Uno sbruffone a Bruxelles

Ho avuto l’occasione di seguire il dibattito politico andato in onda nell’ambito della rubrica otto e mezzo su la 7, che ha visto la maramaldeggiante partecipazione di Matteo Salvini nella sua triplice veste di leader della Lega, di vice-premier del governo e di ministro degli Interni: un coacervo di sbruffonate da osteria.

Il presuntuoso sorrisetto con cui si è atteggiato, le sparate demagogiche che ha lanciato, gli argomenti contraddittori e strumentali che ha portato, gli strafalcioni economici e politici che ha inanellato mi fanno pensare che questo personaggio si sia effettivamente montato la testa e stia perdendo il senso della misura: il 34% ottenuto alle recenti elezioni europee lo sta mandando in orbita.

Se il suo discorso è sostanzialmente anche la risposta alle numerose richieste di chiarimento formulate dal premier Conte nella inusuale ma puntuale conferenza stampa di alcuni giorni fa, al presidente del Consiglio non resterebbe altro da fare che salire al Colle per rassegnare le dimissioni prima che sia troppo tardi. Salvini non può cambiare politica dal momento che l’elettorato l’ha premiato; è vero che gli italiani gli hanno consegnato una fuoriserie, ma chi la guida dovrebbe avere comunque l’equilibrio per frenare nei tratti di strada pericolosi, invece lui accelera col rischio di portare tutti a sbattere.

Salvini crede di aver vinto le elezioni europee, mentre in realtà ha solo fatto un exploit a livello italiano, che peraltro ha indebolito il governo di cui fa parte e soprattutto non ha avuto alcun seguito a livello dei partiti sovranisti suoi finti alleati: la Lega, pur avendo conquistato parecchi seggi al Parlamento europeo, è politicamente irrilevante per gli equilibri istituzionali della Ue e rischia di isolare il nostro Paese e di ricacciarlo in una situazione che sta evolvendo da difficile a impossibile. Siamo nell’occhio del ciclone, ci trattano da sorvegliati speciali, ci bacchettano a più non posso, ci mettono dietro la lavagna e noi reagiamo facendo le boccacce.

Si è aperta per l’Italia una fase molto problematica all’interno della Ue: non siamo credibili quando diamo rassicurazioni, siamo ridicoli quando formuliamo degli ultimatum per cambiare le regole, siamo incompetenti ed ignoranti quando elaboriamo cervellotiche proposte di risanamento. Avremmo bisogno di aiuto, ma attacchiamo e provochiamo chi ce lo potrebbe dare; dovremmo dialogare con pazienza, ma invece osiamo lanciare dei diktat. Qualche mese fa Salvini attaccava Junker dandogli dell’ubriacone e del ladro. Ricominci così e andremo benissimo.

Non si può sedersi con un minimo di credibilità al tavolo di una trattativa, se, dietro, gli amici sparano a zero sugli interlocutori. Con quali chance di successo Conte e Tria discutono con i partner europei, se gli esponenti del governo italiano continuano a straparlare. La situazione è sempre più paradossale. Al termine del dibattito a cui ho assistito mi sono chiesto: è possibile che oltre un terzo degli italiani abbiano stima e fiducia di uno sbruffone da bar di periferia (con tutto il rispetto per i bar e per le periferie)?

In un comizio a Foligno il leader della Lega Matteo Salvini ha chiamato l’applauso della piazza con queste parole, dal sapore vagamente evangelico: «Se mio figlio ha fame e mi chiede di dargli da mangiare a Bruxelles mi dice “No Matteo, le regole europee ti impongono di non dare da mangiare a tuo figlio”, secondo voi io rispetto le regole di Bruxelles o gli do da mangiare? Secondo me viene prima mio figlio, i miei figli sono 60 milioni di italiani». Gli ha risposto il sindaco di Milano con una battuta, che mi sento di condividere fino in fondo, in risposta a chi gli chiedeva se si sentiva uno dei 60 milioni di figli di Salvini: «No, non lo voglio nemmeno come zio».

Un mio conoscente, molti anni fa, durante una squallida e vergognosa prestazione della nazionale di calcio, minacciava di emigrare in Svizzera per allontanare una simile onta. Eugenio Scalfari espresse la volontà di espatriare di fronte allo sciocchezzaio sciorinato da Daniela Santanché (o Santa de ché, come disse Dagospia). Qui e adesso c’è molto di peggio: vuoi vedere che Salvini oltre i muri contro gli immigrati, alzerà anche quelli contro gli emigrati virtuali in pectore, dei quali mi onoro di far parte?

 

La luna dello scontro nel rio del confronto

Il governo italiano ha la immeritata fortuna di avere due insegnanti di sostegno, che tentano, alacremente anche se discretamente, di aiutarlo a recuperare metodo plausibile e competenza indispensabile. Sergio Mattarella sta facendo a suo modo i salti mortali per condurre il governo ad una prassi esecutiva istituzionalmente corretta e politicamente ragionata. Poi arriva in soccorso anche Mario Draghi, probabilmente imbeccato dallo stesso Mattarella. Durante una delle solite periodiche conferenze stampa ha rassicurato che la Bce manterrà inalterati i tassi di interesse fino a metà del 2020, mentre sta valutando la possibilità di una ripresa del “quantitative easing” e quindi che farà tutto il possibile per sostenere la crescita: non sono elementi di poco conto.

In questa occasione si è espresso, con la solita prudenza, sui problemi economico-finanziari italiani.  A tal proposito ha affermato: «Sappiamo tutti che far scendere in fretta rapporto debito/pil è impossibile. Deve esserci un piano di medio termine credibile e la credibilità del piano dipenderà dal come sarà progettato e dalle azioni che indicherà». Fine della lezione di politica-economica. Con questi preziosi consigli ha senz’altro voluto chiudere la bocca a chi sostiene strumentalmente che la Ue stia chiedendo la luna, vale a dire un calo veloce del debito, che affonda le sue radici in un lungo passato e quindi non può trovare soluzione che in un lungo e faticoso futuro.

Quando nella mia modesta esperienza professionale mi trovavo alle prese con debitori recalcitranti, mi permettevo innanzitutto di chiedere la rottura dell’equivoca e silenziosa latitanza e quindi la spiegazione oggettiva dei motivi del ritardo. Poi suggerivo di presentare un piano di rientro in tempi ragionevoli, ma di fare immediatamente anche un gesto, magari piccolo, di buona volontà, nonché di monitorare assieme la situazione per seguirla nel suo divenire, apportando eventuali correzioni strada facendo. Era il modo per capire se il debitore voleva fare il furbo o se aveva la seria intenzione di far fronte, seppure nel tempo, ai suoi impegni. Generalmente il metodo funzionava e, seppure a fatica, ci si arrivava in fondo senza cadaveri.

Mi sembra che Draghi abbia consigliato una strada di questo tipo nei confronti della Ue, uscendo dalle ingiustificate e stizzite reazioni di inutile orgoglio, elaborando proposte spalmate in tempi ragionevoli, fissando comportamenti coerenti con gli obiettivi del piano. Certo, se si comincia rivendicando un’assurda libertà di comportamento e pretendendo un atto di fede dall’Unione Europea, non si può andare lontano. Se si comincia il piano da una irrinunciabile diminuzione delle imposte, non si dà quel segnale di buona volontà che rende credibile tutto il discorso. Bisogna discutere seriamente su proposte serie e avendo la dignitosa umiltà non tanto di chiedere aiuto, ma collaborazione e condivisione di una strategia, vale a dire degli obiettivi, dei tempi e dei modi per raggiugerli, nonché una verifica costante delle terapie adottate.

Quando un soggetto è malato, deve innanzitutto ammettere di esserlo e non dare la colpa alle analisi sbagliate o alle diagnosi azzardate. Non deve affidarsi agli stregoni del caso o gironzolare alla ricerca disperata di un medico che gli tolga la malattia. Deve ascoltare i consigli, sottoporsi alle terapie concordate, fare gli opportuni controlli, adottare un percorso terapeutico il meno invasivo possibile, ma incisivo e concreto. Avrà il governo italiano questa capacità? Mario Draghi ci sta consigliando molto bene, ma, come spesso accade, non si vogliono ascoltare i buoni consigli e si preferisce fare di testa propria, soprattutto quando si ha poca testa.

 

Chiuso per troppa sofferenza

Il suicidio assistito della 17 enne olandese che ha scelto di mettere fine alla propria vita con il suicidio assistito ci mette tutti di fronte alle nostre enormi responsabilità. La storia di questa ragazza è sconvolgente: vittima di reiterati stupri, di stress post traumatico, anoressia, attacchi di panico.  Un autentico calvario senza fine.

Il Papa ha scritto: «L’eutanasia e il suicidio assistito sono una sconfitta per tutti. La risposta a cui siamo chiamati è non abbandonare mai chi soffre, non arrendersi, ma prendersi cura e amare per ridare la speranza».  Parole ineccepibili da tutti i punti di vista, che ci spronano a non rassegnarci di fronte alla sofferenza e a reagire ad essa con la condivisione e la solidarietà. Papa Francesco fa un grosso passo avanti, abbandonando il comodo e tradizionale dogmatismo religioso e scendendo sulla concretezza dell’aiuto reciproco. Passa cioè dal dire al fare, dalla condanna alla mano tesa, dall’atteggiamento del maestro a quello del testimone. In questo senso mi senso toccato nel mio egoismo e provocato nella mia indifferenza. E di ciò lo ringrazio e cercherò di fare tesoro del suo forte e carismatico invito.

Sono perfettamente d’accordo che, come singoli e come comunità, non facciamo tutto il possibile per alleviare le sofferenze di chi si trova a vivere, per tanti motivi, in una situazione disperata. Preferiamo trincerarci dietro battaglie di principio, di carattere proibizionista o permissivo, assumere atteggiamenti manichei, di rigida e radicale contrapposizione sul piano ideologico o della prassi.

C’è tuttavia anche l’umiltà di ammettere che a volte il peso può diventare insostenibile, che la solidarietà può diventare accettazione della volontà di un nostro simile che non riesce più a continuare dignitosamente il suo cammino, che le forze umane, anche messe in comune, non riescono a reggere certe situazioni, che la morte può diventare una liberazione e una, l’unica, soluzione umanamente accettabile. Siamo fatti per vivere e dobbiamo sforzarci di farlo, ma quando ci accorgiamo che la vita non ha più senso, dobbiamo avere il coraggio di accettare la morte come la continuazione della vita.

Leggendo la vicenda umana di questa giovane donna non mi sento in coscienza di eccepire nulla riguardo alla sua decisione e credo che nessuna solidarietà umana potesse riscattarla dalla disperazione di una sofferenza senza limiti. Immagino il cammino che l’ha portata al suicidio e ne resto sgomento. Forse è meglio tacere di fronte a tanto dolore per poi interrogarsi su quanto ognuno possa fare concretamente per prevenire ed accompagnare queste vicende. Qualcuno in passato osava sostenere che il suicidio sia un atto di vigliaccheria. Ma cosa sappiamo noi di quanto passa nell’animo di un fratello o di una sorella disperati? Nemmeno il Papa lo sa o lo può immaginare. Solo Dio e proprio per questo accoglierà a braccia aperte il figlio e la figlia che, in assoluta buona fede, decideranno di chiudere la vicenda terrena.

Queste vicende drammatiche e tragiche sono la clamorosa dimostrazione del nostro egoismo quando non siamo capaci di portare i pesi gli uni degli altri, ma anche della limitatezza delle nostre forze, possibilità e capacità quando non riusciamo a saltarci fuori. Umanamente e cristianamente assumo coscienziosamente questo atteggiamento, che non può risolvere niente, ma che mi chiede il massimo di responsabilità e di comprensione.  Di fronte alla morte di persone devastate dal dolore si afferma: ha finito di soffrire. Lo dico con tanta partecipazione e con tutta la sensibilità di cui sono capace anche per Noa Pothoven, nella certezza che il futuro le potrà riservare non solo la fine della sofferenza, ma tanta gioia.

 

Il povero perdente e il ricco demente

Un concentrato di cazzate, dette e fatte, come quello inerente alla visita di Donald Trump in Inghilterra è difficile da riscontare nella storia della diplomazia internazionale. Il presidente americano è entrato a piedi pari nel difficile momento storico della brexit, incoraggiando apertamente il “no deal”, un’uscita dura, e intromettendosi negli equilibri interni britannici con una chiara opzione a favore di Boris Johnson se non addirittura di Nigel Farage (un bel trio, non c’è che dire…).

Ha promesso patti commerciali favolosi in compensazione dei danni conseguenti alla brexit, di mostrando di voler osteggiare il processo di integrazione europea, corteggiando i singoli Stati nella logica del più bieco “divide et impera”. Si è inserito da par suo nel cerimoniale monarchico, ostentando una padronanza esagerata e provocante della scena: il vero re era lui, tutti gli altri non erano nessuno.

Ha trovato il modo di insolentire il sindaco di Londra, colpevole di essere di origini pakistane, di essere “abbronzato”, labourista, europeista e portatore di una visione aperta in tema di immigrazione, scrivendo su twitter :“Sadiq Khan, che secondo tutti i report sta amministrando malissimo Londra, si è dimostrato “odioso”, oltre che poco razionale, nei confronti dell’arrivo del presidente degli Stati Uniti, di gran lunga il più importante alleato del Regno Unito. Khan è un povero perdente senza speranza, che dovrebbe concentrarsi di più sulla battaglia contro il crimine nella sua città, non su di me…”. Lo ha poi paragonato a un altro “sindaco sciocco come quello di New York Bill de Blasio”.

Se è stato irritante e stomachevole il comportamento trumpiano, penoso e miserevole quello delle autorità britanniche, dalla Regina a tutto il suo entourage, dall’anatra zoppa di Theresa May ai suoi possibili estemporanei successori, dai conservatori illusi dalle promesse americane ai labouristi incapaci di assumere una linea decisa e contraria alle minchiate della classe dirigente del loro Paese. Anche il popolo britannico, pur esprimendo con qualche manifestazione la protesta e il dissenso verso questo assurdo e prepotente americano, non riesce a trovare una sua dignitosa linea di contrapposizione alla deriva nazionalista, che vede in Trump un invadente alleato.

Povera Inghilterra, povera Europa, povera Italia, povero mondo in mano a un simile squallido personaggio. Trump ha lo scopo di indebolire l’Unione Europea e speriamo che, Inghilterra a parte, non gli venga concesso. Egli spinge per la Brexit dura: “Mandate Farage a negoziare e uscite dall’Ue senza pagare”. In confronto a questo buzzurro, il nostro Matteo Salvini è un mostro di diplomazia e dialogo.

Non posso  dimenticare l’emblematico episodio della propensione scozzese, seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste, verso l’Unione europea, sfociata in rabbia e che ha trovato, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si sono avvicinati allo schermo. Poi, hanno tutti assieme cominciato a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro pig, porco. Non so cosa sia successo in quel pub durante la visita a Londra di Trump, diventato presidente, e, per dirla con Ettore Petrolini, “più bello e più superbo che pria”.

La sindrome di Cincinnato

Ho seguito con molta attenzione e senza alcuna prevenzione l’insolita conferenza stampa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, volta a fare, davanti all’opinione pubblica, il punto della situazione del governo italiano all’indomani delle elezioni europee, alla luce dei problemi sempre più gravi e dei programmi sempre meno adeguati, all’ombra dei contrasti politici fra i partner sempre più eclatanti e condizionanti.

Ho apprezzato il tono serio e garbato in mezzo a tanto ciarpame ministeriale e parlamentare. In molti si sono chiesti se non fosse scorretto dribblare le Camere per presentarsi davanti alle telecamere. Il piccolo sgarbo istituzionale forse aveva uno scopo benefico: fare una pausa per spiegare a tutti le sue intenzioni passate, presenti e future, con chiarezza e senza reticenze. Quasi in contemporanea con questa sua uscita, papa Francesco, pur ammettendo di non capire niente della politica italiana (forse non è un difetto, ma un pregio), ha definito Giuseppe Conte come una persona seria, competente e impegnata. Penso che innanzitutto il premier abbia proprio voluto accreditare questa sua immagine, offuscata in mezzo al bailamme politico in cui è costretto ad operare. Qualcuno, sulla base dei finali e sentiti ringraziamenti rivolti da Conte al Presidente della Repubblica, ha voluto vedere la longa manus del Quirinale in questa iniziativa di chiarimento: sono da sempre convinto che Sergio Mattarella tenga un atteggiamento corretto e collaborativo nei confronti dell’inquilino di Palazzo Chigi e non mi scandalizzerei affatto se fra i due esistesse una fitta frequentazione volta soprattutto a elaborare una tattica dialogante e costruttiva nei confronti dell’Unione europea.

Le finalità del pronunciamento del premier sono apparse chiare, tali da non lasciare spazio alle solite dietrologie: mi avete chiamato in causa un anno fa, ho dato la mia imparziale disponibilità a guidare un governo nato sulla base di un contratto tutto da rispettare ed applicare, ho lavorato con la massima apertura al contributo dei partner di governo, dei ministri e dei parlamentari di maggioranza, ho condiviso e interpretato l’ansia di rinnovamento e di cambiamento espressa dagli elettori, sono consapevole delle difficoltà e dei rischi che corre il Paese e quindi chiedo collaborazione per poter proseguire il mio lavoro. Una sana provocazione fatta in punta di forchetta in mezzo alle scorpacciate elettoralistiche ed ai conseguenti rutti dell’esaltazione e alle diete della purificazione.

A volte quando si vuol fare chiarezza a tutti i costi, mettendo impietosamente le carte in tavola, si è perfettamente consapevoli delle reazioni negative che ne conseguiranno: in parole povere ci si vuol far dire un “no” dietro cui ognuno si prenda le sue responsabilità. Siamo arrivati a questo punto del prendere o lasciare. La ragionevolezza contro l’irrequietezza, il buon senso contro la dissennatezza, la democrazia contro la demagogia. La marionetta ha tagliato i fili e ha licenziato su due piedi i burattinai. Era ora. Non so cosa succederà, ma comunque Giuseppe Conte ha recuperato un po’ di credibilità e ha fatto un bel passo avanti. Staremo a vedere se per proseguire alacremente il cammino o per andare dignitosamente a casa.

Dal celodurismo al “rosarismo”

“Scherza coi fanti e lascia stare i Santi”, così dice il bigotto sagrestano della chiesa romana in cui il pittore Mario Cavaradossi sta dipingendo la Maddalena e azzarda qualche recondita armonia tra la bellezza del soggetto dipinto e quella della sua amante Floria Tosca. Niente in confronto all’insistito, strumentale e insopportabile uso dei simboli religiosi da parte di un Matteo Salvini alla disperata ricerca di una identità da sbattere in faccia agli allocchi: crocifissi e rosari, branditi con la delicatezza tipica di questo personaggio, abituato ad affrontare i temi e i problemi in modo triviale.

Se lui si richiama all’identità cristiana, scendo anch’io su questo terreno, che non mi è consono, per esprimere tutta la mia insofferenza per chi deturpa, profana e dissacra i simboli della mia fede religiosa. Basta caro Salvini! I rosari cerca di pregarli a casa tua, nella tua parrocchia, nella tua famiglia, ma non dalle tribune elettorali o nelle interviste mediatiche. È giunta l’ora di darci un taglio! Quanto alla croce, lasciando stare quella troppo grande di Cristo, lo stesso Salvini rappresenta la nostra croce attuale, che qualcuno porta con disinvoltura e che io porto con grande sofferenza politica.

Il leader leghista sta toccando tutti i tasti della peggiore demagogia e quindi sta usando anche il sentimento religioso degli italiani, ai suoi fini, che di religioso non hanno proprio nulla.  In realtà Salvini sta giocando una partita politica estrema contro tutto e tutti e in questa gara sta mietendo allori elettorali. Gli manca l’appoggio delle alte sfere vaticane, anche se mi risulta che il “basso clero” lombardo e veneto ne sia in qualche modo coinvolto o almeno condizionato soprattutto nelle iniziative caritative verso gli immigrati. E allora tenta di cavalcare l’insofferenza di molti verso il papato di Francesco e i suoi messaggi.

Si tratta di un vero e proprio esibizionismo religioso: dal celodurismo al “rosarismo” in un crescendo al limite del blasfemo. Umberto Bossi ce l’aveva con i “vescovoni” che gli rompevano le scatole e si limitava a qualche innocua invettiva contro le resistenze clericali alla sua impostazione politica. Salvini va molto oltre, la mette giù dura, brandisce rosari, crocifissi e vangeli. Sta scherzando coi Santi per coinvolgere i fanti. Qualcuno dovrà pur dirgli di smetterla.

Durante la partita della finale di Champions League a Madrid, una donna ha invaso il campo per esibire la sua notevole dotazione fisica: è stata immediatamente bloccata e fatta uscire dalla porta di servizio, mentre le telecamere ufficiali non hanno farisaicamente ripreso la scena. Non mi avrebbe dato alcun fastidio ammirare il corpo nudo di una bella donna. Matteo Salvini sta invadendo il campo religioso per esibire la sua scarsa e ridicola dotazione spirituale. Le telecamere gli offrono attenzione e gli garantiscono divulgazione. Non esistono inservienti che lo blocchino e lo caccino fuori dal circo. Vuole addirittura conferire col papa, forse per insegnargli il mestiere. Mi dà un fastidio enorme, anche perché non è più un fenomeno di costume, ma sta diventando una soma politica assai gravosa. Speriamo di essere arrivati alla comica finale.

Ho iniziato con una citazione operistica e chiudo con un’altra. Nel Rigoletto i cortigiani del duca di Mantova di fronte alle sparate del buffone di corte scuotono il capo e commentano fra di loro: “Coi fanciulli e coi dementi spesso giova il simular”. Con tutto il rispetto per le sacrosante proteste di Rigoletto e senza rispetto per quelle di Salvini.

Una Repubblica inclusiva

Se qualche generale in pensione o in servizio non partecipa alla parata militare celebrativa del 02 giugno, non vado sinceramente in crisi, anzi. Ho sempre avuto notevoli perplessità sull’abbinamento della festa della Repubblica con l’enfatica ostentazione della nostra forza (?) militare. Finalmente, seppure in modo poco chiaro, la contraddizione è emersa con la protesta dei generali e le reazioni nostalgiche di qualche politico alla ricerca di consenso (forse non hanno capito che le elezioni ci sono già state).

Non ho sinceramente intuito se i malumori in divisa siano dovuti “all’inclusione” quale tema scelto dal ministro della difesa Elisabetta Trenta per la parata militare: se la ministra voleva sottolineare il fatto che la festa non riguarda solo le forze armate ma tutti i cittadini disarmati, non posso che essere d’accordo con lei e, se alla bandiera italiana dipinta in cielo dalle Frecce Tricolori, si vuole accostare la bandiera arcobaleno della pace, sono oltre modo solidale con la ministra grillina. Mi sono sempre chiesto come si faccia a celebrare la Repubblica con una sfilata di uomini e mezzi armati: una Repubblica che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Mi si obietterà che le forze armate servono a difendersi ed hanno anche scopi pacifici. Benissimo, allora cerchiamo di essere contenuti ed evitiamo inutili manifestazioni di potenza (?).

Un mio carissimo e indimenticabile insegnante di italiano e storia, se la prendeva giustamente con una certa retorica celebrativa, e faceva l’esempio della sempre evocata “gloriosa Marina”. Aggiungeva ironicamente: allora mettiamoci anche il glorioso esercito di insegnanti, di spazzini, di impiegati, di tutti coloro che fanno il loro dovere al servizio dello Stato. Il suo discorso non era disfattista, certamente un tantino pacifista, ma soprattutto civicamente e didatticamente ineccepibile.

Dopo aver dato il giusto spazio al ricordo scolastico, vado a frugare nella memoria famigliare.  Mio padre aveva fatto il servizio militare con spirito molto utilitaristico ed un po’ goliardico (per mangiare perché a casa sua si faceva fatica), cercando di evitare il più possibile tutto ciò che aveva a che fare con le armi (esercitazioni, guardie, tiri, etc.) a costo di scegliere la “carriera” da attendente, valorizzando i rapporti umani con i commilitoni e con i superiori, mettendo a frutto le sue doti di comicità e simpatia, rispettando e pretendendo rispetto aldilà del signorsì o del signornò. Raccontava molti succosi aneddoti soprattutto relativamente ai rapporti con il tenente cui prestava servizio. Aveva vissuto quel periodo come una parentesi nella sua vita e come tale l’aveva accettato, seppure con una certa fatica. Mio padre infatti era estraneo alla mentalità militare, ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati.

Torno alla polemica fra la ministra e gli alti gradi dell’esercito. Qualcuno sostiene che tutto sia dovuto alla messa in discussione di certi diritti pensionistici, qualcun altro fa risalire i contrasti ad un atteggiamento di fondo del governo piuttosto evanescente in materia di stanziamenti di spesa. Il discorso si fa ancor più delicato e complesso. I grillini sono specializzati nel fare confusione tra sacrosante e innovative scelte politiche ed incapacità ad affrontare le questioni con competenza ed equilibrio: in poche parole non sanno fare politica e, quindi, rovinano anche le migliori intenzioni e intuizioni. Tuttavia, se dovessi fare l’elenco delle critiche ai pentastellati, in esso non inserirei la disattenzione verso i motivi della protesta e della mancata partecipazione dei generali alla parata del 02 giugno. Viva la Repubblica!

L’aria della lettera

Una regola semplicistica, ma non assurda, vuole che ad una politica di sacrifici e di rigore serva un governo pilotato dalla sinistra, mentre ad una politica espansiva e di sviluppo sia necessario un governo guidato dalla destra. Dopo le elezioni politiche del 2018 per non sbagliare ci si è rifugiati nell’equivoco varando il governo giallo-verde, un po’ (tanto) di destra e un po’ (poco) di sinistra. Un colpo al cerchio e uno alla botte. Il giochino ha tenuto (?) per un anno circa, poi la situazione economico-finanziaria, l’elettorato italiano, l’Unione europea hanno scoperto gli altarini e messo alle strette il governo tra necessità di rigore e voglia di beneficenza sociale.

L’equivoco è emerso in tutta la sua evidenza con la stesura della lettera di risposta ai chiarimenti richiesti all’Italia dalla Ue in merito al rispetto dei parametri di bilancio, con particolare riguardo all’entità del debito pubblico rispetto al Pil. L’imbarazzo è lampante. A Tria viene chiesto di fare il mago o il prestigiatore: garantire il controllo del debito senza rinunciare a spendere o addirittura a spandere. Come si può contenere l’indebitamento in un periodo di stagnazione dell’economia senza ridurre le spese o aumentare le entrate?

Sul fronte delle entrate non si vuole l’aumento dell’iva, non si prende nemmeno in considerazione l’innalzamento delle imposte dirette, si continua addirittura ad insistere sull’appiattimento delle tasse diminuendole significativamente almeno per i percettori di reddito medio-basso, mentre la lotta all’evasione fiscale è stata accantonata perché non la si crede possibile.

Dalla parte delle spese si vuole mantenere una linea “assistenziale”, peraltro assai discutibile negli effetti concreti, fatta di sostegno a chi non ha la possibilità di lavorare, di maggiore facilità pensionistica, di sostegno alle famiglie, etc. etc. Nessuno parla più di lotta agli sprechi: troppo difficile e dolorosa per una finanza pubblica burocraticamente fuori controllo.

Probabilmente nel tentativo di quadrare il cerchio ci sarà stato un valzer di bozze di lettera in risposta a Bruxelles (con tanto di fuga di notizie e di polemica): difficile dire tutto e niente e il ministro Tria ci ha provato. Non so se in Europa la berranno, se i mercati finanziari la sopporteranno, se la situazione generale potrà tenere ancora a lungo in questo clima di incertezza.

Se si rinuncia a fare politica con scelte serie e oculate, andando avanti a vanvera, non resta che penalizzare i più deboli (succede sempre così) oppure picchiare duro sui ricchi (?) varando una imposta patrimoniale a cui molti pensano e di cui nessuno osa parlare. Personalmente sono rassegnato: prima o poi toccheranno la mia modesta pensione o tasseranno il mio modesto patrimonio. È gettata la mia sorte!

In diverse opere liriche i drammi si consumano scrivendo lettere con l’accompagnamento di arie meravigliose e commoventi: certamente il ministro Tria avrà avuto il suo daffare nel rispondere per iscritto alle richieste europee; politicamente parlando forse avrà pianto, mentre i maggiorenti politici del governo continuavano a (s)parlare. Se il pianto di Tria è virtuale, andando avanti di questo passo quello degli italiani sarà reale. Ma va bene così: chi è causa del suo mal pianga se stesso.

 

Eutanasia di un governo

I commentatori e gli esperti in materia politica si stanno esercitando, con poca sana fantasia e molto inevitabile cinismo, nel prefigurare modi e tempi per l’imminente fine del governo Conte. I ragionamenti plausibili partono da una realtà piuttosto evidente.

La Lega di Salvini (aggiungo il complemento di specificazione, perché non sono ancora convinto che questo partito sia sistematicamente personificabile nel suo leader rampante e vincente e nella sua vanesia ideologia) non può riuscire a gestire questa compromettente affermazione elettorale dall’interno del governo: i temi programmatici ad essa connaturali, confermati e rilanciati dalla fiducia dei votanti, non sono assoggettabili a compromesso, ma richiedono anzi una spinta massimalistica e radicale. Mi riferisco alla sicurezza, alla tassazione, all’autonomia regionale, etc.

Il M5S, entrato confusamente e maldestramente in crisi d’identità e di leadership, non può assorbire la batosta inflittagli dagli elettori, rimanendo a fare la stampella ortopedica di un governo perennemente sull’orlo della caduta, rinunciando ai temi che gli hanno consentito di raccogliere il consenso nel bacino protestatario dell’antipolitica, vale a dire la lotta alla corruzione, il perbenismo economico-sociale, il rapporto diretto coi cittadini, etc.

Se la Lega vuole cavalcare la tigre, non la può addormentare e trasformare nel “gatto puzzolone”.  Se i grillini vogliono recuperare la loro iniziale verve protestataria e antipolitica, non possono rimanere prigionieri nel castello giallo-verde, ma devono aventinizzarsi sulle piazze e/o parlamentarizzarsi come opposizione dura e pura.

Partendo da questi presupposti, il governo, nonostante le infantili e stucchevoli rassicurazioni di Giuseppe Conte, è destinato in breve a cadere, aprendo scenari incerti e inquietanti per il Paese. Ai firmatari del contratto non resta che trovare la clausola da impugnare per potere defilarsi clamorosamente, dando l’impressione di meritare il risarcimento elettorale. Entrambi non hanno che l’imbarazzo della scelta per togliersi di dosso questa camicia di forza, confezionata da sarti sprovveduti e maldestri. Si è aperta una partita giocata sul filo del rasoio da barbieri grossolani e incompetenti. Forse siamo più vicini alla fine di quanto si possa pensare e di quanto si possa desumere dalle ipocrite dichiarazioni ufficiali.

È inutile tenere in vita il moribondo, introduciamo surrettiziamente l’istituto dell’eutanasia e sgombriamo il campo. Temo però che il funerale non lo si faccia tanto al governo, al morto che giace, ma al vivo non si può dar pace. Mi riferisco all’Italia caduta nel bigoncio del sovranismo, depotenziata politicamente a livello europeo, inserita incestuosamente in una triste combriccola di partiti e paesi antieuropei, condizionata da un crescente e imbarazzante debito pubblico, ricattata dai mercati finanziari assetati di equilibri finanziari. Stiamo scriteriatamente mangiando nella trattoria euroscettica, sperando che qualcuno in Europa paghi il nostro conto. Abbiamo ricominciato a insolentire Bruxelles pensando che la miglior difesa sia sputtanare il compagno di squadra e l’allenatore. Ci puzza di governo Monti bis (con tutto il rispetto per quel governo), magari senza Monti e navigando nei mari dei sacrifici, che qualcuno dovrà pur imporci.

 

 

 

La bollente patata post-elettorale

Si tratta di elezioni europee, che dovrebbero avere una valenza continentale, ma la portata politica dei risultati italiani è tale da comportare serie conseguenze anche sul piano nazionale.  I due protagonisti della strana leadership governativa si sono affrettati ad escludere ricadute sugli equilibri di governo: Salvini non vuole e non deve stravincere, Di Maio non vuole e non deve straperdere. Sono impegnati a gestire un risultato opposto ed eclatante ed al momento abbozzano, fanno finta di riconciliarsi e di rilanciare il frusto contratto di governo.

Se, come ha detto sinceramente e correttamente l’importante esponente leghista Giancarlo Giorgetti dall’alto della sua posizione più che ministeriale (è sotto-segretario alla presidenza del Consiglio), avanti così non si poteva andare prima della consultazione elettorale, dopo avere rovistato nelle urne e trovato cosa pensano gli italiani, sarà oltremodo difficile andare avanti come se niente fudesse.

È vero che la somma degli addendi non è sostanzialmente cambiata e sta sopra al 50% dei consensi elettorali, tuttavia i rapporti di forza tra i partner di governo sono stati stravolti e non è serio far finta di niente. La Lega ha ottenuto quanto desiderava e il M5S ha ottenuto quanto temeva. E adesso?

In un Paese serio il presidente del Consiglio sarebbe già salito al Quirinale per rassegnare le dimissioni o per rimettere le decisioni nelle mani del Presidente della Repubblica, ma purtroppo viviamo in un Paese politicamente anomalo, dove prevalgono gli euroscettici, dove governano partiti diversi tra di loro come il giorno e la notte, dove il governo porta la croce e canta la messa, fa cioè due ruoli in commedia, quello di maggioranza e di minoranza, quello di governo e opposizione.

Il programma è stato inserito in un accordo contrattuale in cui si sono misurate forze contrapposte: impostazione istituzionalmente ai limiti della correttezza e politicamente assurda. Ora le forze sono cambiate, i presupposti del contratto non sono più gli stessi e, quindi, come prevede qualsiasi rapporto giuridico serio, dovrebbero scattare le clausole di salvaguardia, di revisione o di risoluzione. Oppure tutto era una baggianata e baggianata più baggianata meno…

Gli elettori non hanno purtroppo chiesto un’alternativa di governo, ma una diversa miscela per far marciare la stessa macchina. Bisogna prenderne atto per vedere se questa nuova miscela esiste e se è in grado di spingere a dovere la macchina stessa. Un tempo le chiamavano verifiche di governo, che preludevano a un rilancio o a una crisi.

Il presidente Conte si è recato alla riunione del Consiglio europeo, da euroscettico e da premier traballante tenuto in ostaggio da una delle principali forze sovraniste e populiste. Era stato definito un burattino nelle mani dei vice-premier, oggi è una marionetta sottoposta ai diktat leghisti. L’Italia è destinata a non contare nulla e a giocare di rimessa. Che bella situazione! Prima o dopo Mattarella dovrà intervenire e, forse, sotto traccia lo starà già facendo. Continuo a sperare in lui: anche se gli italiani, che lo osannano ovunque vada, gli consegnano delle patate sempre più bollenti.