Non sparate sul (cattivo) pianista

La Corte dei Conti, in base alla Costituzione, svolge prevalentemente le seguenti funzioni: controllo preventivo di legittimità sugli atti del governo, controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato, controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Sono andato a ripassare i compiti di questo organo, perché in questi giorni il suo Procuratore Generale assieme ad altri esponenti, durante la cerimonia di parificazione del rendiconto generale dello Stato per l’esercizio finanziario 2018, ha indirizzato alcuni avvertimenti al governo sul riassetto delle tasse e dei tributi, sull’aumento del deficit, sul debito pubblico, sulla crescita economica, sulla tendenza a dilatare la spesa, sul pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione.

Ho letto con un certo interesse le argomentazioni esposte, che mi sono sembrate tecnicamente ineccepibili. Provo a sintetizzare il ragionamento della Corte dei Conti: lo shock fiscale (la flat tax, detta fuori dai denti) fatto in deficit non porta da nessuna parte; il debito pubblico ha raggiunto i limiti massimi di sostenibilità e finirà col colpire le generazioni future, forse addirittura tre o quattro; per recuperare il debito occorre produrre ricchezza e per produrre ricchezza occorre impiegare risorse e quindi sostenere la ripresa delle attività economiche senza sfondare però ulteriormente il bilancio con una dilatazione della spesa pubblica. Un bel rebus sottoposto al governo, anche se per la verità si tratta di far cadere dall’alto considerazioni che uno studente alle prese con l’esame di politica economica non faticherebbe a elaborare. Certo, se la predica arriva da un pulpito autorevole, vale o dovrebbe valere molto di più.

Non discuto il valore dei richiami alla cautela formulati dalla Corte dei Conti, ma mi è venuta spontanea una riflessione molto banale sui tempi di esternazione coincidenti con la stretta finale dell’improbo contenzioso aperto tra il governo italiano e la comunità europea sulla quadratura (del cerchio) dei conti pubblici italiani. Lasciamo stare il fatto che il governo stia portando avanti la trattativa in un quadro ministeriale confuso e rissoso, che il tono della discussione non sia sufficientemente dialogante ma addirittura provocatoriamente aggressivo, che la posizione italiana risulti isolata e debole, che le proposte del nostro Paese siano contraddittorie e inattuabili. Tuttavia lanciare clamorosamente avvertimenti pubblici proprio nel momento in cui si sta stringendo il discorso per evitare una sciagurata procedura d’infrazione, mi sembra francamente un autogol istituzionale; significa indebolire e delegittimare i rappresentanti del governo, scoprendo ulteriormente l’incertezza e la precarietà che caratterizzano l’attuale compagine ministeriale. Della serie: se anche il vostro organismo di controllo sui conti pubblici ha grossi dubbi e perplessità sulle prospettive a livello economico-finanziario, come facciamo a credere a livello europeo alle vostre analisi ed alle vostre proposte?

Non so fin dove quanto dice la Corte dei Conti sia in questo momento dovuto sul piano giuridico e istituzionale: certe considerazioni, pur nella loro intrinseca serietà, potevano essere più contenute o addirittura anche opportunamente spostate nel tempo? Non si tratta di furbizie istituzionali o di ipocrisie contabili, ma di senso dello Stato, che in questo momento manca un po’ a tutti, con l’eccezione del Presidente della Repubblica. Quanto dice la Corte dei Conti è un ottimo parere da meditare seriamente, ma rischia di essere un pessimo viatico per chi si siederà ai tavoli di Bruxelles a trattare un accordo quasi impossibile (e questa non è certo colpa della Corte dei Conti). Un ragionamento, peraltro discutibile e azzardato, da parte di un italiano molto preoccupato per il suo Paese.

 

E il verbo si fece Salvini

L’ennesima piccola emergenza in mare (42 profughi salvati in mare dalla nave sea-watch e da 14 giorni alla disperata ricerca di un attracco) ha scatenato la celoduristica (non) politica salviniana dell’immigrazione fatta di bracci di ferro con le Ong, con l’Ue, financo con la Chiesa cattolica; pur essendo elaborata, meglio dire improvvisata, e affrontata in modo spannometrico e fasullo, pur mettendo strumentalmente al centro una  questione che distrae il Paese dai suoi veri problemi economico-sociali, è purtroppo largamente maggioritaria a livello di partiti e a livello di opinione pubblica. È inutile nascondersi che i crescenti successi elettorali della Lega sono prevalentemente da ricondurre alla linea dura contro gli immigrati, che, al di là delle episodiche commozioni fotografiche, dà l’illusione di sicurezza alla faccia dei poveri del mondo. Mi vergogno di essere italiano, ma devo prendere atto che la maggioranza dei miei concittadini sono testardamente e irrazionalmente preoccupati di difendere il proprio cantuccio, ributtando in mare chi osa chiedere una mano. Questa è la realtà, altro il discorso di capire perché la gente non veda più lontano del proprio naso e di provare a farla ragionare con proposte pragmatiche ed equilibrate. Gara dura, ma doverosa per chi ha responsabilità politiche e vuole distinguersi dalla sempre più avvolgente deriva salviniana.

Se la gente ama sentirsi sbattere in faccia il verbo leghista, vediamo come la pensano gli altri partiti. Il M5S, nonostante permanga chi si intestardisce a intravedervi in filigrana una vocazione di sinistra, è sostanzialmente appiattito sulle posizioni leghiste: il suo dramma è infatti quello di provare a distinguersi dal partner di governo senza riuscirvi e finendo col fare la figura del partito-servo sciocco che perde voti a raffica. Non è questione di etichette e schemi partitici superati (?), è questione di idee e di linee politiche su cui i grillini viaggiano spudoratamente a rimorchio. Devono solo sperare che Salvini interrompa lo stillicidio che li vede soccombenti, infatti questa interruzione dell’ignobile connubio non finirà per la loro resipiscenza, ma per la scelta opportunistica leghista dell’usa e getta. Penso che alla fine rimarranno con un pugno di voti in mano, dopo aver perso la faccia e riconsegnando gli elettori delusi ad estremismi e qualunquismi sterili e pericolosi.

E gli altri partiti del cosiddetto centro-destra? Se esistono (più passa il tempo e più c’è da chiederselo), non riescono più a distinguersi, presi dalla smania di sopravvivere rimettendosi frettolosamente insieme in una coalizione che li vede marginalizzati e soccombenti.  I Fratelli d’Italia, con la loro vergognosa leader, soffiano sul fuoco leghista sperando di carpirne qualche scintilla. I forzitalioti di risulta sono nella diaspora, sballottati tra i nostalgici rigurgiti berlusconiani e i nuovisti corsi totiani. Berlusconi sta finendo in modo assai meno dignitoso rispetto alla triste previsione contenuta nel film di Sorrentino: consegnarsi al duo costituito da Giovanni Toti e Mara Carfagna è veramente una fine ingloriosa.  Mentre sul discorso economico e dei rapporti con l’Unione Europea riescono a distinguersi rispetto agli strafalcioni di Salvini, con la riserva mentale di liberarlo dall’abbraccio pentastellato, sulla politica dell’immigrazione balbettano qualcosa e sembrano ruminare ancor più che rimuginare le squallide invettive leghiste.

E il PD? Preso e condizionato dalle sue interne conflittualità, non riesce a coniugare il rispetto dei valori di accoglienza e solidarietà con la necessità di governare politicamente il fenomeno migratorio. Ha provato nella scorsa legislatura Marco Minniti, senza avere il tempo e gli appoggi opportuni per affrontare una materia così incandescente.  Manca al partito democratico la capacità di affrontare le sfide dei giorni nostri: quindi da una parte tende a rifugiarsi nell’anacronistico continuismo della sinistra classica, dall’altra a cedere alle nostalgie centriste. In mezzo a questo guado potrebbe essere utile la laica riscoperta dell’ispirazione cristiana: una iniezione valoriale e progettuale per irrobustire la gracile costituzione di un partito frettolosamente costituito, opportunisticamente gestito, forzosamente relegato in uno stand by che sembra non aver mai fine.

Per concludere sul discorso migratorio, bisogna ammettere che assomiglia molto alla questione del sesso degli angeli: si discute e si sparla, mentre gli immigrati sono vittime dello scaricabarile internazionale, interno, sociale e politico. Mia madre, nella sua spiccata e profonda semplicità, si chiedeva se per gli immigrati non fosse il caso di rimanere a casa loro. Io rispondevo che la loro disperazione non lo permetteva e lei ribatteva che forse sarebbe stato meglio morire in patria piuttosto che fare la fine “d’i rosp al sasädi”.

 

 

Un inverno olimpico per scaldarsi

Nel bel mezzo della inevitabile ventata retorica, le olimpiadi scatenano un clima positivo in chi le progetta, le realizza e le vive. Siamo ancora nella fase iniziale, ma l’atmosfera positiva ed unificante ha coinvolto un po’ tutti. Merito della Grecia antica da cui sono nate? Di Pierre de Coubertin che le ha riproposte alla fine del XIX secolo?  Di chi nel 1924 ha istituito i giochi anche per gli sport invernali? Di chi ha varato le competizioni fra persone disabili? Certo la storia delle Olimpiadi è riuscita a condizionare ed a sovrapporsi in chiave propositiva alla storia dell’umanità; a volte ne è uscita troppo coinvolta, ma comunque ha tessuto una tela benefica di cui usufruire.

Mai come in questo momento per l’Italia è valso il motto “l’importante non è vincere, ma partecipare”: il nostro Paese infatti è riuscito a trovare mezzi e risorse in una imprevedibile unità d’intenti, si è candidato a gestire l’evento, gli è stata concessa questa chance da non sprecare. Partecipiamo a pieno titolo alla storia olimpica e dobbiamo cercare di vincere non tanto le gare sportive (a quelle penseranno gli atleti), ma la scommessa sulla capacità italiana di ospitare degnamente un simile evento mondiale. Le premesse ci sono: abbiamo bellezze naturali da mettere in campo, arte e cultura da esibire, risorse umane da impiegare, creatività da sfogare, laboriosità da esprimere. Credo siano qualità potenziali riconosciute da chi ha deciso la localizzazione italiana e ne dobbiamo andare orgogliosi.

C’è una cosa da fare: bisogna continuare a cercare l’unità di intenti fra tutte le istituzioni interessate e da coinvolgere. Nei momenti importanti e fondamentali il nostro Paese sa trovarla uscendo dalle strettoie dell’individualismo, del particolarismo e del settarismo e proiettandosi in una dimensione nazionale e sovranazionale, aiutato dal patrimonio ideale e culturale di cui è ricco.  Ben vengano le Olimpiadi invernali a sgelare paradossalmente i rapporti egoisticamente raffreddati nelle stanze del potere ed a scaldare la prigione degli sfiduciati atteggiamenti della gente comune.

C’è una cosa da evitare: rinchiudersi in una logica affaristica seppellendo l’evento sotto una coltre di interessi profani. I fattori economici sono importanti: investimenti in infrastrutture, sviluppo turistico, iniziative imprenditoriali, lavori pubblici e privati, etc. Non sono tutto e non devono prevaricare teoricamente e praticamente sullo spirito olimpico, che va ben oltre il palaghiaccio e le piste sciistiche: il lavoro di chi realizza le strutture, la passione di chi gareggia, la curiosità di chi girerà l’Italia. L’affarismo è una brutta bestia in agguato a tutti i livelli, dobbiamo domarla, addomesticarla e usarla a fin di bene.

Ho notato il genuino entusiasmo con cui i promotori e tutti i cittadini hanno accolto l’assegnazione a Milano-Cortina della realizzazione delle Olimpiadi invernali 2026. Un buon segnale di cui il Paese aveva necessità, una iniezione di fiducia da mettere in circolo, una occasione da non sprecare. Mio padre scandiva i ritmi della sua vita sulle scadenze olimpiche. Si chiedeva: arriverò a vedere le prossime? Non era una banale ansia di sopravvivenza, era la voglia di vivere la storia partendo anche da queste prospettive di umana condivisione e di sana competizione.

Un solista nel coro

Per molti anni il presidente della Repubblica è stato un silente e impenetrabile notaio impegnato sotto traccia a garantire il corretto funzionamento delle istituzioni. Da Sandro Pertini in avanti è diventato anche l’interprete principale del sentimento nazionale, presente nelle situazioni e nei passaggi della vita del Paese, nel rigoroso rispetto delle proprie attribuzioni, ma costantemente impegnato a fianco della Repubblica.

Sergio Mattarella sta incarnando alla perfezione il suo ruolo con uscite pubbliche tempestive e mirate, con un discreto lavorio di suggerimento e di appoggio, collocandosi non tanto al di sopra delle parti, ma in mezzo alle parti, senza paura di sporcarsi le mani e senza false equidistanze. In questi ultimi giorni ho apprezzato tre suoi interventi, così diversi ma così uguali nei loro intendimenti: la denuncia della inammissibile e sconcertante situazione del Consiglio Superiore della Magistratura; la partecipazione all’evento culturale e spettacolare dell’Aida all’Arena di Verona in ricordo del grande Franco Zeffirelli; l’appello inviato al Cio in vista della scelta della sede olimpica invernale del 2026. Istituzioni, cultura e sport: tre fili conduttori della società democratica italiana.

Quanto alla delegittimazione della magistratura derivante da vicende assai poco edificanti di intrecci tra giudici e politici, si è lasciato addirittura impunemente lambire dal gioco al massacro, preoccupandosi non tanto di difendere la propria immagine, ma di garantire la tenuta istituzionale del potere giudiziario e con esso di tutta l’impalcatura repubblicana. Un invito perentorio e credibile a voltare pagina ed a pulire procedure e funzionamento della giustizia.

Il giorno stesso in una splendida serata di spettacolo ha voluto partecipare all’omaggio reso a Franco Zeffirelli, assistendo all’inaugurazione della stagione lirica areniana, apertasi con una edizione di Traviata firmata dallo scomparso scenografo e regista e diretta da un grande musicista qual è Daniel Oren. Un chiaro messaggio di contemplazione e di valorizzazione della vita culturale italiana proprio in un momento di grosse difficoltà economiche e di rischiose conflittualità sociali.  Il mio indimenticabile amico Gian Piero Rubiconi, senza avere intenti megalomani e spendaccioni, riteneva che la cultura, la musica in particolare, fosse una opportunità imprescindibile anche e soprattutto nei periodi di crisi: «Proprio quando l’economia va male è il momento di investire nella cultura, per fare argine alla crisi che trascina in basso i valori e per stimolare i consumi di prodotti che non si logorano nel tempo».

A distanza di pochi giorni ecco giunta al culmine la competizione della cordata Milano-Cortina per ospitare le olimpiadi invernali 2026. Un intervento video, un vero e proprio sintetico capolavoro di diplomazia e di orgoglio nazionale. Lo sport vissuto come opportunità di crescita culturale, sociale ed economica, come occasione unificante nella vita del Paese, come momento di apertura alla vita del mondo intero.

Mattarella sta snocciolando lezioni di stile, sta riportando ordine nella confusione, unità nella divisione, serietà nella irresponsabilità, riservatezza nella sfrontatezza, compostezza nella frivolezza. Gli italiani lo capiscono, è l’unico personaggio che riesce a farli ragionare mettendo in campo tutta la sua credibilità di uomo, di politico e di rappresentante delle istituzioni. Non so se abbia in testa un disegno, ma mi spaventa comunque il dopo Mattarella.

Litigare fino a tirarsi i minibot

È un classico: quando le cose vanno troppo bene si finisce col complicarsele o addirittura rovinarsele da soli. Sta succedendo in casa Lega: il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ed esponente di primissimo piano del partito, Giancarlo Giorgetti, ha letteralmente “smerdato” il collega di partito Claudio Borghi, l’ideatore della proposta dei minibot, ovvero dei titoli di Stato di piccolo taglio, simili a banconote, ipotizzati come soluzione per pagare crediti fiscali e debiti arretrati della pubblica amministrazione.

Giorgetti non è andato per il sottile e ha detto molto più di quel che ha detto: si tratta di una cazzata, di una assurda e fantasiosa idea, di un tranello in cui molti sono caduti, una sciocchezza bella e buona. Qualcuno ha immediatamente fatto risalire queste piccanti dichiarazioni alla prospettiva di rivestire l’incarico di commissario a livello Ue e quindi alla necessità di darsi immediatamente un contegno.

Non voglio fare il processo alle intenzioni e quindi mi limito a prendere atto della posizione di Giorgetti, peraltro abbastanza ovvia, dal momento che viene dal personaggio più serio, equilibrato, preparato e capace di tutta la compagine governativa e di tutta l’ammucchiata pentaleghista. Ha dichiarato fuori dai denti: «C’è ancora chi crede a Borghi? Ma vi sembrano verosimili i minibot? Se si potessero fare, li farebbero tutti». Né più né meno il ragionamento che faceva spesso mio padre: se tutto fosse così facile, non ci sarebbero problemi…la realtà è purtroppo molto diversa e molto più problematica.

Non so se il leader leghista, Matteo Salvini, concordi con Giorgetti. Borghi ci scherza sopra: «Poverino Giorgetti è lì che aspetta una cosa importante come le Olimpiadi e gli rompono le scatole coi minibot». Inoltre l’uomo della finanza creativa leghista millanta credito e rivendica il placet di Salvini. Non mi interessa, do atto comunque a Giorgetti di avere riportato un po’ di sano realismo nel fantasmagorico e lunatico dibattito politico. In Bohème di Giacomo Puccini a Colline, il più intellettuale della compagnia, ad un certo punto, visto il suo atteggiamento benevolmente pragmatico di fronte all’agonia di Mimi, riconoscono: “Filosofo ragioni!!!”. Davanti all’agonia italiana nei rapporti con l’Europa Giorgetti ha buttato una manciata di sano realismo: “Leghista ragioni!!!”.

Mentre tra le fila leghiste qualcuno cerca disperatamente di ragionare, in casa M5S si litiga a fondo perduto: i galletti grillini si beccano. Di Maio accusa Di Battista di destabilizzare il movimento. Di Battista rimprovera a Di Maio di avere burocratizzato e depotenziato il movimento. Probabilmente hanno ragione entrambi. In casa Lega si finisce col litigare nell’abbondanza, in campo grillino ci si scontra nelle ristrettezze. C’è modo e modo di litigare: lo si può fare per cose da niente, per coprire il niente, per darsi dell’importanza, per motivi seri, per ragioni di fondo. A parte tutto a volte litigare fa bene. Secondo recenti studi psicologici, litigare rende le coppie più durature e felici; le coppie prive di conflitti non sono vitali. Persino il papa ritiene ammissibile che volino i piatti, purché, dopo gli sfoghi, ritorni la pace.

C’è chi fa volare i minibot e chi si contende la leadership a battute velenose. Staremo a vedere quanto durerà e se dopo i temporali tornerà il sereno. Purché in questi litigi non ci mettano e ci lascino il dito gli italiani: forse però se lo sono voluto.

 

Quel ramo del lago di Como…

Certamente la sobrietà non è il mestiere degli americani: forse, tutto sommato, fanno apertamente, in anticipo e in grande quanto anche noi facciamo nascostamente, in ritardo e in piccolo. Due americanate si confrontano in questi giorni: una, pericolosa e potenzialmente disastrosa; l’altra, spettacolare e fantasiosamente profetica.

In una contraddittoria escalation bellicista, Donald Trump all’ultimo momento scongiura un attacco all’Iran, frettolosamente deciso in sproporzionata risposta alla provocatoria distruzione di un drone. Improvvisamente scopre che fare la guerra comporta vittime e che prima di buttarsi in avventure bellicose bisogna pensarci due volte. Non è una intuizione profetica, ma accontentiamoci di questo rigurgito di buon senso: meglio tardi che mai.

Sull’altro fronte Barack Obama, con famiglia al seguito, è in arrivo a Villa Oleandra, la residenza di George Clooney a Laglio, sul Lago di Como. Il paese sarà blindato, le precauzioni e i controlli non mancheranno. L’orgoglio dei residenti è stato ben interpretato dal sindaco del luogo: «Per tanti onori, qualche onere dobbiamo accollarcelo». Non penso sia un grande onore ospitare la residenza vacanziera di un famosissimo attore né l’escursione estiva di un ex-presidente degli Usa. Il mondo va così e non è una novità. Mio padre amava mettere a confronto il fanatismo delle folle di fronte ai divi dello sport e dello spettacolo con l’indifferenza o, peggio, l’irrisione verso uomini di scienza o di cultura. Diceva: “Se a Pärma a véna Sofia Loren i corron tutti, i s’ mason par piciär il man, sa gnìss a Pärma Fleming i gh’ scorèzon adrè”.

Una intelligente, colta e simpatica amica, ai tempi delle nomination per le candidature alle ultime elezioni presidenziali statunitensi, quando si ventilava la debole candidatura democratica di Hillary Clinton, mi stupì con una strana idea, che mi colse di sorpresa e su cui tuttavia fui costretto a riflettere: e se, per i democratici, si candidasse George Clooney o, se proprio vogliamo una donna alla presidenza, sua moglie Amal?! Forse ci saremmo risparmiati la pessima avventura trumpiana, ogni giorno più inquietante e invadente.

Negli Stati Uniti da parecchio tempo la politica ha intersecato il mondo del cinema, in una disinibita combinazione tra governo della cosa pubblica e spettacolarizzazione delle presidenze: per gli americani non ci sono reticenze, le cose si fanno alla luce dei riflettori, senza ritegno e con tutti i rischi del caso. Allora, se spettacolo deve essere, facciamolo almeno ai massimi livelli con un grande divo prestato alla politica e non riciclando uno squallido tycoon, un magnate che scende in politica (solo Berlusconi è riuscito  a battere negativamente sul tempo gli americani), uno spregiudicato uomo d’affari che gioca a fare l’attore. Qualcuno ha trovato, in questa visita vacanziera obamiana in quel di Como, una sorta di ipotetica investitura di Clooney per le prossime candidature alla Casa Bianca. Visto che per vincere le elezioni negli Usa non bastano i soldi (la Clinton ne aveva, ma Trump ne aveva di più), non occorrono solo i voti (la Clinton ne aveva di più, ma ha perso), bisogna puntare tutto sull’appeal e sul fascino personale; allora proviamo con Clooney e/o con sua moglie.

Mentre Matteo Salvini va in visita negli Usa per strizzare l’occhio a Trump, in riva al lago di Como, in pieno territorio lumbard, si sta tramando e combinando un colpo di stato mediatico da far impallidire il mondo intero? Se dovesse concretizzarsi questa manovra obamiana non esiterei a tifare in modo sfegatato per Clooney, rinunciando alla mia rigorosa e sobria visione politica. Se per sfrattare Trump, occorre fare un patto all’americana, facciamolo e non se ne parli più. Se occorre un “trumpolino” di lancio, ben venga il Lago di Como: magari oltre che l’incipit dei “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni, diventerà l’inizio di una nuova era, molto lontana dalla nuova frontiera kennediana, ma sempre meglio della guerrafondaia epoca trumpiana.

 

 

 

La cucineria degli orchi

Che la furia omicida si scateni sui soggetti più deboli è la legge della jungla a prevederlo. Ma la jungla non spiega nel modo più assoluto l’uccisione dei piccoli da parte dei genitori. Un leone e una leonessa non ammazzano i propri cuccioli, anzi li difendono con le unghie e coi denti fino ad ammazzare eventuali aggressori. I ripetuti fatti di cronaca, che vedono bambini o ragazzi fatti fuori o vessati dai famigliari, costituiscono ormai un vero e proprio campionario nel quale troviamo una inquietante casistica di genitori, che collaudano sulla pelle dei figli le loro convinzione religiose (figlie picchiate e uccise perché si vestono e si comportano all’occidentale, bambini morti dissanguati in quanto sottoposti artigianalmente a circoncisione, neonati lasciati morire senza l’ausilio di trasfusioni sanguigne), le loro scelte igienico sanitarie (ragazzini che muoiono per fanatica fiducia  nelle terapie alternative, bambini messi allo sbaraglio col rifiuto della somministrazione di vaccini), che sfogano il fastidio e l’ingombro che i bambini procurano (più sul piano psicologico che socio-economico), che fanno oggetto figli e figliastri di inaudite violenze sessuali. C’è da rimanere veramente sconvolti. Non esiste manuale (di psicologia, di criminologia, di religione, di etica) convincente nel trovare, ma soprattutto per giustificare le cause prossime e remote di simili fatti (direttamente o indirettamente) di sangue. O stiamo impazzendo tutti di egoismo e di insofferenza o la strage degli innocenti, dalla guerra alla fame, dalla tortura allo sfruttamento, si sta trasferendo, a pieno titolo, all’interno delle mura domestiche.

Si è sempre saputo che i maltrattamenti dell’infanzia, anche i più efferati e brutali, avvengono soprattutto nelle famiglie.  Niente di nuovo quindi. La modernità del fenomeno consiste nella sostanziale banalità delle motivazioni e nelle blasfeme spiegazioni fornite. Mi soffermo soprattutto sugli episodi più cruenti e violenti. Certe mamme lasciano uccidere i propri figli per paura di essere lasciate dai loro conviventi, i padri ammazzano i figli perché disturbano il sonno: i figli stanno diventando un peso insopportabile per le strane combinazioni esistenziali delle (non) famiglie. Mi sembra che la denatalità non sia tanto dovuta alle ristrettezze economiche e alle difficoltà sociali, ma alla concezione profondamente errata della genitorialità: il figlio visto come ospite incomodo e sgradito. Questa mentalità piuttosto diffusa trova il suo drammatico o tragico epilogo nelle situazioni più a rischio.

Viviamo il paradosso entro il quale chi poterebbe procreare non lo fa e, se lo fa, tratta i figli come pezze da piedi, mentre chi non può avere figli fa i salti mortali per poterli ottenere; chi può tranquillamente sposarsi non lo fa per prudenza, paura e ritrosia a contrarre vincoli, mentre chi vede preclusa la strada dell’unione matrimoniale (si pensi alle coppie omosessuali e alla costrizione celibataria dei sacerdoti) la desidera ardentemente.

Se i miei genitori avessero fatto i conti con la loro povertà, io non sarei mai nato. Invece non solo sono venuto alla luce, ma sono diventato l’oggetto di tutte le loro attenzioni. Quando stavo assieme a mio padre e mia madre o anche a uno solo dei due, ero e mi sentivo al centro della situazione. Mio padre sosteneva provocatoriamente che non avrebbe mai osato alzare una mano su di me, anche se avessi dato fuoco alla casa. Si partiva da queste convinzioni da cui non si poteva prescindere. Oggi osservo i quadretti famigliari e spesso ne resto disgustato: i bambini sono l’ultima ruota del carro, un inciampo, un ostacolo. Lo si legge in viso a molti genitori. Si dà la colpa ai ritmi ossessionanti della nostra società, allo stress da lavoro, alle difficoltà di vario genere. Non mi convincono!

Se la Chiesa, che ripetutamente individua nella crisi famigliare il motivo fondamentale dei nostri guai, intende richiamare ad un maggior senso di responsabilità interno ed esterno alle famiglie, ha perfettamente ragione. Non è questione di dogmatica indissolubilità del matrimonio, non è imprigionando la sessualità nella procreazione, non è costringendo a tutti i costi la maternità, non è impedendo i rapporti sessuali prematrimoniali, non è esigendo tout court il sacramento a suggello delle unioni, non è vietando il controllo delle nascite, non è escludendo a priori le convivenze civili, non è esorcizzando l’omosessualità, non è tornando alla famiglia focolare domestico, in cui ricacciare il ruolo della donna, che aiutiamo la gente a ritrovare il senso di mettere al mondo, educare, crescere ed amare i figli. La tentazione di tuffarsi acriticamente nel passato può essere grande, ma non serve a nulla, da nessun punto di vista.

Diamoci comunque una regolata, non soltanto per criminalizzare gli autori dei fatti più sconvolgenti ed incresciosi, ma per ritrovare quel senso di umanità che dovrebbe preservarci dalla jungla del nostro egoismo, dall’allargare la stiva dei barconi fino alle stanze delle nostre case. Vale per come trattiamo i bambini, vale per come trattiamo gli anziani, vale per come trattiamo le donne, vale per come consideriamo i diversi, vale per come ci rapportiamo con i nostri simili, con gli animali e con la natura tutta.

L’ignoranza in poppa

Ammetto di avere una concezione aristocratica della politica. Cosa voglio dire? Dal momento che la considero un elemento importantissimo e fondamentale della vita comunitaria ed anche personale, esigo che venga discussa e praticata da gente che, per preparazione, competenza, esperienza, cultura, etc., sia in grado di affrontarla seriamente a servizio della collettività. In politica è auspicabile la passione, ma non è ammesso il dilettantismo, non è accettabile l’improvvisazione.

Non ricordo la fonte, ma a suo tempo Gianfranco Fini fu definito da un intellettuale di destra, e quindi non a lui politicamente estraneo od ostile, come un soggetto che “non sa un cazzo, ma lo dice bene”. Attualmente la politica italiana è piena zeppa di gente che non sa un cazzo, ma lo dice bene o che addirittura lo dice male, ma sa conquistare un inspiegabile consenso.

L’indimenticabile esponente democristiano Mino Martinazzoli a chi gli chiedeva di “sputare” certezze, ammetteva di avere molti dubbi. Altra stoffa! Oggi tutti sparano certezze e nessuno ha il coraggio di esprimere qualche dubbio. Bisognerebbe diffidare e invece ci si prostra ai piedi di questi vanagloriosi personaggi. I media hanno enormi responsabilità nel legittimare l’ignoranza dei politici, inserendoli nel loro circo pieno di prestigiatori che si spacciano per acrobati.

Pur rimanendo a livello meramente gossiparo c’è da rimanere allibiti di fronte alle esercitazioni previsionali attualmente in voga: ci si preoccupa della leadership del M5S, riducendola fra l’altro alla competizione fra Luigi Di Maio ed Alessandro Di Battista, i cavalli di razza dell’allevamento grillino, molto più che delle cariche istituzionali europee in discussione nel dopo elezioni.

È possibile che il futuro dell’Italia venga passato al vaglio del ballottaggio fra Di Maio e Di Battista? Non è possibile! Eppure sta avvenendo. Questi signori non sono all’altezza della situazione, stanno giocando a fare i politici e la gente è talmente scoglionata di tutto e di tutti da consegnare il Paese nelle loro mani.

Proviamo a fare una provocatoria distinzione tra gli aspiranti politici: da una parte abbiamo i ladri, quelli cioè che vedono nella politica l’arte dei propri affari; dall’altra abbiamo gli stupidi, quelli che vedono nella politica solo l’occasione per esibirsi. Preferisco l’analoga classificazione pannelliana fra “capaci di tutto” e “capaci di niente”. Non avrei dubbi a schierarmi dalla parte dei ladri, dei capaci di tutto. Ho sempre pensato che sia molto meglio avere a che fare con un cattivo intelligente che con un innocuo stupido.

“Se no i xe mati, no li volemo”, così era intitolata l’amara commedia di Gino Rocca, rappresentata nel 1926: un impietoso ritratto del mondo di provincia. A distanza di quasi un secolo potremmo fare un impietoso ritratto dell’Italia politica e amaramente intitolarlo: “Se no i xe stupidi, no li volemo”. Mio padre, quando giudicava un personaggio politico, prima di entrare nel merito delle sue idee, lo sottoponeva ad un esame finestra molto semplice ed elementare, al termine del quale, se promozione c’era, questa avveniva con la seguente battuta: «Al n’é miga un gabbiàna  pära facil mo l’ é dificcil bombén” e  né gh vól miga di stuppid parchè i stuppid i s’ fermon prìmma”. Invece purtroppo gli stupidi non si fermano anche perché non siamo capaci di fermarli: peggio per noi.

 

Gli assurdi martiri del pallone

A Roma, nella omonima società calcistica, va di moda il vittimismo. Un tempo, quando un calciatore, smetteva di giocare, si diceva pittorescamente che appendeva le scarpette al chiodo. Attualmente i calciatori, che decidono di interrompere la carriera o si avvicinano a quell’inevitabile momento, imbastiscono un mix di rimpianto e risentimento, sotto i riflettori mediatici, istigando il sentimentalismo degli inconsolabili i tifosi. Nei giorni scorsi il calciatore Daniele De Rossi ha lasciato il campo romanista con poca dignità e tanto livore. Francesco Totti, collocato da qualche tempo nel parterre dirigenziale romanista quale “santo subito”, ha rifatto la sceneggiata a babbo morto (a campionato deludentissimo concluso), sentendosi sostanzialmente escluso dal management giallo-rosso, sputando rospi e togliendosi sassolini dalle scarpe.

Credo che alla fonte di questi comportamenti ci sia un’immaturità di fondo di questi personaggi che hanno identificato la loro vita col pallone e che non si rassegnano nel vederlo girare. Hanno giocato per tanti anni con un pallone e alla fine, come si suole dire, vanno nel pallone. Non sanno farsi da parte e dedicarsi ad altro, vogliono a tutti i costi rimanere in campo e sputano veleno se qualcuno osa metterli da parte. Hanno guadagnato impropriamente immense ricchezze, sono stati esageratamente coperti di lodi e successi, hanno vissuto mediaticamente nel gotha pallonaro ed extra-pallonaro: quando si spengono le luci della ribalta, si sentono offesi e umiliati e vanno alla ricerca a tutti i costi di un posto al sole.

E le tifoserie se li prendono a cuore, i media li prendono sul serio, tutti ne parlano. Diventano vittime e martiri di un sistema, che in realtà li ha coperti di soldi e successi. Non si capisce cosa vogliano: una panchina immediata e facile? una scrivania garantita e prestigiosa? un perpetuo ingaggio? È sempre difficile andare in pensione, soprattutto in giovane età e con alle spalle una carriera piena di soddisfazioni di ogni genere. Il segreto però non sta nel continuare a fare più o meno la stessa vita, ma nel trovare il coraggio di cambiare vita, di dedicarsi ad altro senza intestardirsi nel proseguire e riciclare un’esperienza finita.

Tempo fa mi raccontavano di un mio conoscente che trascorreva il tempo della pensione gironzolando intorno alla sede del suo vecchio ufficio alla disperata ricerca di contatti e rapporti umani. De Rossi, Totti e c. mi fanno, più o meno, la stessa impressione. D’altra parte si tratta della penosa sorte riservata ai divi dello spettacolo e cosa sono questi calciatori se non divi del pallone. Questi signori, dopo essersi abbondantemente arricchiti alla tavola del mondo calcistico, improvvisamente si accorgono dei difetti del sistema e pretendono di esserne esentati sulla base dei meriti accumulati sul campo. E osano persino contestare…ma mi facciano il piacere…

Il patetico ministro Matteo Füm

Mario Draghi spara le sue ultime cartucce a favore dell’Europa, prospettando opportune misure della Bce a sostegno dell’economia (abbassamento dei tassi d’interesse e ulteriori acquisti di titoli pubblici) e dando indirettamente una mano all’Italia nella infinita diatriba con le autorità comunitarie: i mercati respirano, lo spread scende, qualche timidissima possibilità di ripresa si può intravedere.

Ebbene,  mentre tutti guardano a Draghi, all’Europa, al rinnovo dei vertici comunitari, agli auspicabili accordi fra Italia e Ue su bilancio e debito pubblico, il vice-premier Matteo Salvini vola negli Usa,  divertendosi a fare il ministro degli Esteri alla faccia di Moavero e soprattutto di Conte che aveva invitato i componenti del governo a stare nei limiti delle loro competenze istituzionali, lanciando frecciate al collega Tria e indebolendolo in un delicatissimo passaggio governativo, sbandierando di fronte al mondo i miracolosi mini-bot del cavolo, appiattendosi in modo becero sulle politiche trumpiane, proprio nel momento in cui il presidente americano manifesta tutta la sua ostilità verso l’Ue, come è avvenuto nella recente visita in Gran Bretagna e come sta avvenendo in risposta a Mario Draghi, reo di disturbare il manovratore statunitense e di operare scorrettamente contro il dollaro.

Prima di tornare alle insulse scorribande salviniane, voglio pormi una domanda retorica: è più scorretto Draghi, che sta facendo tutto il suo dovere istituzionale a favore dell’Europa e dell’euro o Trump, che briga da sempre contro il suo storico alleato atlantico, strizzando l’occhio a chi vuole uscire dall’Unione europea e che usa senza alcun scrupolo le armi per una guerra commerciale totale alla ricerca dei motivi di contrasto per imporre la sua linea protezionista in economia e sovranista in politica?

Salvini ha deciso di stare dalla parte di Trump, dalla parte del più forte (?), sfoderando un filoamericanismo stucchevole, inconcludente e inopportuno: siamo nelle mani di un pazzo, che va alla ricerca dei pazzi per trasformare il mondo in un manicomio. “Ogni simile ama il suo simile” dice un vecchio proverbio popolare. Se il nostro Paese ha avuto un grande e indiscutibile merito è stato quello di garantire una continuità nella politica estera filo-occidentale senza mai appiattirsi sulle mire imperialistiche Usa, respingendo dignitosamente e faticosamente le ingerenze americane, fondando pionieristicamente la Comunità europea, coniugando gli interessi nazionali con una politica pacifica e dialogante.

Stiamo buttando alle ortiche questo prezioso patrimonio storico per un piatto di lenticchie in salsa leghista. Sento dire che Matteo Salvini sia un incomparabile venditore della propria merce, capace di tessere una tela persuasiva in cui molti restano impigliati. Proprio in questi giorni mi hanno parlato di un soggetto che passa il suo tempo a stupire la gente, girovagando per i bar, sfoggiando auto e moto di lusso, raccontando le sue imprese di vario genere (naturalmente sesso compreso). In effetti di personaggi del genere ce ne sono in giro parecchi. Quindi, niente di originale. La cosa che però mi è piaciuta è il come viene vissuto dai suoi concittadini. Lo hanno letteralmente sepolto appioppandogli un soprannome azzeccatissimo: “füm” (con la u lombarda). A buon intenditor poche parole.