle vene. Siamo al metodo del “pollice verso” rovesciato. Se non è populismo questo…Pura follia!

L’esito è quasi scontato. I parlamentari cinquestelle, in commissione ed in aula, si dovranno attenere all’indicazione emergente dalla consultazione informatica, salvo essere probabilmente espulsi dal movimento. Se, come tutto lascia prevedere, il responso sarà un sì all’autorizzazione, i maggiorenti pentastellati di fronte a Salvini allargheranno le braccia e si nasconderanno dietro il dito di un assurdo referendum; se dovesse mai uscire un no, saranno baci e abbracci con Salvini e si potrà tranquillamente procedere a baciare il rospo. A favore del no potrebbe però giocare l’indagine aperta anche su Conte, Di Maio e Toninelli con possibile ripetizione della procedura dell’autorizzazione anche per loro: d’altra parte hanno affermato e scritto di essere stati perfettamente d’accordo con Salvini nella gestione del caso Diciotti. Dire sì al processo per Salvini imporrebbe uguale atteggiamento verso gli altri membri del governo implicati: un tremendo boomerang tattico, una sorta di fuoco amico obbligato.

Confesso di non avere un grosso interesse a vedere Salvini (ed eventualmente i suoi colleghi di governo) sul banco degli imputati; credo non abbia commesso alcun reato, anche perché si è assunto una responsabilità ben maggiore rispetto a quella di violare una norma di legge; ha politicamente e sciaguratamente scelto di violare i principi culturali e umani alla base della nostra civiltà: dove ci sta il più ci sta anche il meno. Il fatto grave è che il presidente Conte lo stia coprendo politicamente: d’altra parte cosa poteva fare? Due burattini servi dello stesso padrone? I cinquestelle non si possono pulire la coscienza mandando Salvini davanti alla magistratura: la loro enorme responsabilità resterà scritta nella storia come un cedimento all’inumana deriva anti-immigrati. L’antipolitica cede alla peggior politica: non può che essere così.

Tatticamente, oltretutto, daranno a Matteo Salvini l’occasione di fare la vittima sull’altare della difesa nazionale e della battaglia per la sicurezza: i grillini ne usciranno comunque con le ossa rotte. La politica, fatta uscire dalla porta, rientra dalla finestra e presenta un conto salato. In tal senso prima o poi verrà anche il turno della Lega. Con gli italiani a fare una triste contabilità ed a coprire le perdite.

Il Presidente rammendatore

Venerdì 15 febbraio, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto al Quirinale l’Ambasciatore di Francia in Italia, Christian Masset, che gli ha consegnato una lettera di Emmanuel Macron di invito a compiere una visita di Stato in Francia. Mattarella ha accettato l’invito. I due si incontreranno dopo la telefonata di “disgelo” avvenuta qualche giorno prima.

Negli ultimi mesi la Francia è stata bersaglio di violenti attacchi da parte di Lega e M5S su migranti, deficit, Tav e chi più ne ha più ne metta, al punto da raggiungere una tensione giunta a livelli di guardia con il ritiro dell’ambasciatore da parte della Francia. I motivi di questi reiterati e scriteriati attacchi sono sostanzialmente due. Innanzitutto il governo italiano, in chiara e netta difficoltà a gestire la contingenza economico-finanziaria e le varie emergenze, tenta di deviare l’attenzione popolare su un altro piano, quello dei rapporti internazionali, solleticando l’orgoglio nazionale contro i nemici storici francesi: a parlar male della Francia il successo è garantito.

In secondo luogo la durezza nei rapporti con la Francia e con la Ue è forse l’unico punto di contatto collaborativo (?) tra i due partner del governo italiano, per i quali non c’è problema o argomento su cui si possa andare d’amore e d’accordo; tutti i giorni scoppiano polemiche e divergenze e quindi non pare vero trovare un piccolo (?) terreno su cui concordare. Le elezioni europee dietro l’angolo accentuano i toni “diversificatori”: Lega e M5S si contendono l’elettorato protestatario a suon di populismo, sovranismo, antipolitica e ostilità all’establishment ed ai poteri forti. Questi ultimi vengono addirittura e demenzialmente fatti coincidere con i membri del Parlamento europeo, rei di smascherare la debolezza e la confusione del governo italiano.

Lega e M5S sono alla ricerca dei loro alleati: per formare un gruppo nel Parlamento europeo sono necessari 7 partiti di 7 paesi diversi. I grillini hanno redatto un manifesto in 10 punti da condividere con le diverse forze politiche europee, che si riconoscono sostanzialmente nell’antipolitica: per ora si tratta dello Zivi Zid (Barriera umana) della Croazia, dello Kukiz’15 della Polonia, del movimento Liike Nyt (Movimento adesso) della Finlandia e di Akkel (Partito dell’agricoltura e allevamento) della Grecia. All’evento di presentazione, Luigi Di Maio accompagnato dai leader dei suddetti partiti ha esordito dichiarando: «Il nostro obiettivo è far stare meglio i cittadini…».

Consentitemi di riportare un piccolo episodio, una delle solite vuote interviste propinate ai fanatici del pallone. Parla il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottiene subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiede il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore risponde: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”. Per tornare a Di Maio ed al suo manifesto, vorrei sapere quale partito politico si proponga apertamente l’obiettivo di far stare “peggio” i cittadini.

La Lega trova i suoi alleati politici in Francia nel Raggruppamento Nazionale di estrema destra capeggiato da Marine Le Pen, nel cosiddetto gruppo di Visegrad (Polacchi, Cechi, Ungheresi e Slovacchi su posizioni euroscettiche, sovraniste e rigide in tema di immigrazione) e con i popolari filo-populisti austriaci di Sebastian Kurtz.

Non c’è che dire, due belle combriccole che puntano ad un’Europa diversa: in parole povere vogliono disfare la Ue. In mezzo a questa bagarre europea scatenata dai partiti italiani più votati e più osannati si muove, con stile e dedizione incomparabili, Sergio Mattarella, il quale cerca correttamente, convintamente e abilmente di toglierci le castagne dal fuoco o meglio di ricucire gli strappi procurati in continuazione da chi ci sta (s)governando. Sono convinto che molti esponenti e leader a livello europeo e mondiale lo chiameranno e gli chiederanno: “Presidente, cosa sta succedendo in Italia?”. Probabilmente lui risponderà: “Non lo so, sono preoccupato, cerco di fare il possibile per tenere la Repubblica unita e sulla strada giusta. Tutti mi applaudono, poi quando si va alle urne…La repubblica italiana non è presidenziale e quindi non posso fare più di tanto, ma ce la sto mettendo tutta”. Auguri Presidente, grazie e buon lavoro!

 

L’ottovolante regionale

Basta avere un minimo di buon senso per capire che un decentramento dei poteri nazionali e la concessione di autonomie locali dovrebbero comportare un miglioramento dei rapporti fra lo stato (inteso nel suo complesso) e i cittadini, nonché un viatico per la razionalizzazione dei poteri e delle funzioni nella gestione della macchina pubblica.

Purtroppo il decentramento regionale ha tradito le aspettative rivelandosi la fucina di ulteriori e impreparate burocrazie, l’allargamento dell’area soggetta ai fenomeni della corruzione in campo politico, l’occasione per creare nuovi centri di potere fini a se stessi, il rischio di infinite diatribe sull’attribuzione delle competenze e delle responsabilità. Quando succede qualche “disastro”, sfido chiunque a capire fin dove arrivino le responsabilità di Comune, Regione e Stato centrale.

La frettolosa spinta autonomistica contenuta nella riforma del titolo quinto della costituzione operata nel 2001, ha creato non poca confusione e incertezza. L’ulteriore riforma costituzionale, che cercava di rimettere un po’ di ordine, è stata bocciata dal referendum popolare del 2016 (è stato buttato il bambino assieme all’acqua sporca).

Adesso per iniziativa di tre regioni, Lombardia, Veneto ed Emilia, pur con differenziazioni ideologiche, politiche e tattiche fra di esse, si sta cercando di raggiungere autonomie regionali rafforzate in conflitto/dialogo con il governo. Non sono entrato nel merito della questione anche perché mantengo tutto il mio scetticismo sul discorso regionale: un’arma a doppio taglio, che fino ad ora ha tagliato solo la chiarezza nei meccanismi di potere ed ha aumentato la burocrazia a danno della competenza e della snellezza procedurale. Le perplessità aumentano nell’ipotesi di una differenziazione di poteri fra regione e regione ad ovvio vantaggio di quelle più sviluppate e progredite.

Politicamente parlando si saldano le tradizionali e velleitarie spinte leghiste (vedi Lombardia e Veneto) con quelle più ragionevoli e moderate della sinistra (vedi Emilia-Romagna) in una sorta di competizione centro- periferia, che non mi suscita interesse e speranza. La questione aggiunge un ulteriore intricato nodo alla fune che lega i partiti dell’attuale governo: da una parte Salvini che, pur avendo operato una scelta decisamente nazionalista, non può rinnegare il passato federalista e non può scontentare i suoi due presidenti di regione, Maroni e Zaia, assai ben piantati a livello elettorale; dall’altra parte il M5S, che assorbe consenso soprattutto nel meridione, che non ha nel suo dna il discorso autonomistico e regionale e che trova non poche difficoltà a sfondare a livello locale (il recente risultato elettorale abruzzese ne è un’ulteriore conferma).

Se la questione è delicata e complicata a livello costituzionale, immaginiamoci cosa può diventare se data in pasto agli intrighi del governo pentastellato: un altro negozio di cristalleria assalito dagli elefanti. A mio giudizio non è il momento di aprire un simile fronte: nella confusione politica che regna sovrana non potrà che spuntare una soluzione sbagliata, una fuga in avanti col freno a mano attaccato. Chi viaggia su una tale automobile si prepari a soffrire tra rischiose accelerate e brusche frenate. Sarà perché io soffro il mal d’auto…

 

I programmi scritti all’osteria

“Sembra facile fare un buon caffè…”, così recitava uno spot pubblicitario di parecchio tempo fa. “Sembra facile governare”, così aggiungo io, istruito al riguardo da mio padre. Egli amava paragonare i faciloni, che promettevano di mettere a posto il Paese con troppa immediatezza e disinvoltura, a coloro che nei ritrovi pubblici si spacciano per miracolosi capaci di tutto: “I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”.

Gli attuali governanti esibiscono i loro gessetti e, sul tavolo di palazzo Chigi o sulle scrivanie ministeriali, tracciano regole, che si rivelano inapplicabili ancor prima che ingiuste e inadeguate. Ma non finisce solo così. I gessetti hanno colori diversi e alla fine il quadro governativo diventa un autentico ginepraio in cui non si capisce più nulla.

Per l’accoglienza degli immigrati v’è chi propaganda la irreversibile chiusura dei porti, spacciando il nervoso ed esilarante “cattivismo”, dietro cui peraltro si cela un vomitevole ritorno di razzismo, per radicale soluzione dei mali; nello stesso governo v’è chi propende per un relativo e strumentale buonismo da sbattere polemicamente in faccia all’Unione europea, rea di menefreghismo inguaribile. Sul discorso sicurezza, davanti ad una notevole levata di scudi dei sindaci, che mettono in discussione la negazione della residenza anagrafica agli immigrati senza permesso di soggiorno, v’è chi mette tutto sul piano del pedissequo rispetto della legge e rispedisce al mittente le perplessità dei pur autorevoli primi cittadini; nello stesso governo però v’è chi accetterebbe di sedersi attorno ad un tavolo per discutere l’applicazione del decreto sicurezza in modo da evitare la violazione dei principi costituzionali e dei diritti intoccabili della persona umana. Due anime politiche in un corpo solo governativo? Si poteva immaginare, ma la realtà sta andando ben oltre l’immaginazione, dimostrando che, se è problematica sempre e comunque l’applicazione dei contratti, figuriamoci quella dei “contratti di governo” (il tavolo su cui è stato frettolosamente scritto il programma con il pezzo di gesso di cui sopra). A intrigare ulteriormente la questione immigrati è sorto il problema delle accuse rivolte dal Tribunale dei ministri a Salvini e per le quali il Senato deve esprimersi dando o meno l’autorizzazione a procedere contro il ministro degli Interni: il presidente del Consiglio si assume la responsabilità politica del caso, ma i grillini sono incerti se lasciare campo alla magistratura o stopparla.

Le cose si complicano ulteriormente se da palazzo Chigi e dai palazzi ministeriali andiamo in Parlamento: si stanno aprendo evidenti crepe nella maggioranza. Ci sono parlamentari che non hanno votato certi provvedimenti e che sono stati espulsi dal M5S: pochi, ma significativi di un malessere esistente e di una prassi disciplinare inaccettabile e inconcludente. Anche chi ha votato le misure del decreto sicurezza comincia ad avere seri ripensamenti sull’onda delle aspre critiche dei sindaci di parecchi e importanti comuni, sull’onda dei rilievi e delle raccomandazioni fatti dal Presidente della Repubblica contestualmente alla firma di promulgazione, sull’onda di un mondo cattolico piuttosto perplesso ed inquieto in materia di immigrazione, sull’onda di un certo fermento elettorale presente nelle file dei grillini restii a nascondersi dietro il decisionismo leghista (vedi recenti risultati elettorali in Abruzzo).

La politica è complessa, ma questa volta mi sembra proprio un autentico casino. Finita (?) la grana della manovra economica con “quel pasticciaccio brutto di governo e parlamento”, spunta la questione dei permessi di soggiorno e delle residenze anagrafiche per gli immigrati, mentre sullo sfondo si stagliano le sagome delle navi zeppe di richiedenti asilo. Ma il gran busillis è rappresentato dalla Tav. Mi sono tolto lo sfizio di andare a vedere come andarono le cose circa centottant’anni fa per la costruzione della prima ferrovia in territorio italiano: la Napoli- Portici. Se avessero dovuto fare tutti i calcoli e vagliare tutti i pro e i contro come si sta facendo per la Tav, in Italia saremmo ancora senza rete ferroviaria. Cosa voglio dire? Prescindo dall’attendibilità e scientificità del lavoro svolto dalla commissione ministeriale, su cui peraltro si sono scatenati dubbi e polemiche. La mia riflessione è molto terra terra: mentre i costi sono relativamente certi e prevedibili, i benefici sono imprevedibili nel tempo e nella loro quantità, ma non per questo trascurabili nella loro portata storica. Se è vero che il bilancio consuntivo di un’azienda è la “sommatoria di opinioni”, figuriamoci un bilancio preventivo di una impresa quale la Tav, linea ferroviaria ad alta velocità fra Torino e Lione, una struttura che dovrebbe agevolare trasporti e collegamenti con vantaggi spalmabili sull’intera realtà socio economica nazionale ed europea. Se poi ci si imbarca nel “benaltrismo” strutturale, valutando se sia meglio ammodernare la rete esistente nelle tratte più difficile e disastrate, non se ne esce più e si rimane imprigionati nel paradosso dell’uovo e della gallina: sarà meglio che nascano prima le ferrovie interne, quelle dei pendolari, o le ferrovie a lungo percorso transnazionale?

Cosa ne capiranno i cittadini?  Io non ci sto capendo niente, sto solo sentendo le sciocche grida di Tizio e Caio. Forse bisogna diventare aristocratici per combattere il populismo: non resta altro da fare che tappare le orecchie, come fece l’astuto Ulisse, agli elettori più ingenui e scombussolati, e fare stringere dal presidente della Repubblica i lacci intorno agli elettori più smagati in modo da evitare loro rischiosi scivolamenti. Ulisse era furbo e ci direbbe ancor oggi: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”. Trovare chi ci possa propinare, in questo momento storico, virtute e conoscenza è un problema difficile. Sicuramente non gli attuali governanti. Probabilmente bisogna avere il coraggio di scendere e scavare nel profondo delle proprie coscienze.

 

 

Chiudere baracca e burattini

Nel 2003 Silvio Berlusconi, insediandosi come Presidente del Consiglio dell’Unione Europea, di fronte al Parlamento di Strasburgo ebbe uno scontro verbale col socialdemocratico tedesco Martin Schulz, invitandolo ironicamente a farsi scritturare come “kapò” in un film sui nazisti. A distanza di otto anni, nel 2011 Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, durante una conferenza stampa risero di Berlusconi, sghignazzando in risposta alla domanda se il premier italiano avesse loro dato rassicurazioni sull’introduzione in Italia delle riforme economiche necessarie per togliersi dal rischio di un default. Ci vollero otto anni alla Unione Europea per accorgersi fino in fondo del disastro in cui Berlusconi aveva portato il nostro Paese. L’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ebbe il coraggio di prendere in mano la situazione e di voltare pagina, dimissionando il cavaliere e formando il governo Monti allo scopo di evitare la caduta italiana nel gorgo economico-finanziario.

Con Giuseppe Conte l’Unione Europea ha impiegato meno tempo a rendersi conto della situazione penosa in cui si trova il nostro Paese. Durante il dibattito all’Europarlamento seguito all’intervento di Giuseppe Conte, il nostro premier è stato letteralmente ridicolizzato, con toni e sfumature diverse, dai rappresentanti di liberali, popolari e socialisti. Il leader dei liberali, Guy Verhofstad, ha dichiarato, riferendosi al Presidente del Consiglio italiano: «Per quanto tempo ancora sarà il burattino mosso da Di Maio e Salvini? Io amo l’Italia, ma oggi mi fa male vedere la degenerazione politica di questo Paese, iniziata 20 anni fa con Berlusconi e peggiorata con questo governo. L’Italia è diventata il fanalino di coda dell’Europa. Un governo odioso verso gli altri stati membri, con Di Maio e Salvini veri capi di questo governo, che ha impedito la unanimità sul Venezuela sotto pressione di Putin. Salvini si è specializzato nel bloccare porti ai migranti, ma blocca anche una riforma europea di Dublino e di una politica dei confini europea. Di Maio sta abusando del suo ufficio incontrando un movimento sì popolare, ma oggi dominato da un gruppo di demolitori che distruggono tutto, guidato da Chalencon, che ha chiesto un colpo di stato militare contro il presidente della Repubblica. Il vostro governo non ha una strategia per la crescita, ma solo una tattica per farsi rieleggere con regali e debiti».

Poi è stata la volta di Manfred Weber, il candidato popolare alla successione di Juncker: «La mancanza della crescita in Italia è una vostra responsabilità, non degli altri, ma del governo italiano. L’Italia è oggi il Paese con il tasso di crescita più basso dell’Ue. Non è un problema solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa, perché parliamo di uno dei nostri motori economici, un paese del G7. Come Ppe pensiamo che sia essenziale avere investimenti nell’Ue, ma vediamo che in Italia c’è un governo che non riesce nemmeno a mettersi d’accordo su un progetto già approvato tra Italia e Francia».

Sul punto dei migranti, Conte si è visto attaccare anche da Udo Bullman, leader dei socialisti: «Non è questa l’Italia che conosciamo, l’Italia che conosciamo è quella di Spinelli. Il vostro governo deve smettere di mostrarci questo viso inumano, sui migranti. Sui migranti sono gli amici di Salvini che non vi aiutano: Orban, Kaczyski e Kurz sono gli amici di Salvini, che non vogliono riformare Dublino».

Al Parlamento europeo ci hanno fatto una nitida fotografia, hanno detto la verità che fa male, anche se farebbe peggio ignorarla e tirare a campare. Le repliche di Salvini e Conte vanno nella direzione di tendere ancor più i rapporti: ormai sono in ballo e devono ballare. Il vice-premier leghista ha risposto: «Che alcuni burocrati europei, complici del disastro di questi anni, si permettano di insultare il presidente del Consiglio, il governo e il popolo italiano è davvero vergognoso: le élite europee contro le scelte dei popoli. Preparate gli scatoloni, il 26 maggio i cittadini finalmente menderanno a casa questa gente». Il premier Conte si è così difeso: «Un capogruppo ha dato del burattino a chi rappresenta il popolo italiano: io non lo sono e non mi sento tale. Sono orgoglioso di interpretare la voglia di cambiamento del popolo italiano e di sintetizzare la linea politica di un governo che non si piega alle lobby. Forse i burattini sono quelli che rispondono a lobby, gruppi di potere e comitati di affari». Effettivamente Guy Verhofstad ha sbagliato il raffronto doveva dargli (solo) della marionetta.

Stiamo toccando il fondo, stanno succedendo cose di una gravità inaudita. Siamo tornati ad essere gli zimbelli d’Europa. Oggi sono talmente sconvolto da non riuscire, a botta calda,  a riflettere in senso politico, perché mi stanno togliendo la dignità. Di fronte a queste figuracce mi vergogno di essere italiano. La ricreazione è finita. Siamo nelle mani di un manipolo di irresponsabili, che giocano a (s)governare l’Italia. Basta! Sono contento che il Parlamento europeo ci abbia spiattellato in faccia la triste realtà. Speriamo serva. Che Sergio Mattarella ci aiuti e che Dio illumini gli elettori italiani per un rapido ravvedimento: forse siamo ancora in tempo. E chissà che a fine maggio gli scatoloni non li riempiano Salvini e Di Maio con buona pace di Giuseppe Conte. Io spero ancora in un rigurgito di lucidità dei miei connazionali.

Silenzio, rientra l’umanità

Sul fine pena di Anna Maria Franzoni si è scatenato lo sciacallaggio mediatico, a cui ha dato involontario impulso l’interessata, affrettandosi a rivendicare la propria innocenza: a un sacrosanto diritto concesso a chi riceve e sconta una condanna ha fatto riscontro la ciarliera e superficiale riapertura del caso con la solita (molto calcistica e poco giudiziaria) contrapposizione fra innocentisti e colpevolisti.  Così come avevo positivamente accolto la notizia della sua ammissione agli arresti domiciliari dopo un periodo di reinserimento sociale in una comunità, ho tirato un respiro di sollievo all’annuncio della definitiva riconquista della libertà da parte di Anna Maria Franzoni, condannata a 16 anni di carcere per l’omicidio del figlioletto Samuele.

Avevo umanamente considerato un autentico capolavoro la sentenza di condanna, in quanto, operando sulle attenuanti, aveva saputo coniugare la colpevolezza con i residui dubbi di infermità mentale, ma soprattutto aveva iscritto quell’episodio in una sorta di limbo cerebrale in cui quella madre aveva potuto sopprimere con inaudita violenza il figlio, probabilmente senza nemmeno accorgersene, spinta all’epilogo di  un dramma psicologico o addirittura sull’onda di una insopprimibile crisi di nervi: una pena piuttosto breve, che forse ha consentito  alla Franzoni di rielaborare l’accaduto, di toglierlo dalla mente se mai c’era entrato e di archiviarlo dalla sua coscienza se mai in qualche modo vi si era depositato  e che le ha concesso un graduale ritorno alla normalità di vita.

Il percorso giudiziario e quello umano meriterebbero grande rispetto. Invece, ecco i soliti mestatori nel torbido, i quali riprendono a discutere di un caso sconvolgente, che chiede alla sua fine solo assoluto silenzio. In questa nostra società è vietato tacere per dare la possibilità di chiacchierare a vanvera. C’è il pietismo di maniera di chi prende le parti del piccolo Samuele: non ha bisogno della nostra pietà, ma del riguardo dovuto alla sua tremenda fine per cui è stata condannata sua madre. Un doppio dramma che ci dovrebbe consigliare di astenerci da ogni e qualsiasi ulteriore speculazione. C’è l’ostinazione di chi non riesce a concepire un gesto omicida di tale violenza a carico di una madre: la vita purtroppo non esclude niente ed è inutile volere chiudere gli occhi. C’è lo spirito vendicativo di chi pensa che la pena sia stata troppo breve e ne chiede quasi un supplemento mediatico. C’è chi non aspetta altro che infangare la giustizia, incapace di affrontare le situazioni. Nei salotti televisivi tutto è facile e serve a ciarlare del più e del meno.

Ricordo una frase detta da Anna Maria Franzoni al marito dopo la scoperta del cadavere del figlio: ne facciamo un altro…Parole che in tutti i casi esprimono follia, che in ogni ipotesi collocano l’accaduto al di fuori delle umane categorie. Dopo una decina d’anni possiamo rientrare nel consesso umano: non pensiamoci più. Sarei portato a fare una carezza di bentornata ad Anna Maria Franzoni, non perché la ritenga innocente sul piano giudiziario, ma perché era uscita obiettivamente, forse senza deliberato consenso, dall’umanità e finalmente vi rientra con riconquistata dignità. Basta e silenzio! Da lei e da tutti.

 

 

Rutti o pernacchie, questo è il problema

È vero che ogni elezione fa storia a sé, come le partite di calcio, è vero che il test abruzzese non era un granché dal punto di vista quantitativo e sul piano del significato politico, tuttavia mentre l’elettorato di centro-destra si allarga e si avvinghia alla Lega di Matteo Salvini, il M5S prende una batosta ragguardevole (200.000 voti in meno rispetto alle politiche dello scorso anno, 24.000 voti in meno rispetto alle regionali del 2014); il centro sinistra regge il colpo anche se il Pd non riesce a frenare l’emorragia parzialmente compensata dall’affermazione delle liste civiche. I dati politici emergenti sono sostanzialmente tre.

La deriva destrorsa aumenta e il relativo elettorato è inequivocabilmente affascinato e guidato dal bullismo leghista e salviniano. La parte più moderata e ragionevole del centro-destra può avere solo un valore aggiuntivo, che potrebbe però diventare decisivo in proiezione nazionale al fine di conquistare una maggioranza assoluta, ipotesi possibile ma piuttosto improbabile al momento. C’è da chiedersi come mai gli elettori di centro-destra sopportino la politica dei due forni di Salvini. A lui l’italiano medio concede tutto, gli sta vendendo l’anima e la coscienza per un piatto di lenticchie pseudo-razziste.

Il M5S pare in caduta libera. Non so se il motivo sia la sudditanza politica alla Lega o l’evidente inadeguatezza governativa: i grillini duri e puri probabilmente sono stanchi del compromesso giornaliero con la vuota e pericolosa sbruffonaggine salviniana; i grillini d’occasione vanno in crisi davanti alle porcherie ed alle follie di una classe dirigente incompetente, ignorante e presuntuosa.

La situazione è in movimento, ma il Partito democratico non riesce a sfruttare gli spazi e rimane sulla difensiva: il suo contropiede non parte e continua a cincischiare a centrocampo. Il dato abruzzese forse dimostra che per il centro-sinistra rimane un certo qual bacino elettorale di riferimento, che non trova nel Pd il perno e la guida. Il messaggio degli elettori abruzzesi è un pressante invito a interrompere le battaglie interne, a cercare collegamenti col territorio, ad esprimere una dirigenza credibile ed autorevole.

Non credo sia ancora giunto il momento per Salvini di passare all’incasso previa rottura del contratto di governo con i pentastellati. Conviene cavalcare la tigre ancora un po’ e ridurre i comprimari del centro-destra a pappagalli berlusconiani che non riescono mai a dire “Eurobello”. Poi, quando la stagione sarà matura, si farà la raccolta definitiva. Attenzione comunque alle sette vite di Silvio Berlusconi: andrei adagio a considerarlo finito ed un certo appeal continua ad averlo almeno sul fronte antigrillino.

Non penso che il M5S sia in grado di riprendersi una certa autonomia e rilanciarsi a livello di protesta: sta cercando disperatamente di farlo, ma comincia ad essere la brutta copia di se stesso. Sul fronte destro regala voti a Salvini: l’elettorato vociomane e triviale finisce col preferire i sonori rutti salviniani alle sorde pernacchie dimaiane. Vivacchieranno fino alle elezioni europee continuando a sbandare per recuperare la strada e portando magari il Paese a sbagliarla su qualche fondamentale problema interno e/o internazionale.

Il Partito democratico è tutto preso dal suo congresso, convocato e svolto inopportunamente in un momento delicato, in vista di una consultazione elettorale europea, che dovrebbe essere l’occasione irripetibile per riprendersi il centro della scena e interpretare una parte importante. Qualche insoddisfatto grillino lo raccoglierà, qualche astensionista spaventato lo recupererà, qualche “maddaleno” pentito lo imbarcherà. Poca roba per dare una svolta o quanto meno per approfittare dei seppur lievi ripensamenti in atto nell’elettorato. L’unico libero pensatore e commentatore politico che merita attenzione è Massimo Cacciari. Alla domanda sui tempi e sui modi del redde rationem del governo giallo-verde ha risposto ponendo il limite di fine 2019 per raccogliere i cocci della crisi economica, della crisi europea, della crisi governativa. Ha però aggiunto a bassa voce: speriamo nel frattempo di non andare a sbattere.

 

La schizofrenia del governante protestatario

Pensavo che la mia protesta fosse forte finché non ho visto la tua con i gilet gialli: è la parafrasi di un noto spot pubblicitario del passato applicato all’attualità politica. Ormai tutti protestano: di motivi ce ne sarebbero a non finire. Un tempo si parlava e si scriveva di “contestazione globale”, ma era un discorso ideologico.

Oggi ritengo che la protesta, più che da obiettive ragioni socio-economiche (disoccupazione, povertà, ingiustizie), venga dalle paure: paura di altre culture, di altri valori religiosi; paura di perdere l’identità nazionale; paura dell’Europa; paura della mescolanza etnica e religiosa e della convivenza pacifica e rispettosa; paura della laicità dello Stato; paura… paura… Siamo paurosi. Ma con la paura non si costruisce. La novità, il futuro ci fanno paura e il passato è stato cancellato. La memoria storica è sempre più corta e affievolita: si dimenticano i lager, gli olocausti, i gulag, le foibe, le lotte per la liberazione, le dittature; si mettono sullo stesso piano oppressori e oppressi, padroni e schiavi, sfruttati e sfruttatori, onesti e mafiosi, politici onesti e disonesti.

Che ci sia chi aizza le paure e cavalca le proteste è storia di sempre, anche perché chi ha paura non cerca tanto chi gli può dare rassicurazione e speranza, ma chi lo istiga ad essere sempre più pauroso e protestatario. Il fatto gravissimo della politica italiana sta nel fatto che queste forze politiche, che intercettano la paura e fomentano la protesta, siano al governo del Paese e adottino lo stesso schema di comportamento. Non c’è niente di strano se un leader politico italiano strizza l’occhio ad una ribelle formazione politica francese. Se questo politico è vice-presidente del Consiglio e ministro del Lavoro, il discorso cambia e diventa schizofrenico. Non è solo una questione di incompatibilità politico-istituzionale, è, come dice Massimo Cacciari, una questione di confusione mentale.

Gli esempi di questa riproposizione in chiave politica dello strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde sono all’ordine del giorno: dopo la bagarre nei rapporti fra Italia e Francia, è scoppiata l’intenzione di azzerare Bankitalia e Consob. I casi sono due: o chi si comporta così ha in testa un progetto rivoluzionario in senso proprio o è un pazzo in senso proprio (e politico). La storia ha visto parecchie volte personaggi populisticamente protestatari occupare le istituzioni governative per poi distruggere il sistema e compiere svolte autoritarie, instaurando veri e propri regimi antidemocratici. Non so se in Italia si possa rischiare anche questo, ma non lo escluderei del tutto.

Il nuovo segretario confederale della Cgil Maurizio Landini durante la manifestazione sindacale indetta per protestare contro le politiche del governo giallo-verde, ha lanciato una pertinente e intelligente provocazione soprattutto ai pentastellati: «Incontrino noi, non chi protesta all’estero». Il discorso non fa una grinza: la smettano di giocare alla protesta, la lascino esprimere a chi ne è o ne dovrebbe essere l’interprete autentico a livello nazionale e lo incontrino nell’ambito delle loro competenze e funzioni istituzionali.

Inquietante è che la strada protestataria fine a se stessa non ha limiti, anzi si autoalimenta continuamente, si deve giornalmente spostare da un argomento all’altro, si deve attaccare a tutto per rimanere a galla sul mare tempestoso dell’antipolitica. Se l’antipolitica la fa l’uomo della strada, col gilet e col giaccone, c’è pur sempre da preoccuparsi, ma non da disperarsi; se invece l’antipolitica la fa il politico investito di responsabilità governative c’è da mettersi le mani nei capelli. Quando potrà mai finire questo assurdo gioco delle parti. O quando la drammaticità dei problemi romperà l’ignobile connubio tra chi li solleva sguaiatamente e chi li dovrebbe affrontare e non lo fa; o quando qualcuno riuscirà a convincere la gente a protestare cum judicio, vale a dire cercando di interloquire con chi ha serie intenzioni di affrontare i problemi. Sarebbe meglio la seconda ipotesi, anche se è purtroppo più realistica la prima. L’importante è che l’equivoco venga sciolto al più presto.

 

Un castigamatti di risulta

La CONSOB, Commissione nazionale per le società e la Borsa, è un’autorità amministrativa indipendente, dotata di autonoma personalità giuridica e piena autonomia, la cui attività è rivolta alla tutela degli investitori, all’efficienza, alla trasparenza e allo sviluppo del mercato mobiliare italiano; la funzione di vigilanza si svolge di concerto con la Banca d’Italia per quanto riguarda l’attività delle banche.

Non so se esistano incompatibilità per la nomina di Paolo Savona a presidente della Consob, non conosco il suo curriculum scientifico e professionale se non per sommi capi e soprattutto in conseguenza dei suoi incroci, ultimamente molto burrascosi, con la politica e il governo, non ho una chiara idea sui compiti istituzionali della Consob se non per i tanti casi in cui viene chiamata in causa e spesso messa sul banco degli imputati.

Mi limito pertanto ad alcune considerazioni di carattere squisitamente politico. Innanzitutto questa nomina ha tutta l’aria di un “contentino”, dopo che Savona era stato opportunamente stoppato da Mattarella per la carica di ministro dell’economia a causa della sua ambigua posizione verso l’Unione europea, dopo che era stato dirottato paradossalmente e provocatoriamente al ministero per gli affari europei, dopo non aver certo brillato per iniziativa all’interno del governo Conte. I passaggi dall’area politica a quella tecnico-scientifica non sono di per sé negativi, anche se avvengono spesso con troppa disinvoltura. Nel caso in questione è chiarissimo che a Paolo Savona, prima o poi, bisognava dare una ricompensa per aver fatto da testa di ponte durante la formazione piuttosto tribolata del governo giallo-verde. Siamo nella più bieca ritualità tanto bistrattata dal M5S. Provate a immaginare se il partito democratico al governo avesse nominato alla presidenza della Consob Enrico Letta per rimetterlo in pista dopo la sbrigativa ed eccessiva giubilazione governativa. Si sarebbe scatenato il finimondo.

Una seconda considerazione riguarda l’opportunità di questa nomina. Ho voluto richiamare in premessa la funzione autonoma di questo ente nella sua delicatissima opera di vigilanza e controllo. Che a ricoprire l’incarico di presidente sia chiamato un personaggio chiaramente opzionato da alcuni partiti e direttamente spostato da un incarico ministeriale alla Consob non mi sembra il massimo ossequio all’indipendenza di giudizio richiesta alla Commissione. Si tratta di una nomina fatta da chi predica bene “l’antipolitica” e razzola male “la politica”.  Proviamo a pensare quale polemica sarebbe sorta se ad un certo punto il governo Gentiloni avesse preso Pier Carlo Padoan e lo avesse insediato alla Consob.

Un’ultima riflessione maliziosa. Mi sembra un avvertimento fazioso ai cosiddetti poteri forti, tanto osteggiati da questo governo debole: state ben attenti perché c’è un castigamatti in arrivo. D’ora in poi le banche avranno a che fare con noi. Un ulteriore atto conflittuale nel panorama bellicoso del governo Conte: tutto viene fatto contro qualcuno e mai a favore di tutti. Un governo di classe! Non in senso sociale, non in senso stilistico, ma in senso politico: un governo non di maggioranza ma di parte, se non addirittura di partito. Buon lavoro a Paolo Savona!