A ognuno il suo mestiere

Parecchio tempo fa mi raccontavano di un incontro informale tra amministratori pubblici della provincia di Parma: un pianto cinese sulle difficoltà finanziarie dei comuni e sulle ristrettezze delle loro comunità. Ad un certo punto uno dei partecipanti sbottò e cominciò ad esprimersi in dialetto, adottando uno spontaneo e simpatico intercalare, scaricando colpe a più non posso sul sistema bancario reo di compromettere sul nascere ogni e qualsiasi intento di ripresa: «Parchè il banchi, ät capi…» diceva a raffica e giù accuse agli istituti di credito. Questo per dire che a volte la politica tende a scaricare sue responsabilità su altri soggetti, ma è pur vero che i detentori del potere finanziario tendono a condizionare scorrettamente la politica, magari dopo avere creato disastri (gli esempi sono numerosi a tutti i livelli, Vaticano compreso). Succede in Europa, in Italia, a Parma.

Ha comunque fatto benissimo il presidente Sergio Mattarella a mettere i puntini sulle “i” per quanto concerne i poteri di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario.  Pur firmando la promulgazione della legge istitutiva ha fatto una serie di precisazioni di carattere istituzionale. Le preoccupazioni presidenziali sono sostanzialmente tre. In primo luogo egli scrive: “Occorre evitare il rischio che il ruolo della Commissione finisca con il sovrapporsi – quasi che si trattasse di un organismo ad esse sopra ordinato – all’esercizio dei compiti propri di Banca d’Italia, Consob, Ivass, Covip, Banca Centrale Europea. Ciò urterebbe con il loro carattere di Autorità indipendenti, sancito, da norme dell’ordinamento italiano e da disposizioni dell’Unione Europea, vincolanti sulla base dei relativi trattati”. Attenzione cioè a non creare il controllore dei controllanti in una assurda e pericolosa escalation con effetti devastanti sul mondo bancario e finanziario.

In secondo luogo il Capo dello Stato entra nell’ambito di attività della suddetta Commissione: “Non può passare inosservato che, rispetto a tutte le banche, e anche agli operatori finanziari, questa volta viene, tra l’altro, previsto che la Commissione possa analizzare la gestione degli enti creditizi e delle imprese di investimento. Queste indicazioni, così ampie e generali, non devono poter sfociare in un controllo dell’attività creditizia, sino a coinvolgere le stesse operazioni bancarie, ovvero dell’attività di investimento nelle sue varie forme”. Attenzione cioè a pretendere una sorta di commissariamento delle banche e dell’intero sistema creditizio: siamo in un sistema liberal-democratico e non in un regime dove tutto è controllato dall’alto.

In terzo luogo, relativamente al discorso della separazione fra attività d’inchiesta e quella dell’autorità giudiziaria, Mattarella dichiara: “Il principio di non interferenza e quello di leale collaborazione vanno affermati anche nei rapporti tra inchiesta parlamentare e inchiesta giudiziaria. Come ha più volte chiarito la Corte Costituzionale, l’inchiesta parlamentare non è preclusa su fatti oggetto di indagine giudiziaria, ferma restando la diversità degli scopi perseguiti da ciascuna istituzione espressa con la formula del ‘parallelismo a fini diversi’. L’inchiesta non deve tuttavia influire sul normale corso della giustizia ed è precluso all’organo parlamentare l’accertamento delle modalità di esercizio della funzione giurisdizionale e le relative responsabilità”. Attenzione cioè al voler essere più giudici dei giudici.

Sembrano raccomandazioni molto opportune. Mi viene però spontanea una riflessione: viste le cautele presidenziali, il testo della legge non deve essere molto chiaro e lineare. Allora, il Parlamento dovrebbe cominciare a svolgere bene i suoi compiti (legiferare) prime di fare le pulci alle altre istituzioni e fare d’ogni erba un fascio. Dare addosso alle banche, le quali, intendiamoci bene, non meritano grande comprensione, è uno sfogatoio piuttosto usuale. Con le arie che tirano, politicamente parlando, il rischio è quello di creare un gran polverone elettoralistico (sputtanare le banche, sparando nel mucchio, è un argomento che tira), di non chiarire un bel niente e di creare confusione istituzionale. Forse, tutto sommato, era meglio che Mattarella, prima di firmare, pretendesse alcune modifiche al testo normativo: mi sarei sentito ancor più garantito. Avrà preferito non infierire.

 

Dove credi di andare

L’aspetto inquietante della brexit non è tanto il come riusciranno a concretizzarla, ma il come stanno arrivando alle decisioni della concretizzazione. È un tema sul quale all’inizio mi sono permesso di studiare e di raccogliere autorevoli pareri in un opuscolo che è postato tra i libri di questo sito internet. Successivamente sono andato “nel pallone” e ci sono tutt’ora: non ci sto capendo più niente. In qualche modo chiuderanno la vicenda, ma in ogni caso sarà un danno per la democrazia occidentale e per l’economia europea.

Le forze politiche inglesi sono in confusione; il governo “brexante” non riesce a trovare il bandolo della matassa; l’opinione pubblica è in piena bagarre con il suo montante e tardivo pentimento; la Ue continua a sciorinare accordi puntualmente smentiti dal Parlamento inglese; i media aggiungono polemiche e incertezze ad un quadro già molto ingarbugliato. L’impressione è che non ci si salti fuori. Sembra addirittura che la premier, in ordine alle proprie dimissioni, abbia abbandonato lo scioglilingua del “May dire mai”: avrebbe infatti politicamente offerto su un piatto d’argento (?) la propria testa pur di chiudere una penosa, squalificante e infinita telenovela.

Quello che è stato non torna indietro ed allora meglio guardare avanti e che gli inglesi vadano a farsi fottere. La vicenda dovrebbe però servire da insegnamento: se fa notevole fatica l’Inghilterra ad uscire dalla Ue, immaginiamoci cosa comporterebbe un eventuale uscita italiana. L’Unione europea non è una prigione, ma non è nemmeno un albergo a porte girevoli da cui si può uscire con disinvoltura. Per fortuna le forze politiche italiane hanno smesso di ipotizzare il divorzio dall’Europa, il solo parlarne ci ha creato serie conseguenze sul piano della credibilità internazionale, della stabilita politica e degli andamenti dei mercati finanziari. Continua però un subdolo gioco di alleanze euroscettiche e di proclami revisionisti, che mettono a repentaglio la posizione italiana nelle sue prospettive europee. Speriamo che le prossime elezioni superino queste incertezze e consegnino l’Europa a partiti “euroconvinti”: si tratta di una strada senza ritorno e, quindi, disfiamo le valigie.

Ci sono però due modi di stare in Europa, quello di vivacchiare pontificando su riforme strutturali di là da venire e quello di rimboccarsi le maniche e di lavorare per rafforzare e allargare l’integrazione. La nostra storia, la nostra tradizione, i nostri interessi ci spingono a camminare decisamente sulla strada europea, ad essere convintamente in Europa. Anche mettendo tutto sul piano della realpolitik e dimenticando i discorsi della coesistenza pacifica, del federalismo, dei diritti e dei doveri, resta comunque valida una domanda retorica: dove crediamo di andare da soli? Ma facciamoci un piacere reciproco e smettiamola di scherzare col fuoco prima che qualcuno si stufi delle nostre titubanze e ci sbatta fuori. È vero che a nessuno conviene l’uscita italiana, ma non approfittiamone, perché la pazienza potrebbe avere un limite. Oltre tutto, lo abbiamo già visto, la pazienza del sistema economico è già in bilico. Non andiamo a muovere del freddo per il letto. Sarebbe da irresponsabili! Brexit docet.

 

 

Ignorez la femme

«Come sono considerate le donne in Vaticano?». «Malissimo. Non esistono». Questo un passaggio dell’intervista fatta da Gian Guido Vecchi a Lucetta Scaraffia (docente, storica, giornalista, un’intellettuale a tutto tondo), la quale assieme ad altre dieci collaboratrici si è dimessa per protesta dalla redazione della rivista vaticana “Donne, Chiesa, Mondo”, inserto mensile dell’Osservatore Romano.

Il vaso della sfiducia e delegittimazione ha trovato la goccia che lo ha fatto traboccare: il racconto sulle suore vittime degli abusi di preti. Si tratta di un fenomeno che accade in tutti i continenti al quale si sta reagendo col silenzio da parte vaticana, problema ancor più complicato e drammatico rispetto alla pedofilia: ci sarebbero infatti vescovi e preti che hanno fatto abortire le donne di cui hanno abusato.

Si è venuto a creare un corto circuito tra il quotidiano della Santa Sede ed il gruppo di redattrici dell’inserto dedicato alla problematica presenza femminile a livello religioso e all’interno della Chiesa: un vero e proprio laboratorio intellettuale e interiore impostato su studio, ricerca, dialogo e confronto. Nonostante le aperture del papa, il quale continua a ripetere che “la Chiesa è donna”, si è entrati a gamba tesa per tacitare una voce scomoda. Molto significativo quanto afferma e scrive Lucetta Scaraffia di fronte alle attenzioni papali: «Bello, ma è un modo per trasformarci in una metafora. Vogliamo essere ascoltate, contraddette, discusse come si fa con gli uomini, non diventare metafore. Essere riconosciute come interlocutrici nella nostra diversità. Gettiamo la spugna perché ci sentiamo circondate da un clima di sfiducia e di delegittimazione progressiva, da uno sguardo in cui non avvertiamo stima e credito per continuare la nostra collaborazione».

È inutile girarci intorno: la donna all’interno della Chiesa istituzione e della Chiesa comunità non conta un cavolo. Siamo ancorati ad una visione maschilista profondamente antievangelica. Le sgattaiolanti e tartufesche repliche del nuovo direttore dell’Osservatore Romano, Andrea Mondo, non sfiorano nemmeno la dirompente ed ineludibile questione femminile nel mondo ecclesiale. Resiste la mentalità per cui le suore devono lavare i calzini ai preti, ma in molti casi si va ben oltre: risulta che, dopo la pubblicazione sull’inserto “Donne, Chiesa, Mondo” di un’inchiesta sullo sfruttamento delle religiose, siano arrivati alla redazione moltissimi biglietti di suore, che, senza dire chi erano, scrivevano il loro commovente “grazie”.

«Il mensile ha avuto l’appoggio dei Papi, Benedetto XVI e Francesco, e anche della Segreteria di Stato. Per il resto, dice Lucetta Scaraffia, non ci leggevano, o almeno dicevano di non farlo, di considerarci una lettura per cameriere. Vivono in un mondo maschile nel quale non è concepito che entrino le donne. Non riescono neanche a pensarci, per loro le donne non esistono». Al di là della più che comprensibile ed accettabile reazione emotiva (persino troppo contenuta e rispettosa), credo che la realtà sia proprio quella. Vorrei mettere in evidenza come il pensiero di papa Francesco, peraltro piuttosto altalenante ed espresso col freno a mano tirato riguardo ai problemi riconducibili alla sessualità, rischi di diventare un paravento dietro cui tutti fanno i propri (porci) comodi. Il continuo, stucchevole e formale richiamo alle sue parole finisce con l’essere deresponsabilizzante: il doppio binario, quello papale e quello vaticano (e non solo). Due binari che non si incontrano e, se si incontrano, qualcuno ci lascia, (non solo) religiosamente parlando, le penne: le donne appunto. E pensare che, a mio giudizio, le donne potrebbero, tra l’altro, aiutare la Chiesa ad uscire dalla crisi delle aberrazioni sessuali.

Le sbornie parallele

I giorni precedenti alle elezioni regionali in Basilicata mi è capitato per puro caso di seguire un servizio televisivo (Rainews24), che metteva il dito nella piaga dei problemi lucani (uno dei pochi reportage attenti ai problemi più che alle chiacchiere dei politicanti): ne usciva un quadro sconfortante a livello infrastrutturale, economico, territoriale e sociale. Fra me e me pensai: qui ci sono i presupposti per un trionfo del M5S in nome della protesta verso una politica incapace di sanare le piaghe di una regione dove Cristo (la civiltà) continua a fermarsi, come nel romanzo autobiografico di Carlo Levi confinato a Eboli per il suo antifascismo.

Invece a sorpresa i grillini hanno preso una botta notevole dimezzando i voti rispetto allo scorso anno ed attestandosi in terza posizione, dopo centro-destra e centro-sinistra, con un calante 20%. Allora mi sono detto: vuoi vedere che la sbornia pentastellata si sta smaltendo? Ricordo una simpatica barzellettina di uno storico personaggio di Parma, Stopàj: questi, piuttosto alticcio, sale in autobus e, tonificato dall’alcool, trova il coraggio di dire impietosamente la verità in faccia ad un’altezzosa signora: «Mo sale che lè l’è brutta bombén!». La donna, colta in flagrante, sposta acidamente il discorso e risponde di getto: «E lu l’è imbariägh!». Uno a uno, si direbbe. Ma Stopaj va oltre e non si impressiona ribattendo: «Sì, mo a mi dmán la me pasäda!». Esco dalla metafora, sostituisco ai personaggi della gustosa gag quelli della vicenda politica attuale: all’Italia gli elettori rinfacciano di essere molto brutta; l’Italia si difende come può e risponde: «E vuätor a si imbariägh!». Al che i cittadini elettori potrebbero rispondere, alla luce di quanto sta avvenendo: «Sì, mo a nuätor la s’è drè pasär!».

Si dovrebbe tirare un leggero respiro di sollievo, invece nasce un’altra inquietante domanda: generalmente chi esce da una sbornia, se non è un alcolista incallito, ne resta sconvolto e almeno per un po’ di tempo non ci ricade. Invece gli elettori italiani escono dall’osteria grillina per entrare in quella leghista. Perché? Probabilmente pensano di trovare un vino migliore, invecchiato, e si illudono di portarlo, cioè di non farsi abbindolare ulteriormente.   Passare da una sbornia all’altra è molto pericoloso, in quanto l’etilismo (politico) è dietro l’angolo e allora le cose si complicano ed il ritorno alla sobrietà diventa molto problematico.

A proposito di sbornie, mi sembra che anche gli inglesi stiano rientrando dalla loro bevuta antieuropea, ma è tardi e l’ubriacatura della brexit è irreversibile, salvo clamorose svolte politiche: il ravvedimento è troppo oneroso e l’errore troppo clamoroso. Speriamo non accada così anche agli italiani, che si sono follemente consegnati nelle mani di produttori vitivinicoli da strapazzo. Ci sono rigurgiti di razionalità, ma, come detto, assai confusi e contraddittori. Nel caso della Lucania esistono forti attenuanti: la disperazione può effettivamente portare ad affogare i dispiaceri nell’alcol, ma riprendere un minimo di autocritica lucidità non dovrebbe essere impossibile. Ci spero, per adesso mi accontento. Prima o dopo si capirà che la botte dà il vino che ha e quindi non basta accontentarsi del vinaccio con cui ubriacarsi, ma occorre cercare con pazienza la cantina con il vinello che dona una salutare ebrezza.

Il travaglio resistenziale

A settantacinque anni dall’attentato di via Rasella e dalla successiva strage delle Fosse Ardeatine è impossibile analizzare obiettivamente fatti sconvolgenti, svoltisi in un clima che non si riesce a ricostruire, tanto era drammaticamente complesso e tragicamente segnato. La storia getta la spugna di fronte ad una situazione così estrema. Ho ascoltato e letto ricostruzioni attendibili, ad un certo punto sono stato persino colto da un micro-malore in conseguenza della ricostruzione delle modalità dell’eccidio. Mi sento di fare una sofferta riflessione etica: la guerra spinge l’uomo nella foresta, facendone un essere ben peggiore dell’animale. Quella ignobile guerra è stata l’inesorabile sbocco del nazifascismo.

L’Italia visse doppiamente la catastrofe, trascinata in un duplice e paradossale conflitto con due se non addirittura tre facce. In questo miscuglio di odio la Resistenza cercò coraggiosamente e disperatamente di tenere accesa la fiamma degli ideali riconducibili alle libertà democratiche, anche se in essa confluirono molti e diversi protagonisti difficilmente miscelabili sia dal punto di vista ideologico che dal punto di vista politico e tattico.

L’attentato di via Rasella si colloca drammaticamente in quel tragico crocevia in cui la violenza doveva fronteggiare la violenza, rischiando di oltrepassare i limiti: non so se li oltrepassò, non riesco a giudicare le decisioni di personaggi che puntavano a difendere grandi ideali e non mi sento di censurare il loro comportamento (eccessivo?), in quanto la situazione era complessa e difficile al limite dell’impossibile. Sono portato a capire, con le lacrime agli occhi, i comportamenti di esponenti della Resistenza come Sandro Pertini o Giorgio Amendola e il loro sofferto placet ad una tattica aggressiva nei confronti dell’invasore tedesco e dei suoi alleati italiani.

Quando una tragedia giunge all’ultimo atto non si può pretendere di ripartire dall’inizio. Certo, col senno di poi, sarebbe forse stato meglio confidare negli alleati e collaborare con loro, senza cedimenti alla velleitaria e immatura ricerca di un’autonoma legittimazione popolare per ipotecare la fase del post-liberazione. Ma non è proprio anche in base a questo coinvolgimento di popolo che rinasce la nostra democrazia? Il prezzo pagato per questa azione è stato enorme: il nazismo non aspettava altro che sfogare le sue restanti folli velleità e vomitare fino in fondo la sua bestialità.

Viene la tentazione di chiedersi: cosa ha aggiunto di positivo questo attentato alla guerra di liberazione? Domanda capziosa senza risposta! La brutale decimazione ha creato immediatamente più sconcerto e paura che spirito di ribellione. Quanta sofferenza, quanto sangue, quanta ingiustizia! A chi vagheggia qualche pallida idea pseudo-fascista, a chi confonde storia e revisionismo, a chi impazzisce nel negazionismo, consiglio di fare una capatina al sacrario delle vittime delle Fosse Ardeatine, laddove Sergio Mattarella volle iniziare il suo percorso presidenziale.

Di ritorno dalla toccante visita al sacrario di Redipuglia mio padre si illudeva di convertire tutti al pacifismo, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano scherzare con nuovi impulsi bellicosi. «A chi gh’à vója ‘d fär dil guéri, bizògnariss portärol a Redipuglia: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre. Voglio pensarlo anch’io in riferimento alle Fosse Ardeatine e alla esecrazione del nazifascismo.

Un calcio alla politica

In questo periodo mi viene spontaneo individuare non poche analogie tra le vicende della politica e quelle del calcio.  Già il fatto in sé e per sé la dice lunga sul mio atteggiamento spietatamente critico verso gli andamenti della vita politica attuale e su una certa insofferenza nei confronti del mondo del pallone. Nei giorni scorsi si sono sovrapposti due eventi: uno politico, vale a dire la proclamazione a segretario del partito democratico di Nicola Zingaretti; uno sportivo, vale a dire la vittoria interista nel derby calcistico milanese.

Ebbene cosa c’è di simile non tanto fra i due eventi, ma nelle loro immediate conseguenze? La nuova segreteria del PD sembra aver invertito improvvisamente la curva dei consensi: un partito ritenuto da mesi ormai fuori gioco con l’accompagnamento del ritornello di un centro-sinistra impantanato in una quasi irreversibile crisi di identità e credibilità. Sono state sufficienti le elezioni primarie con il conseguente varo del nuovo assetto dirigenziale per riportare il partito democratico in primo piano a livello mediatico e in ripresa a livello di consensi, due novità fortemente collegate e misurate dai sondaggi (per quello che possono valere e per quello che potranno durare).

La stagione calcistica dell’Inter sembrava avviata ad un disastroso fallimento con eliminazione dalle competizioni europee e dalla coppa Italia nonché con una classifica piuttosto compromessa in campionato. È stato sufficiente la vittoria nello scontro stracittadino col Milan per ringalluzzire immediatamente la tifoseria, previa celebrazione mediatica di un ritrovato quanto striminzito terzo posto nella lotta per un posto nella futura coppa dei campioni.

Se una simile volubilità può (non) essere consentita nel chiacchierone e superficiale mondo dei pallonari, in politica le montagne russe del consenso assumono un carattere di assurdo mutamento di opinione. Auguro all’Inter un brillante piazzamento (è la mia squadra del cuore da sempre, dai tempi cioè della mia infanzia, dall’Inter dei Firmani e degli Angelillo); auguro al PD capitanato da Zingaretti di riprendere il filo del discorso e del collegamento con i cittadini-elettori (è il partito più vicino alla mia storia politica ed alla mia sensibilità socio-culturale). Il discorso però è un altro: possibile che i giudizi si possano ribaltare così in fretta e così facilmente? Se, calcisticamente parlando, domina il fattore “tifoseria” con tutto quel che ne consegue, in politica sembra prevalere il fattore “volubilità” condizionato e determinato dall’impressione del momento.

Approfondisco un attimo il discorso politico: stando all’ultimo sondaggio in circolazione sembra che il PD abbia superato il M5S seppure di un’incollatura. I casi sono tre: o i grillini stanno crollando scombussolati da un’azione di governo a dir poco negativa, oppure i democratici si stanno riprendendo oppure sono possibili e contemporanee tutte due le ipotesi. Che stupisce però è l’improvvisazione dei giudizi e dei comportamenti. Siamo diventati tifosi della politica, non tanto per sbandierare le ideologie del passato, non tanto per urlare le proprie convinzioni, nemmeno per difendere i propri interessi, ma per il gusto di dare un calcio alla politica, trattandola alla stregua di una competizione sportiva. Stiamo ben attenti: buttare in campo monetine, corpi contundenti, fumogeni, frasi razziste, è roba da infantilismo psicologico, che può trovare sbocchi in veri e propri atti criminali; approcciare la politica con la goliardia del cambiamento fine a se stesso o con la smania di cercare soluzioni nelle pattumiere della storia o nelle illusioni da osteria, è roba da criminalità sociale, che può sboccare nella perdita della democrazia. C’è in pallio ben più di una coppa pur prestigiosa che sia, si gioca per il futuro di una nazione, di un continente, del mondo intero.  L’Assistente al Video dell’Arbitro e il Vice Assistente Video dell’arbitro (Var e Avar secondo le sigle inglesi) funzionano fino ad un certo punto sui campi di calcio; nelle decisioni politiche non sono utilizzabili, esiste infatti solo l’assistente della storia, che presenta a posteriori conti molto salati.

Mi dispiace, ma ti chiudo

Il governo italiano si sta rivelando molto stitico nei confronti di radio radicale: aveva in un primo momento azzerato i contributi a questa emittente per poi ridurli a metà, da dieci a cinque milioni annui. Il sostegno statale è concesso in base ad apposita convenzione, che riconosce l’alto valore del servizio pubblico prestato con le dirette parlamentari, con l’attenzione alla vita istituzionale, con lo spazio dedicato alla politica in modo imparziale ed obiettivo, con l’impegno culturale di approfondimento e dibattito sulle problematiche nazionali ed internazionali: un ruolo svolto da anni e riconosciuto da molti (me compreso).

Una volta raggiunto il limite della pensione, oltre ai miei hobby coltivati senza ritegno, mi dedicai anche ad una piccola attività di volontariato in una cooperativa sociale, che avvia al lavoro soggetti svantaggiati: un’esperienza di cui ebbi occasione di parlare ripetutamente con Gian Piero Rubiconi, un caro amico, raffinato uomo di cultura. Lo vedevo interessato a questo mio impegno nel sociale. Non potevo nascondergli le difficoltà economiche di questa iniziativa e spesso gli confidavo anche la scarsa considerazione dell’amministrazione comunale e la mancanza di aiuto che metteva a repentaglio la gestione della cooperativa: un gruppo di ragazzi meravigliosi che nel lavoro in comune provavano a reagire alle loro difficoltà di vario genere. Ricordo che, raccogliendo con grande sensibilità le mie lamentazioni per la latitanza dei pubblici poteri, mi confidò: «Basterebbe poco per darvi una mano… Se tu sapessi quanti soldi si sprecano o si spendono con estrema leggerezza …». Evidentemente faceva riferimento alla sua esperienza di gestione teatrale ed ai suoi trascorsi a livello di rapporti con l’amministrazione comunale.

Ebbene ho imparato che il taglio dei fondi a radio radicale corrisponderebbe al costo di una serata del festival di Sanremo, fiore all’occhiello di mamma Rai. Ma che razza di risparmio è? Allora viene il fondato sospetto che non si tratti di risparmio, ma di censura: mettere il naso dentro al palazzo dà fastidio al palazzo, anche e soprattutto a chi, in nome del nuovismo tanto sbandierato, voleva aprirlo come una scatola di sardine. So che alcuni benpensanti la collegano alla deriva laicista e relativista: perché dare soldi pubblici a chi rompe i coglioni con omosessuali, carcerati, drogati, etc. etc. A loro chiedo: di quanti soldi pubblici usufruisce la Rai per pagare lauti stipendi a gente che non fa altro che distrarre i tele-radio ascoltatori dai veri problemi. Altri ancora osservano ingenuamente (?): ma che fastidio vuoi che dia radio radicale? Ai regimi nuoce tutto ciò che può svegliare l’attenzione e l’interesse della pubblica opinione, stordita dalla grancassa mediatica ossequiente o addirittura sostenitrice.

C’è però un altro aspetto che risulta molto strano: esponenti politici di tutti i partiti esprimono considerazione e solidarietà a questa gloriosa emittente, anche dei partiti dell’attuale governo. E allora come la mettiamo? Chi vuole far tacere questa voce libera? Evidentemente c’è qualcuno che gioca a nascondino: anche questo è tipico di certe metodologie antidemocratiche. Lanciare il sasso e nascondere la mano. Non so come finirà: gli appelli, gli ordini del giorno, le dichiarazioni si sprecano. In molti ne apprezzano gli archivi, autentiche miniere di storia del nostro Paese. Auguro lunga vita a radio radicale, anche perché mi mancherebbe molto la mattiniera rassegna stampa, roba assai diversa dalle petulanti rassegne della Rai e di altre emittenti. Vorrebbero confinarla sul libero mercato, fingendo di non capire che al libero mercato non interessa che gli italiani ascoltino voci libere ed istituzionali, ma che gli italiani consumino la politica come un sorbetto.

 

Garibaldi, la mamma e la Cina

Nei corridoi del Quirinale, durante la visita del presidente cinese, si è verificato un episodio piuttosto inquietante e molto significativo. Un funzionario dell’ambasciata cinese in Italia, di recente nominato capo dell’ufficio stampa della sede diplomatica, ha avuto un casuale incontro con una giornalista del Foglio che era al Quirinale per seguire la conferenza stampa di Mattarella e Xi. Sentito il nome che la giornalista ha dichiarato ad un addetto del Quirinale per accreditarsi, il suddetto funzionario cinese si è rivolto ad essa dicendo per due volte: «La devi smettere di parlare male della Cina». La cronista ha sorriso per sdrammatizzare la spiacevole situazione, ma si è sentita ripetere: «Non devi ridere. La devi smettere di parlare male della Cina». Non è finita lì, perché la giornalista gli ha risposto che il suo lavoro consiste nel raccontare quel che succede e gli ha teso la mano presentandosi e chiedendo al funzionario dell’ambasciata cinese quale fosse il suo nome. Lui ha rifiutato di darle la mano e le ha detto in tono allusivo: «E comunque so benissimo chi sei».

Non so se ci fossero gli estremi per un incidente diplomatico, certamente la cosa non può passare sotto silenzio per carità di Cina. I media, sempre più genuflessi al potere e distratti dall’evidenza mondana dell’evento, hanno dato all’episodio uno spazio tendente a zero: non bisogna disturbare il manovratore. Non voglio santificare Giulia Pompili, la giornalista del Foglio vittima di questo atto intimidatorio; non pretendevo che le autorità italiane facessero andare di traverso agli ospiti cinesi le leccornie offerte tra un palazzo e l’altro; non mi aspettavo che “gli amici dei media”, così li ha chiamati Xi Jinping ringraziandoli dell’accoglienza, sollevassero un polverone; non voglio neppure dare all’episodio un valore assoluto minante la credibilità dello Stato cinese e delle sue avance diplomatiche. La cosa però mi lascia perplesso: di questi improvvisati amici cinesi sarà bene non fidarsi troppo e pensare alla loro noncuranza per i diritti delle persone. Disturba assai la disinvoltura antidemocratica a casa loro, ma che vengano a fare i prepotenti in casa nostra…

La cautela, non usata dall’attuale governo, peraltro messa in campo in sede istituzionale dal solo Presidente Mattarella alla disperata raccolta dell’ennesimo escremento pentastellato, avrebbe dovuto e dovrebbe essere la cifra diplomatica per l’apertura di questo ardito fronte trattativista con la Cina. Cautela nel metodo (preventivo accordo con la Ue) e nel merito (attenzione a non oltrepassare i limiti nelle alleanze occidentali, a non sdoganare sbrigativamente uno Stato invischiato politicamente nella palude comunista anche se agganciato economicamente al treno capitalista, a non svendere alcunché a livello di politica economica per un piatto di succulenti lenticchie a livello commerciale).

Faccio tanta fatica a sopportare i difetti degli alleati, su quelli cinesi non mi sento di stendere un velo di pietoso silenzio. Concludendo non vorrei che in Italia, allo storico divieto di parlare male di Garibaldi e della mamma, si aggiungesse quello di non parlar male di Lega e M5S e soprattutto quello di non parlar male della Cina, che ci è ormai (troppo) vicina.

A banche scoperte

È inutile piangere sul latte versato a meno che non serva per evitare di versarne dell’altro. Nei giorni scorsi il Tribunale Ue ha emesso una sentenza in cui ha dichiarato erronea la decisione della Commissione Ue che aveva considerato improprio l’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi a favore della banca Tercas in quanto aiuto di Stato, con la drammatica ricaduta del fallimento di questa ed altre quattro banche italiane.

È immediatamente partito lo scaricabarile: il commissario Ue alla Concorrenza, Margrethe Vestager, sostiene infatti che sia stata Banca d’Italia a mettere le banche in risoluzione. Fatto sta che venne impedito un intervento finanziario che avrebbe potuto evitare il tracollo di Tercas, di ulteriori quattro banche e la contaminazione a livello sistemico per una crisi che poteva essere gestita in modo pragmatico e circoscritto (parole di Roberto Nicastro, ex commissario che guidò il processo di vendita forzosa delle banche in questione). Dopo il danno, per l’Italia arriva la beffa: avere ragione quando ormai le frittate sono fatte. A tale proposito esiste un noto detto parmigiano:”la ragión la s’dà ai cojón”.

Non ho la competenza e la voglia di approfondire tecnicamente questa vicenda, tento soltanto di trarne una riflessione di ordine politico. L’Unione Europea ha la tendenza ad intervenire a gamba tesa sulle situazioni di difficoltà emergenti in certi Paesi membri: la tecnicalità economica tende ad avere la prevalenza sull’approccio politico. Non si capisce se il fatto sia dovuto allo strapotere della burocrazia dei palazzi europei, all’invadenza dei Paesi forti preoccupati di difendere un esagerato rigorismo a senso unico, alla fragilità dei Paesi deboli ed alla loro incapacità di fare massa critica, ad una certa confusione istituzionale che finisce col creare i presupposti per un lavoro più di scure che di fioretto.

Sarebbe molto interessante ed importante se i governanti italiani, anziché perdersi in inutili scaramucce con i partner europei, operassero una seria ed approfondita analisi di eventuali trattamenti discriminatori o punitivi adottati nei confronti del nostro Paese e si sforzassero di individuare meccanismi compensativi degli errori passati e aggiustamenti procedurali per evitare gli errori futuri. Il tutto senza alcun intento provocatoriamente antieuropeo, ma solo ad onor del vero e per rafforzare la collaborazione, togliendo dal campo ogni e qualsiasi equivoco o rivalsa. Servirebbe a stemperare e chiarire il clima che accompagna le prossime elezioni del Parlamento europeo.

Si dice che un europeista convinto come il ministro Giovanni Marcora non fosse troppo accondiscendente con gli atteggiamenti perbenisti del Nord-Europa e che spesso sbottasse con invettive del tipo: “E io cosa vado a raccontare agli agricoltori italiani?”. Si impuntava e riusciva ad ottenere molto di più rispetto ai balli nel manico degli attuali euroscettici. Quando è ora, è necessario avere il coraggio di puntare i piedi. Certo, bisogna avere credibilità, autorevolezza, serietà per saperlo fare, altrimenti si finisce nel ridicolo. E noi ci stiamo finendo a tutta canna. Al riguardo ho sempre il dubbio atroce che negli armadi italiani si nascondano parecchi scheletri e che, quindi, sia meglio stare zitti e ingoiare i rospi: se è così, chiedo scusa del disturbo alla Ue ed auspico l’apertura degli armadi, da parte di tutti però, costi quel che costi.

 

 

I fanfaroni e le cretinette

I carabinieri stanno indagando su un presunto traffico di influenze illecite per le procedure di realizzazione del nuovo stadio della A.S. Roma calcio, per la costruzione di un albergo all’ex stazione ferroviaria di Trastevere e per la riqualificazione degli ex Mercati generali di Roma Ostiense. Nell’ambito di questa indagine sono state eseguite 4 custodie cautelari, fra le quali una riguardante Marcello De Vito, presidente M5S dell’Assemblea Capitolina in quanto avrebbe favorito il progetto dell’imprenditore Parnasi sullo stadio.

Non mi scandalizzo del fatto in sé, innanzitutto perché occorrerà aspettare che le responsabilità vengano acclarate, provate, giudicate ed eventualmente condannate. Sono sinceramente stanco di questa caccia alle streghe. In secondo luogo non mi sento nemmeno di squalificare il M5S, copiandolo nella generalizzazione strumentale da esso adottata nei confronti degli altri e assimilandolo all’andazzo corruttivo con uno sbrigativo “così fan tutti”. Una cosa è certa: non basta essere iscritti a questo movimento per essere onesti, non bastano i grillini a cambiare volto al modo di fare politica, non basta gridare al lupo per difendersi da esso e non imparare ad ululare.

Mi ha invece irritato, indispettito e schifato la reazione all’accaduto del loro sempre più impettito, gasato e insopportabile leader Luigi Di Maio: «Marcello De Vito è fuori dal Movimento 5 Stelle. Mi assumo la responsabilità di questa decisione come capo politico e l’ho già comunicata ai probiviri. De Vito non lo caccio io, lo caccia la nostra anima, lo cacciano i nostri principi morali, i nostri anticorpi. Ciò che ha sempre distinto il Movimento dagli altri partiti è la reazione di fronte a casi del genere». Non è affatto vero che si siano sempre comportati con questa, peraltro bigotta, tempestività: hanno adottato spesso due pesi e due misure, intervenendo freneticamente nei casi politicamente meno problematici e tergiversando su quelli più imbarazzanti e spiazzanti. Probabilmente Di Maio si è montato la testa e crede di avere carisma sufficiente per fare e disfare: se va avanti così, fra un’espulsione e l’altra, temo si troverà solo soletto a chiedere un piatto di minestra a Salvini, in attesa che finalmente gli elettori facciano giustizia di un fanfarone in doppio petto, sprizzante presunzione e incapacità dai pori della pelle. Espulso De Vito, riconquistata la verginità, risolto il problema della corruzione: tra l’altro proprio nel momento in cui si fa un gran parlare di decreti sblocca-appalti, che potrebbero sveltire le manovre, ma aprire voragini nella correttezza delle procedure (questo non per difendere la imperante burocrazia, ma per significare come i problemi siano complessi al di là delle bacchette magiche grilline e delle accette leghiste).

Devo ammettere che l’altro fanfarone di turno, il leghista Matteo Salvini, a parità di scemenze e cazzate sparate a raffica, riesce ad essere meno antipatico del suo pari grado vice-premier. In contemporanea, ringalluzzito dall’aver incassato il no del Senato all’autorizzazione a procedere nei suoi confronti,  si è lasciato andare a ribadire la sua scontata e prevenuta ostilità nei confronti delle ong (l’occasione è stato il sequestro della nave Mare Jonio), ma, quel che più mi ha infastidito, ha reagito, in modo scriteriato e triviale, all’evento che ha visto un autista di pullman sequestrare i 51 passeggeri, ragazzi in  trasferimento scolastico, per poi incendiare il mezzo, fortunatamente dopo che i ragazzi erano riusciti ad allontanarsi per la prontezza intuitiva di uno di loro e per l’intervento tempestivo dei carabinieri. Il responsabile di questa drammatica avventura sulla strada Paullese a Pontigliato (Mi) è un italiano di origine senegalese, pare con precedenti penali, il quale, dopo aver appiccato il fuoco, avrebbe urlato: «Lo faccio per i migranti, basta morti nel Mediterraneo». Ebbene, il ministro Salvini si è affrettato a buttare ulteriore benzina sul fuoco della paura e del panico, lanciando dubbi sul fatto che questo soggetto potesse guidare un pullman nonostante avesse la fedina penale piuttosto sporca e facendo un clamoroso autogol (chi infatti avrebbe dovuto ritirargli la patente di guida se non uffici ed organi della pubblica amministrazione di cui il ministero degli Interni non è parte marginale). È cioè virtualmente ed irresponsabilmente entrato nel primo bar disponibile ed ha cominciato a parlare davanti ai microfoni ed alle telecamere, sempre pronti a raccogliere gli sfoghi dei politici e sempre sordi ai ragionamenti politici. Non si può stare contemporaneamente al Ministero degli Interni ed al bar: l’ubiquità non è compatibile con la politica. Cosa non si fa per catturare qualche consenso sulle ali dello sgomento collettivo!? Non gli è passato neanche per l’anticamera del cervello di chiedersi se non sia il caso di raffreddare il surriscaldato clima di intolleranza, rancore, conflitto da lui alimentato con comportamenti, che – pur non considerati come reati – proprio perché adottati da un ministro nelle sue pubbliche funzioni, sono ancor più gravi e devastanti.

Alle solite cretinette, ingaggiate dai media (mi scandalizzo della Rai) per rincorrere questi assurdi personaggi e registrare le loro ancor più assurde dichiarazioni, non viene mai l’ispirazione di controbattere qualcosa del tipo: “ma lei non crede che l’atmosfera pesante instaurata sul problema degli immigrati andrebbe un tantino diradata, immettendo raziocinio anziché fomentando paure e chiusure?”. E, per tornare a Di Maio e alle sue espulsioni facili (?), non gli si dovrebbe immediatamente contestare un comportamento a dir poco ondivago e l’illusione di risolvere il problema della corruzione spargendo veleni in casa altrui e facendo pulizie sommarie in casa propria? Niente, silenzio da parte delle cretinette (e dei cretinetti) a cui non si riesce a capire chi abbia dato in mano un microfono per giocare al giornalista. Ai miei tempi i ragazzini giocavano al dottore per autoiniziarsi alla sessualità, oggi i giovani giocano al giornalista per autoiniziarsi a non lavorare seriamente, a non capire niente fin dall’inizio della carriera e per confondere le idee a tutti.