Il generale sostituito dal caporale di giornata

Mio padre aveva trasmesso a me e mia sorella la sua grande passione per la musica operistica di cui era universalmente considerato un intenditore: la sua fama era stata da me verificata quando, insieme a lui, frequentavo il loggione e a lui si rivolgeva parecchia gente per carpire un suo spassionato giudizio sulle prestazioni vocali e interpretative dei cantanti. Strada facendo, mentre lui invecchiava e noi crescevamo in età ed esperienza teatrale, ci permettevamo di mettere brutalmente in discussione i suoi pareri: mia madre, che aveva sempre vissuto le vicende musicali famigliari con un misto di attenzione e scetticismo, non poteva sopportare questo nostro atteggiamento e ci rimproverava aspramente, perché osavamo mettere in discussione la leadership teatrale paterna, ma soprattutto perché dimenticavamo che era stato lui ad avviarci a questa stupenda avventura, fornendoci i primi rudimenti di una cultura accumulata sul campo. Eravamo, secondo mia madre, degli stupidi e presuntuosi discepoli che osano rivoltarsi contro il maestro. E aveva ragione da vendere…

Me ne sono ricordato cogliendo al volo le dichiarazioni di Giovanni Toti, presidente della Liguria, rilasciate in una intervista come ospite alla trasmissione radiofonica “Un giorno da pecora”: «Berlusconi deve rendersi conto che un’epoca è finita, col voto del marzo scorso, con la globalizzazione e la crisi che ha colpito il Paese. Io credo che, dopo tutto quello che ha fatto nella vita, oggi deve cominciare a pensare a come lascerà il suo partito a questo paese, come fanno tutti i grandi statisti». Questo signore ha dimenticato di essere stato letteralmente “inventato” come politico dal suo leader, Silvio Berlusconi, si è trovato per caso a fare il governatore della Liguria dopo avere elettoralmente flirtato con la Lega di Salvini, gioca a fare l’uomo nuovo del centro-destra ed ha il cattivo gusto di liquidare il suo capo in quattro parole. Sono rimasto sinceramente allibito, anche se, per la verità, non me ne è mai fregato niente di Berlusconi e ancor meno di Toti, ma a tutto c’è un limite.

Sono convintissimo che Silvio Berlusconi non abbia combinato niente di buono come imprenditore prestato alla politica, che abbia segnato una svolta storica negativa per la fragile democrazia italiana e che non meriti sicuramente di entrare nel Pantheon dei politici italiani. Tuttavia la frettolosa archiviazione, che ne fa un grasso e supponente parvenu proveniente dalle seconde file del berlusconismo, mi indigna e mi irrita. Sono sicurissimo che il cavaliere, con tante macchie e un gran becco di ferro, non sia un grande statista, ma sono altrettanto sicuro che Giovanni Toti, con tanta superbia e poca intelligenza, sia un grande stronzo! Una pecora, destinata a vivere cento giorni, si improvvisa leone per un giorno, sfrattando dallo zoo del centro-destra il vero e unico leone, colpevole di essere un po’ invecchiato.

Dal momento che Berlusconi, al limite dell’arteriosclerosi incipiente e galoppante, può permettersi il lusso di girare in mutande, dicendo qualche velenosa verità sugli avversari, abbia il coraggio di dirla anche sugli amici. Mi sta diventando simpatico e, tutto sommato, sto rivalutando anche alcune sue opinioni: dai tanto giustamente osteggiati grillini, impari a mandare affanculo qualcuno dei suoi, gli esponenti della sua parte, che lo stanno massacrando. Avrebbe tutta la mia comprensione e solidarietà. Non sarebbe male se, oltre ai grillini, nei cessi di Mediaset, ci mandasse anche Giovanni Toti.

Giuseppe Giusti conclude la sua bella e nota poesia “Sant’Ambrogio” temperando il suo odio verso l’austrico invasore: “Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale, colla su’ brava mazza di nocciolo, duro e piantato lì come un piolo”. Con la differenza che io rischio di abbracciare il generale e di mandare letteralmente “a cagare” il caporale dell’esercito forzitaliota.

 

 

 

La fotosintesi zingarettiana

La mia ormai lontana esperienza politica è legata al correntismo democristiano: aderivo convintamente e burrascosamente al gruppo della sinistra di Forze Nuove, che esprimeva una forte attenzione alle problematiche sociali. Avevo il coraggio, e forse un po’ l’illusione, di fare la sinistra all’interno di un partito che non era di destra, ma nemmeno di sinistra. Non voglio ripercorrere queste mie scelte e tanto meno valutarne storicamente i risultati, ma soltanto chiarire che quel correntismo, pur nell’inevitabile acqua sporca della spartizione del potere, aveva e salvava il bambino di un forte richiamo ideale e valoriale.

Per certi versi il partito democratico assomiglia alla Democrazia Cristiana, anche per la frammentazione e la divisione interna: mentre per la DC il pluralismo era una ricchezza di ispirazione che si trasformava in una variegata raccolta di consenso, per il PD la conflittualità interna, giocata tutta sulle nostalgie del passato, sulle tattiche del presente e sulle miopie per il futuro, comporta incertezza programmatica, paralisi politica e disamore elettorale.

La segreteria di Nicola Zingaretti parte male in quanto non riesce ad unificare il partito, ma offre lo spunto e lo sfogo per vecchie e nuove rivalità correntizie. Da una parte si intravede la storica contrapposizione, il pallido ma resistente massimalismo di una sinistra abbarbicata al suo ideologismo datato e oscillante fra la demagogia sociale e la burocrazia strutturale; dall’altra parte la smania post-ideologica di includere tutto e tutti in una versione annacquata e improvvisata di sinistra. Su questa radicale differenza si innestano gli opportunismi, gli equilibrismi ed i personalismi.  In un certo senso il PD ha tutti i difetti del Pci e della Dc, di cui è figlio, senza averne i pregi.

Alla forte e interessante accelerata innovativa renziana, caduta nel vuoto dei legami territoriali e nel pieno di una leadership esagerata ed invadente scantonante nel familismo e nel nepotismo, succede una frenata camuffata da ritrovata (?) voglia di legami storici con la sinistra ed il suo popolo. Questa equivoca oscillazione può immediatamente suscitare curiosità, ma rischia di provocare confusione, irritazione e divisione. Che i cosiddetti renziani stiano fuori dalla segreteria non è un dramma; il problema sta nel fatto che non si capisce dove vogliono parare gli uni e gli altri. Avrebbero “la fortuna” di poter risolvere i conflitti interni nell’opposizione ad un governo assurdo e inconcludente, ma anche su questo piano fanno fatica ad affondare unitariamente i colpi. Non basta comunque combattere il grillismo e il leghismo per giustificare una forza politica moderna e progressista.

Ci hanno provato in molti a escogitare una “cosa” di sinistra adeguata ai tempi: dalla rifondazione blairiana-clintoniana di Massimo D’Alema alla saldatura teorico-pratica di Romano Prodi; dal maanchismo di Walter Veltroni al comunismo all’emiliana di Pier Luigi Bersani; dal nuovismo di Matteo Renzi alla fotosintesi zingarettiana; dalla calda alleanza dell’ulivo alla fusione fredda del Pd; dai patti di desistenza agli accordi plurali. Come se ne esce? Con troppe voci stonate in libera uscita e con una caserma riveduta e scorretta? Sarà veramente impossibile trovare una casa comune dove discutere per poi vivere dignitosamente e proficuamente?

 

Più laico dei laicisti

Un gruppo di parlamentari laici di diversi partiti ha presentato una mozione che intende rivedere i rapporti con la Chiesa cattolica in occasione dei 90 anni del Concordato con lo Stato italiano. Nella mozione si elencano quattro punti in discussione da molto tempo: l’abolizione dell’ora di religione e la sua sostituzione con un’ora di educazione civica; la modifica dei criteri di ripartizione dell’8 per mille (la quota non destinata viene suddivisa percentualmente a seconda delle destinazioni indicate dai contribuenti col risultato che metà dell’ammontare arriva sempre alla Chiesa cattolica); la revisione delle norme sull’IMU relativa ai beni immobili della Chiesa Cattolica; l’azione determinata a dare attuazione alla sentenza della Corte europea recuperando l’ICI non pagata dalla Chiesa negli anni passati.

Mi sono chiesto: se io, cattolico convinto e praticante, fossi un parlamentare, avrei sottoscritto questa mozione di stampo laico? Non ho nemmeno verificato chi siano i presentatori del documento per non essere in qualche modo influenzato in un senso o nell’altro. La risposta è “sì”. Per quattro motivi che sinteticamente esprimo di seguito.

Più che di religione preferisco parlare di fede quindi, dal momento che essa è un dono di Dio da accogliere e coltivare, non può essere insegnata, può essere semmai testimoniata, ma è tutto un altro discorso. Ottima invece l’idea di introdurre l’insegnamento dell’educazione civica. Quando mi capita di seguire televisivamente un quiz mi accorgo che i concorrenti incespicano clamorosamente sulle nozioni basilari relative alla vita istituzionale della nostra società democratica ed ai rapporti dei cittadini con le istituzioni stesse.

L’8 per mille non ha senso di per sé in quanto ritengo che alle necessità e alle opere della Chiesa debbano provvedere direttamente i credenti, figuriamoci se posso essere d’accordo con un meccanismo di sostegno pubblico chiaramente truffaldino. Da parecchio tempo infatti non destino più personalmente l’8 per mille alla Chiesa cattolica, ma lo ritorno allo Stato.

I privilegi fiscali sono una contraddizione palese con il dettato evangelico: cerchiamo infatti di non dare a Cesare con la scusa di dare a Dio quel che non è di Dio. Già il fatto che la Chiesa abbia la proprietà di molti beni mi suona piuttosto male, ma che poi su tali beni non paghi le tasse è veramente scandaloso.

Se in passato la Chiesa non ha pagato le tasse, bisogna pensare ad una sorta di concordato fiscale all’interno del Concordato vero e proprio: pagare gli arretrati, magari senza sanzioni, ma con i dovuti interessi. I cattolici devono avere il coraggio di mettersi una mano al cuore e una al portafoglio, di cominciare a razzolare ancor meglio di come parlano.

Nella mozione è scritto che “i privilegi per la Chiesa Cattolica contrastano con la crescente secolarizzazione della società italiana dove i cattolici praticanti sono circa il 30% della popolazione e scendono al di sotto di questa percentuale tra i giovani”. I privilegi non sono accettabili a prescindere dalla fidelizzazione o secolarizzazione della società: non si possono infatti catalogare e “sondaggiare” le coscienze ed anche se paradossalmente tutti gli italiani fossero cattolici e praticanti, non sarebbero giusti i privilegi alla loro Chiesa. Conclusione del discorso: mi sono ritrovato più laico dei laicisti!

La casta magistratura

Ogniqualvolta scoppia un caso o si crea un corto circuito politico-istituzionale vado subito a ripassarmi il testo della Costituzione e trovo immediatamente la giusta soluzione del problema: o i costituenti erano marziani che avevano la risposta preventiva a tutto o erano uomini politici con una visione molto lunga, con una coscienza cristallina e una competenza incredibile. Esattamente il contrario rispetto agli attuali protagonisti della vita politica italiana.

Al di là degli aspetti giudiziari, in questi giorni è venuta a galla la difficile e confusa realtà dei rapporti tra politica e magistratura la cui sede istituzionale dovrebbe essere situata nel Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno composto da tre membri di diritto, il Presidente della Repubblica, il primo presidente e il procuratore generale della Corte suprema di cassazione e da altri componenti  eletti per i 2/3 da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti a tutte le componenti della magistratura e per 1/3 dal Parlamento  riunito in seduta comune tra i professori universitari in materie giuridiche e avvocati che esercitano la professione da almeno quindici anni. Delineando questa composizione, che garantisce esperienza. competenza e professionalità, i costituenti vollero impedire che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura si trasformasse nella creazione di una specie di casta separata da tutti i poteri dello Stato e gelosa dei suoi privilegi.

Il pericolo di una certa impropria e deleteria commistione tra politica e magistratura non è però definitivamente scongiurato dal dettato costituzionale, perché, anche quando le regole sono buone, la loro applicazione è giocoforza lasciata agli uomini con tutti i loro limiti e difetti. Come scongiurare infatti il pericolo che la magistratura inquirente possa usare le inchieste giudiziarie per condizionare e interferire nel giudizio dei cittadini sui politici? Certe iniziative adottate in certi periodi sembrano fatte apposta per orientare o disorientare gli elettori. Come garantire ai giudici il sacrosanto diritto di avere le proprie idee politiche senza che queste vengano espresse in modo inappropriato e soprattutto senza che condizionino il corso della giustizia e le sentenze relative? La partecipazione di certi magistrati al dibattito politico, a volte, sembra essere esagerata e tale da creare il rischio indiretto di pregiudizi verso le persone sottoposte a inchiesta e a processi.

Ancor più delicato e complesso è il problema delle nomine effettuate dal CSM con logiche spartitorie o in ossequio a strani accordi dove la politica messa alla porta spunta dalla finestra. Il metodo elettorale non è fissato dalla Costituzione, che si limita a definire i rapporti di forza all’interno dell’organo di autogoverno della magistratura, ed è in discussione: troppo invadenti le logiche manovriere delle correnti, poca trasparenza, molta predisposizione all’inciucio, etc. Esiste il rischio che la politica entri nel CSM dall’ingresso principale con i componenti eletti dal Parlamento, ma anche da un ingresso secondario al fine di esercitare una prassi pattizia consistente in uno scambio di favori tra toghe e politica.

Gli scandali incrinano la fiducia dei cittadini nei magistrati e giustamente il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiede di voltare pagina alla svelta, dopo che alcuni componenti del CSM sembra siano stati trovati con le dita nella marmellata (si sono dimessi con un atto di responsabilità che va accolto come tale e non come ammissione di colpa). Non so se basti tornare al dettato costituzionale ed allo spirito di autonomia e indipendenza temperato da una presenza laica anti-casta oppure occorra aggiungere metodi elettorali più chiari e corretti (qualcuno arriva ad ipotizzare il sorteggio: le solite sciocchezze dell’antipolitica). Il discorso è importantissimo e richiede a tutti il massimo della serietà. Sergio Mattarella ha inteso sostituire i dimissionari con elezioni suppletive da tenere il 6 e 7 ottobre, riportando l’attuale consiglio nel pieno della sua funzionalità. Poi il Parlamento potrà lavorare per cambiare le regole per le prossime tornate del CSM.

Un punto molto delicato riguarda le azioni disciplinari nei confronti delle toghe protagoniste di vicende scorrette: si ha l’impressione che il tutto venga corporativamente alleggerito e quindi che i giudici se la possano fare alta e bassa a loro piacimento. Facciano di tutto perché non sia così, altrimenti andiamo tutti a casa e non se ne parla più.

 

Il miracolo di san Pannella

Sembra che la questione del mancato rinnovo convenzionale con Radio Radicale abbia messo in serio pericolo la convivenza tra i partner di governo: la Lega favorevole a continuare l’affidamento del servizio pubblico di informazione politico-parlamentare alla storica emittente, il M5S, seppure tra mille contraddizioni interne, orientato a chiudere il rapporto e a tacitare una voce fastidiosamente libera nel panorama dell’informazione italiana.

I grillini hanno bisogno di normalizzare la situazione e di chiudere il becco a chi osa mettere in discussione gli equilibri vecchi e nuovi. Mi sembra una battaglia di clamorosa retroguardia! Vogliono avere il monopolio della critica e non intendono essere disturbati e contraddetti.  La Lega ha preso le distanze anche sull’onda degli orientamenti periferici espressi dagli amministratori locali riconducibili al partito di Salvini. Mi sono chiesto ripetutamente il perché di questa paura pentastellata, di questa impuntatura politica: per far crollare una diga può bastare poco, una voce stonata può compromettere un enorme coro di consensi, un faro puntato sulla vita istituzionale può scovare chi lavora per il giaguaro.

Non si può nascondere che gli alleati siano alla disperata ricerca di un buon motivo per chiudere un’esperienza fallimentare: davanti dichiarano di voler continuare la collaborazione; prima delle elezioni europee ogni pretesto era buono per litigare; nel post-elezioni si cerca il punto di rottura. Sono un estimatore di Radio Radicale e ne seguo con grande interesse le trasmissioni, dando atto a questa emittente di svolgere veramente un grande servizio alla politica italiana. Il miglior esempio di tale servizio potrebbe essere quello di costituirsi come punto di contraddizione, come buccia di banana del governo Conte, come sassata davidica al Golia pentaleghista.

In un contesto di opposizione parlamentare piuttosto debole, in una opinione pubblica sempre più stordita e sbiadita, in una situazione politica sempre più omologata alle fanfaronate salviniane e affascinata dalle svirgolate dimaiane, una piccola voce critica autorevole e credibile può diventare una brutta spina nel fianco. I politologi ed i commentatori si stanno sbizzarrendo nell’individuare quale potrebbe essere l’occasione capace di far deflagrare irrimediabilmente l’ignobile connubio: chi pensa alla deriva economica, chi alle impennate dello spread, chi guarda alla impossibile convivenza con l’Europa, chi vede il contrasto con la presidenza della Repubblica, chi ritiene Giuseppe Conte logorato dalla litigiosità di coloro che lo dovrebbero supportare, chi considera insostenibile la incompetenza e la inconcludenza dei ministri.

E se fosse la piccola ed insistente Radio Radicale a buttare fra i piedi del governo una bombetta dirompente? Forse sto esagerando, ma a sognare non si paga. Vuoi vedere che Marco Pannella riuscirà a introdurre nelle aule parlamentari il cavallo di Troia per far saltare gli equilibri governativi? Sarebbe un miracolo da “santo subito”.

 

La caccia agli untori non governativi

Sta imperversando l’antipolitica con il suo rovescio della medaglia, vale a dire l’antietica. C’è una sorta di corrispondenza biunivoca tra queste due correnti di pensiero, che si alimentano reciprocamente: non si capisce quale sia la sorgente e la foce di questa deriva culturale.

La paura, che sta diventando l’elemento portante della nostra società sempre più liquida, la fa da padrona e spinge le persone a non credere alla politica o addirittura ad osteggiarla, rifugiandosi nel corner delle illusioni populiste, nonché a rinnegare e disperdere il patrimonio etico storicamente e culturalmente accumulato, chiudendosi nell’egoistica visuale del proprio palmo di naso.

Amare riflessioni conseguenti al nuovo giro di vite anti-migranti operato dal governo col decreto sicurezza bis in cui si ipotizza una vera e propria intimidazione a suon di punizioni, previste per le organizzazioni non governative impegnate nei soccorsi in mare, alcune delle quali sono accusate di presunte e finora mai dimostrate collusioni con i trafficanti di uomini.

Durante la peste, raccontata da Alessandro Manzoni nei “Promessi sposi”, la paura induceva la gente a individuare la colpa della tremenda epidemia nei cosiddetti “untori”, persone che avrebbero propagato l’infezione nei modi più strani ed improbabili: erano questi i virtuali responsabili e bastava poco per accusarli sommariamente e irrazionalmente. Non vorrei che le ong fossero viste come gli untori del fenomeno migratorio e come tali perseguite se non perseguitate. Si sta scaricando su di esse la “colpa” di aiutare dei disgraziati a sopravvivere alle torture subite in patria, ai viaggi di fuga incredibili ed agli ammaraggi sui barconi. Fare del bene sta diventando un comportamento da prevenire, condannare e fustigare. Più paradossale di così!

È un’aria che tira in politica, ma anche a livello giudiziario: si pensi al trattamento riservato al sindaco di Riace, Mimmo Lucano, rinviato a processo, destituito ed esiliato per avere aiutato, in modo provocatoriamente irriguardoso dei lacci burocratici, i migranti, cercando solo ed esclusivamente di integrarli nel comune da lui amministrato. Non si vuole essere disturbati dai rompiscatole che ci buttano in faccia le nostre enormi responsabilità: meglio che muoiano in mare. Il fatto che arrivino da noi è colpa dei trafficanti e delle ong che tengono loro mano. Una volta arrivati sul nostro suolo si sbizzarriscono a delinquere, a rubare, a stuprare, ad ammazzare. Non devono entrare e quelli entrati devono essere rimpatriati.  Questo è il piano per gestire il fenomeno migratorio! Non si parte cioè dalla volontà di accoglierli, seppure gradualmente, ordinatamente e limitatamente, ma dalla volontà di tenerli fuori a costo di farli morire in mare (e Dio solo sa quanti ne siano già morti).

Il fenomeno migratorio è complesso, affonda le sue radici nella storia passata e recente, si basa sulle clamorose e vergognose diseguaglianze nello sviluppo dei popoli, è difficilissimo da governare. In materia si scontrano due bacchette magiche: quella dei muri e della tolleranza zero e quella del vogliamoci bene. In mezzo ci dovrebbe essere l’impegno a regolamentare i flussi, a gestire l’integrazione, a collaborare con gli Stati di partenza, di transito e di arrivo. In Italia si è scelta l’opzione zero, dell’adesso basta ed è chiaro che i soggetti capaci di far saltare il circuito vizioso sono coloro che si intestardiscono a soccorrere chi rischia di morire annegato per poi costringere chi di dovere ad intervenire nel momento immediatamente successivo. La provocazione però deve finire e le ong vadano a farsi friggere: questa la morale della favola.

 

Le rughe burocratiche del potere locale

La sinistra in Emilia- Romagna ha governato per molti anni a livello regionale, provinciale e comunale, accumulando molti meriti, ma mettendo in rilievo anche un grave difetto. I pregi sono riassumibili nella capacità di favorire la strutturazione della società nei rapporti tra pubblico e privato, di promuovere la strutturazione del settore privato, nel configurare percorsi strutturalmente esaustivi per i cittadini nella vita delle loro comunità civiche. Strada facendo, questo indiscutibile pregio ha rischiato di diventare un brutto difetto, nella misura in cui la strutturazione ha scantonato nella burocratizzazione, dando l’impressione, ma anche la quasi certezza, di voler ingabbiare tutto in una sorta di paralizzante schema di stampo socialista calato dall’alto, piuttosto emarginante e ingessante.

In questa regione rossa le cose hanno indubbiamente funzionato meglio che altrove, ma alla lunga il buongoverno si è trasformato in una camicia di forza per certi versi insopportabile o addirittura asfissiante. Ho colto una battuta di commento ai recenti risultati elettorali, per certi versi clamorosi, nel comune di Ferrara, in cui il leghista Alan Fabbri ha vinto al ballottaggio contro il candidato del centrosinistra Aldo Modonesi, pronunciata non so bene da chi: “Quelli di prima hanno perso perché non hanno saputo riconoscere i loro errori. Avrebbero fatto meglio a frequentare di più i bar”. Probabilmente la battuta di cui sopra è dello stesso neo sindaco, che infatti dichiara: «Mi hanno sempre attaccato perché facevo campagna elettorale nei bar e nei mercati, ma secondo me sono loro che si sono distaccati dalla realtà. Continuerò a starci anche adesso che sono stato eletto». Loro sono quelli della sinistra, che hanno governato la città ininterrottamente per 73 anni. Il nuovo che avanza è piuttosto variegato e inquietante e si rispecchia propria nella cultura da bar con tutte le sue pesanti stranezze, ma anche con tutte le sue simpatiche spontaneità.

In molti sostengono che la sinistra contrapponga al popolare bar l’aristocratico salotto: non è tanto questione di élite culturali inchiodate alla gestione del potere, ma di presuntuosa, asfissiante e paralizzante impostazione politica. Non consiglio a nessuno di frequentare assiduamente il bar della politica leghista, ma posso capire la stanchezza del vivere in una gabbia dorata.

L’attuale vicenda elettorale ferrarese ha molti punti in comune con la disfatta della sinistra parmense negli anni novanta: perse il comune e da allora non è più riuscita a risalire la china inanellando una serie interminabile di errori. In quel tempo a chi mi invitava, direttamente o indirettamente, a rompere la gabbia rispondevo che non avrei mai votato a destra, nemmeno se la sinistra avesse candidato sindaco Adolph Hitler…Sono ancora convinto di questa radicale e irreversibile scelta di campo, a volte mi scandalizzo delle virate elettorali di gente tradizionalmente legata alla storia della sinistra, che improvvisamente e provocatoriamente passa dall’altra parte. Ciò non toglie che bisogna sforzarsi di capire il perché e il per come la gente fa certe scelte. Non so se la sinistra per ricuperare credibilità debba mettersi a frequentare i bar e i mercati col rischio di perdere la faccia assieme al suo patrimonio ideale e culturale.

Un bagno di umiltà però non farebbe male. L’aria nelle stanze di certo potere locale in mano alla sinistra è un po’ viziata: non basta screditare l’aria che tira in altre stanze, bisogna avere il coraggio di aprire porte e finestre per ascoltare. I due temi principali su cui cimentarsi sono l’immigrazione e la sicurezza sforzandosi di fare proposte equilibrate e significative: il fenomeno migratorio va governato non certo coi muri; la sicurezza dei cittadini va difesa non certo con la licenza d’uccidere. Sono argomenti di livello nazionale che influiscono anche sulle realtà locali. E poi basta con questa smania di strutturare e burocratizzare un po’ tutto: la politica non è un supermercato dove si trovano tutti i prodotti possibili e immaginabili. Lasciamo alla gente la possibilità di scegliere il negozio e i prodotti socio-economici da comprare.

 

Il miglior attacco è la difesa

I normali comportamenti calcistici vogliono che chi subisce un goal reagisca andando all’attacco per recuperare e ottenere almeno un pareggio (a meno che il vantaggio precedente non sia tranquillizzante). Mi sarei quindi aspettato che il M5S reagisse alla batosta elettorale andando precipitosamente all’attacco mettendo alla punta il governo e i suoi sostenitori con proposte fortemente identitarie o addirittura facendo saltare immediatamente il banco (l’attuale dotazione parlamentare infatti non può bastare).

Invece i grillini fanno melina nella loro metà campo, hanno promosso un assurdo referendum abrogativo su Luigi Di Maio, dal risultato scontato (un moderno plebiscito); restano coperti a livello difensivo lasciando all’avversario/alleato l’iniziativa politico-programmatica. Non possono permettersi di contrattaccare per paura di subire il contropiede delle elezioni anticipate, da cui temono di non uscire vivi. Mi sembra un mezzo suicidio! Probabilmente, come prevede la storia della peggior politica, qualche incolpevole testa salterà per dare l’idea che qualcosa cambi mentre tutto rimane come prima e peggio di prima: un parlamentare, un sotto-segretario, un vice-presidente, etc. Generalmente saltano le teste degli esponenti più ingenui, leali e coerenti, quelli che magari non hanno sbagliato niente e vengono sacrificati come agnelli innocenti sull’altare della finta purificazione.

Poi partono le riorganizzazioni, si cerca cioè di sciogliere i nodi politici cambiando qualcosa nella struttura organizzativa, come se perdere milioni di voti fosse un dettaglio da sistemare aprendo qualche ufficio e inventando qualche incarico nuovo. Nel caso in questione si pensa di mettere mano anche al sistema di comunicazione: sembrava una macchina perfetta che stampava consenso, invece bisogna cambiare anche quella.  Si gira intorno al problema, non lo si affronta. Il M5S, nei suoi momenti di fulgore e nei momenti difficili, dimostra di non essere in grado di cambiare la politica, ma di subirla passivamente nei suoi peggiori rituali.

La realtà è che questo movimento non ha classe dirigente. L’altra sera, in un interessante dibattito televisivo, durante il quale si cercava di trovare il bandolo della matassa grillina, ad un certo punto si è cominciato a prefigurare un nuovo leader capace di guidare la rimonta: è uscito il nome di Alessandro Di Battista, il girovago battitore libero. E lì casca l’asino: non c’è preparazione, non c’è competenza, non c’è niente. Non ricordo chi dicesse che per governare non basta avere i voti, ma bisogna soprattutto e innanzitutto esserne capaci. Ora i pentastellati alla perdita dei voti rispondono con la loro presuntuosa ed irrinunciabile ignoranza e con la solita superbia degli incapaci. Vorrei capire cosa cambierebbe se al posto di Luigi Di Maio andasse Alessandro Di Battista: dalla padella alla brace. Il nome alternativo viene fatto nel senso di prevedere un ritorno grillino alla fase dei vaffa o giù di lì. Temo che quel periodo sia tramontato e infatti il suo protagonista, Beppe Grillo, se ne sta sostanzialmente al coperto e credo che gli stia scappando da ridere, nonostante gli appoggi rituali al gruppo (?) dirigente (?).

Mentre il M5S non contrattacca, la Lega impazza. Sono entrambi senza strategia e si limitano alla tattica. Non pensano certamente alle prossime generazioni, non ne hanno nemmeno la potenziale capacità, forse non pensano neanche alle prossime elezioni. Qualcuno sostiene autorevolmente che tra queste due formazioni politiche, esista una differenza importante. Mentre i grillini non hanno storia e radicamento culturale, territoriale e politico, i leghisti hanno una ormai lunga storia, sono presenti nelle amministrazioni locali con autorevoli e capaci personaggi, sanno destreggiarsi politicamente a tutti i livelli. Qualcosa di vero in questa analisi c’è. Però la storia leghista è una contraddizione continua, l’abilità amministrativa è una vernice piuttosto fresca con la quale, nonostante i bollori lombardo-veneti, ci si può sporcare, la politica è un’arte che non si impara amministrando comuni e regioni e nemmeno sbraitando ideologie passatiste. Quanto alla cultura, è meglio lasciar perdere!

A proposito di vernice e di pittura fresca leghista: a mio padre, imbianchino provetto, a volte capitava l’inconveniente di sporcare qualche passante. Allora non esistevano polizze casco, nemmeno quelle “berretto” e bisognava far fronte in qualche modo all’accaduto. Mio padre in quelle occasioni rispolverava le sue doti diplomatiche ed aggirava brillantemente l’ostacolo, fornendo al malcapitato valide istruzioni per eliminare il danno. Se il soggetto lamentava una qualche macchia cagionata da un fortuito spruzzo di “pittura”, il consiglio era il seguente: “Ch’al s’ preocupa miga! Quand al riva a ca’, al toz un strasén bagn a al gh’la pasa insimma e po’…”  voltandosi, fra sé e sé, aggiungeva sottovoce: “E po’ al butta via ‘l vestì”.

 

Il borotalco post-elettorale

Ho provato ad analizzare i risultati elettorali dei ballottaggi, vale a dire dei secondi turni della consultazione per la nomina dei sindaci in diversi comuni sparsi nel territorio nazionale. Non sono riuscito ad individuare un vero e proprio filo conduttore (al di là di una certa aria favorevole alla destra) e forse è il bello delle elezioni comunali in cui giocano più le persone dei partiti. Alla giusta localizzazione degli impulsi si aggiunge però una strana confusione al limite della schizofrenia. È un momento di grande incertezza, di rimescolamento delle carte, di “strazianti” abbandoni e di “improvvisi” ritorni.

Tutti i partiti hanno qualcosa di cui gioire e molto di cui soffrire.  La Lega, pur confermando un trend molto positivo, vince fuori casa a Ferrara e non solo, ma perde in casa a Rovigo (nel Veneto del suo radicamento storico-culturale); il M5S viene sfrattato a Livorno e conquista Campobasso; il Pd si accontenta di un pareggio globale, tiene la roccaforte emiliana, ma esce malinconicamente di scena in Romagna. L’affluenza alle urne supera di poco il 50%, dato fisiologico nei secondi turni, ma segnale di insoddisfazione da non sottovalutare.

La volatilità dell’elettorato trova una notevole e prevedibile conferma a livello locale: mentre nel passato ormai remoto si votava col cuore, nel passato prossimo si è votato con il portafoglio, oggi si vota alla viva il parroco. Tendiamo a sbandare, prima per eccesso di fedeltà ai richiami delle foreste, adesso per eccesso di attenzione alle spinte e controspinte demagogiche e strumentali. Eravamo più seri quando votavamo i rassicuranti simboli oppure oggi che votiamo sull’onda delle paure e delle illusioni? Quando terminò la contrapposizione ideologica dei grandi sogni, pensavo che i cittadini ripiegassero sulla politica delle piccole cose concrete ed invece sono tornati nel peggiore dei modi nell’area della teoria sostituendo ai sentimenti gli istinti.

Non trovo niente di ragionevole e di ragionato nel modo di porsi del cittadino elettore: è colpa sua o è colpa della politica che non riesce ad elaborare proposte credibili? Mi chiedo: come è possibile nel breve volgere di tempo passare da un largo consenso a Silvio Berlusconi ad un forte appoggio a Matteo Renzi per poi ripiegare sul placet a Luigi Di Maio e quindi approdare a Matteo Salvini. Rifiuto categoricamente la qualunquistica conclusione del “sono tutti uguali”. Il grave è che stanno saltando i riferimenti, si vota buttando in aria il cappello, in modo sperimentale, provando e riprovando qualcosa di nuovo.

L’avvocato Gianni Agnelli sosteneva che per creare una nuova classe dirigente occorrono circa venti anni: sono ampiamente scaduti, se partiamo dalla fine degli anni ottanta momento di caduta della cosiddetta prima repubblica. Siamo pertanto in mano a nessuno e brancoliamo nel buio.

Tento di orientarmi attaccandomi ai ricordi di carattere famigliare. Sulla vita e sulla personalità della mia nonna materna ci sarebbero parecchie cose da dire, in chiave elogiativa naturalmente. Anche perché mi conviene in quanto è stata dimostrata ripetutamente la mia somiglianza di carattere con nonna Ermina. Tutto me la rende simpatica ed ammirabile, sono vicino ai suoi drammi, alle sue sfuriate, alle sue esagerazioni. Anche la interminabile e gustosa antologia di strafalcioni contribuisce ad aggiungere quel tocco di amabilità comportante un patto generazionale tra me e lei. Io, il più giovane dei suoi nipoti, l’ultimo della dinastia, nonostante tutto sento per lei un grande debito di riconoscenza. Vado a prestito da nonna Ermina di un suo clamoroso strafalcione. Per dire in dialetto “borotalco” sciorinava un incredibile e buffo termine: “balotàgg”. Ebbene, la storia le sta dando ragione: il risultato dei ballottaggi ha creato a tutti, checché se ne dica, un disagio tale da essere curato con robuste applicazioni di borotalco, meglio se mentolato.

 

 

I bot…ti di fine governo

Quando le cose vanno molto male, spesso l’unica arma di difesa diventa la “ridicolizzazione” dei problemi, nella speranza di sdrammatizzarli, snobbandoli, ridendoci sopra. Che le cose in Italia vadano piuttosto male è del tutto evidente: è però un malessere strano, che grava su molti che soffrono, che grava anche su chi non se ne rende conto salvo aprire gli occhi improvvisamente, che risparmia quelli che più gridano e si agitano pensando di essere i più tartassati, che spinge parecchia gente a rifugiarsi nelle più strampalate diagnosi e nelle più implausibili ricette.

L’ultima ricetta è quella dei bot di piccolo taglio, una sorta di carta straccia con cui lo Stato pagherebbe i creditori e con cui i detentori pagherebbero lo Stato, in un assurdo circolo monetario vizioso e inconcludente, se non dannoso. Sembrerebbe una barzelletta se addirittura Mario Draghi non si fosse sentito in dovere, in tono educatamente sprezzante, di stracciare questi titoli indefinibili ben prima che vengano emessi: non sono né carne né pesce, né moneta né titolo di debito, sono la fantasia demenziale di un governo alla frutta.

Quando si arriva a questi punti o si è alla disperazione o ci si rifugia nel mondo dei sogni. Lo stesso presidente del consiglio nonché il ministro dell’economia appaiono in evidente difficoltà alle prese con questo lancio pazzo, con questa voce dal sen fuggita, difficilissima da richiamare. Miglior assist agli ipotetici detrattori dell’Italia non si potrebbe fornire. Pensiamo al tanto vituperato establishment della burocrazia europea: si saranno chiesti se il nostro Paese stia impazzendo dietro le elucubrazioni pentaleghiste. E i mercati finanziari avranno avuto un riflesso condizionato: se vogliono affiancare ai titoli del debito pubblico la circolazione di titoli fasulli forse vuol dire che la finanza pubblica italiana è guidata dagli straccivendoli. E i partner europei del nord e del sud, di destra e sinistra ci relegheranno nel cortiletto dove si gioca a monopoli e a tombola.

L’unica speranza è che ormai si tratti degli ultimi fuochi artificiali che fanno molto rumore e poco spettacolo. Non vorrei però che succedesse come a mia madre. Aveva una sua amica gravemente ammalata e ricoverata in ospedale dove veniva amorevolmente accudita da una generosa e disponibile persona. Non riuscendo ad avere notizie aggiornate e non volendo fare imperdonabili gaffe, ripiegò nel chiedere un aggiornamento della situazione a quella persona che vegliava al capezzale dell’amica. Questa rispose laconicamente: “Cosa vuole…ormai è questione di ore…”. Di fronte ad una simile sentenza mia madre rimase ammutolita e non approfondì il discorso. Cosa successe? L’amica guarì, campò molti anni, morì di tutt’altra malattia e dopo parecchio tempo dalla morte della persona che aveva sputato, seppure in buona fede, quella precipitosa sentenza.

Forse sto anch’io incautamente gettando, come si suole dire, le briciole dietro al governo giallo-verde, sempre più giallo di rabbia dissimulata e verde di provocante soddisfazione.  Magari il governo sopravviverà per parecchio tempo. Magari morirò prima io. Tutto lascerebbe supporre la fine imminente dopo gli ultimi respiri affannosi dei sottosegretari Borghi e Giorgetti, il duo “Borghetti”, come è stato immediatamente ribattezzato. Sarà una manovra per depistare gli osservatori? Anche questo, nel clima politico in cui viviamo, è possibile. Umberto Bossi voleva pulirsi il sedere con la bandiera tricolore, il suo successore Matteo Salvini ci propone di pulircelo con i bot-carta igienica. Speriamo che non ci succeda come a Federico Barbarossa. Si racconta che in quel di Parma gliene capitò una bella: finito in un prato segato, dopo avere abbondantemente defecato, si pulì il sedere con le ortiche, maledicendo Parma e la sua erba che pizzica il cul.