Morire di custodia cautelare

Il comandante dei Carabinieri, il generale Giovanni Nistri, si è rivolto a Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, un giovane morto a Roma il 22 ottobre 2009 mentre era sottoposto a custodia cautelare, dopo essere stato fermato dai carabinieri in quanto era stato visto cedere delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota, perquisito e trovato in possesso di confezioni di hashish (21 grammi), cocaina (tre dosi) e di un medicinale per curare l’epilessia, malattia da cui era affetto. Le ha scritto: «Abbiamo la vostra stessa impazienza che su ogni aspetto della morte di Suo fratello si faccia piena luce e che ci siano infine le condizioni per adottare i conseguenti provvedimenti verso chi ha mancato ai propri doveri e al giuramento di fedeltà. Abbiamo la vostra stessa impazienza perché il vostro lutto ci addolora da persone, cittadini, nel mio caso, mi consenta di aggiungere: da padre. Comprendiamo l’urgenza e la necessità di giustizia, così come lo strazio di dover attendere ancora. Ma gli ulteriori provvedimenti, che certamente saranno presi, non potranno non tenere conto del compiuto accertamento e del grado di colpevolezza di ciascuno».

Se queste parole fossero state scritte dopo pochi giorni dal fatto, sarebbero state perfette, oggi, a distanza di quasi dieci anni, suonano quasi come una beffa. Meglio tardi che mai… Sì, ma al tardi c’è un limite e, nel caso in questione, tale limite è stato ampiamente superato in termini temporali e soprattutto a causa di coperture, depistaggi, contraddizioni e perdite di tempo. Al comprensibile imbarazzo dei superiori doveva fare seguito una loro leale ammissione di responsabilità oggettiva assieme alla disponibilità a ricercare la verità e ad individuare e colpire le responsabilità soggettive. Invece…

Il caso ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica anche a seguito della pubblicazione delle foto dell’autopsia, talmente eloquenti da suonare come una precisa denuncia di maltrattamenti a cui Stefano Cucchi è stato sottoposto alla faccia di tutte le perizie mediche che si sono succedute. Mio padre, quando non si riusciva a trovare una spiegazione plausibile per una morte violenta, mentre le indagini giravano a vuoto e la giustizia pestava l’acqua nel mortaio, era solito sentenziare amaramente: “As veda ch’lè mort parchè i g’an preghé un colp!”. Probabilmente lo avrebbe ripetuto per il caso di Stefano Cucchi, sulla cui morte la verità non è venuta a galla dopo ben dieci anni in una interminabile bagarre di cause giudiziarie.  Tutti hanno capito che non si volevano scoprire certi comportamenti connessi all’arresto e alla detenzione del giovane, cui ha fatto seguito un balletto di ricoveri e di referti ospedalieri: al termine di questa autentica via crucis, Stefano muore. Qualcuno ha il cattivo gusto, oltre che l’impudenza, di ipotizzare la morte per anoressia e tossicodipendenza, mentre la famiglia pubblica alcune foto del giovane scattate in obitorio, nelle quali sono ben visibili vari traumi contusivi (volto tumefatto, un occhio rientrato, la mascella fratturata e la dentatura rovinata) e un evidente stato di denutrizione.

Questo ragazzo ha subito un vero e proprio pestaggio e nessuno si è preoccupato di constatarlo e di curarlo. Può darsi abbia avuto reazioni violente all’arresto, ma i tutori dell’ordine devono avere i nervi a posto e, per nessun motivo al mondo, possono lasciarsi andare a reazioni tali da compromettere la vita dell’arrestato sottoposto alla loro custodia. Carabinieri, polizia penitenziaria, medici dell’ospedale militare: una girandola di accuse finite in una vergognosa pantomima. Forse quanto è successo non si saprà mai fino in fondo. Le indagini, le inchieste, i processi fino ad oggi non hanno cavato un ragno dal buco. Sul più bello (sic) l’arma dei carabinieri viene presa da una sorta di rimorso di coscienza ed esprime il desiderio che venga fatta piena luce anche e soprattutto sugli appartenenti all’arma stessa coinvolti nella vicenda. Ho riletto per sommi capi la cronistoria processuale: mi spiace molto, ma mi sento onestamente offeso, perché si capisce fin troppo bene come tutta la vicenda sia sovrastata dalla cattiva volontà di insabbiare un episodio inquietante e sconvolgente.

Ilaria Cucchi, la sorella meritoriamente impegnata a chiedere giustizia per il fratello, ha reagito in modo esemplare alla lettera ricevuta dal generale Nistri e sopra riportata: «È stata per me un momento emotivamente molto forte. Perché è arrivata dopo anni in cui io e la mia famiglia ci siamo sentiti traditi ed essa è tornata a scaldarmi il cuore, a scacciare il senso di abbandono che ho vissuto in questi nove anni. Oggi finalmente posso dire che l’Arma è con me. Come scrive Nistri, mio fratello è morto, ma ad essere lesa, insieme alla sua vita e a quella della mia famiglia, è stata anche l’Arma e i suoi centomila uomini cui la lettera fa riferimento». Una lezione di educazione civica! Grazie Ilaria!

Europeismo non è vintage

Mi considero un nano della politologia, ma mi permetto di essere d’accordo (quasi sempre) col gigante Massimo Cacciari. Ho introdotto questa metafora perché, durante un recente dibattito televisivo, a cui oltre al suddetto filosofo prestato alla critica politica, hanno partecipato anche l’ex ministro Carlo Calenda ed il giornalista e scrittore Massimo Franco, facendo riferimento alle forze in campo a livello europeo, si è fatta la distinzione tra i sovranisti-nani e gli europeisti-giganti a significare da una parte il velleitario rigurgito nazionalista vocato all’insignificanza e all’emarginazione economica a confronto con gli Stati potenti della terra, dall’altra parte la possibilità di entrare in gioco con una Unione europea più “federalizzata” che marci ad una velocità più spedita rispetto ai numerosi rallentatori e frenatori.

È questa la partita politica, probabilmente epocale, che stiamo vivendo e che avrà una tappa molto importante e delicata alle prossime elezioni europee: la prosecuzione della strada previo rafforzamento dei vincoli in senso federale e a costo di varare un viaggio a due velocità. Per l’Italia la sfida è quindi duplice: non solo rimanere in strada, ma aderire alla velocità rafforzata assieme ai Paesi più forti e convinti del cammino da effettuare.

Il dubbio atroce è se l’Italia, imprigionata nel penoso dualismo Lega-M5S, sia in grado di saltare sul treno ad alta velocità, ammesso e non concesso che passi, o si ripieghi sul trenino del sovranismo. Gli elettori sapranno capire la partita e schierarsi di conseguenza? Temo di no, perché quel poco di dibattito che è in corso rischia di essere fuorviante. I cittadini italiani ed europei devono capire che le emergenze non possono essere affrontate ed avviate a soluzione in una logica autonomistica o, peggio ancora, nazionalistica: il rilancio economico può avvenire solo con un’Europa unita e forte sui mercati; il problema migratorio può essere affrontato solo in un contesto europeo collaborativo e integrato; la sicurezza e la protezione sociale si conquistano in un clima di apertura e solidarietà.

Certo, come sostiene Massimo Cacciari, le istituzioni europee vanno riformate e rafforzate: non può reggere una Unione in cui le decisioni vengono adottate nel Consiglio d’Europa all’unanimità; non esiste un governo europeo con una Commissione costituita col manuale Cencelli in chiave nazionalistica; non è democrazia un Parlamento che gira a vuoto e rimane imprigionato negli schieramenti politici e nelle logiche della contrapposizione fra gli Stati membri. Molti criticano la buro-tecnocrazia europea dei poteri forti. Meno male che esiste una dirigenza tecnica di alto livello professionale ed esperienziale, altrimenti l’Europa sarebbe già finita del tutto. Nella mia modesta esperienza professionale ho sempre visto che i direttori comandano e governano i vari enti, quando i presidenti non contano niente.

Non è quindi il momento di sottilizzare e polemizzare. Turiamoci il naso sulle asfissianti polemiche interne, alziamo lo sguardo, apriamo la mente e il cuore per buttarlo oltre l’ostacolo, che si chiama euroscetticismo, e premiamo chi per storia, vocazione, idee e programmi concede un po’ di credibilità in senso europeista. Potrebbe bastare rileggere la storia degli inizi dell’Europa e farsi guidare da quei protagonisti ricercandone gli epigoni pur limitati e modesti.

La giustizia distratta che può distruggere

Non provo alcun piacere nel sapere che una persona condannata è in carcere a scontare la sua pena, anzi mi prende un senso di sconfitta personale e sociale e una forte angoscia per tutti coloro che sono direttamente coinvolti nella vicenda. Ho un’idea di giustizia riparatrice e non vendicativa.

In questi giorni è venuta però a galla una notizia piuttosto sconvolgente:  Said Mechaquat, che ha confessato di aver ucciso con una coltellata alla gola Stefano Leo nel lungo Po a Torino con un paradossale movente psico-patologico (era felice e per questo l’avrebbe punito), doveva essere in carcere per scontare una pena a cui era stato condannato con sentenza definitiva (un anno e sei mesi per maltrattamenti e lesioni aggravate ai danni della ex compagna), mai eseguita per un ritardo o per un errore materiale. La cancelleria della Corte d’Appello presso cui la condanna era diventata esecutiva avrebbe dovuto trasmettere l’informazione alla Procura ordinaria, che, a sua volta, avrebbe dovuto dare corso all’ordine di carcerazione. La comunicazione non è partita e la carcerazione non è avvenuta.

Il tutto sarebbe da imputare alla mancanza di personale negli uffici giudiziari o comunque ad un disguido di carattere burocratico. Il giudice della Corte d’Appello di Torino ha chiesto scusa alla famiglia Leo non per una manchevolezza della Corte, ma per un disguido successivo all’emanazione della sentenza. Probabilmente il Ministero aprirà un’inchiesta per capire cosa sia successo. Fatto sta che, con ogni probabilità, se le cose avessero funzionato, il potenziale assassino sarebbe stato in carcere e di conseguenza Stefano Leo sarebbe ancora in vita. La storia non si fa con i “se”, ma in questo caso clamoroso non si può evitare di recriminare. È pur vero che la furia omicida si sarebbe potuta scatenare successivamente per colpire altri eventuali soggetti, resta comunque l’ulteriore sgomento per un caso già incredibile e sconvolgente. Piove sul bagnato della disgraziata sorte di Stefano Leo e sulla disperazione dei suoi parenti.

L’errore è purtroppo sempre possibile: la macchina della giustizia non è perfetta e presenta buchi enormi a tutti i livelli e in tutti i sensi. Siamo di fronte ad una delle carenze peggiori della nostra società. Penso che il caso Tortora sia lo spaventoso emblema di questa inquietante realtà. I giudici e tutti gli operatori della giustizia sono uomini e possono sbagliare. Mala giustizia e mala sanità sono però i buchi neri più difficili da accettare, perché toccano direttamente nel vivo della carne umana. Le carenze strutturali ed organizzative sono piuttosto evidenti e indiscutibili, temo però che ad esse si aggiunga una mancanza di etica professionale assai diffusa nella nostra società e che non risparmia gli ospedali e i palazzi di giustizia.

Non voglio scaricare colpe a destra e manca, non chiedo la ricerca del capro espiatorio, non è giusto colpevolizzare intere categorie, non intendo gettare la croce addosso a nessuno. Restando a sanità e giustizia spesso devo ammettere come non sarei personalmente in grado di reggere la responsabilità di un’operazione chirurgica e/o di un processo penale. Alcuni mi rispondono che ci si fa l’abitudine: ho i miei dubbi, anche se forse qualcuno ci fa un po’ troppo l’abitudine. Dobbiamo capire che dal nostro comportamento dipende, più o meno, la vita degli altri: se io svolgo male il mio lavoro, non solo rubo lo stipendio, ma innesco un circuito dannoso che tocca parecchi soggetti e può sfociare anche nel dramma e nella tragedia.

Tornando al discorso della giustizia, in questi giorni il Capo dello Stato, anche nella sua funzione di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, ha messo in guardia i giudici rispetto all’influenza dei social media, strumenti che, se non amministrati con prudenza e discrezione, possono offuscare la credibilità e il prestigio della funzione giudiziaria e li ha richiamati ad un profondo rispetto della deontologia professionale e della sobrietà dei comportamenti. Tutti, dal Ministro all’usciere, trovino la volontà di migliorare la situazione. Per cortesia, non scherziamo col fuoco, anche perché prima o poi può colpire chiunque.

 

La rabbia è tanta, la politica poca

Quante volte il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha suonato l’allarme per il clima sociale rancoroso che sta avvelenando i rapporti fra i cittadini italiani. Questi contrasti configurano talora una vera e propria guerra fra poveri. Un focolaio è esploso nei giorni scorsi a Roma, a Torre Maura, dove si è scatenata la rabbia contro l’arrivo dei rom con manifestazioni volte ad una minacciosa protesta contro il trasferimento di famiglie di etnia rom in un centro di accoglienza sito in un quartiere periferico.

Le immagini televisive hanno documentato un atteggiamento di intolleranza preoccupante, sintomo di un profondo disagio sociale, che, come spesso accade, si sfoga su persone sgradite, ma non per questo responsabili del clima di degrado e di abbandono in cui languono certe periferie. “Quei bastardi devono bruciare” urlava la folla inferocita, che ha dato fuoco ai cassonetti, a una macchina di servizio degli operatori del centro di accoglienza ed ha innescato una guerriglia urbana, direttamente o indirettamente istigata da forze di estrema destra sostenitrici della protesta dei residenti esasperati dalla mancanza di servizi e dal degrado di questa zona abbandonata a se stessa.

Esistono responsabilità per quanto sta accadendo? Certamente da parte degli amministratori locali: potevano almeno dialogare con la popolazione per spiegare quella decisione. Non è facile incontrare queste persone, me ne rendo conto, ma un amministratore deve avere il coraggio di farlo per ascoltare le lamentele, per poi intervenire fin dove possibile e per evitare assurde e penose contrapposizioni frontali tra chi soffre di emarginazione sociale. Invece si fa sfoggio di decisionismo per rimangiarselo immediatamente e procedere al ricollocamento di quel gruppo di rom sballottati da un posto all’altro come si fa con i rifiuti più ingombranti.

Durante la mia esperienza di presidente di quartiere mi capitò di incontrare gli abitanti di un palazzone degradato: un piccolo ghetto. Ne ascoltammo le sacrosante ragioni, anche se non avevamo potere e mezzi di intervento, ma ci facemmo carico di presentare all’amministrazione comunale le istanze di questa povera gente. Volendo, si riesce a dialogare anche con persone piuttosto infuriate: basta presentarsi con umiltà, ammettere le proprie responsabilità e concordare una relativa via d’uscita. Per quanto ricordo fu forse la più bella, seppur difficile, esperienza come operatore pubblico nella vita di un quartiere.

Ci sono anche altre responsabilità: c’è chi politicamente soffia sul fuoco e strumentalizza vergognosamente rabbia e paura; c’è chi avvalora un clima politico generale di egoismo conflittuale e incendiario nelle situazioni più clamorosamente connotate dalla povertà e dal disagio. Ricordo che in quel citato incontro, io, presidente democristiano, ebbi al mio fianco un autorevole e impegnato esponente comunista, che seppe coprirmi le spalle con la sua credibilità dialogante: era il grande e indimenticabile Mario Tommasini, che non si stancava di spiegare e rispiegare il da farsi, accettando anche le più forti critiche al limite dell’insulto. Si fa così: non c’è alternativa. Purtroppo la sinistra ha perso questo potere di rappresentanza e di filtro verso questi gruppi di emarginati. La sinistra non ha più il contatto con le frange del moderno “sottoproletariato” (con tutto il rispetto possibile e immaginabile per i gravi problemi di queste persone) e lo spazio lo stanno coprendo gli estremisti di destra a livello locale e i qualunquisti giallo-verdi a livello nazionale.

Prima o poi anche Virginia Raggi, la sindaca grillina di Roma, dovrà pur rendere conto del suo operato e della sua incapacità di gestire queste situazioni estreme, ma piuttosto diffuse, di marginalità sociale. È comodo pontificare con l’antipolitica, cavalcare la protesta, proporsi come il nuovo che avanza, lasciando indietro gli ultimi della pista a “scancherare” contro i rom, che non c’entrano niente.  Diamoci una mossa prima che sia troppo tardi, perché la democrazia si perde anche così.

Dell’ira mondiale non ci curiamo

Tutte i più autorevoli istituti internazionali con voce in capitolo sostengono che l’Italia sta vivendo una piatta e preoccupante crisi economica, senza prospettive di ripresa, complice la mancanza di guida governativa. A giudicare dalla reazione della nostra compagine ministeriale sembra che questi illustri personaggi stiano prendendo un granchio pazzesco: si va dall’indifferenza delle alzate di spalle ai rimbrotti per l’invadenza, dagli attacchi sclerotici alle pleonastiche rivendicazioni di autonomia. Vale la pena citare per tutte la reazione dimaiana all’impietosa ma attendibile analisi Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico): “Tra il popolo italiano e l’Ocse scelgo il popolo italiano”. Se non è populismo questo…

I casi sono due: o ci sono sparsi per il mondo nemici del governo italiano, che mettono in giro notizie allarmistiche, dati fasulli, giudizi faziosi in modo da sputtanarne l’azione, oppure siamo i più intelligenti del mondo e ci lasciassero vivere in santa pace. “Dell’ira tua non mi curo” grida Turiddu a Santuzza in Cavalleria rusticana; la donna gli stava sbattendo in faccia la realtà e lui voleva negare l’evidenza; Santuzza gli augurò la “mala Pasqua” e sappiamo come andò a finire. Non intendo assimilare le scaramucce fra il governo Conte/Di Maio/ Salvini ed il resto del mondo ad un duello rusticano, ma i toni sono alti e soprattutto vi è la tendenza dei nostri ministri a svaccare le critiche che piovono da tutte le parti.

Se è vero che non si possono pretendere i miracoli da una compagine governativa in pista da nove o dieci mesi, è altrettanto vero che il buon giorno si vede dal mattino. Se è vero che molte responsabilità possono essere ricondotte ai predecessori, non si può giocare continuamente allo scaricabarile. Che stupisce e preoccupa è soprattutto il presuntuoso vuoto pneumatico spacciato per cambiamento epocale. L’oste ha il diritto/dovere di enfatizzare la qualità del proprio vino, ma il bevitore ha la necessità di assaggiare e scegliere senza bisogno di sbronzarsi.  È possibile che tutti dicano fesserie quando suonano l’allarme sull’andamento della nostra economia? È possibile che esista nei confronti del governo italiano una sorta di complotto cosmico? È possibile che l’Italia sia vittima sacrificale dei cosiddetti poteri forti disturbati dal nostrano pentaleghismo?

Certamente qualcuno dei detrattori avrà un po’ di puzza sotto il naso e sarà infastidito dai nuovi inquilini dei palazzi italiani, qualcuno esagererà per rendere meglio l’idea, qualcuno la vorrà far cadere dall’alto: lo ammetto, ma di fronte alle osservazioni critiche non si può sviare il discorso e buttarla in rissa programmatica.

Quando frequentavo la scuola elementare, mio padre, esaminando i miei quaderni, con malcelata soddisfazione, lamentava i giudizi un po’ troppo severi della maestra, frutto del suo vecchio stile di insegnamento e del suo atteggiamento piuttosto severo. Sorridendo si riprometteva di andare a colloquio con la maestra stessa ed ipotizzava simpaticamente di indirizzarle questa bonaria critica: “Sa, signora maestra che lei è un po’ stitica”. Non vi dico le risate di tutta la famiglia (mia madre, mia nonna paterna, mia sorella ben più grande di me) anche perché mio padre si premurava di aggiungere: “A t’ capirè se mi a m’ permetriss äd criticär ‘na méstra”. E giù a ricordare la sua maestra, di cui aveva scoperto la tomba e che lodava con le lacrime agli occhi.

Un bagno di umiltà di questo genere è consigliabile ai nostri attuali governanti: alla severità dei giudicanti non si risponde con le pernacchie dei giudicati. Ci si infila in una deriva che alla fine mette ancor più in cattiva luce i soggetti sul banco degli imputati, butta all’aria il castello difensivo (ammesso che esista), spazza via attenuanti e ravvedimenti. Non resterà che appellarsi alla clemenza della corte, mentre l’economia avrà magari già approntato il patibolo.

 

Menare il can per l’Arcadia

Come noto, si dice che non fa notizia un cane che morde un uomo, ma un uomo che morde un cane. In questi giorni possiamo dire che fa notizia un uomo che perdona un cane. Andiamo con ordine. Due anni fa a Mascalucia, un paese in provincia di Catania, un bambino di 18 mesi è stato improvvisamente aggredito da due cani di proprietà della famiglia, due esemplari di dogo argentino; il bambino, azzannato alla gola da Asia (uno dei due cani di sui sopra), era rimasto ucciso sotto gli occhi della madre, anch’essa ferita nel tentativo di difendere il figlio. Ebbene, quei due cani hanno continuato a vivere e hanno potuto fare un percorso riabilitativo presso l’Associazione Arcadia di Rovereto che si occupa di interventi assistiti con animali: tutto al fine di un loro reinserimento sociale, sfociato, per Asia, nell’adozione presso una famiglia disponibile ad accoglierla previa verifica su affidabilità e sicurezza.

Il presidente di Arcadia considera molto positivamente l’affidamento di questo animale recuperato: «Si dà una seconda opportunità a tutti gli esseri viventi. Questo è un successo non solo dell’associazione, ma della collettività, che si deve sentire tutelata e assistita perché solo in questo modo può essere rispettato il diritto alla vita e alla libertà che troppo spesso viene leso e tolto per superficialità e mancanza di competenza».

Non ho mai avuto eccessiva simpatia per gli animali anche se li ho sempre rispettati. Di fronte a certi inquietanti episodi di aggressione canina non ho mai colpevolizzato i cani, che in fin dei conti seguono il loro naturale istinto, ma i padroni che non sono capaci di far sentire la loro voce. Mi sono detto più volte: “Non ucciderei i cani, ma i loro proprietari che non li addestrano, non li controllano e non li sanno gestire”. Niente da obiettare quindi se si tenta di recuperare un cane protagonista di fatti incresciosi, purché il percorso sia una cosa seria e il reinserimento avvenga con tutte le garanzie e le cautele del caso. Su questo mi permetto di nutrire qualche serio dubbio: come si fa a rieducare, garantendo ad un tempo il benessere degli animali e la sicurezza pubblica? Non sarà per caso la volontà faticosa e inutile di voler drizzare le gambe ai cani? Mi sembra che quanti abitano nelle vicinanze della famiglia affidataria abbiano espresso qualche contrarietà, dettata dalla paura che un simile animale possa tornare ad aggredire e magari ad uccidere un altro bambino.

Il discorso di fondo è però un altro e riguarda i pesi e le misure: quanta comprensione per un cane e quanta poca comprensione per un carcerato e quanta poca fiducia nella possibilità di un suo recupero e reinserimento! Quanta cattiveria verso un uomo responsabile di un grave reato: a marcire in una cella dopo averne buttato via le chiavi! Nessuno ha tanto spirito vendicativo verso un cane ed il suo distratto padrone. Per fortuna quanto all’affidamento non si dovrà fare molta differenza tra coppie etero e omo sessuali: vanno tutte bene purché li sappiano tenere al guinzaglio. Magari questo sarà considerato un atto irriguardoso verso i cani… Si dice che chi non ama gli animali non sappia amare nemmeno gli uomini: preferisco partire dall’amore all’interno del genere umano, poi semmai vengono gli animali.

Mio padre aveva rispetto per gli animali anche se li teneva a debita distanza. Aveva un conto aperto con i cinofili: li riteneva troppo tolleranti. Quando vedeva una persona tanto premurosa e accondiscendente verso il proprio cane non poteva tacere ed esprimeva un certo sano scetticismo: «Aj can i gh läson fär tutt col ch’j n’an vója, a un ragas par molt meno i gh’ dan un s’ciafón…». Oppure, in campo economico, vedendo le cure e le attenzioni riservate a cani e gatti, così sferzava le lamentazioni: «Po’, chi n’en venon miga a dìr cla gh va mäl…».

In materia raccontava due episodi accadutigli. Stava lavorando nell’appartamento di una signora che aveva un cagnolino all’apparenza innocuo. La bestiola approfittando di un attimo di disattenzione di mio padre, intento a dipingere uno zoccoletto, gli si avvicinò quatto quatto e gli diede “’na bocäda in-t-un garlètt”. La padrona di casa venutolo a sapere cominciò la solita menata: «Ma come mai, il mio cane è così buono?». «Al sarà bón, mo al m’à dè ‘na bocäda!». «Secondo me, disse assurdamente quella anziana signora, lei gli avrà fatto un dispetto, magari tempo fa, in stradone dove lo porto spesso…». Mio padre, a quel punto, chiuse il discorso che si stava facendo surreale.  “Adésa a v’ mètt a pòst mi”, pensò fra sé. Ogni volta che quel bel cagnolino osava avvicinarsi gli appioppava un colpetto in testa con il manico del pennello e naturalmente il cane si allontanava abbaiando. La padrona chiedeva: «Ma cosa c’è insomma tra lei e il mio cane?». «Njént siòra, col so can am son spieghè sénsa bizògn d’andär in stradón…». E senza bisogno di percorso di recupero, o meglio con uno sbrigativo percorso preventivo da preferire a quello eventualmente successivo ad un fatto grave ed irrimediabile.

Un’altra volta mentre stava arrivando al lavoro in un casolare di campagna, gli corse incontro un grosso cane. Ebbe la freddezza di stare fermo, il cane gli abbaiò intorno fintantoché arrivò il padrone, che da lontano aveva assistito alla scena. «Meno male che lei è stato fermo, perché se reagiva o scappava, chissà cosa sarebbe successo…». Mio padre, ripresosi dallo spavento, chiese al padrone: «A portol anca lu al so can a fär un gir in stradón? Parchè acsí am so regolär e in stradón a ne gh mètt pù pè». Incidente chiuso.

 

 

Il diavolo in riva al Po

«L’ho ucciso perché aveva un’aria felice. L’ho scelto perché appariva felice». Il 27enne italiano di origine marocchina, Said Machaouat, ha confessato di aver ucciso con questa incredibile motivazione il giovane Stefano Leo a Torino, in riva al Po. «Un movente banale quanto terrificante» ha dichiarato il procuratore di Torino Paolo Borgna.

Il giorno del delitto il 27enne ha maturato la volontà di uccidere qualcuno: per questo motivo ha comprato un set di coltelli e li ha gettati tutti tranne uno, quello che poi ha usato contro Leo. «Volevo uccidere un ragazzo come me, sottrarlo alla sua famiglia e togliergli tutte le promesse di felicità». La decisione di costituirsi è maturata dopo un mese di fuga e dopo aver sentito nuovamente un impulso all’omicidio. «Avevo una voce dentro di me che mi diceva di uccidere ancora. Così mi sono costituito».

Quando l’omicidio non trova giustificazioni plausibili è un fatto ancor più drammatico e sconvolgente. Non sono uno psicologo né un criminologo né un neuropsichiatra. Cerco di ragionare sull’irragionevole. Ammesso e non concesso che non esistano ulteriori elementi alla base di questo fatto di sangue, prendendo quindi per buona la ricostruzione psicologica ed organizzativa del reo confesso, riesco a collocare questo evento nel perimetro esistente tra scienza e religione, fra l’inspiegabile ed estrema follia omicida ed il vero e proprio intervento demoniaco.

“Chi schiva ‘n mat fa ‘na bón’na giornäda oppure “s’al n’ é ’l diävol, l’è só fiôl”. Non posso che rifarmi alla saggezza popolare perché credo sia l’unica via d’uscita. Presumo si scatenino le scienze inesatte: preferisco inorridire restando coi piedi per terra o, meglio, tentando una spiegazione “banale” e inquietante ad un tempo.

Mia madre, così come era rigorosa ed implacabile con gli anziani era portata a giustificare chi delinqueva, commentando laconicamente: “jén dil tésti mati”. Qui mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ätor di l’à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”. Probabilmente sarebbero entrambi spiazzati di fronte ad un simile fatto di sangue. Lo sono anch’io. Provo un grande senso di pietà per la vittima e per il carnefice.

“Avevo una voce dentro che mi diceva di uccidere ancora”: è questa la frase che mi fa pensare all’indemoniato, anche se non sono portato a leggere la realtà di fede in chiave anti-diabolica. Però… nel vuoto assoluto valoriale e ideale un giovane può rischiare di essere posseduto dal demonio ed essere sopraffatto da vampate maligne di ribellione estrema contro chi simboleggia le regole di vita e magari osa involontariamente ricordargliele.

Ho più volte citato un episodio. Racconta Vittorino Andreoli, il noto esperto e studioso di psichiatria criminale, di avere avuto un importante e toccante incontro con papa Paolo VI, durante il quale avranno sicuramente parlato non di meteorologia ma di rapporto tra scienza e religione nel campo della psichiatria e dello studio dei comportamenti delinquenziali. Al termine del colloquio il pontefice lo accompagnò gentilmente all’uscita, gli strinse calorosamente la mano e gli disse, con quel tono a metà tra il deciso e il delicato, tipico di questo incommensurabile papa: «Si ricordi comunque, professore, che il demonio esiste!».

 

In aria coi piedi piantati in terra

Alle dichiarazioni ex cathedra, vale a dire le “infallibili” definizioni che il Papa dà in materia di fede e morale, ironicamente ridefinite ex fenestra dalla teologa Adriana Zarri negli anni sessanta (era una polemica ma interessante discussione sui facili pronunciamenti papali durante i discorsi dalla finestra del suo studio), preferisco gli ormai abituali discorsi “ex aereo” di papa Francesco. Durate i suoi viaggi di ritorno dalle scorribande intercontinentali è solito intrattenersi con i giornalisti e rispondere a ruota libera alle loro incalzanti domande.

Reduce da un breve ma simbolico viaggio in Marocco, ha lanciato un appello all’Europa sui migranti: «I costruttori di muri, siano di lame tagliate con coltelli o di mattoni, diventeranno prigionieri dei muri che fanno. Primo: cosa la storia dirà. Secondo: Jordi Évole, quando mi ha fatto l’intervista, mi ha fatto vedere un pezzo di quel filo spinato con i coltelli. Io dico sinceramente che mi sono commosso e poi, quando se ne è andato, ho pianto. Ho pianto perché non entra nella mia testa e nel mio cuore tanta crudeltà. Non entra nella mia testa e nel mio cuore vedere affogare nel Mediterraneo; mettiamo ponti nei porti. Questo non è il modo di risolvere il grave problema dell’immigrazione. Lo capisco: un governo, con questo problema, ha la patata bollente nelle mani, ma deve risolverlo altrimenti, umanamente. Quando io ho visto quel filo spinato con i coltelli, mi sembrava di non poter credere. Poi una volta ho avuto la possibilità di vedere un filmato nel carcere dei rifugiati che tornano, che sono mandati indietro. Carceri non ufficiali, carceri di trafficanti. Fanno soffrire…fanno soffrire. Le donne e i bambini li vendono, rimangono gli uomini e le torture che si vedono filmate lì sono da non credere. È stato un filmato fatto di nascosto, con i servizi. Ecco io non lascio entrare: è vero perché non ho posto, ma ci sono altri Paesi, c’è l’umanità dell’Unione europea, deve parlare l’Unione europea intera. Non lascio entrare o li lascio affogare lì o li mando via sapendo che tanti di loro cadranno nelle mani di questi trafficanti che venderanno le donne e i bambini, uccideranno o tortureranno per fare schiavi gli uomini? Questo filmato è a vostra disposizione. Una volta ho parlato con un governante, un uomo che io rispetto e dirò il nome, Alexis Tsipras. Parlando di questo e degli accordi di non lasciare entrare, lui mi ha spiegato le difficoltà, ma alla fine mi ha parlato col cuore e ha detto questa frase: “i diritti umani sono prima degli accordi”. Questa frase merita il premio Nobel. (…) Se l’Europa così generosa vende le armi allo Yemen per ammazzare dei bambini, come fa l’Europa a essere coerente? Poi c’è il problema della fame, della sete. L’Europa se vuole essere la madre Europa e non la nonna Europa, deve investire, deve cercare di aiutare, deve cercare intelligentemente di aiutare con l’educazione, con gli investimenti. È vero che un paese non può ricevere tutti, ma c’è tutta l’Europa per distribuire i migranti, c’è tutta l’Europa. Perché l’accoglienza deve essere con il cuore aperto, poi accompagnare, promuovere e integrare. Se un Paese non può integrare deve pensare subito di parlare con altri Paesi: tu quanto puoi integrare, per dare una vita degna alla gente. (…) Ci vuole generosità, bisogna andare avanti, ma con la paura non andremo avanti, con i muri rimarremo chiusi in questi muri».

Una semplice e spontanea lezione di etica, di umanità e…di politica. Il Papa ha risposto a chi liquida l’atteggiamento cristiano come mozione degli affetti, a chi relega la teoria dell’accoglienza a retorico buonismo; ha tolto ogni e qualsiasi alibi a coloro che si nascondono dietro il “prima noi poi loro”, dietro il “non si possono accogliere tutti”, dietro il “noi abbiamo già dato”, dietro le illusorie promesse di “rimpatriate migratorie” etc. etc. Il mio grande medico ed amico sosteneva in merito all’atteggiamento da tenere di fronte alle più gravi e difficili malattie: “Non c’è mai ‘niente da fare’…”. Vale anche per chi si chiude nell’egoistico e rassegnato “murismo” (in)umano e (im)politico verso gli immigrati.

 

 

Gli opposti estremismi etici

In prossimità di un incrocio pericoloso, se non si vuol andare a sbattere e creare un’ecatombe, bisogna rallentare, se necessario fermarsi, dare la precedenza, guardare bene a destra e sinistra e poi ripartire a velocità moderata. Uso questa metafora introduttiva per tornare sul confuso, urlato e triviale confronto (?) inerente alle problematiche poco famigliari e molto vistose innescate dal congresso di Verona. Ho l’impressione che da questo consesso e da tutto il gran bailamme che ne è seguito escano tutti perdenti, in primis la famiglia.

Non si può infatti affrontare argomenti delicati con il garbo di un elefante in una cristalleria. Vale per i cosiddetti tradizionalisti di stampo religioso che ridefinirei “fanatici anti-religiosi”; vale per i combattenti per i diritti civili che diventano “pittoreschi anarchici del sesso”; vale per i difensori dell’istituzione familiare che si improvvisano “paladini del nulla”; vale per i politici carichi di contraddizioni personali alla spregiudicata caccia di consensi; vale per i media intenti a fomentare polemiche e ad incendiare un clima già anche troppo surriscaldato.

La provocazione è un’arma difficilissima da manovrare: distribuire dei mini-feti in plastica non induce a riflettere sul problema dell’aborto, ma lo retrocede a mera, inutile e grottesca colpevolizzazione generale. Non ho seguito il dibattito proprio perché ne ho rifiutato pregiudizialmente i toni: in certi casi la lontananza è doverosa ed è il miglior antidoto alla malattia della volgare superficialità. Se si potesse, occorrerebbe cancellare dalla storia presente questo sciagurato evento, invece purtroppo è diventato lo sfogatoio di tutti, una sorta di “parolaccia” etica in cui tutti si sono lasciati andare in un’assurda gara a chi la spara più grossa per non affrontare il problema.

Alla provocazione del vergognoso moralismo abbocca la multiforme galassia di movimenti e associazioni impegnati contro l’omofobia e la transfobia. Tutto ciò non serve ad affrontare seriamente i problemi: all’insopportabile oscurantismo cattolico risponde il comprensibile, anche se troppo ostentato, orgoglio della diversità, mentre in sottofondo rimane il resistente e silenzioso scetticismo omofobo che spesso esplode nelle intemperanze, violenze, persecuzioni, torture psicologiche.  Credo che da parte cattolica non ci sia proprio niente da difendere, ma al contrario ci sia da vergognarsi di annose discriminazioni ed emarginazioni: qualcuno, in mala fede, continua ad invocare il diritto ad esprimere le proprie idee ritenendolo compromesso da una legislazione sanzionatoria nei confronti dell’omofobia. Non capisco e, se capisco, vedo solo una retriva e stomachevole cattiveria moralistica con un pizzico di fascismo in più. La morale è un discorso serio, il moralismo ne è la perfida caricatura.  Credo sia meglio dialogare, ragionare, per aggiornarsi culturalmente, legiferare ed amministrare. Nel deserto del cattolicesimo bigotto, la fortezza reazionaria non merita di essere difesa, ma non è nemmeno il caso di imbastire facili e volgari trionfalismi laicisti e di lasciarsi andare ad insensate fughe in avanti.

Alcuni anni or sono, quando andavo a fare visita ad una mia carissima cugina, ricoverata all’ospedale maggiore di Parma in stato di coma vegetativo, mi capitava di imbattermi all’entrata in un gruppetto di donne che recitavano ostentatamente il rosario in riparazione dei peccati riconducibili all’aborto. Mi davano un senso di tristezza e di pochezza. Per non mancare loro di rispetto frenavo l’impulso di interrogarle provocatoriamente: «Ma voi cosa sareste disposte a fare per una donna sull’orlo dell’aborto? Avreste il coraggio di ospitarla in casa vostra? Avreste la generosità di sostenerla economicamente in modo continuativo? Avreste la forza di aiutarla umanamente ad una scelta così difficile rispettandone la sofferta decisione? Sareste disponibili a fare gratuitamente turni di assistenza a questa mia cugina, alleviando la pena di suo marito, costantemente presente al capezzale di una moglie inchiodata nel letto senza prospettive di ritorno ad un seppur minimo livello di funzioni vitali?». Diceva don Andrea Gallo (cito a senso): «Con una ragazza incinta, sola, magari una giovane prostituta, cerco di portare avanti il discorso del rispetto della vita, faccio tutto il possibile, ma se lei non se la sente, se non riesce ad accettare questa gravidanza, cosa devo fare?».

Abbiamo assistito ad una reciproca e contrapposta “obiezione di comodo”: niente a che fare con le coscienze. Sembrano tornati di moda gli opposti estremismi, trasferiti dalla politica all’etica. Alla fine della fiera restano sul campo macerie pseudo-ideologiche, contrapposizioni manichee, radicalismi da strapazzo, protagonismi di facciata: un autentico e vergognoso funerale della famiglia. Complimenti a chi ha organizzato il ripetitivo evento, a chi lo ha strumentalizzato, a chi lo ha ridicolizzato, a chi ne ha fatto l’occasione per passerelle anacronistiche e fuorvianti, a chi ha colto l’occasione per candidarsi a rappresentare se stesso, a chi ha gridato al lupo creando la ghiotta occasione per una lotta fra lupi. Mi viene spontaneo aggiungere una sola parola: basta!

La scombinata filiera educativa

Sono frequenti e ricorrenti gli episodi di violenza ai danni di bambini frequentanti gli asili. Non ho conoscenza degli esiti giudiziari delle procedure aperte a carico degli operatori e delle operatrici incolpate di tali reati e nemmeno della loro sorte professionale. Le cronache, come sempre, si fermano all’impatto iniziale, creano il solito allarmismo per lasciare poi a marcire il problema e mettere nel dimenticatoio i risvolti giudiziari.

Sta diventando un problema serio, anche se non riesco a capire se talora ci sia un po’ di esagerazione: stando ai riscontri documentali, costituiti soprattutto dai filmati ottenuti con telecamere nascoste, sembra che il fenomeno sia reale e preoccupante. Ammetto che lavorare in mezzo ai bambini sia impegnativo e pesante: come diceva mio padre, infatti, i bambini sono belli e simpatici in casa degli altri. C’è comunque di peggio a livello di logorio professionale. Mi risulta che, sia a livello pubblico, sia a livello privato, sia a livello convenzionale pubblico-privato, la formazione, la preparazione e la selezione degli addetti all’infanzia sia qualitativamente sufficiente, almeno sulla carta. Non so se esista un valido sistema di controllo in itinere al di là dei blitz delle forze dell’ordine messe spesso in allarme dai genitori.

Il problema educativo è importantissimo e delicatissimo: è nell’età infantile che si radicano e si formano i bambini nella loro psicologia. Siamo passati nel tempo da schemi disciplinari molto rigidi a metodologie assai permissive, da un’estremità all’altra, come succede spesso.  I rapporti con le famiglie sono dettati più da esigenze logistiche ed organizzative che da collaborazione fra le diverse entità educative: per dirla brutalmente ho l’impressione che l’asilo infantile venga considerato come un deposito di cui servirsi per snellire le procedure famigliari. Tutta l’organizzazione sociale mette a repentaglio la sorte dei bambini, sballottati da un luogo all’altro, da una persona all’altra, spesso tra la casa dei nonni e l’asilo, tra i nonni e le educatrici dell’infanzia, con interventi marginali e residuali dei genitori altrove occupati a livello lavorativo.

Il clima è cambiato. Faccio un revival personale: da piccolo avevo a mia disposizione la mamma, la nonna, la sorella maggiore, la suora dell’asilo e ciononostante mi sentivo a disagio, non ero sereno. Se tanto mi dà tanto… C’è il problema di rendere compatibile l’impegno professionale dei padri e delle madri con la responsabilità educativa genitoriale; esiste la necessità di trovare la combinazione ottimale fra strutture socio-educative e famiglie; non si possono dimenticare i problemi economici che condizionano l’intera impalcatura a livello privato e pubblico; sarebbe opportuno selezionare e seguire attentamente i troppi percorsi formativi intrapresi dai bambini (sport, scuola di danza, scuola di musica, scuola di lingue, festicciole varie, videogiochi, etc. etc.). Non voglio ripetermi, ma ricordo di avere captato i discorsi fra mamme: si lamentavano degli eccessivi impegni appioppati da loro stesse sulle deboli spalle dei figlioletti e facevano l’elenco simile a quello di cui sopra, in fondo aggiungevano il corso di catechismo. È detto tutto sulla confusione educativa che regna in capo ai bambini.

Tutto va considerato, ma credo che, al di là di tutto, stia venendo a mancare l’etica: si lavora male, si collabora poco, si controlla ancor meno. Alla fine della fiera chi ci rimette sono i soggetti deboli: i bambini, i quali, cresciuti male, si “vendicheranno” e “picchieranno” gli insegnanti della scuola superiore, passando da “vittime a carnefici”, con le famiglie a scandalizzarsi e a tifare contro la scuola. Chiedo scusa dell’esagerazione, ma il quadro non è dei più confortanti.