La farsesca guerra all’ultimo no

Qualcuno mi ha fatto osservare che sarei troppo attento alle menate pentaleghiste. In effetti un recente sondaggio ha rivelato che gli italiani sarebbero molto più interessati alle diete dimagranti e a roba del genere piuttosto che al triste spettacolo teatrale della politica avvitata nelle risse da cortile tra Lega e M5S. Da una parte potrebbe anche essere consolante, ma dall’altra significa che degli attuali politicanti non frega niente a nessuno, salvo poi disgraziatamente votarli. E allora meglio scongiurare il pericolo, parlandone prima, seppure con un po’ di nausea.

A detta di Salvini i cinquestelle costituirebbero i partner governativi del “no”: ad autonomia regionale, a flat tax, a sicurezza bis, a cantieri già pronti. Senonché lo stesso leader leghista diventa immediatamente l’isterico “signornò” sui migranti: «La Sea Watch chiede un porto? La mia risposta è no, no, no e no. E non c’è presidente del Consiglio né ministro 5 stelle che tenga, nessuno pensi di ordinarmi di far arrivare le navi coi migranti. In Italia i trafficanti di esseri umani non arrivano. Se questo mi costa un processo, processatemi. Se qualcuno pensa di riaprire i porti, è no».

Il contratto matrimoniale si basa su dei “si”, il contratto di governo tra Lega e M5S si basa sui “no”: è questo il cambiamento? Un matrimonio atipico consumato in camere separate, un amore ben più che “litigarello”, una baruffa in cui fa da imbranato paciere il premier Conte, costretto a precisare: «Il presidente del Consiglio non dà e non ha mai dato ordini. Come previsto dall’articolo 95 della Carta, dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Coordina l’attività di tutti i ministri, nessuno escluso». Fonti di Palazzo Chigi aggiungono: “Il premier Conte non partecipa alla competizione elettorale e non si lascia certo coinvolgere nella dialettica che le sta caratterizzando. Piuttosto invita tutti i ministri a mantenere toni adatti a chi rappresenta le istituzioni”.

Se Matteo Salvini si sente in dovere di affermare “qui comando io”, vuol dire che il suo carisma ministeriale scricchiola assai. Che non gli capiti quel che successe a me in una improvvisata squadretta di calcio partecipante ad una competizione di quartiere: mi autopromossi capitano e guidai la compagine ad una disfatta clamorosa. O che non faccia la figura di quel marito, il quale, per schivare gli improperi e le bastonate della moglie, si rifugia sotto il letto. Al reiterato e autoritario invito della moglie ad uscire dal penoso nascondiglio, egli, con un rigurgito di machismo, risponde: «Mi  fagh cme no vôja e stag chi!».

Mio padre diffidava molto di quanti al bar si vantano di esercitare in famiglia un potere assoluto nei confronti di moglie e figli: scoprendo gli altarini, si verifica che le cose generalmente stanno in modo diverso e che il leone del bar si trasforma in pecora non appena varca la soglia di casa.  Credo che Salvini, vedendo messa continuamente in discussione la sua influenza politica quale leader di partito, ministro e vice-premier, senta la necessità di alzare la voce e picchiare i pugni sul tavolo. La domanda che in molti si pongono è se si tratti di tattica pre-elettorale o di sostanziale divergenza di vedute all’interno della compagine governativa giallo-verde.

Chi litiga per scherzo finisce col litigare sul serio: «Se du i s’ dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ch’a  guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón». Chi litiga sul serio, se non trova il modo di sancire definitivamente una separazione, diventa assai poco credibile e finisce col coprirsi di ridicolo recitando una parte in commedia. Stiamo a vedere non tanto quanto succederà dopo le elezioni europee, che vengono vissute solo come la costruzione di uno sciocco spartiacque italiano (non tra europeisti ed euroscettici, ma fra aree di influenza di Salvini e Di Maio).  Vedremo invece fino a quando il mondo globalizzato riuscirà a sopportare la locale comica finale, che un tempo si usava far seguire alla rappresentazione di spettacoli drammatici o tragici, e che invece si sta trascinando ben oltre il tempo assegnatole e sta diventando essa stessa dramma o tragedia.

 

 

Sospesa a salvinis

A Palermo una docente di Italiano e Storia in un istituto tecnico è stata sospesa per due settimane dal servizio per non aver vigilato sul lavoro dei suoi alunni, che in un video hanno accostato le leggi razziali al decreto sicurezza del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Sulla vicenda fortunatamente si è scatenata una bella polemica sostanzialmente riconducibile a due posizioni: da una parte chi sostiene, in testa il ministro chiamato in causa, che la politica dovrebbe star fuori dalla scuola, che equiparare le leggi razziali al decreto sicurezza è inopportuno  e che il fascismo e il comunismo fecero morti mentre gli attuali governanti vogliono salvare le vite proteggendo i confini; dall’altra parte chi difende il diritto degli studenti ad avere ed esprimere le proprie opinioni ed il proprio pensiero critico,  chi ritiene che gli studenti abbiano ben compreso il significato più profondo della Giornata della memoria, che non è un rito stanco, ma un pungolo per il presente, chi considera assurdo prima che ingiusto la sospensione di un insegnante per le opinioni di un suo studente.

È fuori discussione che in Italia si stia instaurando un clima di conformistica adesione alle idee relative alla difesa, a tutti i costi, di un ordine egoisticamente inteso ed è altrettanto chiaro come si stia cercando di soffocare subdolamente la critica. Ciò che sorprende è che autorevoli esponenti del M5S si scandalizzino di questo andazzo, che li vede da una parte protagonisti a livello politico-governativo e dall’altra contestatori a livello pseudo-parlamentare e mediatico. Il deputato Luigi Gallo, presidente della Commissione Cultura, annunciando un’interrogazione parlamentare cinquestelle, ha dichiarato: «Piacciono solo i cittadini indottrinati? Obbedienti e quindi incapaci di costruire un mondo migliore di quello che ereditano, di spingerci oltre i diritti già conquistati? Noi lavoriamo affinché gli studenti abbiano un pensiero critico, sviluppino ragionamenti indipendenti e imparino a pensare con la propria testa. E il ministero della Lega cosa fa? Li censura. Un atto veramente grave e per questo il M5S ha depositato una interrogazione a prima firma Vittoria Casa».

Sarà opportuno che l’onorevole Gallo guardi cosa sta succedendo nel pollaio governativo (Salvini non è ministro della Lega ma del governo della Repubblica) e che l’onorevole Casa guardi quanto capita nella sua casa governativa dove vivono da separati i coniugi della strana famiglia pentaleghista. Il becco di ferro grillino non ha limiti! Devono smetterla di fare la parte del poliziotto buono, si assumano le loro responsabilità e la smettano di bluffare con atteggiamenti rivolti agli allocchi dell’elettorato italiano. I senatori e le senatrici M5S in commissione cultura hanno commentato in una nota: «Che gli studenti si siano mobilitati davanti alla prefettura a sostegno di Rosa Maria Dell’Aria, la loro docente ingiustamente sospesa per 15 giorni dall’insegnamento per non aver censurato il loro lavoro, è un gesto encomiabile che suscita orgoglio e speranza». Non si può essere ad un tempo domatori e cavalcatori di tigri: il circo grillino prevede anche questo.

Cosa concludere? I bambini giocano “al dottore”, i politici in auge stanno giocando “al democratico”. I bambini in tal modo scoprono la loro identità, i leghisti e i grillini nascondono la loro falsità.

Si stringe il cerchio tangentista

La storia insegna come spesso i personaggi in auge precipitino dall’altare alla polvere in fretta e per motivi banali o quanto meno non proprio inerenti alle loro peculiari attività e funzioni. Un tempo erano le vicende sessuali più o meno trasgressive a rovinare la reputazione dei potenti o delle persone di spicco e di successo. Si pensi al campionissimo sportivo, Fausto Coppi, messo in croce a livello mediatico per un adulterio, mentre oggi saltabeccare da una donna all’altra (o da un uomo all’altro) è diventato una sorta di status symbol, un catalogo da sciorinare in faccia al popolo bue. Al riguardo è ancora relativamente e farisaicamente “bacchettone” il giudizio sui politici negli Usa e in Gran Bretagna: basta poco, sessualmente parlando, per essere costretti alle dimissioni e/o per avere stroncata la carriera.

Benito Mussolini era riuscito a far accettare e addirittura ammirare la sua vita extra-coniugale all’ombra della teoria del super-uomo calata sulla sua figura. Silvio Berlusconi ci tentò e ci riuscì fino ad un certo punto (gli uomini ritenendolo il furbo e ammirevole donnaiolo, le donne considerandolo il macho potente a cui tutto è lecito ed a cui non si può dire di no), salvo le esagerazioni (tutti i troppi son troppi), che finirono col retrocederlo da Casanova a maniaco sessuale, da donnaiolo di gran classe a volgare puttaniere.

Anche se qualcuno sostiene che il sesso sia ancora la ricattatoria chiave (o una delle chiavi) di volta per impostare ed interpretare i rapporti di potere, personalmente ritengo non sia più il punto debole su cui essere aggrediti e squalificati: recentemente i due vice-premier italiani hanno gareggiato fra di loro, esibendo con disinvoltura, se non addirittura con studiata intenzionalità ed evidenza, le immagini delle loro avventure galanti (roba leggera, peraltro non trasgressiva, ma assai sbandierata). Tutto fa audience.  Quasi tutti per la verità se ne fregano delle avventure galanti dei politici, alcuni addirittura li ammirano e li invidiano. Io li compatisco e comunque resto legato alla disciplina ed all’onore richiesti dalla Costituzione Italiana ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche. Se uno vuol fare i propri comodi, nessuno glielo vieta, ma deve rimanere in ambito privato, altrimenti…

Le vere luci rosse per i politici però non si accendono sulle avventure sessuali, ma su quelle della correttezza di carattere economico. Della serie un ministro può tranquillamente toccare il sedere di una sua segretaria (ammesso che questa glielo consenta), ma non può toccare una bustarella offertagli da qualcuno in cerca di piaceri e protezioni. Per venire ai nostri giorni, ho l’impressione che intorno a Matteo Salvini e alla sua Lega si stia stringendo un cerchio infuocato di tangenti, che riguarderebbero esponenti leghisti centrali e periferici. Vuoi vedere che i consensi caleranno in picchiata per questo motivo? Va bene respingere e/o rimandare a casa gli immigrati, va benone concedere l’autodifesa spropositata ai cittadini aggrediti, va ancor meglio mettere in riga i burocrati europei e sfondare il bilancio erariale, ma rubare non si può, né come partito né come singoli esponenti di partito.

Su questo discorso potrebbe incrinarsi e addirittura volgere al termine la luna di miele di Salvini col popolo italiano: lui si sta difendendo con le unghie e coi denti, giocando a fare il garantista, ma sa benissimo di stare scherzando col fuoco. Non mancava altro che la notizia riguardante la Procura del Lazio della Corte dei Conti, la quale avrebbe aperto un fascicolo esplorativo sui presunti abusi effettuati da Salvini in materia di voli di Stato. Prontamente Di Maio si è impossessato del ruolo di fustigatore di costumi: “Spuntano tangenti ovunque, giorno dopo giorno, e la scelta in vista delle elezioni europee sembra essere sempre più chiara: il 26 maggio sarà tra noi e questa nuova Tangentopoli. Sono molto preoccupato per i casi di questi giorni, di arresti e indagati per casi di tangenti e corruzione, che hanno coinvolto sia la destra sia la sinistra. C’è un’evidenza, ovvero che il sistema partiti continua ad essere fortemente inquinato”.

Non mi piace la pacchiana e sempre meno credibile strumentalizzazione grillina, ma non piangerò calde lacrime se il leghismo andrà in crisi sull’onda delle tangenti. Preferirei di gran lunga che venisse smascherato e sconfitto politicamente, per le orribili linee portate avanti e bevute con paradossale gusto dagli elettori. Anche perché le “sconfitte giudiziarie” spesso durano l’espace d’un matin e talora si ripercuotono in fretta anche sui vincitori (chi è senza peccato, scagli la prima pietra), mentre quelle politiche lasciano o dovrebbero lasciare irrimediabilmente il segno.

 

Il pallone (s)gonfiato

Quando un evento viene pompato a dismisura perde il suo proprio significato e diventa una messa in scena fine a se stessa. È successo con la partita di calcio, finale di Coppa Italia, tra Lazio e Atalanta. La drammatizzazione dello scontro calcistico ha favorito se non causato la solita guerriglia urbana: i disordini intorno allo stadio si sono sfogati contro i vigili urbani e i loro automezzi. Non so se ci sia stata una sorta di rivolta freudiana contro la capitolina mancanza di ordine, tale da legittimare il disordine provocato dai tifosi. Fatto sta che gonfia e gonfia, il pallone ha cominciato a sgonfiarsi ancor prima dell’inizio della partita.

Per fortuna i disordini non hanno avuto un seguito all’interno dello stadio dove le tifoserie si sono affrontate come leoni in gabbie separate e alla fine hanno saputo scaricare positivamente la loro adrenalina sulle squadre, con due trionfi separati: quello laziale, istericamente scatenato dalla conquista di un trofeo di seconda categoria e di ultima spiaggia (chi si contenta gode), quello atalantino consolatoriamente orientato sulla vittoria morale di una squadra simpatica e frizzante come non mai (chi si contenta ha sempre ragione).

Sul piano squisitamente calcistico, molta tensione al limite della correttezza, poco bel gioco, parecchio nervosismo, una partita tutto sommato piuttosto deludente, molto lontana dal livello tecnico, agonistico ed emotivo delle recenti partite di semi-finale delle coppe europee. Insomma, tanto tuonò che non piovve, anche se la grancassa mediatica ha dovuto fare fino in fondo il proprio mestiere promuovendo testardamente il mediocre incontro a epico scontro fra titani.

Poi è arrivata la ciliegiona sulla torta: quando ormai si era celebrato il trionfo, in sede di commento a qualcuno è venuta l’idea di rispolverare un episodio molto discutibile del primo tempo: un tocco di mani da parte di un giocatore laziale, peraltro già ammonito, su un tiro atalantino, col pallone deviato a colpire il palo. A me, seduto comodamente davanti al video con un “retrotifo” a favore dei bergamaschi, era parso un fallo da rigore, ma tutto era scivolato via senza problemi e rimostranze. Niente var, niente rigore, niente seconda ammonizione, niente espulsione.

Quando, a partita abbondantemente finita, le luci si stavano spegnendo, viene chiamato in causa l’allenatore atalantino Gasperini per mostrargli la moviola del fattaccio: lui rimane allibito, perché dalla sua posizione ai lati del campo non si era reso conto dell’accaduto e non aveva dato ascolto ai suoi giocatori, che gli avevano tuttavia segnalato quel fallo di mano. Gasperini resta di stucco e, dopo aver ribadito sportivamente l’accettazione della sconfitta e riconosciuto il valore della vittoria dell’avversario, non può esimersi dall’esprimere un giudizio sferzantemente negativo sul comportamento dell’equipe arbitrale, che ha completamente ed inspiegabilmente trascurato quell’episodio.

Non lo ha detto apertamente, ma si sarà chiesto quello che anch’io ho provato a chiedermi: cosa ci sta a fare la var, se non la si usa in simili situazioni; come è possibile che un tale evidente tocco di mano sia sfuggito a chi manovra il video di controllo; come mai non si è chiesto all’arbitro di andare a rivedere l’episodio per poi prendere una decisione a ragion veduta. La partita avrebbe potuto prendere una piega molto diversa. A pensare male si fa peccato, ma ci si azzecca: sarà così anche nel calcio? Scatta la polemica per la gioia dei media, che potranno continuare a parlare all’infinito dell’accaduto e con la delusione degli atalantini corsi in oltre ventimila a Roma e tornati a Bergamo con tanta dignitosa tristezza, ma con la var nel sacco.

Troppe chiacchiere, troppi arbitri, troppi giornalisti e commentatori sportivi, troppo clamore, troppa violenza (questa volta fortunatamente fuori dallo stadio). Ha vinto la Lazio. Non ha vinto il calcio, al quale è stato assestato l’ennesimo calcio.

Tra globalizzazione e glocalizzazione

Oggi mi va di volare alto (o basso a seconda del punto di osservazione). Mi butto a parlare di massimi sistemi.  Il pensiero scientifico sulla globalizzazione rimette, in un certo senso, le cose a posto: toglie le illusioni del ritorno al passato, ma, al contempo, fissa le regole per un futuro diverso. La globalizzazione, come tutte le scoperte e i meccanismi del progresso, può essere un’arma a doppio taglio, da utilizzare quindi con grande prudenza e attenzione. Per dirla con banali e abusati riferimenti storici, non è rifiutando la globalizzazione che si otterrà maggior giustizia sociale, non è sigillando i confini che si arresterà l’immigrazione, non è sbaraccando la Ue che l’Europa tornerà a crescere, non è con l’egoismo nazionalista che si creeranno posti di lavoro, così come gli operai di alcuni secoli or sono non difesero i loro diritti distruggendo le macchine introdotte nelle loro fabbriche.

La prassi politica invece sta prendendo un indirizzo diverso e reazionario. Si parte dal discorso ridotto ai minimi termini, che porta al quesito di fondo: globalizzazione va d’accordo con uguaglianza economica e giustizia sociale o ne preclude il raggiungimento? Dopo l’infatuazione e l’innamoramento iniziali, poco  a poco le contraddizioni si sono fatte vedere e soffrire. E allora? Bisogna cambiare!

Come al solito gli approcci revisionisti sono o possono essere di due tipi: radicale nel rifiuto e nel ritorno al passato; riformista nel sottoporre paradossalmente la “mancanza di regole” ad alcune regole. Dopo la sbornia neoliberista degli anni Ottanta, dopo l’allargamento del Wto, dopo l’implosione finanziaria a Wall Street, si arriva a mettere gradualmente in discussione la mancanza di barriere, regole e vincoli e si ipotizza addirittura un addio totale o parziale alla globalizzazione. Sembra prevalere l’approccio radicale fino al punto di arrivare a teorizzare, seppure in modo paradossale e velleitario, la cosiddetta “glocalizzazione”, cioè un nostalgico e demagogico ritorno al nazionalismo se non addirittura al localismo, col contorno dell’innalzamento di muri e fili spinati, un rifugio nel populismo di maniera, illusionisticamente legato alla riconquista dei vecchi schemi socio-economici.

Mentre il mondo viaggia verso la “globalizzazione” più o meno spinta, la politica si chiude nella “glocalizzazione” più o meno apertamente evocata. Dagli Usa di Trump alla Brexit, da Visegrad al leghismo nazional-regional-popolare, dagli indipendentisti ai celoduristi, le campane sembrano suonare per convogliare la gente sulla via di un nostalgico ritorno al passato. Queste virate anti-storiche presentano non pochi rischi: la storia insegna che per ovviare all’evidenza della confusione progressista bisogna ricorrere al nascondimento delle sfide future, sventolando le bandiere dell’ordine proveniente dalle tragedie passate.

Questa dicotomia tra pragmatismo acritico e ideologismo datato ci sta imprigionando e deviando: in estrema e semplicistica sintesi, sta rivalutando spudoratamente le destre nelle piazze e mettendo decisamente in crisi le sinistre, relegandole nei salotti. C’è un modo per uscire da tale impasse? In teoria sarebbe necessario coniugare la difesa dei valori di giustizia sociale con l’apertura alla modernità strutturale del mondo in rapida evoluzione. Per dirla con una frase evangelica: essere nel mondo senza essere del mondo. Questa citazione non è meramente casuale: vuoi vedere che la politica, se vuol ritrovare un certo equilibrio, deve rispolverare l’ispirazione cristiana?

 

 

Le ridondanze faziane e faziose

Da parecchio tempo si discute di tetto agli stipendi in Rai, contrapponendo le esigenze dell’etica retributiva con quelle delle regole del mercato televisivo. Viviamo in un sistema capitalistico dove il gioco della domanda e dell’offerta dovrebbe caratterizzare i rapporti economici, salvo il fatto che da entrambe le parti si vengano a creare sotto diverse forme veri e propri monopoli o almeno oligopoli. C’è poi il discorso dei diversi poteri contrattuali, che si misurano in modo squilibrato e talvolta iniquo. Il sistema radio-televisivo non è immune da queste storture.

Non mi scandalizzo pertanto se lo Stato tenti di introdurre limiti e vincoli ad uno strano ente, sottoposto al controllo parlamentare, orientato a livello gestionale dal governo, finanziato in modo consistente coi soldi provenienti dai contribuenti. Forse, come spesso accade, si va alla ricerca scandalistica delle incongruenze anziché elaborare strategie che (ri)portino la Rai nell’alveo di una programmazione rispettosa degli interessi collettivi.

Esiste una jungla retributiva al massimo rialzo; esiste il clientelismo politico al minimo rispetto dell’obiettività; esistono evidenti ma opache promozioni e retrocessioni; esiste un carrozzone mangiasoldi che oscura le pur presenti eccellenze a livello culturale e informativo. La pietra dello scandalo, che sembra riassumere tutte le contraddizioni, è da qualche anno il compenso al giornalista-intrattenitore Fabio Fazio che svetta su tutti. Non entro nel merito del suo valore professionale, peraltro innegabile, e non vado alla ricerca di altri personaggi Rai più o meno nelle stesse condizioni contrattuali: è un infantile gioco che non mi interessa e non porta da nessuna parte. Capisco, ma non condivido la difesa d’ufficio dei super-pagati, i quali si nascondono dietro il dito dei profitti arrecati all’ente col loro lavoro. È un pericoloso meccanismo che tende a giustificare tutto, a sacrificare il bello, a manovrare il buono, a pescare nel torbido.

Come spesso mi accade, vado a prestito dai sani anche se troppo semplici ragionamenti paterni. Mio padre che non era capace, per sua stessa ammissione, di farsi pagare per il giusto, che non osava farsi dare del “lei” dai garzoni, che aveva uno spiccato senso del dovere e non concepiva, nella sua semplicità di vita, questi lauti ed enormi guadagni, sogghignava di fronte agli scandalosi ingaggi: “Mo co’ nin farani äd tutt chi sòld li, magnarani tri galètt al di?”  Scherzi a parte mio padre era portatore di un’etica del dovere, del servizio e reagiva, alla sua maniera, alle incongruenze clamorose della società.

Vorrei porre a Fabio Fazio ed ai suoi super-pagati colleghi la graffiante e provocatoria domanda-riflessione proposta da mio padre. Quando tutti spingono, la soluzione è quella di aprire improvvisamente la porta: nel caso in questione l’apertura dell’uscio Rai potrebbe essere una consistente “autoriduzione” di stipendio. So benissimo che i problemi di equità salariale non si risolvono con i gesti di buona volontà. So benissimo che ridursi lo stipendio potrebbe significare la sottovalutazione della propria professionalità. So benissimo che la guerra dei compensi alla Rai cela una spasmodica ricerca di appoggi mediatici alla politica. So benissimo che gli sprechi in Rai e altrove sono parecchi, tali da oscurare le vivide ridondanze faziane e faziose. Ammetto e (non) concedo tutto.  Ma un bel gesto aumenterebbe la stima verso Fazio e verso i suoi colleghi. Poi parliamo d’altro, vale a dire di contenuti e Dio sa se non ce ne sia bisogno.

 

Il cardinale abusivo

Konrad Krajewski, l’elemosiniere del Papa, è andato in un palazzo romano occupato da 450 persone a portare doni e cibo, ma non si è accontentato ed ha staccato i sigilli del contatore ridando la corrente elettrica agli abitanti a cui era stata tolta per morosità. L’autore di questo gesto chiaramente provocatorio ha dichiarato: «Sono intervenuto personalmente, ieri sera, per riattaccare i contatori. È stato un gesto disperato. C’erano oltre 400 persone senza corrente, con famiglie, bambini, senza neanche la possibilità di far funzionare i frigoriferi. Non l’ho fatto perché sono ubriaco».

Il cardinale polacco, che già in passato si era preso cura di anziani, malati e bambini che vivono nella struttura, è arrivato nel pomeriggio a bordo di un furgone carico di regali per i più piccoli. Sapeva che gli abitanti del palazzone erano da tre giorni senza corrente: ha chiamato al telefono Prefettura e Comune, chiedendo di riattivare l’energia elettrica, minacciando altrimenti di farlo lui stesso. Dopo alcune ore è tornato sul posto, ha di nuovo chiamato le autorità cittadine per esplicitare il suo intento, poi si è calato nella buca dove c’è l’impianto di media tensione, ha attuato una serie di manovre e la luce è tornata. Prima di prendere i voti aveva lavorato in Polonia nel settore elettrico e quindi aveva la competenza professionale per intervenire.

Immediatamente la società elettrica che gestisce l’infrastruttura si è accorta dell’anomalia ed è giunta sul posto scortata da alcune camionette della polizia. Gli occupanti, al grido di “senza luce non si vive”, hanno presidiato in massa la cabina elettrica fino alle 3 di notte circa, quando le forze dell’ordine hanno abbandonato lo stabile. Nonostante l’intervento della polizia non è stato possibile rimettere i sigilli alla cabina elettrica. Il tutto è conseguenza del debito accumulato dal 2013 che sembra ammonti a oltre 300mila euro e il Campidoglio ha fatto sapere che non salderà le bollette della luce arretrate.

Da quello che posso intuire si tratta di un caso in cui si sommano gravi problemi abitativi a occupazioni abusive da parte di soggetti in gravi difficoltà e iniziative culturali ed artistiche di sostegno all’antagonismo sociale. Il Papa, tramite il suo incaricato per le iniziative caritative, ha messo il dito nella piaga senza timore di rimanere impigliato in una inevitabile polemica. Queste situazioni andrebbero gestite a livello pubblico con molta elasticità e flessibilità, mentre invece vengono lasciate per anni a marcire e poi, quando scoppia la bagarre, affrontate e trattate burocraticamente e sbrigativamente.

Non posso evitare un paio di riflessioni: una di carattere socio-politico e una di stampo ecclesiale. È perfettamente paradossale che il movimento cinque stelle affronti (?) il problema della povertà introducendo centralmente e legislativamente il cosiddetto reddito di cittadinanza, per poi chiudere gli occhi territorialmente, con suoi autorevoli amministratori locali, sui problemi concreti drammaticamente emergenti. È troppo comodo pontificare a livello governativo per poi balbettare a livello comunale. Occorre sensibilità e fantasia che vanno ben oltre il rigorismo sociale pentaleghista, che oscilla tra lo pseudo-comunismo grillino e lo pseudo-liberismo salviniano.

La Chiesa si è svegliata, papa Francesco le sta dando una bella scrollata, passando dalla mera teorizzazione evangelica alla denuncia sociale e financo politica. Siamo giustamente ed opportunamente arrivati alla testimonianza provocatoria. Il leader della Lega Matteo Salvini è intervenuto a margine del gesto provocatoriamente disperato del cardinale Krajewski, parlando durante un comizio elettorale a Cuneo: «Conto che l’elemosiniere del Papa, intervenuto per riattaccare la corrente in un palazzo occupato di Roma, paghi anche i 300mila euro di bollette arretrate. Penso che voi tutti, facendo sacrifici, le bollette le paghiate. Se qualcuno è in grado di pagare le bollette degli italiani in difficoltà siamo felici…». Una ignorante e strumentale manciata di fango su un intelligente e provocatorio gesto. Purtroppo credo che parecchia gente abbia reagito come Salvini. E allora? Bisogna che la Chiesa, come istituzione e come comunità, faccia un ulteriore passo avanti, non tanto pagando una tantum a livello vaticano le bollette della luce, ma inaugurando definitivamente, a livello centrale e periferico, uno stile di condivisione verso i problemi degli ultimi. Non per tappare la bocca ai Salvini, ma per soddisfare fino in fondo le esigenze evangeliche.

Le scialuppe di affondamento

“Dum ea Romani parant consultantque, iam Saguntum summa vi oppugnabatur”: mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata. Questa locuzione, risalente al terzo secolo avanti Cristo, al periodo delle guerre puniche, viene usata nei confronti delle situazioni in cui si perde molto tempo in discussioni continue senza prendere una decisione, in un contesto che invece richiederebbe rapidi interventi. Uno degli esempi più noti dell’uso di questo detto si ebbe in occasione dell’omelia tenuta dal cardinale Salvatore Pappalardo al funerale di Carlo Alberto Dalla Chiesa: un duro attacco all’inconcludenza dello Stato di fronte all’aggressione mafiosa e agli omicidi eccellenti di Cosa nostra.

Mi sembra che la locuzione antica mantenga tutto il suo provocatorio significato e possa tranquillamente essere usata per fotografare l’insulsa e colpevole incertezza dei governanti italiani davanti all’arrivo di navi piene di naufraghi, provenienti dall’inferno dei Paesi africani alla disperata ricerca della sopravvivenza rispetto ai tormenti da cui provengono. Ebbene, a questi disgraziati si tende a dare risposte interlocutorie, accampando alibi e discutendo sui loro destini, mentre le loro vite sono letteralmente appese ad un filo.

Si sta a disquisire sul chi e sul come si debba intervenire per salvare questi profughi in balia delle onde; si tende a chiudere i porti in cui le navi dovrebbero attraccare; si litiga, leggi, regolamenti e trattati alla mano, su chi debba ospitarli palleggiandosi responsabilità e competenze; si fanno distinzioni capziose tra le cause per il diritto di asilo; si dubita sulla buona fede dei salvatori; si scarica tutto sulla guerra contro gli scafisti; si teorizzano accordi con i Paesi di provenienza; si fa una celoduristica battaglia contro l’immigrazione alla ricerca dei voti contro le ipotetiche moderne invasioni barbariche. Tutto mentre decine di persone aspettano solo una ciambella di salvataggio vera e propria per continuare a vivere affrancandosi dalle condizioni inumane a cui sono soggetti.

Prima salviamoli, collochiamoli in modo appena dignitoso, poi viene tutto il resto a livello nazionale ed europeo. Il fenomeno va gestito: sono perfettamente d’accordo; occorrono patti chiari e solidali fra gli Stati europei: lavoriamoci alacremente; bisogna pensare a serie politiche di integrazione: apriamoci ad una visione multiculturale e multireligiosa del mondo; smettiamola con i conflitti tra i poveri nostrani e quelli d’importazione: non possiamo sfornare assurde graduatorie della disperazione; ragioniamo sui nostri deficit demografici: vediamo come compensarli con l’arrivo e l’integrazione dei migranti. Tutto possibilmente non a babbo morto, vale a dire dopo aver sepolto in mare i profughi, ma dopo averli, seppure provvisoriamente, accolti.

Cosa pensano di ottenere gli stupidi governanti del “basta”? Oltre l’osservanza dei principi etici che dovrebbero far parte del nostro patrimonio culturale, vi è una imprescindibile esigenza di seguire una politica positiva e costruttiva, abbandonando l’illusione di rimuovere il problema con gli slogan, con i muri, con i fili spinati, con il mero pattugliamento delle coste, con il massiccio rimpatrio dei clandestini.

Ho sentito parlare di un amico della mia famiglia, un uomo buono ma mentalmente un po’ ritardato, che combatteva i topi collocando le trappole. Poi, non avendo il coraggio di eliminarli, li portava in qualche prato periferico e se ne tornava a casa. Trovava l’immediata sorpresa della presenza di altri topi e se ne stupiva pensando che avessero fatto più in fretta di lui a tornare a casa. Mi scuseranno gli immigrati perché non volevo assolutamente assimilare il loro arrivo ad un’infestante invasione di topi. Volevo solo ridicolizzare quanti si illudono di arrestare i flussi migratori con inumani, banali, sciocchi e inutili provvedimenti.

Il neofascismo è fuori dal minimo etico

Quante polemiche per una casa editrice di simpatie chiaramente fasciste! Al Salone del libro di Torino, prima l’avevano confinata in un angolo e poi finalmente l’hanno esclusa. Mi ha sinceramente stupito il coro di snobistiche difese della libertà di pensiero e di cultura. Ma quale pensiero, quale cultura? Il fascismo è fascismo e non si può transigere.

Qualcuno ha sostenuto che non esisterebbero leggi sulla base delle quali operare queste censure. Cerchiamo di essere seri e chiari: c’è la Costituzione italiana e c’è il reato di apologia di fascismo. Basta e avanza! Non facciamo i fini dicitori: su questo terreno non si può scherzare. Cerchiamo semmai di applicare le leggi. Come si permette questo CasaPound, movimento e/o partito di matrice neofascista, di imbrattare la nostra democrazia? Come si permette un ministro della Repubblica italiana, che ha giurato di osservare lealmente la Costituzione, di pubblicare un libro con la Casa editrice Altaforte, il cui responsabile è un attivista del partito neofascista romano? C’è qualcosa che tocca! Esistono incompatibilità culturali, etiche e politiche.

I più furbi hanno detto e scritto che era meglio abbozzare e lasciare che Altaforte partecipasse al Salone del libro: la polemica avrebbe favorito questa casa editrice, facendole pubblicità. Questi calcoli tartufeschi mi fanno arrabbiare: la vogliamo smettere di scherzare col fuoco?

I più acculturati hanno rispolverato persino la teoria degli opposti estremismi: se censuriamo le brigate nere, dobbiamo censurare anche le rosse (si fa probabilmente riferimento ai centri sociali). Se consideriamo il metodo violento applicato alla prassi politica, sono perfettamente d’accordo a censurarlo ovunque. Se passiamo a discorsi ideologici, la sostanza cambia di molto. Vedo braccia tese nel saluto romano, ascolto ragionamenti e messaggi di stampo fascista. “Ucci, ucci, sento odor di fascistucci”. L’ho scritto qualche mese fa e lo ripeto convintamente.

Come Galilei non ha mai scritto: «Eppur si muove» e in nessun luogo delle opere di Machiavelli si trova: «Il fine giustifica i mezzi», allo stesso modo, alcuni sostengono, che Voltaire non abbia mai scritto né detto «Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire». Non so e non mi interessa più di tanto. Una cosa è certa: “l’idea di tolleranza non può che partire da un “minimo etico” e non può non essere che reciproca, ma non può ammettere nell’interlocutore idee di sterminio o altri abomini, che pertanto nessuno, e per giunta a sacrificio della propria vita, può consentire di dire ad alcuno. Se infatti si deve essere tolleranti coi tolleranti, viceversa non si può essere che intolleranti con gli intolleranti” (cfr. La Frusta letteraria di Alfio Squillaci).

Poi arrivano i furbetti a sostenere che l’antifascismo di maniera sia il più bel regalo che si possa fare a chi cova assurdi rimpianti e nostalgie. «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!»: così diceva don Andrea Gallo. Mi permetto di parafrasarlo aggiungendo: «Non mi curo di certe sottigliezze culturali perché mi importa solo una cosa: che lo Stato italiano sia antifascista».

 

I mangiatori di democrazia

In Lombardia e Piemonte i carabinieri e la guardia di finanza hanno emesso parecchi ordini di custodia cautelare nell’ambito di un’inchiesta che ipotizza un giro di tangenti tra importanti politici, imprenditori e dirigenti tra Milano e Varese, principalmente a livello dell’amministrazione regionale. Tra gli interessati ci sono anche diversi politici di spicco del centrodestra lombardo (l’appartenenza partitica non è purtroppo una discriminante ma una questione accomunante). In totale sono 95 le persone indagate a vario titolo per associazione a delinquere e corruzione.

I giornali riportano in particolare che l’indagine avrebbe individuato un tentativo di corruzione nei confronti del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, della Lega, che però non è indagato bensì “parte offesa”. Il tentativo di corruzione sarebbe arrivato da Gioacchino Caianiello, ex coordinatore provinciale di Forza Italia a Varese, già condannato in via definitiva per concussione nel 2017. Stando al Corriere della Sera, l’episodio risale al marzo del 2018, quando Caianiello avrebbe proposto a Fontana una nomina a capo del “settore Formazione” della Regione Lombardia, in cambio di garanzie su alcune consulenze legali che sarebbero state poi richieste a un amico e collega di Fontana.

Fontana, che non è indagato, secondo i giornali non avrebbe però denunciato l’episodio: non è chiaro perché. In una conferenza stampa, il procuratore Francesco Greco ha detto che le indagini avrebbero rivelato che il collega di Fontana in questione «ha poi ottenuto un incarico dalla Regione», e che quindi si sta «accertando lo spessore e la regolarità della procedura». Se devo essere sincero, non mi sembra una questione molto rilevante, anche se magari emblematica di una certa disinvoltura nella gestione pubblica, ma anche di una certa pignoleria giudiziaria.

L’inchiesta è però molto più ampia e comprende vari filoni.  Ci puzza maledettamente di tangentopoli. Anche allora il tutto partì dalla Lombardia. Qualcuno dice che tangentopoli non è mai finita. Fatto sta che la corruzione continua ad emergere, anche se è presto per elaborare teorie e giudizi di carattere generale. Rischia tuttavia di piovere sul bagnato del qualunquismo serpeggiante nella società, che trova sbocchi assurdi e paradossali nel populismo e nel finto e strumentale perbenismo. Un mio conoscente, attento osservatore delle cose della politica, sostiene però come sia capzioso accusare di qualunquismo l’uomo della strada: qualunquismo è rubare e degradare la politica ad arte dei propri affari più o meno loschi. Ha perfettamente ragione. Non ci si può scandalizzare della stizzita reazione della gente ad un certo andazzo politico.

Bisogna fare molta attenzione alla storia passata e presente: la corruzione della politica è un disgraziato incentivo alla messa in discussione della democrazia. Temo che dietro la recente deriva pentaleghista ci stia anche e soprattutto un’accentuata insofferenza verso il sistema corrotto e inaffidabile. Stiamo offrendo acqua a chi vuole sguazzare sulle scorrettezze dello stile politico per costruirci sopra pericolose scorciatoie antidemocratiche.

Quando il grande giornalista Indro Montanelli giudicava la storia di un politico partiva proprio dalla sua etica e operava una sorta di implacabile esame finestra: si è arricchito, ha intascato tangenti, ha fatto gli affari suoi, ha fatto i propri comodi, ha saputo mettere gli interessi pubblici prima dei suoi?   Possono sembrare parametri minimalistici, invece bisogna ripartire di lì per salvare la democrazia e per sconfiggere anche le nostalgie della sbrigatività nelle risposte e maniere forti. C’è un detto parmigiano: “La pulissia l’è méz magnär”. Sembra che troppi politici pensino invece: “Magnär l’è méza pulissia”.