La fede socialista, la speranza verde e la carità senza risorse

Partendo dai dati europei bisogna osservare che, a dispetto degli exit poll olandesi e dei risultati spagnoli, i socialisti sono usciti sconfitti dalle urne. A parziale compensazione del loro ridimensionamento vi è l’affermazione significativa dei Verdi.

I motivi del successo delle liste verdi sono dovuti a tre fattori fondamentali: lo storico significato della loro presenza in certi Paesi, quali la Francia e la Germania, laddove sono guidati da personaggi culturalmente e politicamente rilevanti; la versione in positivo che riescono a dare all’ansia di rinnovamento della politica: una sorta di antipolitica intesa in senso propositivo e costruttivo; la capacità di coniugare il respiro sociale e solidaristico  con il discorso della difesa ambientale: uomo e natura, le due facce della stessa medaglia, come sostiene innovativamente papa Francesco.

Il partito socialista è rimasto inchiodato alla sua visione tradizionale al limite del burocratico, ritenuta incongrua dalle nuove generazioni e da chi vive in gravi difficoltà. La mancanza di un apporto importante da parte delle forze tradizionali della sinistra si farà sentire e sposterà ulteriormente gli equilibri europei, Verdi permettendo, verso un’area a metà strada fra il liberalismo e la conservazione. Se presumibilmente verrà raggiunto un accordo fra liberal-democratici, popolari, socialisti e verdi, ci troveremo imbalsamati in un compromessone inconcludente e incapace di portare la Ue verso la Federazione con una indispensabile riforma istituzionale, che riesca a superare le pastoie di una commissione e di un consiglio ostaggi dei governanti dei Paesi membri, in un equilibrio paralizzante e di pura sopravvivenza.

È pur vero che i quattro raggruppamenti di cui sopra si dicono apertamente “europei” e possono mettere in buca gli euroscettici, usciti comunque con risultati a macchia di leopardo e complessivamente deludenti rispetto alle previsioni. Non basta però evitare il peggio, bisogna rilanciare forte il processo di integrazione.

Il partito democratico in Italia esce relativamente e solo percentualmente rafforzato: i dati delle elezioni europee ed anche quelli amministrativi gli ridanno fiato. Faccio tuttavia fatica a giustificare la debacle in Piemonte della ricandidatura di Sergio Chiamparino, un personaggio abbastanza coerente e credibile, lontano dalle burocrazie post-comuniste, legato alle problematiche del suo territorio, uomo non fazioso e ragionevole. Succede anche a lui quanto successe a Piero Fassino in comune di Torino. Questi uomini, a torto o a ragione, vengono associati alla vecchia nomenclatura della sinistra storica e regolarmente sconfitti quando vengono attaccati da candidature nuove, a prescindere dal loro scarso contenuto personale e programmatico.

Il partito democratico se fa un bagno di realismo e di pragmatismo viene accusato di tradimento ideale; se ripiega sulla propria storica identità viene tacciato di passatismo; se scommette sul nuovo che avanza viene ributtato all’indietro; se si àncora al passato viene beffeggiato e considerato come un arnese della vecchia ideologia politica. Deve poi fare i conti anche con il tarlo del frazionismo: che significato ha avuto ad esempio la presentazione della lista “Più Europa”, che non ha superato lo sbarramento del 4%?

Credo che le difficoltà socialiste dipendano sostanzialmente dalla estrema problematicità di gestire i processi nel post-welfare, con poche risorse disponibili, alle prese con tante sofferenze sociali e con un’economia che avrebbe bisogno di grandi spinte mentre mancano le risorse pubbliche per imprimerle. La sinistra deve fare quadrare i conti della lotta alle povertà con la necessità di non scassare i conti stessi in modo dissennato. Non è una scommessa facile…

Il lebbrosario dell’antipolitica

Se dalle elezioni europee la Lega esce con un “fascisteggiante” successo, peraltro difficile da gestire in prospettiva, il M5S esce ridimensionato e stoppato. Non è soltanto una questione numerica, abbastanza clamorosa, ma un tremendo giudizio, che lo sottopone alle forche caudine di una futura e ribaltata convivenza con i fratelli coltelli. Per un movimento come quello dei cinquestelle, tanto per stare in clima nostalgico, vale il motto “chi si ferma è perduto”.

Checché se ne dica, il messaggio che esce dalle elezioni, non tanto in Italia ma a livello europeo, riguarda la vittoria della politica sull’antipolitica. La protesta qualunquistica dura l’espace d’un matin e i pentastellati pagano questa loro improvvisazione/impreparazione che irrita parecchio l’elettorato. Della serie “fin che si scherza si scherza, quando si fa sul serio…”. Sembra finita la ricreazione. In Europa, seppure in modo piuttosto contorto, confuso e ritarato, escono prepotentemente sulla scena i partiti tradizionali: popolari, socialisti, liberal-democratici e verdi. Il resto è vocato alla irrilevanza politica e numerica. I grillini non sanno nemmeno a quale gruppo apparterranno nel parlamento europeo. Fuori gioco a Strasburgo, inconsistenti a livello periferico, ridimensionati in campo governativo, battuti dal Pd, nemico dichiarato e odiato, divisi al loro interno, sprovvisti di una classe dirigente meritevole di tale nome, schiacciati sul frettoloso ed assai poco credibile perbenismo dimaiano, abbandonati in fretta e furia dall’opportunismo dei media, rimane a loro, per dirla con Berlusconi, la sola prospettiva dei cessi di Arcore.

L’elettorato grillino, piuttosto raffazzonato, non poteva che rimanere deluso. Non so dove sia finita una parte consistente dei voti cinquestelle: nell’astensione, nella conversione leghista, nel ritorno piddino. In ogni caso si tratta di una batosta tremenda. Il futuro in questo caso non si può più dire che sia nelle mani di Grillo: fino a qualche tempo fa lo ritenevo l’unico vero e insostituibile leader del movimento. Si è piuttosto defilato e non capisco dove voglia parare. L’eminenza grigia casaleggiana sembra scricchiolare sotto i colpi dell’incomprensione: “piazze piene e urne vuote”, diceva Pietro Nenni; “social pieni e urne vuote”, così può essere aggiornata la sconfortata reazione socialista ai pessimi risultati delle elezioni del quarantotto.

Uscire dal governo pentaleghista per andare alle elezioni politiche sembra una follia. Continuare a convivere con una Lega ringalluzzita dal pieno di voti è una scommessa da disperati. Ripiegare su un’alleanza con il partito democratico è prospettiva numericamente, prima che politicamente, assurda. Scendere nelle piazze o rifugiarsi sul web non è possibile per chi vuole rinnovare tutto il sistema. Luigi Di Maio ha affermato, dall’improprio pulpito del ministero dello sviluppo economico, che non intende mollare ad ha comunicato al riguardo di aver chiesto la immediata convocazione dei gruppi parlamentari del M5S a cui sottoporre la nuova grave situazione. Credo sia preoccupato dell’unico sbocco plausibile che potrebbe avere la crisi grillina: una spaccatura tra le due anime, quella più intransigente e radicale rispetto a quella più tattica e continuista. I primi potrebbero prendere le distanze, assumere un profilo autonomo e muoversi liberamente a livello parlamentare; i secondi rimarrebbero invece legati al presente establishment per difendere le proprie posizioni.

Staremo a vedere. Si sapeva che le elezioni europee avrebbero avuto ripercussioni sui partiti di governo, ma non pensavo che i sommovimenti elettorali fossero così forti. Mentre la Lega è alle prese con una schiacciante vittoria assai difficile da gestire in Italia e in Europa, il M5S rischia di essere “becco e bastonato” e chiuso in una sorta di lebbrosario dell’antipolitica.

 

Da De Gasperi a Salvini, il precipizio è certo

Un primo commento a caldo sui risultati delle elezioni europee lo vorrei tenere entro gli strani confini di due affermazioni. Mia sorella, col suo inconfondibile stile tranchant, sosteneva e dichiarava spesso che “gli italiani sono rimasti fascisti”. Per fissare l’altro limite faccio riferimento ad un film in cui è narrata la vicenda di inizio novecento, in cui Eugenia di Maqueda e Raimondo Corrao scoprono, durante la prima notte di nozze, di essere fratello e sorella e, per questioni di eredità e decoro della casata, decidono di non rivelare a nessuno la verità e di recitare la parte di marito e moglie pur vivendo in castità assoluta. Eugenia però soddisfa le sue impellenti esigenze carnali, in un gorgo di avventure proibite, fino ad accorgersi di avere toccato il fondo ed ammettendolo con la ben nota esclamazione: “Mio Dio, come sono caduta in basso!”.

Dal 1948, e per parecchi decenni, il popolo italiano si fidò e si affidò alla Democrazia Cristiana di De Gasperi, Fanfani, Moro etc. etc. Quel partito di maggioranza relativa garantì la governabilità del Paese su alcuni principi fondamentali: l’interclassismo, l’ispirazione cristiana, la scelta occidentale, la scommessa europeista. Partendo dalla consistenza e dal ruolo di partito di maggioranza relativa, collaborando a livello politico con i partiti laici minori e, successivamente, con i socialisti, tessendo un dialogo financo col partito comunista, seppe guidare l’Italia in un cammino di grande crescita e sviluppo. Seppe rassicurare i vedovi del fascismo, i cattolici conservatori e progressisti, gli anti-comunisti viscerali, i Paesi alleati, il Vaticano, inanellando una serie di autentici capolavori della politica.

Ebbene, oggi, gli italiani, ridotti alla ideologica canna del gas, sprofondati nel loro egoistico benessere o nel loro sfiduciato malessere economico-sociale, rinchiusi nei propri angusti confini geografici e politici, scandalizzati dalla corruzione e solleticati dalla protesta, si fidano e si affidano alla Lega di Matteo Salvini, facendone il partito di maggioranza relativa, il playmaker della politica nazionale ed internazionale. Più o meno in buona fede, stanno ricadendo nel gorgo di uno strisciante fascismo ed hanno imboccato un cammino sostanzialmente trasgressivo, che li sta portando a toccare il fondo. Alla mediazione tra i diversi interessi sociali la Lega sostituisce un paradossale compromesso fra affarismo del nord e assistenzialismo del sud; al posto dell’impegnativa ispirazione cristiana mette una mera, vuota  e strumentale difesa della simbologia identitaria cattolica; alla scelta europea risponde picche, vale a dire con un ritorno al nazionalismo ed al sovranismo;   ad una politica razionale ed equilibrata di sviluppo compatibile sovrappone una populistica, velleitaria ed incompatibile spinta a tutto e il suo contrario. Sono i tipici percorsi socio-economici del fascismo, che piacciono a chi, sotto sotto, come diceva mia sorella, è rimasto fascista e non aspetta altro che lo spuntare di un personaggio “forte”, che risolva problemi, paure e difficoltà.

La Lega sta facendo la parodia della Democrazia Cristiana o, se volete, sta riproponendo la D.C. a rovescio. E gli italiani, in larga parte, ci credono. Qualcuno mi dice che sono esagerato e catastrofico e che in fin dei conti le elezioni europee sono sempre state un paradossale laboratorio a perdere: nel 1984 il Pci di Enrico Berlinguer diventò il primo partito italiano e la cosa non ebbe un seguito politico rilevante; nel 2014 il Pd di Matteo Renzi fece il pieno di voti, ma non riuscì a dare un seguito a questo ipertrofico successo. Questa volta gli italiani avrebbero soltanto voluto dare un messaggio ai due partiti di governo e dire alla Lega che, se vuole essere “capace di tutto” deve mollare gli alleati “buoni a nulla”. Dell’Europa non frega niente a nessuno, tanto… Un simile modo di ragionare e votare mi fa vomito e, forse, questa ipotesi è di gran lunga peggiore della mia, che fa (solo) ribrezzo. Perché segnerebbe la morte della politica. Mio Dio, come siamo caduti in basso!

La fuga senza amante

Gli inglesi sono i padri del calcio e attualmente lo stanno onorando a livello europeo con ben quattro squadre a contendersi le finali delle coppe continentali: al di là del risultato eclatante bisogna ammettere che lo hanno raggiunto esprimendo un gioco spettacolare e coinvolgente come poche volte si è visto. Onore al football, che ritrova nella sua patria la verve che i tatticismi e gli affarismi gli avevano progressivamente tolto.

Gli inglesi, se la storia non mi tradisce, sono anche tra i padri della democrazia politica, almeno come noi la intendiamo. Possiamo andare al 1200. Ebbene, certamente non la stanno rispettando e onorando: ne stanno facendo una penosa parodia. Prima decidono la brexit, poi non riescono a concretizzarla dignitosamente, poi qualcuno pensa addirittura di fare marcia indietro, poi non si capisce cosa voglia fare il parlamento, che vota contro tutte le soluzioni architettate per uscire dalla porta di servizio, poi vanno a votare per mandare i propri parlamentari a Strasburgo, a prendere in giro l’Europa e gli Europei, poi trovano il capro espiatorio, Theresa May, e la costringono alle dimissioni. Una vergognosa pantomima che con la democrazia non ha neanche una lontana somiglianza.

Aveva ragione da vendere il presidente della Repubblica Sandro Pertini quando affermava che “gli italiani non sono né primi né secondi a nessuno”. Sono curioso di vedere come andrà a finire questa telenovela brexitiana. Gli inglesi hanno fatto una frittata e non lo vogliono ammettere: la questione è che, in un modo o nell’altro, questa frittata rimarrà anche sul nostro stomaco. Siamo legati a livello internazionale e gli schizzi arriveranno sicuramente anche da questa parte della Manica.

Ricordo un mio carissimo amico la cui unione coniugale era andata improvvisamente in crisi. Capiva che sua moglie stava prendendo un granchio e non la colpevolizzava più di tanto. Era disposto, dall’alto della sua acritica magnanimità maschilista, a passare sopra a un imbarazzante vicenda di adulterio, purché la moglie cucinasse una grande torta di riconciliazione, dopo la frittata della precipitosa rottura. Non ci fu verso e il matrimonio naufragò. Per gli inglesi scatta l’orgoglio brexitiano, anche se sono convinto che gran parte di loro sappiano di aver commesso una grande cavolata. La torta la stanno cucinando, non per rientrare nella Ue, ma per fare indigestione di brexit.

Che Teresa May non fosse Winston Churchill lo avevamo capito. Che non avesse gli attributi di Margaret Thatcher era altrettanto noto, ma scaricare su di lei le colpe collettive di una vicenda a dir poco squallida… Che l’Europa non sia la panacea di tutti i mali, lo sappiamo benissimo. Che debba essere riformata in senso federale così come era stata pensata dai suoi ideatori e pionieri è altrettanto noto. Ma scappare è una decisione senza capo, cioè scriteriata, ma con la peggior coda possibile di nefaste conseguenze per tutti.

Se mia madre usava mettere stucchevolmente in discussione le proprie scelte matrimoniali, dicendo: “Sa tornìss indrè…”, mio padre la stoppava immediatamente ribattendo: “Mi rifarìss còll ch’ j ò fat, né pu né meno”.  E giù a ridere ironicamente delle ipotetiche fughe con l’amante, con i due che scappano e cominciano a litigare scendendo le scale: della serie la famiglia ed il matrimonio sono una cosa seria. Con chi sta scappando l’Inghilterra? Con Trump? È addirittura una fuga senza amanti, in cui i fuggitivi stanno litigando tra di loro a più non posso. Tutta da ridere o da piangere. Della serie l’Europa e la Ue sono una cosa seria, nonostante gli inglesi.

 

 

Per troppi euro in meno

Sono impressionanti le cifre che fotografano la situazione economico-finanziaria del nostro Paese: lo spread è attorno ai 270 punti base, cento in più di un anno fa, il doppio del livello a cui era stato lasciato dal governo Gentiloni, ottanta punti in più rispetto allo spread dei titoli greci; il Pil quest’anno crescerà dello 0’1%, con conseguente ulteriore peggioramento del rapporto fra debito pubblico e Pil; incombono due aumenti dell’iva da oltre 50 miliardi nei prossimi diciotto mesi. Ciononostante i due leader di governo si sbizzarriscono a continuare nella politica delle promesse facili.

Nell’ambito governativo il ministro dell’economia Giovanni Tria suona campane a morto: conferma di essere “accademicamente favorevole” all’aumento dell’iva, nega l’esistenza di coperture per un decreto di aiuti alle famiglie, invita a non parlare con leggerezza di sforamento del deficit oltre il tre per cento e, dulcis in fundo, mette in discussione addirittura il bonus degli ottanta euro mensili, concesso dal governo Renzi, un provvedimento, a detta di Tria, fatto male e da riassorbire nell’ambito di una riforma fiscale. Il responsabile dei conti pubblici tenta disperatamente di raschiare il barile per evitare in autunno uno scontro con l’Unione europea, la quale potrebbe già nell’immediato post elezioni aprire la procedura per il debito eccessivo italiano. Con tutto il rispetto scientifico per Giovanni Tria, mi sembra si stia muovendo solo ed esclusivamente per arginare l’incedere dell’elefante nel negozio di cristalli: molta meno visuale e molta più improvvisazione rispetto al tanto vituperato governo Monti (il demonio, stando a grillini e leghisti).

Si aprono due possibilità. O si segue la linea pseudo-rigorista di Tria, atta a riassestare minimamente i conti pubblici e ad evitare un contenzioso con la Ue, oppure si prosegue la linea dissennata, sponsorizzata soprattutto dal leader leghista, di sforare il tre per cento nel rapporto deficit-pil con le gravissime ripercussioni sui mercati finanziari e con la istituzionalizzazione del cane che si morde la coda.

La dilatazione ulteriore della spesa pubblica (aiuti alle famiglie, allargamento del reddito di cittadinanza) e/o la contrazione delle entrate fiscali (flat tax) aggraverebbero la già precaria situazione dei conti pubblici. Questa dissennata politica pentaleghista (per la verità più leghista che pentastellata) fa però i conti senza l’oste, senza l’Europa, così come uscirà dalle elezioni del prossimo 26 maggio. Se verrà confermata, più o meno, l’attuale grande coalizione popolar-socialista a netta prevalenza politica del Nord-Europa, continuerà a premere sull’Italia il rullo compressore rigorista. Se dovesse aumentare il peso dei liberali nordici in un equilibrio politico anti-sovranista, ci troveremmo ancor più messi all’angolo e costretti a rimettere ordine nei nostri conti e nella nostra politica finanziaria. Se si aprisse un varco sovranista, se, a dirla in breve, dovessero acquisire, direttamente o indirettamente, un peso importante gli amici europei di Salvini, l’Italia, tramite la confusione mentale leghista, andrebbe comunque sul banco degli imputati, rimanendo con un palmo di naso di fronte all’egoismo nazionalista degli euroscettici, che non vorranno certamente accollarsi i nostri debiti (lasciamo perdere il fatto che non vorranno neanche accollarsi i migranti che arrivano in Italia).

Le elezioni europee, per l’atteggiamento nei confronti dei conti italiani, rischiano pertanto di non cambiare nulla, se non in peggio. I grillini saranno ancora alla ricerca di alleati più o meno farneticanti; i leghisti in ogni caso avranno un paradossale e ridicolo effetto boomerang. Ci vuole un bel coraggio a votare questi signori per il parlamento europeo. Eppure i sondaggi continuano a prefigurare una vittoria leghista: la vittoria di Pirro.

 

La maschera italiana dei populisti di destra

Non resisto alla tentazione di fare una previsione-appello in merito alle ormai vicinissime elezioni europee: un po’ per andare controcorrente, un po’ sulla base dei risultati delle elezioni politiche spagnole, un po’ prendendo rischiosamente a riferimento gli exit poll olandesi. Azzardo un pronostico-sensazione: dove l’estrema destra, populista e sovranista per non dire di peggio, abbassa la maschera e si mostra per quello che è, raccoglie non pochi voti, ma non sfonda. L’euroscetticismo piace molto a parole, ma nelle urne spaventa e quindi le sinistre, socialisti e verdi, non guariscono, ma prendono un brodo.

Se fosse veramente così, ci sarebbe da rallegrarsi o, quanto meno, da fugare i timori e le paure. In Italia però la scena è diversa.  La destra leghista mantiene una maschera liberal-social-fascista che confonde le acque: troppo liberali per essere fascisti; troppo populisti per essere razzisti; troppo clerico-fascisti per essere democratici; troppo furbi per farsi chiudere all’angolo della storia. Un bell’equivoco in cui temo che gli italiani continuino a rimanere imprigionati. E poi non sono alleati con il M5S? Quindi hanno un contrappeso governativo, un amante litigioso e ribelle, che tuttavia li sdogana in senso protestatario verso i soggetti socialmente e psicologicamente border line, concretizzando il discorso dalemiano della “Lega costola della sinistra”. Tutto sommato fa gioco ai leghisti anche l’impresentabile Silvio Berlusconi, che fornisce loro una copertura di moderazione destrorsa, presentandosi come il coniuge tradito, ma non rassegnato.

Abbiamo cioè un dualismo populista al potere, che irretisce e confonde le idee e si mimetizza: a livello europeo oscilla fra i nazionalisti e i senza-casa politica; in Italia cavalca tutto e il suo contrario, facendo delle contraddizioni un pregio in salsa interclassista riveduta e scorretta. Tutti gli oppositori insistono sui contrasti politico-programmatici del pentaleghismo e non si accorgono che rappresentano paradossalmente invece la sua forza, il suo strano appeal qualunquista: un colpo al cerchio e uno alla botte. Forse, anzi certamente, se ne è accorto il Presidente della Repubblica, che ha loro elegantemente intimato di dare un taglio a questo gioco, almeno per qualche giorno in vista della consultazione europea. Hanno dovuto abbassare quei toni che consentono di suonare una musica senza melodia.

Si intuisce che questo panorama politico è provvisorio e transitorio, ma non so se i risultati elettorali ormai imminenti porteranno qualche chiarimento. Spero che, nonostante tutto, coloro che intendono rimanere in una seria logica di integrazione europea non disperdano i voti e, magari turandosi “montanellianamente” il naso, votino il partito democratico, l’unica formazione politica che, per storia e tradizione, garantisce una continuità della Ue e possibilmente anche un suo “federalizzante” futuro. Sembra questa l’altra faccia dell’Europa, che sta faticosamente emergendo. Giù le maschere e ragioniamo!

 

I venti contrari alla barca di Francesco

Mia sorella amava la musica, soprattutto quella operistica, e si avventurava volentieri in discussioni sugli interpreti melodrammatici. Un giorno stava assistendo ad un interessante dialogo fra due persone da lei conosciute: una era un carissimo suo amico, l’altra un semplice conoscente. Come era solita fare, non si tenne in disparte, ma si lanciò nel dialogo.  Venne stoppata da una pregiudiziale piuttosto altezzosa. Il soggetto, che non la conosceva più di tanto, chiese all’altro: «La signorina è competente?».  Solo dopo aver ottenuto rassicurazioni, lo scettico interlocutore ammise mia sorella al dialogo e riprese la discussione. Se esiste una materia in cui non ci si può improvvisare cultori e/o intenditori, questa è la musica. Figuriamoci la religione, che ormai è diventata materia di attenzione (fin qui niente di male, anzi), ma soprattutto di contrapposizione culturale e financo politica, con al centro del contendere l’attuale pontefice, papa Francesco, diventato suo malgrado una sorta di prezzemolo nella gastronomia pseudo-cattolica. Di lui parlano, spesso a vanvera, molti commentatori, giornalisti, scrittori: sono diventati tutti vaticanisti, specialisti della dietrologia cattolica, osservatori implacabili della vita della Chiesa alla luce della guida papale.

All’interno della Chiesa si sta facendo sempre più strada un pensiero reazionario e conservatore, ostile a Francesco, alla sua impostazione pastorale, al suo modo di interpretare il Vangelo, alla sua vena innovatrice e progressista: si arriva a considerarlo un eretico con tanto di atti di accusa altolocati. Le critiche al papa arrivano anche dall’altro campo, quello dei novatori, che collezionano ed ostentano delusioni in varie materie assai calde, dal celibato sacerdotale, al ruolo della donna nella Chiesa, dalla comunione ai divorziati ai problemi legati alla sessualità, dalle troppo timide riforme dell’apparato curiale all’eccessiva prudenza dopo una iniziale illusoria spinta. A livello politico è in atto da parte della Lega un vero e proprio attacco in nome della difesa della identità cattolica rispetto all’apertura agli immigrati, volto a connettere il ritorno politico ai simboli ed ai principi del passato con la ripresa della tradizione religiosa. Al di là degli sbracati e triviali atteggiamenti salviniani, il discorso è molto sottile, subdolo e pericoloso, e punta alla saldatura passatista tra politica e religione.

È destino dei grandi non essere collocabili in schemi precostituiti e quindi anche papa Francesco sta finendo per scontentare, a livello culturale, un po’ tutti. D’altra parte si tende a sovraesporlo, facendo coincidere impropriamente e pedissequamente la Chiesa con il Papa, dimenticando che essa non è il papa, ma una comunità di cui Francesco è solo l’autorevole guida. La sua popolarità poi lo mette al centro del circuito mediatico, nella posizione ideale per chi vuole colpirlo, anche a tradimento. È un papa scomodo, che va attenzionato e interpretato con gli occhi della fede e alla luce del dettato evangelico. In questo senso va difeso dalle bordate strumentali e dai consensi superficiali. Lasciamogli fare il papa, anche perché, tutto sommato, se la sta cavando assai bene, ha tanta gente che gli vuole sinceramente bene, ha lo Spirito Santo in poppa e chiede umilmente e continuamente il sostegno della preghiera dei credenti. So benissimo che sta toccando nel vivo del potere vaticano, sta camminando su un terreno minato, non sta giudicando nessuno ma scontentando molti, sta cercando di essere nel mondo ma non del mondo. Seguo il suo papato con grande ammirazione, sincera preoccupazione, enorme speranza e con un irrinunciabile pizzico di sana e costruttiva critica.

Ho iniziato con mia sorella e termino nostalgicamente con lei (riportando un passaggio del libro che ho a lei dedicato). La storica sera, in cui papa Francesco, appena eletto, si presentò, con atteggiamenti e simbologie rivoluzionari, sulla balconata di S. Pietro, ero davanti al video in compagnia di mia sorella Lucia. Eravamo entrambi convinti che fosse successo qualcosa di grande per la Chiesa cattolica. Questa volta lo Spirito Santo era arrivato in tempo. Io trattenevo con difficoltà le lacrime per l’emozione, Lucia era entusiasticamente propensa a cogliere finalmente il “nuovo” che si profilava. Erano gli ultimi mesi di vita di Lucia, che però trovavano esistenziale e incoraggiante riscontro, al livello più alto, di un cristianesimo vissuto sempre con l’ansia della novità che squarcia il dogmatismo, della scelta a favore dei poveri, del rispetto della laicità della politica, del protagonismo femminile. Se fosse ancora in mezzo a noi, sarebbe interessatissima e potrebbe esprimere giudizi attendibili. Sì, perché di fede, così come di musica, se ne intendeva assai.

 

 

 

Alle calende italiane

Nella immancabile dietrologia politica si sta insinuando un dubbio: Carlo Calenda e Matteo Renzi starebbero scaldando i muscoli per poi tuffarsi nella tiepida piscina del cosiddetto e non meglio precisato centro moderato. Il primo sarebbe quindi tatticamente sceso in campo a fianco del PD in vista delle elezioni europee solo per tastare il terreno in vista di una partita ben più strategica e impegnativa: quella di formare un polo di riferimento centrale per quanti vogliono tornare alla politica del buonsenso collegata ai fatti. Il secondo starebbe momentaneamente in disparte a leccarsi le ferite, per poi ripresentarsi “più bello e più superbo che pria” a riprendere il suo disegno interrotto bruscamente dalla sconfitta al referendum costituzionale. Due galli nel pollaio di riserva, pronti a saltabeccare nel vero pollaio del post governo gialloverde. Uso volutamente, come ormai fanno quasi tutti gli editorialisti di grido, un periodo sospeso, nel vuoto di una ipotesi piuttosto campata in aria.

La (im)possibile strategia alternativa partirebbe da due considerazioni. In Europa segna il passo la tradizionale contrapposizione-collaborazione fra popolari e socialisti: i primi spinti dal popolarismo al populismo nel vortice dell’aria nazional-sovranista, che soffia dappertutto; i secondi, in crisi di identità e di consensi, non sarebbero né carne né pesce. In Italia si sente la necessità di recuperare la politica alla società, visto che ha preso la strada della prevaricazione sulla società.

Ed allora ecco la possibilità di scompigliare gli schieramenti proponendo un bagno di sano (?) pragmatismo: la democrazia cristiana era un partito interclassista nel senso che tendeva a mediare gli interessi delle categorie facendone la sintesi politico-programmatica, questo nuovo ipotetico partito sarebbe molto meno ambizioso sul piano ideologico e sociale (non dimentichiamo però che la DC aveva una forte ispirazione ideologica cristiana) e molto più attraente dal punto di vista della concretezza (non dimentichiamo però che la DC sapeva governare i processi evolutivi e non si limitava a registrarli).  Un nuovo partito di centro, che guarderebbe a sinistra, ad un PD dimagrito e spaesato, e che raccoglierebbe i cocci moderati e raziocinanti di un berlusconismo alla canna del gas.

In Europa sarebbe, grosso modo, il disegno macroniano, quello di prosciugare l’acqua dove nuotano i pesci rossi, verdi e gialli. In Italia l’intenzione di prepararsi alla terza repubblica in contrapposizione, mentale prima che politica, al salvinismo dilagante. Non so se siamo nella fantapolitica, ma ho la netta impressione che qualcosa tocchi: troppo facile per essere vero. È obiettivamente pericoloso il disgustoso ritorno alle ideologie provocato velleitariamente dall’euroscetticismo sovranista e dal nazionalismo populista. Come rispondere a questa inaccettabile rifondazione della politica? Passando dal destrorso supermarket ideologico al tradizionale negozio dei prodotti di alta qualità? Oppure ritornando alla produzione, coltivando il terreno dei valori da cui nasce la Repubblica italiana e la stessa Unione europea? Sono perfettamente consapevole che il Partito democratico si stia rinchiudendo nel recinto burocratico, stia tornando nella foresta dei richiami nostalgici, stia rincorrendo una identità con lo sguardo al passato che non torna più. Non vorrei però che per fare un dispetto alla moglie sdegnosamente recalcitrante verso il letto post-ideologico, ci si tagliasse il membro valoriale, l’unico capace di ottenere l’erezione della politica.

 

 

Il fascino discreto delle dimissioni

La bufera giudiziaria scatenata sulla governance della regione Puglia aveva portato alle dimissioni della presidente Catiuscia Marini. Non sono la persona giusta per parlare in merito: nella mia vita ho passato più tempo a rassegnare dimissioni che a raccogliere incarichi. Per me hanno sempre avuto un effetto liberante e non imbarazzante, indipendentemente dalle motivazioni sottostanti. Vuoi per mentalità personale, vuoi per ragioni politiche avevo visto con favore queste dimissioni, pur essendo la matassa giudiziaria ancora tutta da dipanare. Sono convinto che per qualsiasi persona in qualsiasi settore, quando viene fatta oggetto di indagini e quindi ne venga messa in discussione la correttezza, sia opportuno un passo indietro, non per ammettere preventivamente e scriteriatamente la propria colpevolezza, ma per togliere ogni imbarazzo a se stessa e agli altri.

Il consiglio regionale umbro ha discusso queste dimissioni e le ha respinte. Non entro nel merito dei motivi alla base di questa deliberazione. Mi ha sorpreso il fatto che l’interessata abbia votato contro le proprie dimissioni adducendo ragionamenti di ordine burocratico e politico: “Ho attivato l’articolo 64 perché questa indagine non sviluppa esclusivamente profili penali singoli. Se avessi voluto dimettermi subito lo avrei fatto in base al comma 1 dell’articolo 64 dello statuto, dimissioni personali, come qualcuno avrebbe voluto. La sorte della legislatura non può non tenere conto di quanto ascoltato in quest’aula”.  Marini ha rivendicato quanto fatto in questi anni di legislatura e ha escluso “alcun interesse personale a rimanere essendo al secondo mandato”. La presidente ha poi sostenuto che “un governatore, anche in una fase così difficile, non può essere sottoposto a nessun tipo di ricatto, è una parola fortissima di cui mi assumo la responsabilità – ha puntualizzato – ma non può esserci né da parte della propria comunità politica né da altri. Il presidente deve avere la serenità di fare una valutazione politica”. “Io so – ha aggiunto – di aver agito sempre con onestà, buonafede e rispetto della legge e rispetto un’indagine che mi vede come persona indagata, ma questo rispetto ce l’ho più come presidente della Regione. Ho fatto errori politici e anche umani, ma so che ho rispettato la legge e un giorno lo potrò dimostrare”. In conclusione dell’intervento, ha annunciato che deciderà il da farsi in tempi brevi nel rispetto dell’articolo 64. Per legge sono previsti 15 giorni entro i quali il presidente può decidere se ritirare le sue dimissioni o, al contrario, confermarle.

Capisco i ragionamenti di Catiuscia Marini, ma il suo comportamento ha dato l’idea di un giocare a dimettersi e, purtroppo, ha provocato un gran brutto vedere. Le motivazioni addotte potevano essere tranquillamente portate a sostegno della irrevocabilità delle dimissioni e di una dignitosa astensione dal voto su una questione personale. Si è aperto immediatamente un periodo transitorio durante il quale si è scatenata una inevitabile dietrologia, mentre l’interessata si ritirava a sfogliare la margherita del “mi dimetto o non mi dimetto”. Al di là di tutto mi è sembrato un passaggio poco dignitoso.

La pubblica opinione, lontana dalle disquisizioni di ordine politico, istituzionale e legale, aveva interpretato il gesto di Catiuscia Marini come un opportuno passo, non indietro, ma di lato. Improvvisamente si è creata una brutta confusione; sembravano prevalere gli opportunismi sulle opportunità. È vero che dalla situazione calda nei rapporti tra politica e giustizia, come sostiene Salvatore Merlo su Il foglio “ne viene fuori un intreccio intrigante e rivelatore proprio perché le motivazioni di ciascuno sono a fasi alternate: oggi garantista ieri giustizialista, oggi per il complotto e domani per la fiducia ai magistrati. Motivazioni militanti e interessate. Se la magistratura influenza la politica ne risente il principio della separazione dei poteri, ma la stessa cosa succede se la politica influenza la magistratura e se i giornali fanno la grancassa furbetta di questo cortocircuito”. Non c’era quindi bisogno di aggiungere questa suspense anche perché dopo due giorni è arrivato il colpo di scena con la conferma delle dimissioni. Quando c’è chi spinge brutalmente alla porta, bisogna avere la forza di spirito di spalancarla improvvisamente e allora tutti vanno a gambe all’aria. Catiuscia Marini ha perso questa possibilità e, quando ha spalancato la porta, tutti si erano spostati a gridare sotto le finestre.  Avevo per un attimo temuto che le sue dimissioni fossero a rendere, invece, fortunatamente, si sono rivelate a (non) perdere…la faccia.

Lo sport liquido da sgolosare

Nel calcio, come del resto ormai in tutti gli sport, l’importante non è partecipare, ma vincere. Lo si vede dalla penosa disperazione con cui protagonisti e tifoserie vivono le sconfitte: sembrano la fine del mondo, un fallimento esistenziale, una disgrazia irrimediabile. Forse però stiamo andando oltre, anche perché al peggio non c’è mai un limite.

Massimiliano Allegri, allenatore della Juventus, in cinque anni ha guidato la squadra alla vittoria di ben cinque scudetti consecutivi, di quattro coppe Italia, di due supercoppe nazionali, conquistando (che schifo…) due finali di coppa campioni. Ebbene non è bastato alla società bianconera ed ai suoi tifosi: Allegri se ne va, viene messo gentilmente alla porta. Al di là dei motivi di carattere contrattuale, strategico, sportivo, personale, credo che il tutto dipenda dalle assurde caratteristiche che connotano sempre più lo sport in generale ed il calcio in particolare.

Che non si tratti più di sport è fin troppo evidente. È certamente una questione imprenditoriale intesa in senso moderno, vale a dire orientata non tanto a fare soldi con i prodotti, ma a fare business con le chiacchiere. La compravendita dei giocatori, l’ingaggio e l’esonero degli allenatori, le scelte tecniche non puntano a raggiungere un mercato sempre più largo, ma a stupire la massa indipendentemente da tutto: l’acquisto di Ronaldo non era finalizzato alla vincita della coppa campioni, così l’hanno vissuta gli ingenui tifosi delusi poi dal mancato raggiungimento del finto obiettivo; non era orientato a conquistare nuove fette di un  mercato peraltro già saturo a livello di sponsorizzazioni, di stadi e di diritti televisivi; non era dettato dalla volontà di offrire uno spettacolo agli appassionati del pallone, che non vogliono divertirsi ma soltanto “sgolosare” i divi nelle varie passerelle.

Il vero e inconfessabile obiettivo era offrire un’immagine di potenza dietro cui tutto è possibile, indipendentemente dai risultati ottenuti sul campo. Se Ronaldo fosse stato ingaggiato quale potenziale protagonista della Champions League, oggi dovrebbe essere messo in discussione dal momento che non lo è stato.  Una stretta logica industriale non ammetterebbe simili flop. Invece…siamo oltre l’industria, siamo arrivati al calcio finanziario: lo stesso percorso dell’economia.

Facciamo pertanto un altro discorso, dalla parte del consumatore finale. Dignitosa povertà non porta all’accattonaggio politico-culturale, ma dovrebbe portare al sacrificio di scelte consapevoli e mirate. Ricordo quando avevo l’occasione di assistere agli spettacoli lirici all’Arena di Verona: quanto mi infastidivano coloro che all’ingresso “sgolosavano” facendo ala agli elegantoni ed osservando la sfilata del pubblico vip. Potevano benissimo costruirsi qualche occasione alternativa, ma confondevano la cultura con l’ostentazione dell’evento culturale. La dignitosa tifoseria non dovrebbe portare all’accattonaggio sportivo, ma alla ricerca del miglior risultato compatibile col miglior gioco. Invece si confonde il calcio con l’ostentazione del calcio. Questo è il nodo. Uno sport liquido come la società.

E allora l’ostentazione è fatta di colpi di scena extra-sportivi, di addii mielosi e penosi, di arrivi e partenze a sirene spiegate, di partite giocate in sala stampa, di bilanci truccati, di imprenditori fasulli, di eventi mediatici. L’esonero di Massimiliano Allegri fa spettacolo proprio perché è ingiusto, irrazionale, paradossale. Oggi è toccato a lui, vittima di gran lusso, domani a chi toccherà? Ronaldo non può stare tranquillo, magari lo rottameranno dopo aver vinto la Champions. Ho scritto questo pezzo prima della conferenza stampa di Agnelli e Allegri che sanciva il divorzio. L’ho voluta masochisticamente seguire: tutto come da copione. È il calcio, stupido!