Le Wanda Osiris del pallone e della politica

Sono due i tormentoni che rovinano il sonno degli italiani: la questione Tav e il caso Icardi. La Torino-Lione rischia di far cadere il governo mandando a casa Conte, Di Maio e Salvini; l’aventino icardiano rischia di rovinare la stagione calcistica dell’Inter mandando a casa Spalletti. La vicenda dell’alta velocità sta portando nel ridicolo il nostro paese, la penosa situazione dell’attaccante sta coprendo di ridicolo una delle più blasonate squadre di calcio.

Esistono analogie fra le due traversie? Molte. Entrambe si giocano al di fuori della loro sede propria: la Tav che fa riferimento ad un trattato internazionale non viene discussa in Parlamento, ma in precari summit tra occasionali esponenti di (non) governo; la posizione di Mauro Icardi non viene affrontata sul campo in base al rendimento del calciatore, ma in assurdi conciliaboli tra Wanda (Osiris) Nara e Giuseppe Marotta neo amministratore delegato dell’Inter. Entrambe si situano nell’ambito delle tifoserie: sì-tav no-tav, sì Icardi no-Icardi. Entrambe tengono banco a livello mediatico: non si può parlare di politica senza fare riferimento all’alta velocità, non si parla di calcio senza chiedersi come andrà a finire la vertenza tra l’Inter e il suo prestigioso e riottoso attaccante. Entrambe si dovrebbero sbloccare o rompere da un momento all’altro, mentre invece tengono tutti da tempo col fiato sospeso. Entrambe vanno alla ricerca di dati confortanti: la differenza costi benefici da una parte, la differenza reti dall’altra. Entrambe comportano grosse cifre che vengono discusse come se si trattasse di noccioline. Entrambe riguardano la presenza dell’Italia in Europa: quella socio-economica e quella calcistica. Entrambe rischiano di deviare l’attenzione dai veri problemi: la tav copre la crisi evidente di un governo inetto e inadeguato, l’assenza di Icardi fa da paravento al comportamento di una squadra che sta fallendo o addirittura ha già fallito gli obiettivi che si era preposti. Entrambe riguardano un contratto: il contratto di governo che prevede una non meglio precisata revisione del progetto ferroviario, il contratto di un calciatore la cui moglie-procuratrice vorrebbe rivedere al rialzo il compenso nonostante il basso profilo da cannoniere del marito. Entrambe sembrano studiate apposta per confondere le idee e si stanno allungando un po’ troppo: tra Salvini e Di Maio non metterci la tav, tra Icardi e Inter non metterci la Wanda. Entrambe sono comunque destinate ad arrecare più danni che vantaggi: penali, ritardi, investimenti a rischio per quanto concerne le lungaggini della infrastruttura ferroviaria; punti persi, occasioni fallite, basse classifiche per la squadra milanese. Entrambe, comunque finiscano, lasceranno uno strascico di polemiche e di cadaveri sul campo.

Le analogie sono tante, infinite e persino inimmaginabili. C’è però una differenza sostanziale: i contendenti a livello Tav affrontano un problema serio come se stessero giocando al pallone; i protagonisti della vicenda Icardi si interessano in fondo di un gioco come se fosse una cosa seria. La serietà e il gioco non vanno di pari passo, ma si incrociano e in mezzo restano schiacciati, in un modo o nell’altro, i tifosi della politica e del calcio. Alla fine tutti insieme appassionatamente nel pallone.

 

La quiete della giustizia e la tempesta della vendetta

La celebrazione della festa della donna ha coinciso giustamente con manifestazioni all’insegna della protesta contro tutte le violenze alle donne, in particolare contro il fenomeno dilagante del femminicidio. Dopo la protesta dovrebbero venire l’azione culturale, politica e sociale per combattere veramente una enorme piaga. Ha fatto impressione la confessione delle violenze subite da una giovane donna a livello di induzione e sfruttamento della prostituzione, fatta al Quirinale durante la opportuna e incisiva cerimonia tenutasi nella giornata dell’08 marzo.

Penso si possa fare molto di più a tutti i livelli in difesa dei diritti e dell’incolumità delle donne. C’è un percorso educativo da battere a livello famigliare, scolastico e da tutte le istituzioni pubbliche e private impegnate in questo campo. C’è un discorso di sensibilizzazione e solidarietà sociale da mettere in atto quotidianamente: dal condominio al quartiere, dal negozio al teatro, dalla strada ai locali pubblici. C’è un’azione di polizia di prevenzione e repressione sulla quale credo si possa operare con maggiore efficacia e tempestività. Sono convinto che, ad esempio, contro la prostituzione di cui sono vittima le giovani donne immigrate e ingannate, un mondo in cui avvengono violenze e crudeltà inimmaginabili, si possa e si debba intervenire con impegno: la polizia sa o può sapere tutto e quindi non occorre la bacchetta magica per colpire i vari racket operanti sul territorio.

Ognuno deve fare la sua parte. Anche la magistratura ha un compito essenziale a livello indagatorio, a livello delle misure restrittive da adottare nei casi emergenti, a livello del giudizio dei responsabili di fatti di violenza ed omicidio. Arrivati sulla soglia dei tribunali bisognerebbe però avere la prudenza e il rispetto per fermare la protesta ed accettare le sentenze della magistratura anche se a volte possono sembrare inadeguate o inopportune. Mi riferisco al caso dell’uomo di 57 anni, reo confesso dell’omicidio dell’ex compagna, strangolandola a mani nude. Con lei aveva una relazione da circa un mese. In primo grado era stato condannato a 30 anni dal gup di Rimini, per omicidio aggravato da motivi abbietti e futili. Poi la Corte d’appello di Bologna ha dimezzato la pena, riducendola a 16 anni, anche sulla base del fatto che una “tempesta emotiva” determinata dalla gelosia possa attenuare la responsabilità di chi uccide. Questa decisione ha innescato polemiche ed è stata anche contestata da un presidio delle Associazioni della Rete delle Donne davanti all’ingresso della Corte d’appello di Bologna.

L’omicida, in carcere con la pena dimezzata in base alle attenuanti concesse per la sua travolgente gelosia, ha tentato il suicidio ingerendo un’ingente quantità di farmaci ed è ricoverato in gravi condizioni a Ferrara. A dramma si aggiunge dramma: la tempesta emotiva non ha fine e miete vittime a tutto spiano. Probabilmente questa persona si sarà sentita messa alla gogna, denudata in tutte le sue emozioni, in quelle sbagliate del prima ma forse anche in quelle giuste del poi, emarginato irrimediabilmente, trasformato prima in caso clinico e poi in caso da manuale di psichiatria criminale, disperato nel suo impossibile ravvedimento, “mostrizzato” da tutti.  Non condivido la banalizzazione della sentenza di secondo grado anche se posso nutrire dubbi sulla sua fondatezza. Una sentenza deve però giudicare un caso singolo e non deve comunque assumere una valenza generale (per questo esiste la legge): non devono rispuntare dalla finestra il delitto d’onore o quello passionale, ma nemmeno la condanna sommaria di un delitto pur tremendo e sconvolgente. Non mi piace mai il discorso del “punirne uno per educarne cento”.

Nel nostro paese anziché impegnarsi nel proprio compito e nella propria funzione si ha la tendenza di insegnare agli altri quanto dovrebbero fare. Questo non è civismo è solo confusione di ruoli e responsabilità. Il peggior modo per combattere i mali che ci affliggono e forse anche il peggior modo per stare dalla parte delle donne. Vale anche per i femminicidi la regola del “nessuno tocchi Caino”. Vale anche per i responsabili di omicidio di mogli, compagne e fidanzate quanto ha scritto coraggiosamente Agnese Moro richiamandosi al dettato costituzionale e all’insegnamento di suo padre: “Chi ha commesso un errore, anche gravissimo, deve essere fermato, giudicato, aiutato con ogni mezzo e risorsa ad un ripensamento serio; e, se privato della libertà, trattato, comunque, con la dignità e il rispetto che merita ogni persona, buona o cattiva che sia”. Sono vicino alle donne, alle loro avanguardie difensive, alla rete delle loro associazioni, ai loro drammi umani e sociali, sono un femminista convintissimo (mi sento anch’io parte lesa di fronte alle violenze perpetrate contro le donne) , mi fa vomito ogni e qualsiasi maschilismo (diretto o indiretto, di azione o di opinione). Sono però d’accordo con Agnese Moro e. se ci riflettono sono convinto che lo saranno anche le donne pur alla sacrosanta ricerca di quell’approdo difensivo da ottenere non per gentile concessione ma con pieno diritto.

 

L’allenatore espiatorio

Quando rotola la testa di un allenatore di calcio mi corre un brivido nella schiena (si fa per dire…): paga per tutti un imputato di lusso.  È successo ad Eusebio Di Francesco trainer della Roma, che ha pagato anche per giocatori superpagati incapaci di insaccare un pallone a porta vuota. Era successo a Gian Piero Ventura dopo che i bomber (?) della nazionale in due partite non erano riusciti a combinare niente contro la Svezia. Vedo continuamente calciatori da ingaggi stratosferici commettere errori da campetti oratoriali: per loro pagano gli allenatori. Intendiamoci, anche questi ultimi non sono certo dei martiri, hanno portafogli gonfi e stipendi garantiti, ma comunque rischiano per conto altrui e non ha senso (vorrei sapere cosa ha senso nel mondo del calcio…).

Ed a proposito di allenatori poco fortunati ne voglio citare uno del Parma di tanti anni fa (non chiedetemi i periodi e le date perché non li ricordo e poi, parliamoci chiaro, che importanza hanno?), un certo Canforini, tecnico che dalle formazioni giovanili era approdato alla prima squadra. Le cose obiettivamente non andavano bene, la squadra era indiscutibilmente in crisi e – succedeva purtroppo anche allora – scattò la contestazione dei tifosi. Al termine dell’incontro, finito molto male per il Parma, l’allenatore Canforini fu accolto all’uscita dagli spogliatoi da una pioggia di sputi. Mio padre lo imparò il giorno successivo dalle cronache dei giornali, perché evitava scrupolosamente i dopo-partita più o meno caldi. Ne rimase seriamente turbato dal punto di vista umano e reagì, alla sua maniera, dicendomi: “E vót che mi, parchè al Pärma l’à pèrs, spuda adòs a un òmm, a l’alenadór? Mo lu ‘l fa al so mestér cme mi fagh al mèj. Sarìss cme dir che se mi a m’ ven mäl ‘na camra al padrón ‘d ca’ al me dovrìss spudär adòs! Al m’la farà rifär, al me tgnirà zò un po’ ‘d sòld, mo basta acsì.”

In effetti devo aggiungere che mio padre esercitava il mestiere di imbianchino e che quegli sputi se li era sentiti addosso. Non poteva concepire un’offesa del genere, soprattutto in conseguenza di un fatto normalissimo anche se spiacevole: perdere una partita di calcio. E continuò dicendo: “Bizòggna ésor stuppid bombén, a ne s’ pól miga där dil cozi compagni.” È una delle cose dette da mio padre che mi è rimasta più impressa. Peccato che allo sfortunato Canforini non bastò ad evitare l’esonero, ma fu sufficiente, senza saperlo, ad avere la solidarietà di un uomo che lavorava e sbagliava né più né meno come lui. Non so come proseguì la carriera di Canforini, se tornò ad allenare le giovanili, se cambiò squadra, se cambiò mestiere, se cambiò città, ma continuò ad avere tutta la mia “guidata ed ispirata” solidarietà.

Tornando al ben più pagato e collaudato Di Francesco, che per fortuna non è stato sputacchiato, ho appreso con un certo stupore del suo esonero oltretutto a pochi mesi dalla fine del campionato, ma mi ha ancor più stupito che abbia accettato di sostituirlo Claudio Ranieri, una professionista molto serio non certo alla ricerca di un incarico purchessia. Nella mia ingenuità etica non accetterei mai di sostituire un collega esonerato in corso d’opera, ma io sono uomo d’altri tempi e non sono un allenatore di calcio. Temo però che sulle regole etiche prevalga sempre il portafoglio. Speriamo almeno che Ranieri ci risparmi una delle solite cazzate di cui sotto.

Il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottenne subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti, rispose all’intervistatore sul segreto di questo repentino, positivo e “miracoloso” cambiamento: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la vena ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”.

 

 

 

La pancia ideologica

Come al solito i ricordi servono ad interpretare il presente. Durante le animate ed approfondite discussioni con l’indimenticabile amico Walter Torelli, ex-partigiano e uomo di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta constatavamo come alla politica stesse sfuggendo l’anima: se ne stavano andando i valori e rischiava di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restava che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti: dopo il craxismo, che aveva intaccato le radici etiche della democrazia, venne il berlusconismo a rivoltare il sistema creando un vero e proprio regime, da cui siamo stati e siamo tuttora condizionati.

La caduta delle ideologie, più o meno contestuale alla caduta del muro di Berlino, avrebbe dovuto liberare la politica dalla zavorra degli schematismi per lanciarla sul pragmatismo della soluzione ai problemi concreti. Ebbene il post-ideologismo ci ha regalato invece una politica affaristica, sempre più compromessa col sistema economico, sempre più lontana dai cittadini e sempre più avviata sul terreno scivoloso e melmoso della corruzione. E allora per reazione ecco rispuntare le ideologie con tutto il peggio che le connotava: i risorgenti populismi e sovranismi altro non sono che un revival dei catastrofici nazionalismi, riproposti in chiave moderna ma sostanzialmente analoga alle disastrose avventure del novecento.

Fin qui il gioco è talmente scoperto da essere facilmente snidato e decisamente combattuto. Esiste però una riproposizione assai più subdola e pericolosa, che sta connotando la prassi governativa italiana: si va avanti a suon di scelte ideologiche ed elettoralistiche. Le questioni fondamentali, sollevate in questo anno dal governo giallo-verde all’insegna di un assurdo contratto del cambiamento, vengono affrontate in senso squisitamente ideologico, con la politica (il parlamento) mandata in vacanza, con i partiti (M5S e Lega) ridotti a penosi contenitori mediatici, con leadership impreparate e catapultate sulla scena ad improvvisare risposte alle paure strumentalmente gonfiate, con l’opposizione derisa, colpevolizzata   e costretta a recitare la sua parte bivaccando “nell’aula sorda e grigia” di fascistica memoria. .

Prendo i quattro esempi più emblematici. Parto dal provvedimento sulla legittima difesa: siamo al passaggio dal concetto di ordine a tutti i costi, garantito dallo stato poliziesco, a quello della difesa personale garantita dall’individuo poliziotto e giudice per se stesso. E cosa è la concessione del reddito di cittadinanza se non l’edizione riveduta e scorretta di un assistenzialismo di regime, che nulla ha da spartire con la repubblica fondata sul lavoro. E che dire della pensione anticipata falsamente regalata nel contesto di una illusoria politica occupazionale dirigista e burocratica. Ed eccoci alla Tav: l’analisi dei costi benefici non serve per arrivare ad una decisione di sviluppo compatibile, ma si parte da una demagogica idea, degna del peggior cretinismo ecologico, per cercare il supporto in astrusi e artificiosi calcoli economici.

A questo punto il contratto di governo sta diventando un mix pseudo-ideologico tra destra e sinistra, un compromesso tra visioni contrapposte e per certi versi estremisticamente collegabili. Non si tratta di superamento della tradizionale distinzione politica fra destra e sinistra, si tratta di un polpettone riveduto e scorretto sbattuto in faccia alla gente che della politica è costretta a non capire più niente. Il compromesso terrà? Forse sì, perché “un colpo ideologico qui, un colpo ideologico là” può bastare ad irregimentare ed accontentare un po’ tutti.

 

 

Il PD riammesso nel circo mediatico

Nei giorni scorsi mi è capitato occasionalmente di vedere un quiz televisivo durante il quale tre ragazzine non hanno saputo rispondere in merito al tipo di repubblica vigente nel nostro paese (la domanda poneva l’alternativa fra repubblica presidenziale e parlamentare). Mi sono scandalizzato e in cuor mio sono partite le solite contumelie verso i giovani che non hanno interesse alla politica, così come peraltro la politica ha scarsa attenzione verso di loro.

Ripensandoci con calma credo però che quelle giovani donne non avessero, seppur indirettamente ed involontariamente, tutti i torti. È bastata infatti la votazione delle elezioni primarie del partito democratico con la partecipazione di oltre un milione e mezzo di potenziali elettori di questo partito per scatenare un’improvvisa attenzione mediatica verso una formazione politica ritenuta moribonda e quindi snobbata da quasi tutti. Per conquistare la scena politica non servono proposte valide e persone qualificate, basta una bella adunata oceanica sbattuta sul palcoscenico mediatico: il PD è ritornato di moda. Un tempo si diceva (non so se Palmiro Togliatti e/o Enrico Cuccia) che i voti non si contano ma si pesano; oggi si può dire che i consensi, usando una bilancia truccata, non si conquistano con i fatti e nemmeno con le parole ma con la presenza sui media.

“L’Italia è una repubblica fondata sui media”: così potrebbe recitare l’articolo uno della Costituzione riveduta e scorrettissima. Il potere fondamentale a livello istituzionale di conseguenza non è più assegnato dai cittadini al Parlamento, ma dai media ai governanti più capaci di tenere banco in radio, televisione e social (i giornali sono ormai ridotti a superflue cianfrusaglie). Repubblica mediatica quindi a tutti gli effetti.

Dopo questo sfogo pseudo-sociologico, ritorno al partito democratico ed ai risultati delle sue elezioni primarie. È uscito largamente vincente Nicola Zingaretti in un clima di competizione corretta e leale, di ritrovata unità d’intenti, di rispolverato slancio identitario, di agognato protagonismo, di continuità storica e ideale. Se ne sentiva il bisogno in mezzo a tanto frastuono. Il problema sta però in quanto suddetto: per riconquistare la scena ci si deve piegare alle regole mediatiche. Il primo pezzetto di strada in salita è stato fatto, resta da scalare la montagna vera e propria: tornare alla politica, alle istituzioni, ai programmi, ad una leadership credibile e preparata, alla gente non per lisciarle il pelo ma per risvegliarne le coscienze e le menti.

È questo l’augurio che rivolgo al PD di Zingaretti!  Non sono molto interessato alle sottigliezze distintive tra i tre pretendenti alla segreteria (Zingaretti, Martina e Giachetti), non mi occupo delle intenzioni piò o meno separatiste di Matteo Renzi e dei suoi adepti, non auspico il ritorno a casa di chi se ne è voluto andare per il gusto di rompere il coro con assurdi richiami alla foresta, non sono alla ricerca di un partitone moderato e di centro, non rincorro un’anacronistica e stucchevole idea di sinistra fatta apposta per mettere in pace le coscienze dei benpensanti. Mi accontento che qualcuno torni a fare politica e mi aiuti a fare il cittadino. Buon lavoro.

 

Storia, archivio e Vangelo

È nota la tattica di chi, sentendosi aggredito dai nemici che spingono e pressano, apre improvvisamente la porta provocandone la caduta. In un certo senso si sta comportando così anche papa Francesco, giocando d’anticipo verso i suoi contraddittori e verso i contestatori della Chiesa. Per la verità certe porte si aprono a distanza di decenni: meglio tardi che mai. Onore al merito di questo papa.

Infatti in questi giorni, in cui ricorre l’ottantesimo anniversario dell’elezione al soglio pontificio di Eugenio Pacelli, papa Francesco ha annunciato che il vaticano aprirà fra un anno l’archivio segreto relativo al pontificato di Pio XII, il pontefice che fu tale durante la Seconda guerra mondiale ed in seguito alla sua morte, avvenuta nel 1958, fu spesso criticato per non aver mai preso posizioni dure contro l’olocausto, il nazismo e il fascismo.

Ero poco più che bambino, ma ricordo perfettamente lo sconcerto provocato dagli attacchi portati a papa Pacelli anche sull’onda del “Vicario”, opera teatrale di denuncia: dubbi e perplessità rimangono tuttora e non so se e fino a qual punto potranno essere chiariti dalle ricerche d’archivio a partire dal 02 marzo 2020. Probabilmente la verità sta tutta nel dramma astensionista di un papa vittima della sua stessa esperienza e capacità diplomatica: condannare apertamente poteva significare istigare ulteriormente il nazismo alla persecuzione contro gli ebrei e compromettere il rapporto con le masse cattoliche tedesche; inoltre il Vaticano era imprigionato negli opposti estremismi, vale a dire nell’avversione verso il comunismo sovietico che faceva da paradossale contraltare alla minaccia nazista.

Si preferì rimanere sotto traccia per soccorrere in tutti i modi possibili i perseguitati, cercando di ridurre al minimo le conseguenze devastanti della guerra e dell’odio razziale scatenato dal nazifascismo: molte strutture ecclesiali e molti uomini e donne di chiesa si mobilitarono per nascondere ed aiutare gli ebrei a rischio di internamento nei campi di sterminio. Difficile se non impossibile dare un giudizio a posteriori.

Mi viene spontanea comunque una riflessione. Prima della politica e della diplomazia, per la Chiesa dovrebbe sempre venire il dettato evangelico: seguendo l’insegnamento di Gesù (il vostro parlare sia sì-sì no-no) e tutti gli esempi da Lui forniti fino alla Croce nel modo di rapportarsi col potere (non per combatterlo militarmente, ma per condannarne apertamente le ingiustizie), non ci sarebbe spazio per i dubbi sulle scelte da operare. Certo non poteva bastare una semplice parola di condanna, bisognava avere il coraggio di far seguire alle parole i fatti. Il tutto non era facile e soprattutto era estremamente rischioso, ma se uno non vuol rischiare non fa il cristiano. Le prime comunità non scesero a patti col potere romano, non ebbero paura a testimoniare fino alla tortura ed alla morte, non scelsero il male minore, ma il bene a tutti i costi. E perché, di fronte al nazifascismo ed ai suoi incredibili eccidi, molti cristiani di base, preti, suore, laici, ebbero il coraggio di rischiare, mentre le supreme gerarchie nicchiavano, a volta addirittura condividevano certe scelte di regime, tentennavano, tacevano. Mi viene spontaneo pensare a don Giovanni Minzoni che nel 1923, agli inizi dell’era fascista, fu brutalmente assassinato per essersi schierato a difesa dei principi e delle associazioni cattoliche, mentre il Vaticano e i vescovi tendevano al compromesso col fascismo, tentando di lucrarne qualche vantaggio, sacrificando persino don Luigi Sturzo inviato in esilio per non infastidire politicamente il regime.

Sono discorsi enormi: non critiche semplicistiche, ma profonde riflessioni. Papa Francesco, prendendo la decisione di aprire l’archivio, ha detto: «La Chiesa non ha paura della Storia, anzi, la ama e vorrebbe amarla di più e meglio, come la ama Dio. Quindi, con la stessa fiducia dei miei predecessori, apro e affido ai ricercatori questo patrimonio documentario». Uno stupendo atto di disponibilità al confronto sulla verità storica. Mi auguro possa essere anche l’occasione per una revisione auto-critica nel modo di essere della Chiesa, come istituzione e come comunità, alla luce del Vangelo e della storia, durante la quale si sarebbe dovuto e si dovrebbe testimoniare il Vangelo.

Pari sono!…l’egoismo (della lingua) e… il razzismo (del pugnale)

250.000 persone manifestano a Milano contro il razzismo. Beppe Grillo per tutta risposta considera il razzismo un fenomeno esclusivamente mediatico: «Chiunque abbia un minimo di buon senso non vede alcun razzismo, ma soltanto un crescente egoismo sociale.  Cosa sta succedendo?  Sembra che il Paese non voglia confrontarsi con i suoi “veri fantasmi”.  Se fosse una manifestazione contro l’egoismo, contro il mors tua vita mea, ne sarei felice.  Ancora di più, se fosse una manifestazione contro la mafiosità, i favori e le caste…ma stiamo soltanto sognando».

Finalmente Grillo esce dal nascondiglio e ritorna in pista, svelando (o coprendo) le contraddizioni del suo movimento. Che in Italia tiri un’aria razzista lo sentono in molti, a lui conviene negare l’evidenza in quanto di questo clima è direttamente o indirettamente responsabile anche il M5S. La disquisizione fra egoismo sociale e razzismo mi sembra peraltro una questione di lana caprina: sono due facce della stessa medaglia, l’uno è la premessa dell’altro, non so se sia nato o nasca prima l’egoismo sociale o il razzismo. Rigoletto, nella grande opera di Giuseppe Verdi canta con riferimento ad un sicario che gli propone i propri servigi: “Pari siamo!…io la lingua, egli ha il pugnale; l’uomo son io che ride, ei quel che spegne!…”.

Inoltre le difese “benaltriste” del ritrovato leader pentastellato lasciano il tempo che trovano: buttare la palla in tribuna è sintomo di non saper giocare e difendersi alla viva Grillo. Tutte le manifestazioni che non rientrano nella tattica grillina sono da considerarsi inutili, tutti i problemi che mettono i pentastellati con le spalle al muro sono questioni inesistenti o risibili. Uno strano modo di essere democratici a cui il M5S ci sta abituando.

Cosa è se non è egoismo sociale la (non) strategia del governo in materia di immigrazione considerandola un problema per sognatori? Cosa è se non è razzismo il pelo lisciato alla gente sull’opzione della (non) accoglienza agli immigrati? E via discorrendo… Il sindaco di Milano ha risposto con (troppa) eleganza alle farneticazioni grilline: «Da Beppe a Beppe. Caro Grillo, tu che hai fatto capire a tanti cos’è la partecipazione, dovresti sapere che quando centinaia di migliaia di persone vanno in piazza per farsi ascoltare vanno rispettate. Mi spiace che tu, il fondatore della principale forza di Governo, liquidi questa realtà con sprezzo. Forse non ti piace quello che hai visto perché la gente di Milano non ha detto nessun vaffa?». A questa risposta nel metodo, ne avrei aggiunta una nel merito: “Caro Grillo, dovresti sapere che quando si lasciano morire in mare centinaia di persone, quando si tengono centinaia di disperati in alto mare, si calpestano i principi fondamentali della civiltà e della democrazia; quando si predica vento si raccoglie una tempesta razzista più o meno conclamata”.

Don Gino Cicutto, parroco nella Chiesa di San Nicolò e San Marco a Mira, in provincia di Venezia, ha ricevuto una busta con denaro nella cassetta della Caritas parrocchiale. Sulla busta don Gino ha trovato una scritta: «Pro anziani, malati, al freddo o alla fame, italiani da sempre, in primis! Gli stranieri per ultimi!». «Queste parole, ha spiegato don Gino, ripropongono slogan che siamo abituati a sentire, ma non hanno niente a che fare con la fede e la vita cristiana, che considera i più poveri tra i primi, senza guardare il colore della pelle o la provenienza. La persona che ha scritto queste parole deve interrogarsi seriamente sul suo essere cristiano e, se non è d’accordo su ciò che è la vera carità, può passare per la canonica a riprendersi la sua “offerta”; eventualmente può consegnarla a chi la pensa come lui, ma non deporla davanti al Signore».

Forse anche Beppe Grillo dovrebbe fare una capatina nella parrocchia di cui sopra per farsi spiegare qualche cosa di utile, a meno che non sia pronto a ricevere lui quella busta per girarla magari a Matteo Salvini per il tramite di Luigi Di Maio.

 

 

 

La (in)vincibile camorra

È stato arrestato il superboss della camorra Marco Di Lauro, latitante dal 2004, considerato il secondo latitante più pericoloso d’Italia dopo Matteo Messina Denaro, che si nascondeva in un appartamento di via Emilio Scaglione, nel quartiere di Chiaiano, periferia nord di Napoli. Alla vista delle forze dell’ordine non ha opposto resistenza. Quando avvengono fatti del genere mi viene spontaneo tirare un respiro di sollievo: allora non è vero che la criminalità organizzata è invincibile!

Poi, assistendo alla messa in scena del dispiegamento di polizia, carabinieri, guardia di finanza con tanto di sirene spiegate, elicotteri, etc. etc., ed ancor più alla rituale passerella dei dirigenti che raccolgono e distribuiscono elogi ed encomi, mi viene altrettanto spontaneo passare dalla soddisfazione del momento alla riflessione storica. Esco cioè dal coro e mi chiedo: è possibile che ci siano voluti oltre quattordici anni per catturare questo superlatitante camorrista, che, a quanto pare, non era fuggito all’estero, ma si nascondeva nel suo territorio continuando magari a svolgere il suo compito? Possibilissimo!

Tutto ciò cosa significa? Che le forze dell’ordine, al di là del loro encomiabile impegno a rischio della vita, faticano molto ad avere il controllo del territorio; che la gente, al di là del pur apprezzabile applauso liberante del momento, continua ad essere imprigionata in un clima di paura e di omertà; che gli innegabili successi ottenuti nella lotta alla criminalità organizzata sembrano più il frutto episodico di un’azione meritoria ma debole piuttosto che la progressiva conseguenza di una lotta sistematica forte.

Certo, è comodo criticare stando in poltrona. Cosa farei io se vivessi in quel contesto sociale, se fossi a conoscenza di elementi utili alle forze dell’ordine, se fossi minacciato dalla camorra, se mi chiedessero di pagare il pizzo? Non so rispondere. Onestamente non mi sento di fare il martire virtuale. Tuttavia non ho l’impressione a distanza che la lotta alla camorra sia al centro dell’azione dello Stato nella città di Napoli, come ha detto il sindaco Luigi de Magistris. Siamo molto lontani, culturalmente, socialmente, politicamente, istituzionalmente, giudiziariamente, dal poter maramaldeggiare.

Non so quanto serva spettacolarizzare i risultati: forse può dare l’idea della presenza dello Stato, forse può scoraggiare il ricorso alla criminalità ed incoraggiare la reazione ad essa, forse può dare la giusta soddisfazione a chi lavora sodo rischiando la pelle, forse può imprimere un’accelerazione alla presa di coscienza individuale e collettiva. Non vivo a Napoli e non mi rendo conto di tutto ciò. Sono sicuro che la guerra alle mafie non possa essere uno sbrigativo e definitivo redde rationem provocato dalle forze dell’ordine, ma una costante e paziente azione di tutti. Però il mio timore, purtroppo, è che arrestato un superboss se ne faccia un altro e che occorrano altri quattordici anni per arrestarlo.

I pagliacci delle bombe in faccia

Nella mia vita professionale ho potuto constatare come i fallimenti in campo economico-aziendale abbiano ripercussioni enormi nel tempo, nello spazio, nel tessuto economico e sociale: con un fallimento si fa terra bruciata attorno ad una iniziativa, che generalmente non trova più ripresa se non a distanza di anni o addirittura per sempre. Ragion per cui bisognerebbe evitare il fallimento mettendo in campo prudenza e senso di responsabilità.

Mi è venuta spontanea questa riflessione osservando come sia stato sbrigativamente accolto, dai protagonisti e dagli osservatori, il nulla di fatto nel negoziato fra Usa e Nord-Corea culminato nell’incontro di Hanoi tra Trump e Kim Jong-un: un’imbarazzata rottura diplomatica all’insegna del “ci abbiamo provato, è andata male, ci riproveremo”. Si era capito che i colloqui erano squallidamente interpretati da due insulsi bamboccioni e si poteva solo sperare che questi squallidi personaggi, avvezzi a giocare su problematiche ben più grandi del loro cervello, potessero trovare almeno un modus vivendi nella loro vocazione ludica. Si sono invece ritirati con il loro giocattoli ed ognuno è tornato nel suo cortile a giustificarsi: la diplomazia americana dà la colpa alla poca chiarezza su quanto i nord-coreani fossero pronti ad offrire sul piano nucleare in cambio di una richiesta esosa sulla revoca delle sanzioni; diversa la versione del ministro degli Esteri nordcoreano, a detta del quale ci sarebbe stata la disponibilità del suo paese per uno stop permanente a test nucleari e di missili a lungo raggio con la moderata richiesta dell’allentamento parziale e non totale delle sanzioni. Scaramucce dialettiche inutili e stucchevoli.

La triste realtà è che Donald Trump, come ormai ci ha purtroppo abituati, ha precipitato una situazione per tentare di lucrarne i vantaggi: ha tentato il colpaccio per accreditarsi internamente e all’estero come esponente autorevole della diplomazia del pugno duro. Dalla sua parte il paffuto dittatore asiatico si è voluto porre come ragionevole uomo di pace, che ama giocare con i missili per poi concedere di volerli eventualmente riporre in magazzino. Due buffoni a confronto. Come poteva finire? Le loro diplomazie ancora più inconsistenti e incredibili. Cosa potevano ottenere?

Restano sul terreno due mine vaganti. Cina e Russia saranno pronte a sfruttare l’occasione per reinserirsi nei giochi. L’Unione europea continuerà a guardare ed a fare i conti con la propria debolezza internazionale. Quasi quasi mi vien voglia di rimpiangere il clima da guerra fredda, che tutto sommato era basato su personaggi di spicco e di caratura notevole, che spartiva il mondo in aree piuttosto precise, che cercava gli equilibri fra due imperialismi, in un certo senso uguali e contrari. Oggi siamo al tutti contro tutti, alla confusione totale, ai fallimenti progressivi, dai quali molto difficilmente riusciremo a venir fuori, con l’inabilitazione del mondo intero a intraprendere future iniziative di pace.  Trump-Kim: è proprio vero che i clown dovrebbero e vorrebbero farci divertire, ma in realtà incutono tristezza, inquietudine e persino terrore. Chi interagisce con un pagliaccio non sa se aspettarsi uno sgambetto o una torta in faccia. Nel caso di pagliacci con la giubba, la faccia infarinata e tanto potere in mano, c’è da aspettarsi una bomba in faccia.

Il brodo della gente e le rane della politica

Sono culturalmente e mentalmente affezionato alla democrazia rappresentativa e quindi molto scettico verso le illusionistiche manifestazioni di democrazia diretta. Preferisco le seggiolate congressuali di un tempo alle attuali asettiche elezioni primarie. Il mondo cambia e forse io sono fermo. Tuttavia, stando a quel che passa il convento della politica, se il menu mi permette di scegliere tra uno sbrigativo clic in risposta ad una domanda più o meno retorica e un voto per scegliere una leadership personale, non ho dubbi e preferisco una scheda elettorale con tanto di croce su un nome.

In questi giorni si celebra il secondo atto del congresso PD consistente nelle elezioni primarie per la segreteria del partito: non entro nel merito delle candidature, delle relative mozioni programmatiche, delle differenze politiche fra i candidati. Faccio solo qualche riflessione metodologica.

Mi sono chiesto se sia il momento giusto per celebrare un congresso e per divaricare le posizioni interne in vista di una consultazione elettorale molto importante come quella europea. La gente vuole discutere e capire o preferisce andare avanti con la testa nel sacco? Ho la netta impressione che, complici le spettacolari contrapposizioni sui palcoscenici mediatici, gli elettori preferiscano farsi impressionare da chi grida di più o da chi liscia loro il pelo. Se diamo per buona questa ipotesi, era certamente meglio che il PD lasciasse perdere il confronto congressuale rinviandolo a data da destinarsi. Se invece pensiamo che chi fa politica non debba appiattirsi sui gusti della gente lasciandola bollire nel suo brodo, ma debba portare i cittadini dentro la politica, le sue scelte ed i suoi meccanismi, ben venga un congresso quale problematico preludio alle elezioni europee.

Per la seconda riflessione sulla efficacia di un voto a livello degli equilibri interni di un partito, faccio riferimento agli insegnamenti paterni. Durante il lungo conclave per l’elezione del papa che sfociò nell’elezione di Roncalli quale Giovanni XXIII, in caffè dal televisore si poteva assistere al susseguirsi di fumate nere e qualche furbetto non trovò di meglio che chiedere provocatoriamente a mio padre, di cui era noto il legame, parentale e non, con il mondo clericale (un cognato sacerdote, una cognata suora, amici e conoscenti preti etc…): “Ti ch’a te t’ intend s’ in gh’la cävon miga a mèttros d’acordi cme vala a fnir “.  Ci sarebbe stato da rispondere con un trattato di diritto canonico, ma mio padre molto astutamente preferì rispondere alla sua maniera: “I fan cme in Russia, igh dan la scheda dal sì e basta!”.

Sono in atto meccanismi alternativi al tradizionale voto che, a mio giudizio, puzzano di scheda del Sì lontano un miglio. Un voto espresso in libertà con un minimo di coinvolgimento è sempre da preferirsi alle pantomime referendarie informatiche o alle consultazioni di plastica. Meglio un partito dove si litiga, ci si confronta anche aspramente ed esageratamente che un partito dove domina la pace dei sepolcri mediatici più o meno imbiancati. Chi ha orecchie per intendere intenda.