Il pericoloso gioco del ciapa Europa no

La legge di bilancio entra nel vivo, la Banca d’Italia ha appena lanciato un appello sul debito e l’Italia deve inviare il suo piano strutturale a Bruxelles fra poche settimane.

Ma al meeting di Rimini non si parla di manovra: va in onda un ‘botta e risposta’ fra il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e il Commissario Ue agli Affari economici Paolo Gentiloni sul Pnrr. “Potrei riempirvi di titoli di piani e progetti Pnrr sulla formazione che ricordano i piani quinquennali dell’Unione sovietica, scusate la battuta”, dice il ministro. Che poi rincara parlando del nuovo Patto Ue che costringe a un’ottica “di corto respiro” mentre invece secondo Gentiloni dà “l’impulso a lavorare sul medio e lungo periodo” con il debito dell’Italia che “a differenza di quello greco non ha ancora imboccato come deve imboccare nei prossimi dieci anni una via sicura di graduale riduzione”.

Ci prova, Gentiloni, a prendere alla larga le domande dei giornalisti sui tiri di fioretto del ministro con cui “la collaborazione è sempre stata ottima”. “Che il Pnrr sia fatto di interventi sovietici mi pare una battuta, del resto conosco bene il ministro Giorgetti e le sue battute”, prova a stemperare Gentiloni. Ma non riesce a schivare il merito degli argomenti sollevati da Giorgetti: con gli eurobond per finanziare il Pnrr l’Unione “ha attraversato il Rubicone” e con 190 miliardi di risorse “l’Italia ne é il principale beneficiario”.

Piuttosto – è la contro-frecciata di Gentiloni, il cui mandato scade fra poche settimane – “se non riuscissimo a spendere questi quattrini, attuare questi investimenti, allora ci sarebbe un problema di burocrazia, ma da parte nostra (delle autorità italiane, ndr), non da parte di chi ha immaginato i progetti, cioè i governi italiani e chi li ha autorizzati, cioè la Commissione Europea”. Il nuovo Patto Ue – replica poi Gentiloni – è “un piano pluriennale di quattro o addirittura sette anni che i diversi Paesi devono presentare alla Commissione nelle prossime settimane, cioè adesso. Quindi penso che sia una prospettiva di lungo periodo”. (ANSA.it)

Stupisce innanzitutto la superficialità con cui il ministro Giorgetti affronta una questione politico-economica epocale quale quella del Pnrr. In secondo luogo, pur sforzandomi di comprendere il ragionamento sotteso, non ho afferrato il senso del paragone fra l’attuale Piano nazionale di ripresa e resilienza e i passati piani quinquennali dell’Unione sovietica. Capisco una certa targata allergia storico-culturale al tentativo di pianificare l’economia, ma se proprio vogliamo fare un parallelo lo dovremmo fare tra Pnrr e piano Marshal del dopoguerra.

L’economia non deve essere calata dall’alto, ma non deve nemmeno essere subita dal basso. Nella testa di chi regge il Paese mi pare che tutto possa andare bene finché arrivano fondi da investire, ma, quando chi eroga questi fondi pretende giustamente di verificare come, quando e a favore di chi vengono utilizzati, cominciano le insofferenze.

La frecciata di Giorgetti è ignorante e inopportuna. A cosa voleva alludere? Al fatto che a livello europeo sia stata avviata una pur difficile e problematica collaborazione fra socialisti e popolari di stampo tardo-comunista (quando le destre sono in difficoltà, la buttano sull’anticomunismo, sta succedendo anche negli Usa, dove Trump accusa Kamala Harris di portare al fallimento l’economia americana sulla carrozza comunista), tagliando fuori le destre fra cui si colloca il partito del ministro dell’economia? Al fatto che esista il rischio dell’isolamento politico italiano (peraltro sembra più un auto-isolamento) e che tale isolamento possa ripercuotersi sui rapporti fra rigorismo Ue e “spendaccionismo” italiano? Al fatto che gli scheletri negli armadi italiani possano pesare di più di quelli dei partner europei? Al fatto che l’economia italiana, nonostante i tentativi dirigisti e burocratici della Ue, vada meglio di quella degli altri Paesi europei considerati virtuosi?

Una cosa è certa: quando si hanno code di paglia che si chiamano mafia, evasione fiscale, burocrazia, storica incapacità di utilizzare i fondi europei e patologica tendenza a sprecarli, non è proprio il caso di fare gli spiritosi e di buttarla in ridere. La battutina di Giorgetti ha fatto scalpore: speriamo non venga presa sul serio a livello europeo, perché potrebbe essere un guaio. D’altra parte la Lega ha brillato anche in passato per l’insolenza rivolta alla dirigenza Ue, persino a quella ben disposta verso l’Italia (tutti ricorderanno le stupide allusioni di Salvini all’alcolismo del lussemburghese Jean-Claude Juncker, che non mancava mai di dimostrare amicizia e disponibilità verso il nostro Paese).

In un certo senso bene ha fatto Paolo Gentiloni a sdrammatizzare questo corto-circuito dialettico, dimostrando apprezzabile serietà e grande senso di responsabilità (forse fin troppo…): speriamo che uguale lungimiranza abbiano i nostri interlocutori nella futura Commissione europea e che il futuro nostro rappresentante in seno ad essa (si parla con insistenza di Raffaele Fitto) usi uguale diplomazia. Non illudiamoci che le battute di Meloni, Salvini e Giorgetti vengano dimenticate: verranno al contrario memorizzate ed enfatizzate al momento opportuno.

Ci sono in ballo enormi interessi per l’Italia e speriamo proprio che i nostri attuali governanti la smettano di giocare a “ciapa Europa-no” e pensino, almeno un po’, alle future generazioni, lasciando perdere le future elezioni.

 

 

Le Chiese ortodosse in guerra

«I parrocchiani della comunità di San Michele nel villaggio di Zeleniv, diocesi di Chernivtsi, hanno acquistato un’auto per le forze armate ucraine. Il veicolo è stato benedetto dall’arciprete Ihor Popivchu». La vettura grigia è circondata dai fedeli e dal rettore della parrocchia nella foto che apre il sito della Chiesa ortodossa ucraina: quella che, secondo le autorità nazionali, rimane un’emanazione del patriarcato di Mosca. La notizia della donazione a favore dell’esercito di Kiev viene pubblicata mentre il Parlamento ucraino approva le nuove norme che mettono al bando ogni «organizzazione religiosa subordinata a quelle del Paese aggressore». Dopo un anno e mezzo di tensioni e battute d’arresto, diventa legge il testo che punta a difendere la «sicurezza nazionale» e che rafforza «la nostra indipendenza spirituale», commenta il presidente Volodymyr Zelensky. Il via libera arriva a larga maggioranza: con 265 voti a favore e appena 25 contrari. Nelle disposizioni non si fa riferimento alla Chiesa che affonda le sue radici in Russia ma la legge ha come unico bersaglio la comunità ecclesiale che, secondo la commissione speciale del Servizio statale per la libertà di coscienza, è «ufficialmente collegata con il patriarcato di Mosca». (dal quotidiano “Avvenire”)

Mia sorella Lucia, in questi giorni ne ricorre l’undicesimo anniversario della morte, quando vedeva in televisione immagini relative alla Chiesa ortodossa, non andava per il sottile e, riferendosi al perverso intreccio consolidatosi con il potere politico, affermava spietatamente: “Brutta gente!”.

La concatenazione degli eventi accennati nel succitato articolo dimostra ancora una volta che religione e potere non possono andare d’accordo se non a pena di combinare disastri.

Non mi piace affatto che una comunità cristiana acquisti un’auto per le forze armate e, ancor più, che questo veicolo venga benedetto nel nome di Dio.

Non mi piace affatto che la Chiesa ortodossa si divida tra fedeltà al patriarcato di Mosca e, tramite esso, sostenga la Russia, ma non mi piace nemmeno che gli ortodossi ucraini si schierino acriticamente dalla parte dell’esercito e del potere nazionali.

Mi piace ancor meno che il parlamento ucraino vari una legge che fissa sostanzialmente l’indipendenza spirituale dal Patriarcato di Mosca. Le coscienze non si guidano con le leggi, ma con la Parola di Dio.

Questa mescolanza fra religione e politica, fra pace e guerra, fra fede ed eserciti è antievangelica, in Russia come in Ucraina. La Chiesa ortodossa non sta certamente facendo un buon servizio alla causa della pace.

Gesù si guardò bene dallo schierarsi politicamente a favore degli ebrei contro l’invasore romano e, con ogni probabilità, fu uno dei motivi che lo portò in croce. Ha persino invitato Pietro a rimettere la spada nel fodero nonostante fosse servita per legittima difesa.

Mio zio Ennio sacerdote, durante il periodo della Resistenza al nazi-fascismo, si dette molto da fare, non per benedire le armi dei resistenti, ma per scambiare i prigionieri, per nascondere gli ebrei perseguitati, per alleviare le sofferenze di tutti, rischiando grosso in nome di un Vangelo incarnato ma non politicizzato.

Mi rendo perfettamente conto di come non sia facile evitare il rischio di stare dalla parte sbagliata del manico senza affilare la lama di chi sta in prima linea dalla parte “giusta”: è la scommessa evangelica di stare con chi soffre e di rifiutare la violenza e la guerra senza se e senza ma.

 

La ciambella di salvataggio dei poveri

Sul naufragio di Palermo, in molti – soprattutto sui social – hanno avanzato il seguente ragionamento. “Ma il naufragio di un gommone di migranti vale quanto il naufragio di un veliero di ricchi?”. Come a dire: di questo si parla tanto, dei poveracci sui barconi no. Un ragionamento falso, oltre che patetico. Primo: una notizia per definizione è un evento che si distingue da tutti gli altri. Non è un caso se “a fare notizia” sono i grandi naufragi con centinaia di migranti a bordo e non i piccoli in cui muoiono cinque o sei persone. Sarà cinico, ma è la legge della notiziabilità. Funziona così da secoli. Che un superyacht si inabissi davanti alle coste siciliane per una tempesta improvvisa è uno di quegli eventi che accade una volta nella vita, come la Concordia o il Titanic. Ecco spiegato il motivo di tanta attenzione. Chi usa la tragedia con quel fare malevolo da rivincita classista (“anche i ricchi annegano”) non vuole difendere i migranti, poveri cristi, ma esprime solo invidia sociale. Forse, un po’, anche se non l’ammettono, godono per tutto quello champagne inabissatosi col Bayesian. (Il Giornale – Storia di Giuseppe De Lorenzo)

Confesso di aver fatto istintivamente lo stesso ragionamento che Giuseppe De Lorenzo tenta elegantemente e puntigliosamente di confutare. Resto sulla mia macabra impressione: i due pesi e le due misure esistono anche di fronte alle disgrazie e alla morte.  L’unico rimedio a questa discriminazione totalizzante sarebbe almeno il silenzio, che metterebbe tutti sullo stesso piano. Invece la cronaca e l’insistente e persino impietosa attenzione mediatica non ne vogliono sapere. Sì, perché anche i ricchi e i big avrebbero diritto ad essere lasciati in pace almeno dopo la loro morte e non ad essere esposti in bella vista per fare cassetta.

Mio padre sosteneva che la morte non è giusta, ma imparziale: tocca tutti, giovani e vecchi, uomini e donne, ricchi e poveri, etc. etc. Certo, anche i ricchi annegano. Non si tratta di fare del classismo, ma di prendere atto della realtà. Un barbone, sia da vivo che da morto, non interessa a nessuno, di un delone (Alain Delon), da vivo e da morto, tutti parlano. Fin qui giunge incolume la graffiante ingiustizia della nostra società, ma non finisce qui.

C’era un uomo ricco, che era vestito di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo.  Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell’inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. (il resto della parabola evangelica del ricco epulone è noto…)

Come disse Fra Cristoforo a don Rodrigo, ne I promessi sposi di Alessandro Manzoni, “verrà un giorno…”. Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s’aggiunse alla rabbia un lontano e misterioso spavento. Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar quella dell’infausto profeta, gridò: – escimi di tra’ piedi, villano temerario, poltrone incappucciato.

Le arzigogolate argomentazioni giornalistiche di Giuseppe De Lorenzo serviranno ai don Rodrigo di tutti i tempi a cacciar fuori e mettere a tacere i provocanti fra Cristoforo (che non hanno nulla a che fare con i pagani classisti più o meno fegatosi). Davanti al Padre Eterno tutto ciò non servirà più…

I pesci nel barile americano

Si tratta di una linea politica statunitense tendente dalla destra all’estrema destra e nazional-populista, sentimento diffusosi in più nazioni in tutto il mondo e che detiene alcuni aspetti della democrazia illiberale. Secondo il British Collins English Dictionary il termine descrive sia l’ideologia di Trump che le sue affermazioni tipicamente provocatorie.

La ideologia politica pone in rilievo ed attenzione le risorse umane e materiali di una Nazione, per soddisfare prima le esigenze interne, prendendo l’intera nazione come termine, e solo dopo, pensare ad un eventuale surplus per le esportazioni o ad un deficit per le importazioni.

Il termine è apparso durante la campagna presidenziale statunitense del 2016. Il trumpismo denota un metodo politico populista che suggerisce risposte e soluzioni semplicistiche a problematiche politiche, economiche e sociali complesse, miranti a mobilitare una crescente parte della popolazione oggetto di disuguaglianza sociale, con una visione disprezzata dell’establishment politico. Vicino ideologicamente al nazionalismo conservatore di destra, mostra anche caratteristiche di autoritarismo. (da Wikipedia)

Bisognerebbe partire di qui per posizionarsi politicamente rispetto alle elezioni americane. La politica italiana balbetta come del resto quella europea. Prevale l’acritica e scontata attenzione agli Usa indipendentemente dalla presidenza che scodelleranno al mondo. Da Trump, tutto sommato, i populisti sfegatati si aspettano il miracolo della pace dei sepolcri, ottenuta tramite la messa in atto degli antidoti egoistici. Chi nutre dubbi e perplessità preferisce attendere: non si sa mai…

“Un politico è qualcuno che pensa alle prossime elezioni, mentre lo statista pensa alla generazione futura. Il politico pensa al successo del suo partito, lo statista al bene del suo Paese”. La citazione, ripresa da Alcide De Gasperi, è del teologo statunitense James Freeman Clarke (1810-1888).

Ebbene, il modo di porsi di fronte all’eventualità di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca è dettato da presunte convenienze elettorali e non certo da prospettive di bene per l’Italia, l’Europa e il mondo intero. Vale un po’ per tutti, ma soprattutto per i sovranisti e i populisti de noantri. Fa eccezione Giorgia Meloni che, memore del bacetto ottenuto da Biden a suggello di un indispensabile buon rapporto con l’Occidente, forse avrebbe gusto a proseguire questo patetico idillio: non lo può ammettere così come non può ammettere di avere simpatie ideologiche per Trump; un po’ politica e un po’ statista, né carne né pesce, democratica pro domo sua, repubblicana pro domo propagandistica. L’opportunismo è il suo mestiere!

Forse chi fa il pesce in barile spera che Trump, reinsediato alla Casa Bianca, se ne ricordi e possa riservare un trattamento di favore a chi non ha tifato contro di lui. Non è certamente nel dna trumpiano una simile riconoscenza: andrà avanti per la sua strada, che certamente non porterà beneficio all’Europa e ai singoli Paesi europei. Ce ne accorgeremo e magari sarà troppo tardi.

A mio modesto avviso anche le sinistre italiana ed europea dovrebbero essere un po’ più coraggiose e cogliere l’occasione per inaugurare una sorta di neoatlantismo: alleati con la schiena diritta. Con Trump sarebbe difficile persino considerarsi alleati, con Kamala Harris dovrebbe essere relativamente più facile. Ci provino almeno. Da statisti e non da politici o ancor peggio da politicanti.

 

 

 

Il centrino catto-mediaset sul tavolo della destra

La strumentale insistenza con cui si affronta il pur importante problema della concessione della cittadinanza agli stranieri che vivono in Italia mi lascia piuttosto perplesso: mi sembra che non sia tanto in gioco la visione dei futuri assetti demografici quanto quella degli assetti nella maggioranza di centro-destra, della costruzione del famigerato centro democratico e del ruolo che i cattolici potrebbero svolgere in questa costituente di centro.

Quanto agli equilibri politici fra i partiti dell’attuale governo, Forza Italia da tempo non perde occasione per distinguersi dai partner e forse ha trovato nello ius scholae la chiave per aprire il nuovo appartamentino in cui abitare per poi decidere se rimanere nel condominio di destra o pensare ad un vero e proprio autonomo villino targato mediaset.

Il diritto alla cittadinanza sta poi diventando anche il pretesto per vagheggiare una sorta di interclassismo riveduto e scorretto a guida pseudo-cattolica: il discorso è vecchio come il cucco, ma periodicamente ritorna d’attualità. Ci stanno forse riprovando al convegno di Rimini di Comunione e liberazione, avente come tema “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”.

Vuoi vedere che stanno cercando il nuovo (?) Centro democratico? Sul fatto che questa ricerca possa essere essenziale nutro seri dubbi: questione di opinioni. Fatto sta che Tajani sta imperversando al meeting e sta pontificando a più non posso.

Per Tajani la cittadinanza e la pace nei conflitti viaggiano insieme dentro una idea diversa di Europa perché «noi abbiamo una visione da Ppe»: non burocrazia, ma valori comuni, quindi cultura. Nel Meeting che celebra Alcide De Gasperi con una seguitissima mostra a 70 anni dalla morte, Tajani riprende la sua idea di “patria europea”. Dove il sovranismo nazionale rischia di diventare un recinto antistorico. «Essere italiano, essere europeo, ed essere patriota non è legato a sette generazioni, ma a quello che sei tu. Non sono né un pericoloso sovversivo né un estremista di sinistra, ma dico che bisogna guardare alla realtà per quella che è. Io insisto sulla formazione, sull’identità, sulla cultura, perché se tu accetti di essere europeo nella sostanza, sei italiano ed europeo non perché hai la pelle bianca, gialla, rossa o verde, ma perché dentro di te hai quelle convinzioni, perché vivi quei valori – afferma Tajani – perché dentro di te hai quell’anima europea. Se poi i tuoi genitori sono nati a Kiev, La Paz o Dakar è la stessa identica cosa», aggiunge il titolare della Farnesina. E chiosa fra gli applausi: «Io preferisco quello che ha i genitori stranieri e canta l’inno di Mameli all’italiano da sette generazioni che non lo canta». (dal quotidiano “Avvenire”)

Premesso che in Antonio Tajani intravedo la somiglianza con Alcide De Gasperi solo ed esclusivamente “nel pisciare”, prendo atto che si sta ponendo in gioco come pontiere di destra che guarda a sinistra. Non mi pare una cosa seria!

Per quanto riguarda l’ansia protagonistica dei cattolici a livello di processi politici, se resta schiacciata sull’occupazione di meri spazi elettorali o di pure combinazioni di potere, la vedo come un disperato galleggiamento nel mare politichese. Un mio carissimo amico ha opportunamente ribattezzato questo movimento cattolico come “Comunione e disperazione”.

La montagna, alla fine della fiera, potrà partorire solo due topolini: uno straccetto di gattopardesca legge sulla cittadinanza e un centrino ricamato da collocare sul tavolo della destra. E vissero insieme felici e contenti.

 

 

 

Fuori le tette democratiche e dentro i coglioni repubblicani

«Yes, she can», cioè «Sì, lei può». Parla al cuore dell’America e alle orecchie del mondo l’endorsement da parte dell’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama nei confronti della candidata democratica alla presidenza Kamala Harris durante il discorso di chiusura del secondo giorno della convention nazionale del partito. «Sta tornando la speranza» gli ha fatto eco l’ex first lady Michelle: «L’America è pronta per un nuovo capitolo. L’America è pronta per una storia migliore. Siamo pronti per una presidente, Kamala Harris» ha detto Obama a una folla acclamante a Chicago.

Michelle e Barack, gli ospiti forse più attesi dell’appuntamento, si sono contesi la prima serata americana. E se lui, che ha già messo a disposizione di Harris il suo staff elettorale e presidenziale, ha avuto il posto d’onore, era per lei che ci si attendeva il massimo degli ascolti. Michelle, la vera star dei democratici, che ha rifiutato di candidarsi al posto di Biden quando le è stato proposto, aprendo la porta a Kamala, ha accettato di parlare nella sua città natale solo per Harris, alla quale è legata da vent’anni da una calorosa amicizia. Nella vicepresidente l’ex first lady vede una versione al femminile del marito, che come lei ha mosso i primi passi in politica a livello locale, lui in Illinois lei in California, con la stessa determinazione di scrivere una nuova pagina di storia americana. (dal Quotidiano “Avvenire” – Redazione esteri)

Finalmente! Era ora! Andrà come andrà, ma almeno chi doveva e poteva ha battuto un colpo verso un futuro un po’ più democratico degli Usa. In questo momento non mi interessano tanto le chance di successo di Kamala Harris, ma le spinte alla riscossa valoriale.

Alla convention democratica è suonata la sveglia, adesso tocca alla gente darsi una scrollata e alla dirigenza del partito trovare una coerente e credibile impennata. Speriamo che il tutto non finisca nel tritacarne mediatico sempre in agguato, nel gioco finanziario dei bussolotti, nella rissa trumpiana o nel perbenismo harrisiano. Trump non è il demonio (anche se, politicamente parlando, gli assomiglia), Kamala non è un angelo (anche se, politicamente parlando, ce ne sarebbe bisogno). In mezzo ci stanno gli americani (quasi impossibile capirli). Di fronte c’è il mondo (più incuriosito che interessato). Sullo sfondo le guerre (refrattarie ai cambiamenti politico-diplomatici). In attesa gli equilibri internazionali (le super-potenze tutto sommato guardano più alla certezza Trump che all’incognita Harris). In stretching passivo la Ue (vittima delle proprie debolezze). In delirio da tifoso rispolverato il sottoscritto (chi non salta trumpiano è!).

Sembra che in molti aspettassero una ventata di novità e che questo alito arrivi dalle donne è un gran bene: alla convention hanno trionfato loro. Speriamo che non si tratti di un fuoco di paglia pseudo-femminista e che le donne al potere non vogliano fare gli uomini.

Quanto a Donald Trump potrebbe anche valere la battuta del compianto giornalista Enzo Biagi allora riferita a Silvio Berlusconi e che potremmo oggi adattare così al tycoon americano: “Se avesse una puntina di seno, sarebbe anche tentato di fare la presidente donna o la donna presidente come dir si voglia”.

 

 

 

L’argine bersaniano alla vannaccite dilagante

«Sia chiaro che sulla querela del generale Vannacci andrò fino in fondo. Voglio andare al processo. La mia domanda, ancorché in forma scherzosa ed evidentemente non diretta a offendere Vannacci ma a criticare le opinioni che esprime, era e resta vera e sostanziale: se cioè qualcuno, per di più con le stellette, possa definire anormali degli esseri umani, racchiusi in una categoria, senza che questo venga considerato quantomeno un insulto e non una constatazione. Se nell’anno di grazia 2024 si decidesse che è possibile ci sarebbe davvero di che preoccuparsi». Lo scrive su Facebook Pier Luigi Bersani. La risposta dell’ex segretario del Pd arriva dopo la condanna della procura di Ravenna al pagamento di una multa per diffamazione aggravata in merito alle affermazioni pronunciate alla Festa dell’Unità nei confronti dell’europarlamentare della Lega Roberto Vannacci. Bersani aveva dato del “coglione” a Vannacci per le sue posizioni, una dichiarazione considerata dai magistrati un giudizio di merito. (dal quotidiano “Domani”)

Da una parte la questione mi fa sorridere, dall’altra mi preoccupa. Mi sembra infatti che il giudizio espresso da Bersani sia pieno di bonario compatimento: non c’è violenza verbale, non c’è insulto, c’è soltanto una sacrosanta perplessità di fronte a certe affermazioni che hanno dell’incredibile in un Paese democratico.

Fin qui il sorriso sdrammatizzante, ma arriva anche la preoccupazione. Certe analisi, quando passano dal bar sport alle cabine elettorali, cominciano ad infastidire. E allora bisogna pure reagire e diventa difficile mettere un freno e un confine alla doverosa critica per non farla debordare nel pur meritato insulto.

Pier Luigi Bersani è uno specialista al riguardo, perché riesce a coniugare la bonomia emiliana con l’intransigenza politica: fa specie che Vannacci non l’abbia capito, ma ancora più strano è che non l’abbia capito la procura di Ravenna. Fa benissimo quindi Bersani a volerci andare fino in fondo, anche se forse stiamo dando troppa importanza ad un parvenu della politica in vena di sparare cavolate alla viva Salvini. Il religioso silenzio a volte è più eloquente dell’appassionata critica.

Senonché questo signore, passato dal generale dell’esercito al particolare delle osterie di seconda mano, ha raggranellato centinaia di migliaia di voti, lasciando intendere di interpretare opinioni largamente diffuse nella pancia del Paese. E allora…tutto ha un limite.

 

La proverbiale smontatura della montatura vittimista

«Vogliono indagare Arianna Meloni”: il titolo domina la prima pagina del Giornale. E l’allarme, firmato dal direttore Alessandro Sallusti, ipotizza che un asse fatto da quotidiani ostili, sinistra e pm militanti sta tramando contro la sorella della premier. Alla guida della segreteria politica di Fratelli d’Italia, Arianna potrebbe essere presto indagata – è l’sos del Giornale – per traffico di influenze sulle ultime nomine del governo. Provando così a minare la tenuta dell’esecutivo dal fianco più intimo. Dalla masseria pugliese dove le due sorelle sono in vacanza è Giorgia Meloni a intervenire facendo sentire tutta la sua ira. «Purtroppo reputo molto verosimile quanto scritto da Sallusti», dice la presidente del Consiglio, definendolo «gravissimo se fosse vero» e paragonandolo a «uno schema visto e rivisto soprattutto contro Silvio Berlusconi». Ossia «un sistema di potere che usa ogni metodo e ogni sotterfugio – spiega – pur di sconfiggere un nemico politico che vince nelle urne la competizione democratica». Quindi dopo aver «setacciato la vita mia e di ogni persona a me vicina, senza trovare nulla», la «peggior politica» è passata a «mosse squallide e disperate». (dal quotidiano “Avvenire” – redazione romana)

C’è un vecchio proverbio che dice: “Male non fare paura non avere”. Ce n’è un altro che recita: “La prima gallina che canta ha fatto l’uovo”.

Se Arianna Meloni non sta trafficando influenze, non ha nulla da temere e tutto questo can-can non ha alcun fondamento.

“Excusatio non petita, accusatio manifesta” è un proverbio latino di origine medievale. La sua traduzione letterale è “Scusa non richiesta, accusa manifesta”, forma proverbiale in italiano insieme all’equivalente “Chi si scusa si accusa”.

Il senso di questa locuzione è: se non hai niente di cui giustificarti, non scusarti. Affannarsi a giustificare il proprio operato senza che sia richiesto può infatti essere considerato un unico indizio del fatto che si abbia qualcosa da nascondere, anche se si è realmente innocenti.

Una giustificazione non richiesta è un’implicita ammissione di colpa. Il giustificarsi da una colpa, senza la richiesta da parte di nessuno, vuol significare ammettere il torto. E al contrario: se non hai fatto niente di male, non giustificarti.

Nel caso in questione non ci si giustifica, ma addirittura si colpevolizza in anticipo chi eventualmente si potesse permettere di sollevare dubbi e perplessità e/o di avviare indagini, collocandolo nel campo dei complottisti.

Senonché “il vittimismo è la moderna terra promessa dell’assoluzione dalla responsabilità personale (Laura Schlessinger).  Tra le forme di manipolazione, il vittimismo è la più subdola e soffocante (Anna_Pensil, Twitter).

Oltre tutto Arianna Meloni non si difende in proprio, ma per interposta persona, vale a dire con l’intervento della sorella premier. Anche questo equivoco sistema induce nella tentazione di pensare che il filo politico di Arianna lo tenga in mano Giorgia: lo chiamano nepotismo…

Collocare propri famigliari o parenti stretti in posti di responsabilità collegabili alla propria funzione politica non è una scelta raccomandabile, ma è mettersi su un terreno scivoloso su cui si può cadere, magari anche per le spinte maliziose di qualcuno. Bisognerebbe evitare accuratamente il rischio più che gridare allo scandalo per eventuali insinuazioni. Invece, siccome la miglior difesa è l’attacco, meglio partire in anticipo con le insinuazioni sulle possibili insinuazioni.

Morale della favola: un gran casino pseudo-garantista che suona più a minaccioso e preventivo assalto che non a rassicurante e tempestiva resistenza.

Amministratori che sognano cancelli chiusi

Lo chiamano “il dente cariato”: un po’ per la morfologia, un po’ perché dà proprio l’idea di qualcosa andata a male, con quel brutto colpo d’occhio, una volta usciti dalla stazione Termini sulla sinistra, di un “serpentone” con oltre 20 tra negozi e fast food. Una “carie” che si spinge verso piazza dei Cinquecento, i cui due portici al tramonto diventano l’unica dimora di chi un posto per dormire proprio non ce l’ha e si adatta alla meglio, tra cartoni, vecchie coperte, sporcizia ovunque e piccioni che arrivano a beccare anche i piedi.

In base ad un progetto avviato dal I Municipio, il “dente cariato” è destinato ad essere abbattuto e ricostruito in maniera più decorosa, mentre per i due portici di piazza dei Cinquecento, realizzati un secolo e mezzo fa con l’intenzione di farne il biglietto d’ingresso della Capitale per quanti arrivavano a Termini, il proposito è quello di chiuderlo con dei cancelli, recintarli in pratica, per impedirne l’accesso notturno ai senzatetto. Cancellate che dovrebbero poi estendersi all’area del Giardino di Dogali, nella limitrofa piazza della Repubblica, e a viale Pretoriano. Un progetto che, come detto, è del I Municipio, ma che al Comune di Roma già conoscono e a quanto pare condividono, come ha affermato l’assessore ai Lavori pubblici, Ornella Segnalini, al Messaggero: «Lavoriamo in strettissimo contatto. La soluzione studiata per evitare che quei portici diventino il dormitorio di senza fissa dimora è di apporre una cancellata». (dal quotidiano “Avvenire” – Igor Traboni)

Della serie “nascondiamo la povertà”, mettiamola sotto il tappeto, come si fa con i problemi che non si ha il coraggio di risolvere, ma che danno fastidio e quindi li si vuole nascondere e/o trasferire chissà dove. Naturalmente insorgeranno i residenti che si ritroveranno il dormitorio sotto casa e i commercianti che l’indomani troveranno davanti al negozio i rifiuti lasciati di notte dai senza tetto.

Massimiliano Signifredi, che quelle zone attorno alla stazione Termini le conosce come le sue tasche, visto che è il coordinatore delle cosiddette “Cene itineranti” di Sant’Egidio e in particolare dei 30-40 giovani universitari fuori sede che portano cibo, amicizia e calore umano agli ultimi di questa zona tra le più degradate della Capitale, nel solco di un’esperienza e di una presenza ultraventennale della Comunità, dice: «Della tutela del decoro pubblico, della salute, della sicurezza e anche dell’opportuna salvaguardia di monumenti che hanno una loro storia si parla da tanti anni, ma noi crediamo che l’inizio della soluzione sia invece quello dell’installazione delle quattro tensostrutture, una delle quali è prevista proprio vicino alla stazione Termini. Questo consentirebbe ai volontari delle associazioni di incontrare le persone in un contesto senza dubbio migliore di quello della strada.

Per Sant’Egidio non esistono soluzioni generali e generalizzate, «ma siamo convinti che qualsiasi intervento va affrontato con la singola persona. Le cause che portano una persona a finire sulla strada, senza più un tetto, possono essere diverse e vanno affrontate singolarmente, conosciute al meglio, per proporre soluzioni adeguate, come ci insegna la nostra esperienza molto radicata a Roma con i senza dimora e rispetto alla quale ci muoviamo già con interventi concreti. Poco tempo fa, ad esempio, i nostri volontari hanno incontrato una donna indiana che viveva in condizioni estreme proprio sotto i portici di via Giolitti e aveva messo su una sorta di capanna con dei cartoni: incontrandola, cercando di capirne esigenze e aspettative e dialogando anche con pazienza, siamo riusciti a trovare una soluzione adatta per lei che ora vive in una struttura fuori Roma. Questo non sarebbe stato possibile realizzando dei luoghi chiusi che, ripeto, alla fine sposterebbero solo il problema di qualche centinaio di metri. Invece noi vogliamo incontrare le persone che hanno dei problemi, compresi quelli di salute mentale, sempre più numerosi». Ed ecco dunque che per la Comunità di Sant’Egidio tornerebbero invece utili le quattro tensostrutture: una per l’appunto nei paraggi di Termini e le altre nei pressi delle stazioni Tiburtina, Ostiense e San Paolo. (ancora dal quotidiano “Avvenire” – Igor Traboni)

La pubblica amministrazione non è in grado di affrontare seriamente questi problemi. Stupisce che un sindaco a capo di un’amministrazione di sinistra non abbia alcuna sensibilità al riguardo: in cosa si dovrebbero distinguere destra e sinistra, se non nell’affrontare i problemi della gente più in difficoltà collocata ai margini della società? Invece purtroppo non è così.

Il volontariato fornisce degli assist, ma non vengono colti: troppo scomodo e difficile incontrare le persone emarginate per trovare qualche soluzione ai loro problemi.

Mi si dirà che il comune di Roma non è La Caritas e nemmeno la Comunità di Sant’Egidio. Posso dirla grossa? E se facessimo un esperimento, collocando nei posti di comando in Municipio i responsabili delle Organizzazioni di Volontariato e mandando i pubblici amministratori sulla strada a diretto contatto con la disperazione di tanti cittadini in gravissime difficoltà.

Sarò un demagogo? La demagogia è la degenerazione della democrazia, per la quale al normale dibattito politico si sostituisce una propaganda esclusivamente lusingatrice delle aspirazioni economiche e sociali delle masse, allo scopo di mantenere o conquistare il potere. Demagoghi quindi, per rimanere al discorso di cui sopra, sarebbero coloro che intendono installare le cancellate e non coloro che vogliono cercare di risolvere i problemi concreti di chi dorme in stazione.

L’attuale sindaco di Parma, Michele Guerra, al quale mi onoro di “non” avere dato il voto, amministra la città tramite una rete di demagogiche relazioni con le forze economiche, con i media, con il mondo culturale e con i giovani. In poche parole il sindaco “chiacchierone”, che è stato recentemente incoronato come il miglior sindaco d’Italia, vale a dire quello che ha un più alto indice di gradimento fra i cittadini del proprio comune. È a capo di un’amministrazione di sinistra, non fa un cazzo per la “povera gente”, ma lo dice bene, anzi benissimo. Mi aspetto da lui che partorisca qualche cancellata per nascondere i poveri diavoli. Forse sarebbe il caso che fosse lui a nascondersi, in buona compagnia, magari assieme al sindaco della capitale.

 

 

 

 

Le cazzate sono virali, ma stanno in poco posto

Circola ormai virale sul web un video di Giorgia Meloni che all’età di 19 anni, in un servizio del telegiornale francese Soir 3, parla di Benito Mussolini. “Io penso che Mussolini fosse un buon politico – disse – vuol dire che tutto quello che ha fatto, l’ha fatto per l’Italia. Non ci sono stati altri politici come lui negli ultimi 50 anni”. Era il 1996 e l’Italia si apprestava al voto: da un lato il centrodestra con Forza Italia, Alleanza Nazionale e il Ccd. Dall’altra parte della barricata il centrosinistra con l’Ulivo. Berlusconi contro Prodi. All’epoca la Meloni venne descritta come una militante molto attiva di Alleanza Nazionale. Oggi, la quarantacinquenne politica romana guida il partito di Fratelli d’Italia primo nei sondaggi in vista delle elezioni politiche del 25 settembre. (Gazzetta del Sud online – 16 agosto 2022)

 

Carlotta Nonnis Marzano, nominata assessora al Clima e alla Transizione ecologica, in quota Alleanza Verdi Sinistra, del comune di Bari il 16 agosto dal sindaco Vito Leccese, ha deciso di rinunciare alle deleghe dopo le polemiche per alcuni suoi post social, uno in particolare contro il Papa. Il 31 maggio Nonnis Marzano ha condiviso su Facebook un articolo del Fatto Quotidiano accompagnandolo con queste parole: «Non vi sembra arrivato il momento di congedare questo anziano molesto dalle cronache quotidiane e accompagnarlo ai giardinetti per dare becchime ai passeri? Ah meglio di no, data la tradizione non vorrei rivolgesse piuttosto le sue attenzioni ai bambini». (Leggo – 17 agosto 2024) 

 

Chiedo allo sparuto gruppo dei miei lettori di riunirsi in una cabina telefonica e di farmi sapere quale delle due cazzate di cui sopra giudicano più indecente. Io non mi esprimo per non influenzarli. Probabilmente ne potrebbe uscire un gustoso “così è se vi pare”.

Giorgia Meloni era molto giovane, mentre Carlotta Nonnis Marzano è maggiorenne e vaccinata…

La Marzano doveva essere un assessore comunale, mentre la Meloni è diventata premier…

La Marzano ha avuto il coraggio di rinunciare all’incarico, mentre la Meloni è incollata alla sua seggiola…

La Meloni ha esposto un giudizio politico, mentre la Marzano ha offeso il capo della Chiesa cattolica…

La Meloni può dire di essersi ravveduta, mentre la Marzano si è solo dimessa…

Provate a continuare! Buon divertimento!