Il governo non c’è e si vede

A livello governativo ci sono sul tavolo quattro questioni molto rilevanti: i rapporti con la Ue per la definizione degli organigrammi istituzionali, la manovra economica per il prossimo anno, l’autonomia regionale e i rapporti fra Parlamento e governo in generale e nello specifico relativamente al presunto “Russiagate”.

Il voto sulla nomina di Von der Leyen a presidente della Commissione Europea ha spaccato i parlamentari riconducibili alla maggioranza italiana: i leghisti hanno votato contro e i grillini a favore, evidenziando una grande differenza strategica e tattica.

Sulla manovra economica non solo si vedono divergenze di contenuti, con l’infinito balletto della flat tax, ma addirittura si assiste a trattative parallele tra Lega e parti sociali da una parte e dall’altra il dialogo, tuttora in stand by, ad iniziativa del governo con le stesse parti sociali: si è verificata una vera e propria falsa partenza leghista, bollata come scorrettezza istituzionale (sic!) dal premier stesso, ormai in vena di aprire i rubinetti.

Sull’autonomia regionale le forze politiche di maggioranza non riescono a trovare la quadra: mentre la Lega spinge sull’acceleratore, il M5S schiaccia il freno, Salvini vuole onorare il debito verso le regioni e le ragioni del Nord, i pentastellati non vogliono perdere il filo di contatto con l’elettorato del Sud.

Sul Russiagate Matteo Salvini snobba bullisticamente il Parlamento mentre il premier Conte sacralizza il rapporto con le Camere e si appresta a rispondere alle loro richieste di chiarimento, per quanto potrà, sulla vicenda degli eventuali fondi russi e sulla delicata commistione tra affari e politica internazionale, ma soprattutto sulle linee di politica estera del nostro Paese.

Non abbiamo convergenze parallele, ma divergenze incrociate. Non esiste da tempo una plausibile linea comune nel governo Conte, su tutto ci sono diversità rilevanti e incompatibili. Non si tratta, come si continua a ciarlare nei media, di capire quando finirà il governo pentaleghista, ma di prendere atto che è già finito anche se sopravvive per l’accanimento terapeutico dei due partiti, che giocano continuamente di rimessa temendo di scoprirsi troppo formalizzando una rottura sostanziale presente nei fatti.

Nella cosiddetta prima repubblica si aprivano le crisi di governo con eccessiva disinvoltura, ora la crisi di governo non ha soluzione di continuità e l’eccezione di qualche sporadico accordo conferma la regola della discordia: il contratto è da tempo nel cassetto e non poteva che finire così. È meglio un cattivo governo che nessun governo. Ebbene stiamo riuscendo a soffrire contemporaneamente entrambe queste eventualità. Di questo triste periodo di vacanza dalla politica soffriremo le conseguenze per parecchio tempo. Viva Salvini, Viva Di Maio, viva Conte!

La commissaria dal bel volto umano

Guardo a Von der Leyen, la neoeletta presidente della Commissione europea, con un po’ di speranza per una serie di semplici motivi. Innanzitutto perché è una donna con un volto e un’espressione molto femminili: da una donna, sulla base del mio incallito femminismo, in un ruolo di tale importanza e responsabilità, mi aspetto sensibilità ed entusiasmo, una ventata di novità dal punto di vista umano e politico.

Ho letto la sua storia personale e famigliare, piena di avvenimenti, di scelte, di figli, di impegno professionale e culturale, e, siccome penso che la capacità politica sia la risultante di tante qualità di base, sono convinto che una donna così impegnata in tutti gli aspetti della sua vita possa portare l’Europa fuori dalle secche degli equilibrismi geopolitici e dei continuismi burocratici per puntare ad un rilancio ideale e valoriale.

Ho ascoltato gran parte del suo discorso al Parlamento di Strasburgo e ne ho colto un respiro fortemente e umanamente europeista: ha avuto il coraggio di respingere le opportunistiche sirene sovraniste e le solite tentazioni pattizie, ha presentato un programma, anche giustamente ambizioso, e su quello ha chiesto il consenso e lo ha, seppur di misura, ottenuto. Tutto sommato, un buon inizio. Le auguro di tenere fede alle promesse, di essere donna in tutto e di spargere a piene mani quel sorriso smagliante di cui dispone.

Mi fa molto piacere che abbia scontentato i sovranisti in genere e quelli nostrani in particolare, i leghisti, è un buon segno! “L’Ue va rafforzata e chi vuole farla fiorire mi avrà dalla sua parte, ma chi vuole indebolirla troverà in me una nemica”: parole chiare ed inequivocabili. Gli altri rappresentanti italiani l’hanno votata ed anche questo è un segnale confortante: l’Italia prova a tornare in pista? Chissà, chi lo sa!

Quando ho sentito Von der Leyen affermare solennemente che “salvare vite in mare è un obbligo” e scattare un lungo applauso di convinta adesione parlamentare, confesso di essermi commosso: sì, perché l’Europa è un grande sogno, di grandi uomini e grandi donne, e non dobbiamo farcelo scippare da piccoli giocolieri della politica.

Al momento non mi interessano eventuali precedenti contraddizioni e incertezze della carriera politica di questa donna, preferisco guardare il suo volto, ascoltare le sue parole, crederle e augurarle un buon lavoro nell’interesse di tutti.

In pieno labirinto istituzionale

Se ho ben capito, in questi giorni il vicepremier Matteo Salvini ha convocato al Viminale le parti sociali per discutere della prossima manovra economica: un’anomalia che il ministro degli Interni prenda iniziative in un campo non di sua competenza; se lo ha fatto come vicepremier, non ne aveva, a maggior ragione, titolo, in quanto la carica di vice-presidente del Consiglio, non prevista costituzionalmente,  ha solo un valore politico e quindi può comportare iniziative solo previa accordo col presidente del Consiglio.

Alla riunione erano presenti solo esponenti governativi riconducibili alla Lega e anche questa è, a voler essere buoni, un’anomalia: si trattava di un incontro a livello di governo o a livello di partito? C’è evidentemente in atto un tentativo di identificare il governo con il partito maggiore, uscito tale dalle elezioni europee. Le anomalie sono come le ciliegie, una tira l’altra. Ultima, forse la più grave: al tavolo di confronto sedeva anche l’ex sottosegretario leghista Armando Siri, indagato per corruzione, a cui è stata revocata la delega. Non poteva quindi trattarsi di un incontro a livello governativo, era un’iniziativa politica leghista. E allora come mai al Viminale? Il gomitolo si aggroviglia sempre più.

Sembra poi che durante questo discutibilissimo incontro siano stati anticipati alle parti sociali dettagli della prossima manovra economica. Il premier Conte ne ha dedotto una scorrettezza istituzionale, in quanto “la Manovra è fatta a palazzo Chigi, dal presidente del Consiglio col ministro dell’Economia e gli altri ministri interessati ed i tempi li decide il premier”. In buona sostanza in quella riunione, che probabilmente passerà alla storia per la sua stranezza, ci sarebbero stati solo dei pourparler, delle chiacchiere tra politici e sindacalisti, i primi in vena di tendere trappole strumentali, i secondi in vena di cascarci da principianti.

In un commento recente scrivevo che a Salvini ormai è tutto consentito, anche se questa ultima iniziativa non si era ancora verificata. Sono cose gravi? Sono cose dell’altro mondo, che non hanno nulla a che vedere con la democrazia e col rispetto delle sue regole. Stiamo scivolando nei bassifondi della politica extra-istituzionale. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte comincia timidamente a reagire, anche se, a stretto rigore avrebbe dovuto chiedere le dimissioni a Salvini o proporre al presidente della Repubblica di ritirargli le deleghe.

Non so se Salvini stia facendo il finto tonto o proprio non ci arrivi, fatto sta che, al termine dell’incontro di cui sopra con le parti sociali, ha dichiarato che “i tempi della manovra le detta il presidente del Consiglio, verso il quale abbiamo piena fiducia, ma prima si fa meglio è” ed ha convocato una identica riunione per il 6 o 7 agosto, aggiungendo che, “se decine di associazioni ci dicono ‘grazie per averci ascoltato’, qualcuno dovrebbe farsi una domanda e darsi una risposta”.

Io, nel mio piccolo, me la sono fatta e mi sono dato anche la risposta. Stiamo vivendo un periodo di confusione al limite dell’incredibile, stiamo giocando un gioco in cui tutti si improvvisano giocatori. Un casino pazzesco, in cui rischiamo di perdere la tramontana: attenti a non perdere nel labirinto il filo del sistema democratico!

L’oca giuliva del Campidoglio

Il problema della raccolta, del riciclaggio e dello smaltimento dei rifiuti è un grosso problema, rientrante peraltro nel più ampio contesto dell’inquinamento ambientale.  Siamo sommersi da una montagna di rifiuti, respiriamo un’aria avvelenata, guazziamo nell’acqua contaminata, la vegetazione è disastrata, ma non ci interessa se non per partecipare a qualche camminata ecologica, per fare un po’ di poesia ambientale, per protestare contro la realizzazione di certe infrastrutture.

Per decenni abbiamo privilegiato lo sviluppo economico anche a costo di rovinare l’ambiente ed ora ci ritroviamo con l’ambiente rovinato e il benessere economico precarizzato: becchi e bastonati. Forse si tratta della miopia storica più clamorosa, che si interseca con quella della separazione fra poveri e ricchi: abbiamo fatto finta di non vedere i poveri del mondo e della stanza accanto e ora essi ci presentano il conto salatissimo dello scontro sociale e dell’immigrazione.

Abbiamo messo tutto sotto il tappeto e ora ci accorgiamo di esserne condizionati: gli immigrati li vorremmo rispedire al mittente, mentre il “rudo” invade le strade della nostra capitale e non sappiamo dove metterlo. A Roma la situazione vive un’emergenza continua e non si vede uno spiraglio risolutivo: siamo all’ultima scena delle minacce reciproche fra istituzioni interessate, agli ultimatum, ai tavoli di monitoraggio, ai rimpalli di responsabilità, ai balletti macabri sulle montagne di rifiuti.

Certamente di questa situazione non sarà responsabile solo l’amministrazione comunale Raggi, ma altrettanto sicuramente la giunta Raggi non è riuscita ad affrontare minimamente il problema, che si ripresenta regolarmente. Capisco come nessuno abbia in dotazione la bacchetta magica, ma di qui alla più totale inerzia accompagnata dal viavai dei dirigenti preposti al settore passa molta ed inspiegabile strada. Presumo esista anche una complicazione nella mancanza di senso civico dei lavoratori del comparto e della popolazione romana. Non so se i romani si meritino la classe dirigente che li trascura o se gli amministratori incapaci e menefreghisti inducano i cittadini al disimpegno.

È possibile che nei due anni dalla sua plebiscitaria elezione la sindaca Raggi non sia riuscita non dico a risolvere, ma a migliorare appena la situazione dei rifiuti romani?  Abbia il buongusto di spiegare per filo e per segno la questione, presenti un suo progetto al riguardo, dica a che punto è la città e, se del caso, si dimetta. La sua inadeguatezza traspare dai pori della pelle, sembra capitata per caso in Campidoglio, capace solo di interpretare il ruolo di “oca”, con la differenza storica che le sue colleghe di un tempo seppero almeno starnazzare rumorosamente, avvertendo i romani assediati del pericolo costituito dai Galli che stavano per entrare in Campidoglio, mentre la Raggi non ha nemmeno la forza di avvertire i suoi concittadini dei pericoli incombenti ed ancor meno di farsene carico.

La nuova frontiera della “fatocrazia”

 

Nel progetto di riforma della Giustizia elaborato dal ministro Alfonso Bonafede verrebbe introdotto il metodo del sorteggio per la nomina dei componenti togati nel Consiglio Superiore della Magistratura: sarebbe la risposta che elimina i rischi di nomine condizionate dagli equilibri correntizi e pilotate da interessi estranei al buon andamento della giustizia. Dal momento che i giudici fanno i cattivi, bisogna ridimensionarli nella loro capacità di scelta e metterli dietro la lavagna dell’umiliante sorteggio. Mi sembra una tragicomica resa punitiva della democrazia. Se siamo ridotti al punto in cui coloro che amministrano la giustizia non sono capaci di scegliere seriamente chi li rappresenta nell’organo di autogoverno della Magistratura, ammettiamo di non essere degni della democrazia e ripieghiamo sulla “fatocrazia”.

I problemi si affrontano e non si schivano. Il M5S non è nuovo a queste puntate estemporanee ed evidentemente il ministro ad esso appartenente si vuole esercitare su questo scivoloso terreno.  Non sono un giurista e tanto meno un costituzionalista, ma mi sembra una cazzata. Stiamo riducendo le procedure democratiche ad una specie di tombola istituzionale. Quando una persona non è in grado di assumere decisioni responsabili, le si consiglia ironicamente e provocatoriamente di lanciare in alto una monetina per uscire dall’impasse.

Di fronte alla proposta ministeriale per il momento nessuno ha reagito in senso critico, ho notato un certo silenzio: i magistrati sono evidentemente svergognati, avviliti e mortificati dalle vicende poco edificanti  emerse a loro carico; i politici da tempo desiderano assestare un colpo alla magistratura ridimensionandone le velleità giustizialiste e le interferenze; le vestali della Costituzione sono evidentemente andate in ferie dopo la faticosa battaglia contro la riforma Renzi; i media preferiscono rimestare nel torbido piuttosto che affrontare i rimedi.

Sembrerebbe quasi una minacciosa ed infantile provocazione. A scuola, quando nell’impegno di studio ci si lasciava fuorviare dal ritmo delle interrogazioni, certi insegnanti ricorrevano al sorteggio per scegliere chi interrogare o addirittura cucinavano lo scherzetto di reinterrogare a breve termine coloro che erano già stati interrogati. Effettivamente si può dire che tanto va la magistratura al lardo che rischia di lasciarci lo zampino, dove il lardo è costituito dal correntismo e dalla tendenza a confabulare e lo zampino riguarda l’indipendenza e l’autonomia. Se non siete capaci di scegliere, qualcuno sceglierà per voi, anzi sceglieremo con un bel sorteggio, atto ad evitare le pastette, ma a prezzo di appiattire tutti: una sorta di safety car applicata alla magistratura.

Vincano non i migliori, ma i sorteggiati. Potrebbe essere il primo passo istituzionale verso il qualunquistico baratro del “tutti ladri, tutti stupidi, tanto vale affidarsi alla sorte”. Preferisco di gran lunga correre il rischio di ladri o stupidi eletti piuttosto che ritrovarmeli comunque rientrati dalla finestra del sorteggio dopo averli fatti uscire dalla porta dell’antidemocrazia. Nel sessantotto si contrapponeva la democrazia diretta a quella rappresentativa, si teorizzavano la partecipazione e il voto assembleari quale catarsi democratica. Oggi l’assemblearismo si chiama consultazione on line o addirittura sorteggio. Senza contare che le consultazioni on line sono autentiche buffonate ed anche i sorteggi possono essere truccati.

Una pallonata in faccia a Trump

Ho seguito, prima con un certo scetticismo e poi con molto interesse, i campionati mondiali di calcio femminile, che hanno visto, sportivamente parlando, “una bella figura” delle atlete italiane e la vittoria da parte della squadra statunitense.

Mi sono divertito perché le donne giocano bene, sono abbastanza corrette, hanno intorno un tifo partecipato, colorito ma contenuto, sanno gioire e soffrire da donne, riescono a quadrare il cerchio della femminilità fisica e mentale in un contesto di sforzo fisico ed atletico, riescono, anche se non del tutto, a non imitare gli uomini, da cui in questo, come in quasi tutti i campi, c’è poco da imparare. Chissà che questa ventata femminile non bonifichi il fenomeno calcistico, inquinato a tutti i livelli. Il rischio è che anche le ragazze, pur con le più buone intenzioni, vengano omologate e si adeguino ai principi ed agli schemi dominanti nel calcio giocato, organizzato, commercializzato e parlato.

Le donne, se vogliono, riescono a immettere nella nostra società dei contro-veleni efficaci e fascinosi, anche se hanno un grosso inevitabile problema, quello di avere a che fare con l’ingombrante presenza degli uomini. Le italiane, pur scontando un certo ritardo del calcio femminile italiano, si sono fatte valere e hanno conquistato attenzione e simpatia. Hanno partecipato, non hanno trionfato, hanno saputo vincere e perdere con onore: non è poco!

Le americane hanno vinto l’ennesimo titolo con merito ed hanno festeggiato a New York. Anche nel festeggiamento hanno saputo distinguersi. Megan Rapinoe, capitano e simbolo di questa squadra e del movimento in generale, è riuscita a coniugare sport e politica in modo esemplare, rifiutando a priori un eventuale invito alla Casa Bianca: «Non andrei e credo che tutte le mie compagne di squadra con cui ho parlato direttamente non vorrebbero andarci. Non penso che questo abbia senso per noi. Non posso immaginare che qualcuna delle mie compagne possa essere messa in quella posizione; ci sono così tante persone con cui preferirei parlare e avere conversazioni significative, che potrebbero davvero influenzare il cambiamento a Washington, piuttosto che andare alla Casa Bianca. Rapinoe ha fortemente,  e sinceramente attaccato il presidente americano, contestandone la politica ed ha ipotizzato di rivolgersi a lui, fissando la telecamera: «Il tuo messaggio esclude le persone, tu ci stai escludendo, escludi le persone che assomigliano a me. Quello che stai dicendo riguardo al tuo slogan Make America Great Again penso ci riporti in un’era non positiva per tutti».

La giocatrice, omosessuale e impegnata politicamente, ha ribadito quanto aveva già precedentemente dichiarato, annunciando di non voler andare “a quella fottuta Casa Bianca”, anche se avessero vinto il titolo e il presidente avesse chiesto di incontrare la squadra. Un pregio delle donne è quello della schiettezza, che spesso viene confusa con il comportamento irrazionale ed isterico. Al limite, se la vogliamo chiamare così, ben venga anche la coraggiosa isteria (sempre meglio della vile indifferenza maschile) se serve a dire la verità in faccia ai potenti. Megan Rapinoe, con le sue giocate e le sue parole, mi ha consentito di prendere due piccioni con una fava: esprimere direttamente la mia simpatia ed ammirazione per il calcio femminile e ribadire indirettamente la mia più totale e profonda disapprovazione per Donald Trump e la sua “fottuta” politica. Goal!!!

Il canto del cigno pentaleghista

Tra le tante menate propagandistiche alla base dello scontro (vero e falso che sia) tra M5S e Lega spunta finalmente un problema serio, basilare e delicato, quello dell’autonomia regionale, sollevato da alcune regioni, che chiedono una sorta di autonomia rafforzata, e finito sul tavolo governativo.

Si tratta forse del punto più controverso nelle questioni costituzionali: unità della nazione e autonomia regionale, due obiettivi apparentemente inconciliabili e realisticamente difficili da perseguire. La riforma regionale impiegò più di vent’anni a trovare uno sbocco e una realizzazione più per motivi politici che per questioni di principio: da una parte si temeva una scorciatoia al potere per il partito comunista attraverso le regioni rosse, dall’altra si puntava ad accreditarsi come partito del buongoverno a livello regionale per poi avere le carte in regola per la scalata nazionale. Si sono rivelate entrambe questioni infondate: il Pci, come disse all’epoca il segretario socialista Francesco De Martino, non fece la rivoluzione con l’esercito dei vigili urbani, lo stesso Pci non riuscì a far saltare col grimaldello regionale la storica pregiudiziale democratica sollevata nei suoi confronti a livello nazionale ed internazionale (ci volle ben altro…).

Oggi il problema è diverso, ma per certi versi uguale, sostanzialmente ancor più difficile alla luce dell’esperienza amministrativa di quasi cinquant’anni, che non ha comportato effettivi e decisivi passi avanti nella sburocratizzazione degli apparati, nella partecipazione dei cittadini, nella soluzione dei problemi. Sono molto critico sui risultati ottenuti dalle regioni e francamente non so se sia necessario un passo avanti o un passo indietro. La Lega ne fa una questione di vita o di morte per la sua filosofia politica e per il sogno, mai riposto nel cassetto, di una Padania, che da entità secessionista si dovrebbe trasformare in parametro e paradigma nazionale ed istituzionale.  Il M5S, che avrebbe dovuto rivoltare l’Italia come un calzino, non ci sta e frena a più non posso, preoccupato di perdere consenso nel meridione impaurito da una scrollata autonomistica.

Non vedo la qualità politica e la sensibilità istituzionale necessarie per affrontare una tale sfida. Siamo ai veti incrociati, ai dispetti reciproci, mentre dell’Italia e del futuro delle sue regioni non interessa niente a nessuno. Temo possa scaturirne un polpettone sgradevole e indigesto. A questo punto l’ideale sarebbe che sulla questione andasse veramente in crisi il governo per azzerare una situazione traballante su tutti i fronti: una sorta di dignitoso canto del cigno. Poi si potrà riprendere il discorso in un clima politico diverso e costruttivo, magari inquadrandolo in una ripensata riforma costituzionale.

Visto che abbiamo un sistema elettorale sostanzialmente proporzionale, visto che i partiti sono frammentati e isolati, visto che una bella ripassata alla pur validissima macchina costituzionale continua ad essere necessaria anche se non sufficiente, visto che un richiamo generale al senso di responsabilità dei cittadini e della classe politica si impone, non sarebbe male eleggere una vera e propria assemblea costituente e nello stesso tempo varare, per il tempo necessario, un governo di salute pubblica.

Sono partito dall’autonomia regionale rafforzata per arrivare ad un rafforzamento delle istituzioni e ad un governo riveduto e corretto.  E la scuola e la sanità e i trasporti? Vanno affrontati seriamente in un contesto diverso per evitare di rovinare anche quel poco di autonomia e di efficienza che c’è. Una cosa sola mi permetto di enfatizzare: nessuno deve rimanere indietro, nessuno deve essere trascurato o dimenticato. Sul come e quando la discussione resta apertissima.

La spasmodica ricerca dei piatti di lenticchie

È stata pubblicata su un sito internet la registrazione di una conversazione, avvenuta il 18 ottobre scorso al Metropolitan Hotel di Mosca tra Gianluca Savoini, considerato dai media come il braccio destro del ministro degli Interni Matteo Salvini per i rapporti con la Russia, dalla quale si evincerebbe (il condizionale è d’obbligo in clima di parziali o totali fake news) lo scopo di convincere tre interlocutori locali a concludere un affare per vendere petrolio in Italia a prezzo scontato, in modo da generare poi una differenza di circa 65 milioni da destinare al finanziamento della campagna della Lega per le elezioni europee.

In realtà, nel minuto circa di file audio reso disponibile, non si sente Savoini parlare di fondi, ma solo perorare la causa politica della Lega spiegando il quadro in cui il partito si muove: «Noi vogliamo cambiare l’Europa con i nostri alleati. E una nuova Europa deve essere più vicina alla Russia perché vogliamo riprenderci la nostra sovranità. Salvini è il primo che vuole cambiare».

Savoini, presidente dell’associazione culturale Lombardia-Russia, nega di essere un emissario leghista e di agire per conto di Matteo Salvini, definisce l’incontro in questione una chiacchierata tra imprenditori su vari temi e nega che sia mai stato dato un centesimo o un rublo alla Lega da chiunque e da nessuno dei personaggi tirati in ballo dal sito americano. Il leader della Lega e vicepremier dal canto suo minaccia querele e nega categoricamente di aver preso fondi dalla Russia.

Non mi sorprende il fatto che la politica possa essere coinvolta in affari più o meno trasparenti a livello internazionale: si tratta di vedere il coinvolgimento fin dove arriva, se resta a livello di mero interessamento o di facilitazione nei rapporti imprenditoriali oppure se sconfina in vera e propria intermediazione direttamente o indirettamente remunerata o ricompensata.

Anche se la procura milanese ha aperto tempestivamente un fascicolo sulla vicenda con l’ipotesi del reato di corruzione internazionale, penso che non si caverà un ragno dal buco: troppo intricati e opachi questi eventuali rapporti per essere smascherati. Oltre tutto, se devo proprio essere sincero, non mi iscrivo al partito degli sputtanatori. Gli affari petroliferi, da che mondo è mondo, hanno sempre avuto un sottofondo di intrigo internazionale e quindi non mi colpiscono queste ultime emergenti indiscrezioni, peraltro relativamente piccole e probabilmente punte di iceberg sistemici. Il mio non è rassegnato cinismo, ma un etico e sofferto senso di repulsione verso molte cose di questo mondo. Certo essere chiacchierati a questi livelli dovrebbe togliere credibilità a chi si propone come moralizzatore e innovatore a tutto tondo.

Tuttavia il vero e grosso macigno resta quello politico: la posizione della Lega a metà strada fra gli Usa di Trump (come dimostra l’ultima eclatante visita di Salvini negli Stati Uniti) e la Russia di Putin (come dimostrano tanti discorsi e tante opinioni espresse in più occasioni).  Savoini nel difendersi, negando la conclusione di affari, ammette di avere parlato di politica e di avere accreditato Salvini come un affidabile referente per un’Europa vicina alla Russia. D’altra parte è inutile che gli Usa si scandalizzino, perché Salvini altro non fa che comportarsi alla Trump, facendo nel suo piccolo il verso al tycoon americano, mentre risulta che la Lega abbia firmato un accordo di cooperazione con il partito dello “zar”, Russia Unita (se vero, non è illegale e scandaloso, ma inquietante).

È inutile e stucchevole anche l’atteggiamento del M5S, che non ha nascosto certe simpatie politiche verso Putin e verso Trump, due squallide facce della stessa medaglia. Luigi Di Maio se l’è cavata con una battuta piuttosto ermetica e di stile andreottiano, che vorrebbe essere furbastra; ha dichiarato a margine della polemica: «Sto lavorando, ma meglio Putin che i petrolieri». Cosa intendesse dire lo sa solo lui.

Dove questi signori stiano trascinando l’Italia: questo è il problema! Non penso abbiano in mente una vera e propria strategia suicida, ma soltanto il penoso intento di scroccare qualche piatto di lenticchie al tavolo dei populisti, mentre all’Italia rimarrebbero le vergognose briciole che cadono dalla stessa tavola. E questi sarebbero i rinnovatori a cui gli italiani si affidano? Matteo Salvini, in questo stravagante momento politico, può fare paradossalmente ed ipoteticamente (la storia e la magistratura ce lo diranno) quel che vuole: leccare vomitevolmente i piedi a Trump, amoreggiare opportunisticamente con Putin, beffeggiare trivialmente l’Europa, lasciare celoduristicamente in mare migliaia di profughi, strizzare l’occhio ai petrolieri, mettere in campo affaristi di vario tipo, “cagare” in Parlamento e a Palazzo Chigi. Tutto bene quel che finirà male.

 

 

 

 

 

 

Dall’autogoverno all’autopulizia

È cambiata la magistratura o è cambiata l’opinione dei cittadini nei confronti della magistratura? Non intendo rifugiarmi nel corner dell’uovo o della gallina, ma riflettere in campo aperto sul dato inquietante, ma abbastanza scontato, del calo della fiducia dei cittadini nei confronti dei giudici: siamo al minimo, solo un italiano su tre dichiara di aver fiducia, mentre il 55% non ne ha.

Fatta la tara all’attendibilità dei sondaggi influenzati dalle recenti squallide vicende delle spartizioni affaristiche nell’assegnazione di incarichi a livello di Consiglio Superiore della Magistratura e delle commistioni tra politica e giustizia, resta il fatto che gli scandali minano la credibilità delle istituzioni, la scarsa credibilità delle istituzioni alimenta la sfiducia dei cittadini al limite del qualunquismo, le opinioni negative della gente indeboliscono l’assetto democratico. Il gatto si morde la coda in un circolo vizioso molto preoccupante.

Ricordo come nel periodo di tangentopoli, nello smarrimento generale, le due istituzioni che sembravano salvare il Paese dalla deriva fossero la Magistratura e la Chiesa. Punto l’attenzione sulla prima: sembrava, e in parte lo era, il baluardo contro il tarlo della corruzione che stava attaccando, come non mai, il tessuto politico. Ai tempi del berlusconismo imperante la scena si ripete e il ruolo della magistratura, seppure con forzature e reciproci accanimenti vari, viene interpretato come difesa contro l’avanzare di un vero e proprio regime. In entrambe le contingenze i giudici tentavano, direttamente e indirettamente, di supplire alle gravissime carenze della politica e di somministrare ai cittadini una sorta di virtuale ossigeno democratico. Sarebbe troppo lungo verificare se il “sogno” protettivo della magistratura fosse una fuga dalla realtà o una valida scialuppa di salvataggio.

Purtroppo il tempo sta dimostrando che nessuno è senza peccato e quindi anche il potere giudiziario fa una certa fatica a scagliare le pietre. Per la verità i recenti scandali, che hanno portato a inchieste, dimissioni, sostituzioni e addirittura al “grido” di allarme lanciato opportunamente dal Presidente della Repubblica, sono soltanto la grossa punta dell’iceberg di un diffuso malessere giudiziario fatto di lotte intestine, di correntismo imperante, di commistioni inammissibili, di inefficienze colpevoli. Non sarà quindi sufficiente eliminare alcune mele marce, perché probabilmente è tutto il sistema che ha bisogno di essere ripulito: l’organo di autogoverno dovrà avere il coraggio di diventare l’organo di autopulizia. Bisognerà evitare però le generalizzazioni che accentuano le conseguenze della malattia pregiudicandone la terapia.

Ho conosciuto giudici integerrimi, efficienti e impegnati e mi sono sentito oltremodo garantito nella mia esistenza e nel mio lavoro: la portata della funzione giudiziaria è enorme e ha conseguenze imprescindibili sulla vita dei singoli e dell’intera comunità. Ecco perché c’è da preoccuparsi addirittura per la tenuta democratica del Paese. I cittadini, nel loro pur eccessivo senso critico, reagiscono naturalmente con la sfiducia come appare dai sondaggi da cui sono partito. È vero che fa più rumore la pianta di un giudice che cade complottando rispetto alla foresta di una magistratura che fa il proprio dovere in mezzo a mille difficoltà. Però le piante malate cominciano ad essere troppe e il rumore della loro caduta sta diventando assordante. Forse si esagerava in un senso ai tempi di Tangentopoli e del berlusconismo, forse si esagera oggi in senso contrario. Resta la preoccupazione, che non si deve trasformare in caccia alle streghe o in disfattismo istituzionale, ma in seria opera di bonifica e di recupero dei valori costituzionali e democratici. Ce n’è per tutti, magistrati, politici, ministri, parlamentari, avvocati, esperti di diritto, forze sociali, società civile, semplici cittadini. Mattarella ha cominciato l’azione da par suo. Forza e coraggio!

La verità (poco) diplomatica che offende

“La lontananza, sai, è come il vento, spegne i fuochi piccoli, ma accende quelli grandi”: così dice una famosa canzone del grande Domenico Modugno. Il discorso vale per gli amori, ma, forse, anche per le impressioni. Da tempo e da lontano ho una pessima opinione del presidente americano Donald Trump. A quanto pare, non sono l’unico. A ragion veduta e da vicino mi fa da battistrada l’ambasciatore britannico in Usa kim Darroch, secondo il quale l’amministrazione Usa sarebbe “inetta” e “vanitosa”.

Trump, che sembra andare alla spasmodica ricerca di incidenti diplomatici, ha aperto la crisi affermando su Twitter: «Non conosco l’ambasciatore, ma negli Stati Uniti non piace o non se ne pensa bene. Non avremo più nulla a che fare con lui». Il presidente americano però non si è accontentato di liquidare l’ambasciatore britannico, ha infierito sull’uscente premier britannica Theresa May. In un paio di tweet l’inquilino della Casa Bianca ha scritto: “Sono stato molto critico del modo in cui il Regno Unito e il premier Theresa May hanno gestito la Brexit. Che casino che lei e i suoi rappresentanti hanno creato. Le avevo detto come avrebbe dovuto fare, ma lei ha deciso di fare diversamente”.

Agli inglesi sta molto bene: si sono da sempre appiattiti sulla politica americana e su quella trumpiana; hanno deciso di uscire dall’Unione Europea anche sulla spinta dell’attuale presidenza Usa, che non si è fatta scrupolo di interferire al riguardo, prima e durante la Brexit, come è apparso in tutta evidenza dall’ultima visita di stato in Gran Bretagna. Adesso si trovano ad essere clamorosamente beffeggiati. Intendiamoci bene: stanno venendo a galla delle verità su Trump e la sua amministrazione come su Theresa May e la sua confusione. Si stanno scambiando “complimenti vivissimi”. L’ambasciatore britannico ha innescato una polemica “interessante”: tutto è destinato a rientrare, ma certe parole potrebbero lasciare il segno.

Morale della favola al di là delle scaramucce diplomatiche: il mondo è in mano a una manica di incapaci e di irresponsabili. Quando appaiono sul video, mi vengono i brividi. Fra Trump, Putin, Xi Jinping, kim Jong-un, Netanyahu e c. non saprei chi scegliere. Ho espresso questo sconcerto in un recente colloquio con un mio conoscente, il quale, molto più maggiorenne e vaccinato del sottoscritto, mi ha risposto con rassegnazione che questi personaggi non fanno che interpretare il copione del potere.  In parte ha ragione, solo in parte. Un Trump non vale un Obama, un Netanyahu non vale un Peres, una May un Blair e via discorrendo. Il cinismo della politica dovrebbe trovare almeno qualche limite. Forse sono un illuso, ma, pensando a Giorgio La Pira, credo che si possa lavorare alacremente per assetti internazionali diversi anche e soprattutto partendo da uomini diversi.

Mi complimento con l’ambasciatore Kim Darroch, che ha avuto il coraggio di sciacquarsi la bocca e di dire la verità. Non resta che sperare in un rigurgito di storica civiltà, di autorevole autonomia e abile diplomazia da parte dell’Europa e in una liberazione italiana dal gioco populistico amoreggiante verso Trump e Putin.  Devo ammettere però che anche Putin ha recentemente detto una grossa verità in riferimento alla situazione libica: il casino è stato creato dai Paesi della Nato, Francia in testa, che sono entrati con l’avida e spregiudicata delicatezza di un elefante nella intricata e sporca cristalleria mediorientale. Purtroppo nessuno è senza peccato e tutti scagliano pietre. Al momento il convento ci passa una minestra trumpiana, un secondo piatto putiniano, un contorno coreano, una frutta cinese e un dolce-amaro europeo. Urge qualche cuoco fantasioso.