La pancia prevale sul cuore

Durante la conferenza stampa al ritorno dal viaggio a Rabat, capitale del Marocco, papa Francesco, in una delle sue ormai consuete e ficcanti esternazioni “ex aereo”, affrontando lo spinoso argomento dell’immigrazione e della relativa accoglienza, vergognosamente irrisolta nel ping-pong tra Stati e tra questi e l’Unione Europea, ha dichiarato senza reticenza alcuna: «Una volta ho parlato con un governante, un uomo che io rispetto e dirò il nome, con Alexis Tsipras. E parlando di questo e degli accordi di non lasciare entrare, lui mi ha spiegato le difficoltà, ma alla fine mi ha parlato col cuore e ha detto questa frase: “i diritti umani sono prima degli accordi”. Questa frase merita il premio Nobel».

Ebbene, i Greci non solo non hanno proposto Tsipras al Nobel per la pace, ma lo hanno mandato a casa, preferendo votare una coalizione di centro-destra. Faccio fatica a capire i comportamenti elettorali degli italiani, immaginiamoci se mi avventuro a interpretare il voto greco, in una nazione martoriata da gravi vicende economico-finanziarie vissute sull’orlo del baratro e col rischio di uscire dalla Ue.

Mi limito ad una riflessione a livello generale e di carattere etico-politico. Stiamo vivendo un periodo in cui trionfa il consenso ai personaggi che illudono i cittadini con egoistiche, nazionalistiche e populistiche bacchette magiche. Basta parlar male degli immigrati e dell’Unione europea per conquistare facili consensi. Basta fregarsene del discorso umanitario e ripiegare su quello “utilitario” per raccogliere voti a raffica. Basta preferire la brutale certezza della pancia alla problematica incertezza del cuore per raggiungere l’adesione acritica della gente.

Sta avvenendo in tutto il mondo con qualche rarissima e marginale eccezione. La gente vuole che in politica due più due facciano quattro, che chiudere i porti e alzare muri basti a risolvere il problema di migliaia di persone alla ricerca di uno spazio vitale, che alzare la voce a Bruxelles sia sufficiente per trovare un favorevole assetto a livello europeo, che darla su ai pazzi scatenati che governano il mondo ci introduca nel paradiso di (lor) signore e signori.

Non è tanto questione di destra e sinistra o meglio è questione di destra e sinistra, liberata finalmente dalle anacronistiche questioni ideologiche e rivisitata con l’occhio alle nuove problematiche. La frase di Tsipras, sottolineata da papa Francesco, è veramente emblematica: “i diritti umani sono prima degli accordi”.

Mia madre aveva adottato uno stile di vita, che le aveva consentito di collocare a pieno titolo il suo modo di essere nel contesto socio-culturale dell’Oltretorrente parmense, pur non essendo in linea con le opzioni comuniste degli abitanti del quartiere. Aveva scelto di aderire convintamente ai comportamenti solidali che vedevano protagoniste soprattutto le donne abitanti del quartiere (dal piasäl = piazzale Inzani, cuore appunto dell’Oltretorrente): le questue a favore delle famiglie colpite da un lutto, il sostegno agli operai che perdevano il lavoro e via discorrendo, in una forma spontanea, primordiale e geniale di protezione sociale. Queste donne avevano intuito con decenni di anticipo i meccanismi dello “stato assistenziale” e mia madre, pur non condividendo l’ispirazione di carattere marxista, era coprotagonista, cristianamente ed umanamente, delle iniziative. Con tanta spontaneità di cuore aveva messo il rispetto dei diritti umani prima è alla base della politica e della convivenza civile.

A distanza di mezzo secolo non è così, non lo facciamo, anzi non tentiamo nemmeno di farlo.  E allora gli Tsipras, con tutti i loro difetti, non possono che andare a casa, i Salvini, con tutti i loro pregi, trionfano.

 

Tra integrazionismo e razzismo

L’occasione fa l’uomo ladro, la migrazione fa il cittadino razzista. Stiamo assistendo a una diffusa tendenza alla discriminazione e all’odio razzista? Qualcuno alza le spalle e finge di non vedere, qualcuno sostiene che si tratti di manifestazioni marginali e da considerare “normali” pur nella loro evidente inaccettabile trasgressività, qualcuno si rassegna ai corsi e ricorsi storici che hanno sempre visto esplodere il razzismo in concomitanza con migrazioni a livello interno e internazionale, qualcuno si consola pensando alla impossibilità di ripetere le esperienze del secolo scorso (siamo stati troppo cattivi per tornare ad essere tali), qualcuno (purtroppo pochi) lancia l’allarme ed alza la voce.

C’è allora, nel nostro Paese, questo disgustoso rigurgito razzista che trova la sua espressione nei confronti degli immigrati? Rispondo con una ulteriore domanda. Cosa sarebbe successo se l’episodio che ha visto una donna italiana, piuttosto alticcia, investire e uccidere due albanesi nei pressi di una discoteca alle luci dell’alba, fosse capitato a parti invertite? La notizia è passata quasi sotto silenzio. Figuriamoci se due albanesi in stato di ebrezza avessero travolto e causato la morte di una ragazza italiana all’uscita di una discoteca: si sarebbe scatenata una furia opinionistica, si sarebbe alzato un coro di protesta verso gli stranieri ladri, stupratori, alcolizzati, drogati, etc. etc. Non mi sento di criminalizzare quella donna protagonista della vicenda: l’iter processuale ne stabilirà eventuali responsabilità, condanne e pene. E allora perché quando succede che a commettere un reato sia un immigrato parte la generalizzazione, la squalifica globale e il senso di repulsione verso gli stranieri barbari invasori? Se non è razzismo, cos’è?

Poi, qualche volta, succede che un immigrato si renda protagonista di un gesto di generosità, e allora tutti corrono a mettersi a posto la coscienza, contrapponendo ai pochi buoni un’orda di cattivi. Gli immigrati non sono né buoni né cattivi, sono uomini come noi, costretti a vivere situazioni drammaticamente difficili, messi di fronte al bivio tra il rifugio esistenziale nella delinquenza e il difficile percorso dell’integrazione sociale. Noi pensiamo di risolvere il problema enfatizzando la scelta delinquenziale e ponendola al pubblico ludibrio non capendo che invece il problema va affrontato partendo dall’integrazione di queste persone nel nostro tessuto sociale ed economico, partendo soprattutto e innanzitutto dal loro lavoro, che tra l’altro ci è utile per non dire indispensabile.

A questi soggetti prima bisogna offrire un’accoglienza degna di questo nome, una chance di inserimento, una occasione di guadagnarsi da vivere lavorando onestamente, poi si potrà perseguire chi delinque e chi preferisce la scorciatoia dell’illegalità. Invece stiamo stringendo gli immigrati in una morsa fatta di pregiudizi e spesso offriamo loro due possibilità: essere sfruttati di brutto, lavorando con paghe assurde e vivendo in modo bestiale, oppure darsi alla latitanza delinquenziale diventando protagonisti attivi e passivi di droga, prostituzione, etc. etc.

Il fenomeno migratorio, che peraltro non ha la dimensione catastrofica che vogliamo strumentalmente far credere, è complesso da tutti i punti di vista e va affrontato con senso umanitario e con capacità politica ed organizzativa. La deriva razzista non serve a nulla se non a far stare male tutti. Mio padre, pur essendo un libero pensatore di sinistra, bollava le velleità comuniste osservando, forse un po’ semplicisticamente, come i regimi dell’est riuscissero a far star male tutti anziché provare problematicamente a far stare meglio tutti. Il discorso vale per il razzismo: criminalizziamo gli immigrati, ci autocriminalizziamo a livello culturale e sociale, creiamo un clima conflittuale e asfissiante mettendo in contrapposizione le povertà autoctone e di importazione, gridiamo al lupo, alziamo barriere e non capiamo di avere tutti tutto da perdere. Contenti noi…

Il tranello dello scontro violento

Ascoltando le prepotenti ed infuocate dichiarazioni di Matteo Salvini, penso al clima di intolleranza e odio che possono scatenare soprattutto nelle menti deboli e nei fanatici sempre in agguato. Forse il leader leghista non si rende conto dell’impatto incendiario che le sue strampalate tesi possono avere: una cazzata oggi, una domani, non vorrei che presto o tardi qualcuno reagisse in modo violento. Sì, perché, al di là del tono da osteria e delle connotazioni triviali, il suo parlare contiene una carica di violenza verbale a cui qualche soggetto potrebbe pensare di rispondere con violenza reale.

Per ora fortunatamente la violenza trova riscontri solo cartellonistici e murali. L’ultima scritta è apparsa su un muro di Bologna: “Salvini muori”. Benissimo ha fatto a reagire Lodo Guenzi, il leader dello Stato sociale, un affermato gruppo musicale: «Se fra una settimana è ancora lì, la cancello io. È davanti a casa mia e ogni mattina spero di trovarla cancellata. Lasciamo ad altri questo schifo e scegliamo l’intelligenza, il paradosso, l’ironia, il gioco, la poesia e la passione. Anche nello scontro, soprattutto nello scontro. Perché frasi come queste sono merda fascista, e non fanno che costruire una società fascista».

Sono perfettamente d’accordo con Guenzi, il quale parte dalla seguente considerazione: “la leggerezza è la migliore arma per dire qualsiasi cosa, ma solo se hai qualcosa da dire; se non ce l’hai devi essere un po’ tronfio, serio, devi mostrare un atteggiamento”.  Sembra il ritratto di Salvini. Il problema è che il non avere niente da dire e il dirlo con cattiveria innesca reazioni a catena. Sarà bene darci un taglio alla svelta prima che sia troppo tardi. Prima o dopo Salvini se ne andrà a casa, ma il pericolo è che lasci dietro di sé una indelebile scia di odio e violenza, che faccia regredire la cultura e il dibattito politico riducendoli ad un letamaio, ad una fogna a cielo aperto.

In molti si interrogano su Salvini e la sua vocazione autoritaria, la sua spinta dittatoriale, il suo protagonismo antidemocratico. È un atteggiamento che rischia di fare il suo gioco: dargli troppa importanza, prenderlo sul serio, reagire in modo impegnato, finiscono con aumentare l’attenzione verso un fenomeno da baraccone. Sono perfettamente d’accordo con Erri De Luca che lo definisce un guappo di cartone, un cane da guardia o un buttafuori, oltretutto inefficiente.

Le reazioni violente rischiano invece di vittimizzarlo e “santificarlo subito”; il combatterlo con stupide e riprovevoli minacce finisce col portare acqua al mulino dove ci si infarina inevitabilmente. Qualcuno mi considererà un aristocratico, uno snob con la puzza sotto il naso. Preferisco la mia puzza a quella derivante dal rotolarmi in un patetico scontro tra Salvini e il resto del mondo.

Con Guenzi si è congratulato il commissario provinciale della Lega, Carlo Piastra: «Non sono un grandissimo fan dei cantanti che fanno politica, ma il suo gesto dimostra grande intelligenza ed educazione»: il deputato leghista si chiede perché non sia stato il Comune a muoversi per primo, in quanto Salvini non è solo il capo di un partito, ma il ministro dell’Interno e rappresenta le istituzioni. Avrebbe fatto meglio a tacere. Non si tratta infatti tanto di rimuovere una scritta per difendere la reputazione di un ministro, ma di cambiare stile politico trasferendolo dalla cialtroneria alla ragionevolezza. Da entrambe le parti, anzi partendo dalla parte che dovrebbe, come dice la Costituzione, ricoprire le cariche pubbliche con disciplina ed onore.

Resto molto preoccupato per il clima di odio che si va instaurando. Temo che lo si promuova scientificamente per poi strumentalizzarlo, facendo nascere cosa da cosa. Non bisogna quindi cadere nel tranello. Mio padre del fascismo mi forniva una lettura di base, tutt’altro che dotta, ma fatta di vita vissuta. Era sufficiente trovare in tasca ad un antifascista un elenco di nomi (nel caso erano i sottoscrittori di una colletta per una corona di fiori in onore di un amico defunto) per innescare una retata di controlli, interrogatori, arresti, pestaggi. Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto, la prepotenza voleva così): i graffitari di oggi sarebbero ben serviti, ma non vorrei che, per tenere puliti i muri, qualcuno fosse mai disposto a cose simili. Ecco perché è pertinente il richiamo di Guenzi alla merda e alla società fasciste.

 

Bove mancino non si pianti nel fango

Mi sembra ci siano troppi esponenti politici di primo piano riconducibili, bene o male, alla sinistra, che pensano ad un nuovo partito, che vada oltre o addirittura contro il Pd. Sta diventando un esercizio in cui molti si impegnano e mi spaventa l’idea che possa diventare solo il gioco politico dell’estate. Non c’è dibattito, intervista, editoriale, discussione in cui non venga posto questo problema.

C’era una vecchia e simpatica canzona napoletana scritta nel 1944 da Raffaele Cutolo (parole) e Giuseppe Cioffi (musica) con la celebre interpretazione principale di Nino Taranto: Dove sta zazà. Il brano ebbe un enorme successo e fu tradotto in varie lingue, oltre ad essere citato da pubblicazioni di ogni genere. Ad esso si ispirarono diverse rappresentazioni teatrali, principalmente riviste e un film cinematografico. Cutolo, arrivando quasi a rinnegarla, descrisse Dove sta zazà definendola “una canzoncina cretina come tutte le altre”. La canzone racconta la misteriosa scomparsa di una donna di nome Zazà nel bel mezzo della festa di San Gennaro, dove si trovava insieme al compagno di nome Isaia, che è anche il narratore dell’intera vicenda. Dopo averla cercata invano, Isaia torna l’anno seguente alla festa, dichiarando però che, se non troverà Zazà (che è tanto bella), si accontenterà di sposarne la sorella.

Ho fatto questo tuffo nel passato, perché mi sembra che si possa mettere tranquillamente il Partito Democratico al posto di Zazà: Dove sta il piddì. La ricerca invece rischia di diventare, per dirla con Cutolo, “una questioncina cretina come tante altre”. In questo momento tutti stanno parlando nella mano a Nicola Zingaretti, il nuovo segretario, che, per la verità, non mi entusiasma. Ma questo conta poco.

Passo in rapida rassegna alcuni che stanno pensando a una nuova “cosa” di sinistra: Matteo Renzi, Carlo Calenda, Giuseppe Sala, senza dimenticare l’assordante brusio in campo cattolico. Si fa un gran parlare di ritorno alla logica del centro moderato, quel centro di degasperiana memoria, che dovrebbe guardare a sinistra, quella moderazione di morotea memoria, che dovrebbe far digerire ai cattolici, prevalentemente di destra, una politica orientata al progresso sociale e all’evoluzione politica. Mentre Renzi evoca questo glorioso passato senza avere le basi culturali e il carisma per riproporlo in chiave moderna, e Calenda tende a enfatizzarne i contenuti governativi di stampo liberale, liberista e libertario (per dirla con Marco Pannella) senza possedere lo spessore politico strategico, Giuseppe Sala (ringalluzzito e rinvigorito dal recente successo in chiave olimpica) si considera un moderato radicale, che, evitando la orizzontalità della politica  e le etichette (destra, centro, centrodestra, sinistra, centrosinistra), propone di parlare dei temi (giustizia sociale e ambiente) per connotare la sinistra progressista.

Hanno ragione tutti: chi infatti può negare che l’area di centro debba essere attenzionata e coinvolta non tanto come luogo politico ma come modo di porsi di fronte alla realtà politica; chi può trascurare il fatto che la sinistra debba fare i conti con una sistema economico capitalistico profondamente cambiato di cui però non si possono mettere in discussione i presupposti (per arrivare con Giorgio Ruffolo ad affermare, con un pizzico di cinismo, che abbia i secoli contati); chi può essere in disaccordo con un metodo che parta dai contenuti e dai temi forti e caldi per imbastirvi sopra una strategia politica.

Un discorso a parte merita l’inquietudine di un certo mondo cattolico, giustamente vedovo dell’ispirazione cristiana, alla ricerca di una progettualità su cui richiamare a raccolta i cattolici e non solo, per proiettare sul futuro italiano una politica partente dai valori, non per fare il verso alla DC, ma al fine di recuperare un patrimonio attualmente messo in soffitta o in cantina. Si pensi, ad esempio, al discorso dell’immigrazione: forse solo partendo dall’umanesimo cattolico si può arrivare a elaborare una politica seria di gestione del fenomeno.

Mi auguro che questo gran parlare non diventi un ciarpame sinistrorso, una congerie di roba vecchia e di nessun pregio, una tattica per riprendersi dai Knock out elettorali e guadagnare il centro del ring per poi magari perdere ai punti contro i pesi massimi della comunicazione. Ho partecipato spesso all’ansia di rinnovamento della politica ed ai relativi movimenti: quasi sempre si arrivava al nuovo (?) partitino che durava poco e non cambiava niente. Alla cosiddetta fusione fredda del PD non sostituiamo quella calda di non si sa cosa.

 

Fuori controllo e fuori programma

Ho tirato, da italiano che ama l’Italia e l’Europa e desidera un futuro migliore per tutti, un respirone di sollievo alla notizia che, almeno per un po’ di tempo, non partirà nei confronti del nostro Paese la ventilata procedura di infrazione da parte della Commissione Ue. Come si suole dire, siamo fuori dal letto, ma ciò non significa la guarigione dalla malattia che tortura i nostri conti pubblici.

Mi ha sinceramente fatto sorridere l’orgogliosa reazione del premier Giuseppe Conte che ha dichiarato (testuali parole): «L’Unione Europea premia la nostra serietà, l’Italia è un Paese credibile».  C’è un simpatico modo di dire dialettale parmigiano (non ne conosco l’origine storica) che viene usato per ridimensionare le esagerazioni in tutti i campi: “Cala Tèlo”. Non ho idea chi fosse questo Tèlo e allora cambio la sferzante chiosa in: “Cala Giusêpp” (non so se l’ho scritto bene).

Di punto in bianco non hanno vinto la nostra serietà e credibilità, ma ha salvato il salvabile un rigurgito di ragionevolezza e di diplomazia. In questo improvviso risveglio alla politica del buonsenso ha pesato in modo determinante l’azione del Presidente della Repubblica, al quale va riconosciuto un autentico miracolo nel portare a miti consigli i contendenti e nel mettere in primo piano la capacità economica del Paese nonostante tutto. Meno male che c’è Mattarella a imporci di essere seri per essere credibili.

Poi c’è stata la solita fanfaronata salviniana: «Ne ero certo, bene. Adesso proporrò al governo di accelerare sulla manovra per l’anno prossimo. Con la flat tax, ovviamente, che resta in camp, senza dubbio». Il mio bravissimo insegnante di italiano e storia interrogava gli allievi impostando con essi un ragionamento anziché adottare il solito secco e insignificante “botta e risposta”. Capitava che, ad un certo punto del discorso, l’interrogato andasse per la tangente tirando conclusioni errate, al che il professore sconsolatamente commentava: «Rovinato tutto!». Continuando nelle similitudini scolastiche ricordo come a volte l’interrogato, aiutato dalla pazienza e bontà del professore, uscisse, per gentile concessione, dal guado, ma, volendo orgogliosamente strafare, aggiungesse qualche sua parola, rischiando di compromettere definitivamente l’esito dell’esame. In quei momenti è molto meglio tacere e sperare bene.  Quanto dovrebbe fare Matteo Salvini, che, peraltro, se tacesse, non sarebbe più lui: troppa grazia sant’Antonio!

Il bello però verrà in futuro. Sì, perché è pur vero che i nostri conti pubblici non sono più, almeno per ora, sotto stretto controllo della Ue, ma il problema è che i nostri conti sono fuori dal nostro controllo. Sembra uno scioglilingua. Tutti parlano del redde rationem della legge finanziaria per il 2020: la polvere ficcata sotto il tappeto uscirà e la dovremo raccogliere. Non voglio guastare la festa al governo, ai mercati, al Paese tutto, ma non illudiamoci, perché, come ben sappiamo, il medico pietoso (la Ue a consulto con Mattarella) potrebbe fare la piaga puzzolente. Curiamoci, controlliamoci, non pensiamo di essere guariti.

 

Tutto sbagliato, tutto da rifare

È arrivato il pronunciamento del Gip di Agrigento sulle accuse rivolte a Carola Rackete, la capitana della nave frettolosamente criminalizzata per la sua provocatoria azione di salvataggio di una quarantina di profughi, messi in salvo dalla Sea watch, indirizzatasi al porto di Lampedusa, forzato per l’attracco dopo diversi giorni di vergognosa resistenza governativa. Ha disposto la scarcerazione ritenendo infondate le accuse di reato di resistenza e violenza a nave da guerra nonché di resistenza a pubblico ufficiale, in quanto il comportamento della capitana era dettato dallo scopo di salvare vite umane. Come volevasi dimostrare. Il castello propagandistico, contro le Ong e a favore della scriteriata linea dura di respingimento, è crollato: è bastata una decisione ragionevole e ragionata di un giudice per far scoppiare la bolla di sapone. Ancora una volta ha avuto ragione il Presidente della Repubblica nel rimettere la questione nelle autonome mani della magistratura. Le stizzite e volgari reazioni salviniane non valgono niente e sono soltanto la ulteriore dimostrazione che il celodurismo è pura millanteria e che sotto il variopinto vestito governativo non c’è niente.

In Libia viene bombardato un centro di detenzione per migranti di cui viene fatta una strage con decine di morti e feriti: probabilmente il drammatico atto bellicoso rientra nello scontro fra il governo di accordo nazionale, riconosciuto dalle Nazioni Unite, e il sedicente Esercito nazionale libico guidato dal generale Khalifa Haftar. Temo che questo episodio sia la goccia che fa traboccare il vaso delle illusioni di regolare i flussi migratori tramite accordi bilaterali con gli Stati africani, Libia in primis. Alle condizioni disumane esistenti nei lagher-parcheggio per migranti si aggiunge addirittura la insicurezza di queste strutture a significare l’inaffidabilità dei Paesi con cui si dovrebbe concordare la politica migratoria.

Se è vero che non possiamo accogliere tutti, è altrettanto vero che non possiamo alzare muri e barriere. Le vicende dei centri di detenzione affossano purtroppo anche la prospettiva di una certa qual regolazione dei flussi: i migranti vittime di traffici criminali vengono deviati in centri-prigione e in essi detenuti ai limiti della sopravvivenza; ora tali limiti vengono addirittura superati con veri e propri massacri di gente spinta dal miraggio di una vita migliore, che trova torture e morte, passando dalla padella alla brace. In Libia i migranti sono carne da cannone, una sorta di scudo umano per i conflitti intestini: cosa ne penserà Sarkozy, il principale ispiratore della inutile e funesta guerra contro la Libia di alcuni anni or sono; riuscirà a dormire tranquillamente nelle braccia di Carla? In Europa i migranti sono carne da buttarsi in faccia nei giochi allo scaricabarile tra partner comunitari.

La politica del salviamoli a casa loro è tardiva e impossibile. Allora? Nessuno ha la ricetta in tasca, men che meno Salvini. Anche la sinistra risulta piuttosto spiazzata e titubante. L’Unione Europea deve trovare la sensibilità e la capacità di affrontare e governare comunitariamente il fenomeno, che non ha le proporzioni bibliche strumentalmente sciorinate, ma che deve essere considerato una sfida per gli anni, e forse i decenni, a venire. Accoglienza e integrazione sono le due facce della medaglia. Se guardo l’Italia tendo alla sfiducia, se guardo alla Libia tendo alla disperazione, se volgo lo sguardo all’Europa non saprei cosa dire, vorrei tanto sentire il parere dei pensatori che l’hanno concepita e dei padri politici che l’hanno fondata. Fra qualche giorno, precisamente l’11 luglio, sarà la festa di san Benedetto, patrono d’Europa. Solo lui può aiutarci.

Le nozze governative coi fichi secchi pentaleghisti

È in atto nella situazione politica italiana un gioco al massacro, un braccio di ferro tra le forze di governo, tra governo e Unione Europea, tra Italia e altri Stati europei, in una crescente e demenziale conflittualità finalizzata unicamente a conquistare strumentalmente epidermici e provvisori consensi. In mezzo a questo bailamme il Paese rischia grosso anche perché le istituzioni si stanno indebolendo e la polemica è ormai la cifra politica prevalente se non unica.

La Lega gioca a far saltare il banco economico-finanziario per portare a casa la flat tax, costi quel che costi, costi persino una procedura di infrazione a carico dell’Italia, messa dietro la lavagna europea a ripassare la lezione sulla quadratura dei conti pubblici; inoltre tiene alta la tensione sociale sul discorso immigrazione, sparando contro le Ong, sfidando i partner europei, chiudendo i porti, criminalizzando gli approcci umanitari al fenomeno. Il M5S tenta disperatamente di recuperare credibilità imbastendo una battaglia contro i mulini a vento di Ilva e Atlantia: le spara grosse per coprire la sua patente incapacità politica e di governo. Anche le opposizioni non riescono ad esprimere una concreta e credibile proposta alternativa di metodo e di merito: si limitano a snocciolare uno sterile rosario di pur sacrosante contumelie. Ognuno fa il suo gioco, in mezzo l’Italia. Cercasi disperatamente senso dello Stato e delle Istituzioni.

In questo quadro giganteggia fortunatamente Sergio Mattarella, che riesce sempre a stare al di sopra delle parti non per galleggiare, ma per fare gli interessi del Paese. In un momento di estrema difficoltà e imbarazzo per il governo (si dica governo, ma in realtà si tratta solo del presidente del Consiglio e del ministro dell’economia), che sta tentando di trovare una via d’uscita dal vicolo cieco in cui si è infilata  l’Italia a livello europeo, tutti si divertono a rendere ancora più improbo il compito: in particolare i leader dei partiti di maggioranza, dalle loro poltrone ministeriali continuano a comportarsi come se fossero all’opposizione, pretendendo di scaricare colpe e responsabilità sui governi precedenti, preoccupandosi soltanto di rimanere in contatto ideologico (?) con il loro elettorato.

Il Presidente della Repubblica ha fatto un gesto coraggioso, quasi eroico, in difesa del nostro Paese, rimettendolo sulla carreggiata dell’orgogliosa rivendicazione della propria importanza economica, dell’impegno a migliorare responsabilmente i conti pubblici, della difesa delle istituzioni cui spetta dipanare le matasse più aggrovigliate. In un momento estremamente caldo e delicato ha rilasciato dichiarazioni che ci onorano, ha difeso la nostra dignità e si è assunto l’arduo compito di indirizzare ed assecondare un governo dilettantisticamente allo sbaraglio. Mentre Giorgio Napolitano ha forzato la mano e ha dato uno schiaffo in pieno volto a chi ci stava portando allo sfacelo, mettendo in crisi, di concerto con la Ue, il decotto governo Berlusconi per sostituirlo con un governo tecnico di lacrime e sangue, Sergio Mattarella gioca di fino, prova a rimettere in piedi la squadra per raggranellare qualche punto che consenta di abbandonare i bassifondi della classifica. Napolitano ha sostituito di brutto l’allenatore e la squadra, Mattarella prova a salvare il salvabile anche perché non ci sono i presupposti politici e numerici per cambiare governo; tenta di fare le nozze coi fichi secchi. Due metodologie diverse per momenti politici diversi, in rappresentanza dell’unità nazionale, in coraggiosa difesa della dignità di Paese e di popolo ed a salvaguardia di un futuro altrimenti incerto e fosco.

Meno male! Quando le cose vanno veramente molto male, non resta che andare a mamma, che, se è tale, trova il modo di fare un miracolo: difendere in modo appropriato la baracca. Grazie Presidente e ci scusi!!!

Il trionfo dell’insensatezza

Da tempo il Presidente della Repubblica, con tutta l’autorevolezza e la credibilità di cui è portatore, invita ad abbassare i toni dello scontro politico e ad evitare lo scivolamento in un clima di vera e propria rissa sociale. Fiato sprecato: molti applaudono e pochi gli danno retta. Non ascolta e fa spallucce chi ha scommesso il proprio successo politico sullo scatenamento di tensioni continue. In queste cose si sa come si comincia e non come si va a finire.

La dicono lunga le grida e gli insulti sessisti lanciati contro Carola Rakete, la capitana della sea watch, al momento del suo arresto. Non accetto le urla contro i delinquenti comuni o mafiosi, figuriamoci cosa penso delle schifezze indirizzate ad una giovane donna rea soltanto di agire secondo la propria umana ed ammirabile coscienza. C’è un apprendista dittatore. Si chiama Salvini e non mi sento snobisticamente di sottovalutarlo: sobilla il popolo, soffia sul fuoco, le spara sempre più grosse. Troppa gente lo prende sul serio e trova il modo di sfogare così le proprie frustrazioni. Se andiamo avanti così, mi aspetto una vera e propria guerriglia di piazza, a meno che l’Europa non ci metta a cuccia. Però è già pronta l’opzione “b”, dopo quella principale dell’odio, più o meno razziale, contro i migranti: l’odio contro la Ue, che ci vuole tartassare e condizionare sul piano economico-finanziario. L’importante è avere sempre un nemico a disposizione su cui scaricare le proprie incapacità: un tempo a tale scopo si facevano le guerre, oggi si scatenano le risse sociali.

Qualcuno, me compreso, si era illuso che il M5S potesse funzionare da argine contro la rabbia della gente inviperita, offrendo ad essa uno sbocco politico purchessia (meglio di niente): i grillini volevano, come dice acutamente Eugenio Scalfari, abbattere tutti gli alberi, per poi coltivare il prato a loro piacimento.  Intendevano fare “tabula rasa”. Ammetto e capisco come la tentazione della scorciatoia protestataria, abbinata ad un certo qual populismo di maniera, diventi sempre più consistente davanti a corruzione dilagante della classe politica, a sfarinamento della società, a progressivo indebolimento istituzionale, a crescente crisi economica e sociale. Mi sovviene lo strafalcione di un mio simpatico conoscente. Quando spuntava qualche amico, di cui aveva appena (s)parlato, esclamava: «Ecco, tabula rasa!». Voleva dire “lupus in fabula”, ma faceva lo stesso. Negli ultimi tempi il velleitario “tabula rasa” dei grillini ha finito con l’essere una sorta di evocativo “lupus in fabula” verso gli alleati/avversari leghisti.

I due partiti protagonisti della vita politica italiana, come dice ancora il già citato Scalfari, sono nati rispettivamente sotto il cavolo di Umberto Bossi e Beppe Grillo. Crescendo si sono allontanati dai padri naturali e si sono rifugiati nella mera propaganda elettorale furbescamente capace di interpretare i pessimi umori della gente in libera uscita dalla politica. C’è differenza fra i Vaffa grillini e i gli slogan bossiani rispetto alle attuali tattiche del M5S e della Lega. I pentastellati, sulla base della loro incapacità, si sono invischiati in un governo assurdo che li sta progressivamente logorando e da cui pensano di affrancarsi alzando finte barricate di merito su questioni puramente strumentali: i grillini sono in crisi di d’identità e l’elettorato lo ha capito. I leghisti capitanati da Salvini hanno portato all’eccesso i furori bossiani, trasferendoli dalle folcloristiche battaglie per l’indipendenza della Padania alle pericolosissime risse ideologiche di stampo populista per non dire fascista.

L’odio razziale è l’ingrediente principale delle loro strategie, in modo scoperto e sbracato nel caso di Salvini, in modo subdolo ed ipocrita nel caso dei grillini riveduti e scorretti. Gli insulti razzisti e sessisti vomitati contro Carola Rakete non sono altro che la tempesta raccolta da chi semina vento. Mi stupisco di chi si stupisce e fa finta di stupirsi e di censurare. Picchia oggi, picchia domani, la situazione sta precipitando. Per dirla con Alessandro Manzoni: “Il buon senso c’è, ma se ne sta nascosto per paura del senso comune”.

 

Una UE “spadrineggiata” dagli Stati membri

Se è vero, come è vero, che le idee camminano sulle gambe degli uomini, le nomine alle massime responsabilità istituzionale dell’Unione Europea, rivestono una importanza enorme perché da esse dipende il futuro comunitario. Si profilano tre eventualità: un vivacchiare, un tirare a campare con le istituzioni comunitarie sostanzialmente bloccate sugli accordi intergovernativi; un passo indietro per nazionalizzare la Ue svuotandola completamente e trasformandola nella mera cassa di compensazione degli interessi degli Stati membri; un passo deciso in avanti verso la federazione con la valorizzazione e la riforma delle istituzioni.

Non mi scandalizza il fatto che sia aperta una faticosa trattativa per arrivare alle suddette nomine: gli accordi si cercano e si trovano discutendo, confrontandosi, persino litigando, per arrivare al compromesso ai livelli più alti. Che preoccupa è la logica spartitoria fine a se stessa o meglio finalizzata unicamente a far quadrare il cerchio degli Stati e dei partiti, mentre della Ue e del suo futuro non frega niente a nessuno. Tutti ci vogliono essere, per fare cosa non si sa.

Si sperava che le elezioni europee servissero a distinguere il campo fra europeismo ed euroscetticismo (o ancor peggio): da una parte hanno fortunatamente segnato come minoritaria la spinta sovranista e nazionalista, ma dall’altra parte hanno creato un precario equilibrio politico all’interno dell’area maggioritaria favorevole, sulla carta, ad una visione di Europa sempre più integrata.

Quando mia sorella andò, in rappresentanza del movimento femminile della Democrazia Cristiana, in visita alle istituzioni europee, tornò a casa estremamente delusa e, col suo solito atteggiamento tranchant, disse fuori dai denti: “Sono tutti dei mezzi fascisti!”. Penso volesse dire che non credevano in un’Europa aperta, solidale, progressista e partecipata, ma erano chiusi in una concezione conservatrice se non addirittura reazionaria. Può darsi che da allora la situazione sia addirittura peggiorata. Non vorrei che fossimo costretti a cercare il male minore, vale a dire chi è meno conservatore, meno reazionario, meno fascista: il compromesso ipotizzabile ai livelli più bassi.

Si fa molta fatica a capire quale sia la linea del PPE, uscito piuttosto malconcio dalla prova delle urne, dove si annidano effettivamente opzioni di destra e dove infatti qualcuno vorrebbe addirittura cercare accordi con i sovranisti più ragionevoli. I liberali, che hanno avuto un notevole successo elettorale, restano incollati al liberalismo in politica e al liberismo in economia e non riescono a coniugarli e collocarli in un processo di ulteriore integrazione europea. I socialisti hanno perso un sacco di voti e soffrono maledettamente la difficoltà di socializzare l’Europa e di smentire nei programmi e nei fatti l’idea di una comunità dei forti e dei burocrati. I verdi, usciti molto rafforzati dalla competizione, sono, a livello europeo, la forza politica più interessante perché riescono a sintetizzare le spinte contestatrici del passato con una forte idealità europeista, la vocazione ambientalista con l’anima sociale, l’anelito sbarazzino dei giovani con l’esperienza passata dei meno-giovani: nessuno però ha il coraggio di farne la forza politica decisiva.

Se la politica con la “P” maiuscola non trova spazio, si ripiega necessariamente sugli accordi di bottega: temo che, dopo le maratone negoziali ed i veti incrociati, finirà tutto nella solita menata franco-tedesca con un basso profilo istituzionale “spadrineggiato” dagli Stati che se lo possono permettere, con un piacere ai detrattori dell’Ue e un pessimo servizio al futuro all’Europa. L’Italia in tutto ciò non conta letteralmente “un cazzo”. Il movimento cinque stelle non trova uno straccio di alleato con cui fare gruppo al parlamento europeo; la Lega coltiva rapporti incestuosi a livello populista con i nemici dell’Italia; il governo non ha voce in capitolo soffrendo di una  grave forma invalidante di afonia dovuta ad alterazione degli indici di bilancio; Forza Italia, che si colloca nel PPE, non esprime un bel niente piegato in carta filo-salviniana; il PD  è poco per essere veramente socialista e troppo per essere liberal-mercatista. Siamo, in buona sostanza, i parenti poveri, che oltretutto gridano e disturbano e sono destinati a dormire in cantina. Per un Paese fondatore della Ue non è male…

 

 

Lo squalo governativo e i pesci che abboccano

La mattina scorsa, in concomitanza con la notizia dell’avventuroso attracco della sea watch e l’arresto della sua capitana, ho ricevuto la telefonata di un carissimo amico, assai preoccupato per i rischi che Carola Rackete corre a livello penale in un processo che verrà presumibilmente celebrato per direttissima. Non ho potuto esprimermi, perché ero in autobus e avrei dovuto gridare la mia indignazione e magari rischiare anch’io di essere arrestato per vilipendio delle istituzioni (leggi ministro degli Interni e Guardia di Finanza). Tornato a casa ho messo nero su bianco la mia riflessione sull’accaduto in modo un po’ sui generis.

Infatti, l’esito dell’ultima vicenda della nave sea watch, costretta, dopo un lungo periodo di rifiuti e incertezze, a forzare il blocco e speronare addirittura una motovedetta delle Fiamme Gialle per scaricare a Lampedusa i migranti soccorsi in mare aperto, con la capitana messa agli arresti domiciliari in base a tali e tanti capi d’imputazione da far invidia al più delinquente e mafioso degli individui, mi ha indotto a rileggere “Il lupo e l’agnello”, una favola di Esopo, parafrasandone il testo.

Un lupo (Matteo Salvini) vide un agnello (la nave sea watch con 42 immigrati a bordo) vicino a un torrente (al porto di Lampedusa) che voleva bere (sbarcare) e gli venne voglia di mangiarselo (respingere la nave) con qualche bel pretesto (faceva il gioco dei trafficanti). Standosene là a monte (al Viminale), cominciò quindi ad accusarlo (la capitana della sea watch) di sporcare l’acqua (di favorire l’immigrazione clandestina e di violare le leggi), così che egli (la nave di una ong) non poteva avvicinarsi al porto. L’agnello (la capitana della nave) gli fece notare che per bere (sbarcare), sfiorava appena l’acqua (non creava danno ad alcuno, anzi…) e che, d’altra parte, stando a valle (in mare aperto) non gli era possibile intorbidire la corrente a monte (creare insicurezza per gli italiani).

Venutogli meno quel pretesto, il lupo (Matteo Salvini) allora gli (le)disse: «Ma tu sei quello (una nave ong) che l’anno scorso (altre volte) ha insultato mio padre (ha soccorso migranti per scaricarli sulle nostre coste). E l’agnello (la capitana) a spiegargli che a quella data non era ancora nato (quei poveracci a più riprese rischiano di morire affogati). «Bene» concluse il lupo (Matteo Salvini), «se tu sei così bravo (brava) a trovare delle scuse, io non posso mica rinunciare a mangiarti (a farti arrestare per aver violato le nostre leggi…).

La differenza sta tutta nel fatto che non si è trattato di una favola, di un brutto sogno, ma di una squallida pagliacciata che affascina la gente. Con le premesse poste da un governo di incompetenti e di prepotenti poteva finire anche peggio. Siccome la retorica più maligna è ormai di casa nel nostro Paese, mi permetto di scivolare nella retorica benigna, citando quanto afferma Gérard davanti alla follia rivoluzionaria, che condanna a morte Andrea Chenier, nell’omonima opera di Umberto Giordano: “Odila, o popolo, là è la patria, dove si muore colla spada in pugno! Non qui dove le uccidi i suoi poeti”. Azzardo un’altra parafrasi, di fronte alla follia leghista che se ne frega altamente della vita degli immigrati per raccattare più voti possibili: “Odila o popolo, in mare aperto è la patria, dove si muore affogati per fuggire alle violenze di ogni tipo! Non qui dove si mettono in galera gli operatori delle organizzazioni non governative”.

Seppure sotto strane metafore mi sono sfogato e ho detto (quasi) tutto. Non so se ci sono riuscito, comunque non mi sento di aggiungere altro.