Un bagno di serietà senza moto d’acqua

Se andiamo con la mente agli anni settanta del secolo scorso ci imbattiamo nel comportamento piuttosto disinvolto dei figli dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone o almeno così sostenevano i giornali che lo avevano nel mirino ai quali non pareva vero di poter ascrivere a lui certe “marachelle” dei suoi figli.

Molto più tardi successe a Umberto Bossi (le ultime conseguenze si sono estinte giudizialmente proprio in questi giorni) di rispondere dell’operato dei propri figli che approfittavano della posizione del padre per ottenere vantaggi di vario genere.

C’è stata anche la vicenda del ministro delle infrastrutture e dei trasporti Maurizio Lupi costretto alle dimissioni per alcuni “regalini” concessi al figlio da un imprenditore in cerca di appoggi politici.

Sono episodi che non mi hanno mai scandalizzato più di tanto: è umano, anche se sbagliato, nutrire certe debolezze verso i propri figli, lasciando ricadere su di essi qualche opportunità conseguente al ruolo politico svolto dai genitori. Bisognerebbe essere molto più attenti e scrupolosi per tagliare in radice queste possibili degenerazioni parentali. Non si tratta di nepotismo vero e proprio, ma di una sorta di debolezza verso i desideri e le necessità dei figli. Peccati, tutto sommato, veniali, ma pur sempre peccati che fanno scalpore.

L’attuale ministro dell’Interno Salvini, riguardo al tema di cui sopra, è stato protagonista di una vicenda che sta spopolando sui media. Il figlio sedicenne è salito su una moto d’acqua della Polizia di Stato per divertimento a Milano Marittima, come documentato da un video di Repubblica, nonostante il tentativo degli uomini della sicurezza presenti sulla spiaggia di impedire le riprese al giornalista Valerio Lo Muzio.

Un tempo le colpe dei padri ricadevano sui figli, oggi è vero il contrario. I fatti raccontati da Repubblica non riguardano tanto il figlio, che aveva l’unica colpa di essere in vacanza insieme al padre e di volersi divertire alle sue spalle, ma il comportamento di Matteo Salvini che non avrebbe fatto nulla per impedire che i poliziotti organizzassero il giro in moto d’acqua e nell’essersi rifiutato di dire al giornalista Lo Muzio chi fossero le persone che lo hanno affrontato e minacciato affinché non filmasse il giretto fuori ordinanza del ragazzo. Le domande a cui dovrebbe rispondere Salvini sono: chi ha autorizzato l’uso di mezzi pubblici per fini privati? Chi sono gli agenti che hanno minacciato il giornalista? Che procedimento sta adottando la questura competente nei confronti dei poliziotti alla guida della moto d’acqua?

Salvini risponde che “il giornalista ha abbondantemente fatto quello che voleva” e come non spetti a lui accertare e dire i nomi degli agenti in vena di trasgredire alle regole e soprattutto di aver indirizzato frasi minacciose al giornalista, a cui peraltro il ministro dell’Interno ha consigliato di andare a filmare i bambini visto che si diverte (dichiarazione offensiva e stupida). Il capo della polizia Franco Gabrielli ha detto che le verifiche sono in corso per capire se è stato leso il diritto di cronaca.

Ce ne è venuta una gamba! Voglio essere sincero: la cosa in sé non mi sembra grave, non credo sia in gioco seriamente il diritto di cronaca, ma si sente soltanto la necessità che tutti si comportino in modo più responsabile. Il ragazzo sedicenne cerchi di divertirsi facendosi semmai pagare dal padre un giretto in pattino; il padre tenga d’occhio il figlio e gli impedisca certe sbruffonate; i poliziotti stiano attenti a quel che fanno non scambiando per gioco il loro operato; il capo della polizia sia meno supponente e più attento a vigilare sulle trasgressioni dei suoi uomini; tutti evitino di creare un clima politico rigoroso con i deboli e permissivo con i forti.

Non vale niente la speculazione politica basata sul quasi nulla anche se, a volte, sono queste bucce di banana a rovinare la reputazione e l’immagine di un politico in grande spolvero. Se il ragionamento del cronista era quello di contrapporre la strumentale durezza di Salvini verso gli immigrati alla debolezza compiacente verso il figlio, ci può anche stare in senso provocatorio. Se si pensa di combattere politicamente il leader leghista con questi mezzucci, siamo fuori strada. Superficialità chiama superficialità. Ne esce male la politica, la cronaca e il dibattito. Una pena!

I foruncoli stragisti della democrazia americana

Strage in un centro commerciale del Texas: 20 morti e 26 feriti, arrestato il killer 21enne, che protesta così contro l’invasione ispanica e sulla base di un delirante mix di paradossali motivazioni.

Mi hanno sempre incuriosito e inorridito le ricorrenti, inquietanti ed apparentemente immotivate stragi, che negli Usa spuntano come funghi ed a cui non si riesce a dare una spiegazione veramente plausibile: una sorta di folle sfogo sociale e psicologico, che attualmente tende ad ammantarsi di insofferenza razzista, ma che in altri periodi si connotava di generico ribellismo giovanile, di insofferenza verso le pur disordinate forze di polizia, di odio purchessia.

Si pensa immediatamente ad una eccessiva e facile detenzione di armi. Si dice a livello internazionale, ma lo si può riferire anche al campo sociale: le armi, se e quando ci sono, prima o poi vengono usate; non sono un deterrente all’insegna del “si vis pacem para bellum”, ma un incoraggiamento alla violenza nei rapporti interpersonali, sociali e internazionali. Sulle armi è fondata buona parte dell’economia e quindi il sistema non accetta di contenerne la diffusione e la detenzione. Il discorso tuttavia sarebbe comunque soltanto una parziale e tardiva risposta al problema. Come del resto è ancor di più la pena di morte comminata in simili casi. Da dove e perché nasce tanta violenza? Questo è il problema che mi pongo.

Che un subdolo predicatore di egoismo e odio come Donald Trump, davanti ad episodi come quello della strage in Texas, si erga a difensore della legalità e dell’ordine, lascia perplessi: non è credibile seminare vento pretendendo di raccogliere bonaccia. Credo però che non bastino gli “ismi” trumpiani a giustificare simili esplosioni estemporanee a livello di stragismo fai da te. Penso anche che non si possano ridurre a fisiologici sfoghi, ad una sorta di vulcanologia sociale, di male minore rispetto al magma incandescente, che cova sotto la crosta della società. Men che meno si può ripiegare su luoghi comuni del tipo “i matti ci sono sempre stati e sempre ci saranno” o “chi schiva un matto fa una buona giornata”.

La motivazione di fondo riesco a trovarla in un ragionamento forse un po’ sessantottino, ma plausibile: la società americana esaspera da una parte le diseguaglianze e i contrasti sociali lasciando libero campo all’agire delle persone; dall’altro lato non offre la possibilità di protestare in senso democratico e costruttivo contro il disordine sociale, non concede alternative istituzionali alla “rabbia” che si incanala nello sterile e spontaneistico ribellismo o, nella peggiore delle ipotesi, nello stragismo protestatario del “muoia Sansone con tutti i filistei”. Una democrazia senza strumenti democratici, che finisce col ripiegare su strumenti antidemocratici, non di massa, ma singolarmente e follemente impiegati.

Faccio un esempio che mi sta sul gozzo: una democrazia, che legittima un presidente eletto da una minoranza della popolazione (Trump ha ottenuto oltre due milioni di voti in meno rispetto alla Clinton), è inevitabilmente vocata a fare i conti con l’occasionale e incontrollabile stragismo. Sia chiaro: non voglio dire e nemmeno pensare che se alla Casa Bianca ci fosse Hillary Clinton non ci sarebbero le stragi nei college e nei supermercati. Magari fosse così semplice. Voglio solo riflettere su un sistema democratico talmente imperfetto da mettere seriamente in dubbio quanto sosteneva Winston Churchill, vale a dire che “la democrazia è la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. Churchill aveva ragione, ma la democrazia andrebbe coltivata, incanalata, rispettata, altrimenti…

 

Ripristinare la carità

In questi giorni l’occasione di riflettere sui fatti viene offerta dalla piazza di Parma, anzi da quanto sta succedendo in un piazzale della città, laddove un gruppo di ragazzini si diverte a provocare disordini nei pressi e dentro la chiesa, disturbando le celebrazioni liturgiche, creando disagio nelle persone che partecipano alla messa. Stando alle cronache: bestemmie durante le funzioni, lancio di oggetti, gomme tagliate e sputi al parroco, insulti agli anziani che provano a rimproverare questi scalmanati e roba del genere.

Il parroco ha scritto una lettera al vescovo per informarlo dello stato di degrado della zona e di cosa accade durante le celebrazioni religiose. Il vescovo, pur con un intervento soft, è partito col richiedere provvedimenti per ripristinare la legalità, vale a dire una presenza significativa, una sorta di presidio contro questi disordini in difesa del quartiere.

Sarò provocatoriamente sincero: non conosco bene la situazione e quindi ammetto di andare per approssimazione, ma la reazione della comunità cristiana, del suo parroco e del suo vescovo mi sembra burocraticamente improntata più all’ordine pubblico che al “disordine” evangelico, più alla paura che al dialogo, più alla politica che alla carità. Persino il quotidiano locale, non certo una fonte rivoluzionaria, ha dovuto, in un bel corsivo a firma Francesco Monaco, scrivere che “è preferibile anteporre il dialogo e puntare sul recupero attraverso la scuola, lo sport, i presidi culturali e i servizi sociali”.

Mi sarei aspettato un atteggiamento diverso anche e soprattutto dal vescovo: vada lui a celebrare in quella chiesa, cerchi di incontrare quei ragazzi a costo di prendersi qualche insulto e qualche uovo marcio in faccia, coinvolga il parroco e la comunità parrocchiale in un’azione di recupero verso questi giovani devianti e le loro famiglie, non con atteggiamento paternalistico, ma con proposte concrete di convivenza umana e religiosa, facendosi magari aiutare da…Santa Maria della Pace.

Non voglio insegnare il mestiere a nessuno, ho vissuto anch’io momenti durissimi a confronto con soggetti “difficili”, nessuno ha in tasca la ricetta facile, non intendo fare raffronti, ma invece li faccio. Molti anni fa situazioni analoghe si crearono nei pressi della chiesa di Santa Maria del Rosario. Mia sorella al parroco, che in quel periodo operava mirabilmente nel quartiere Isola, provò timidamente a prospettare l’eventualità di un intervento duro per allontanare dalla scalinata antistante questi sfaccendati disturbatori. Ricordo la risposta sofferta, piena di pazienza e tolleranza di don Sergio Sacchi, tanto per non fare nomi: “Sapessi quante volte ho cercato di parlare con loro, di convincerli ad agire diversamente, non ho ottenuto grandi risultati, ma non mi sento di spazzarli via come rifiuti…”. Mia madre, che aveva assistito al colloquio, non intervenne immediatamente, ma dopo che il parroco si fu allontanato, se ne uscì con un commentino dialettale in chiave evangelica: “’Na parola bón’na a chi ragas lì chi g’la pol dìr? Un prét, al pàroch! Al fa ben a fär acsì…”. Discorso chiuso o meglio aperto, anzi apertissimo.

Successe persino il fattaccio: un caso di omicidio durante una rissa scatenatasi davanti alla chiesa per futili motivi, vale a dire un gavettone tirato contro una ragazza il cui padre intervenne e ci lasciò le penne. Ebbene il parroco non si arrese e, assieme a Mario Tommasini, presentò un programma di recupero per quel giovane, che si era reso responsabile di quel fatto terribile. È questo il modo di incarnare il Vangelo e di testimoniare la fede cristiana, non con le gazzelle della polizia, ma a mani nude. Era questo il modo di andare a braccetto fra fede e politica. Altri tempi? Proviamo a ricordare e a riprovare!

 

I dittatori di strada

La storia recente è piena di errori clamorosi commessi dall’Occidente in guerre al buio contro i dittatori medio-orientali, giustificate a volte con autentiche menzogne e sempre con il pretestuoso tentativo di instaurare in quei paesi democrazie calate dall’alto, ottenendo il risultato di scombussolare ancor più il quadro internazionale con disastrose ricadute sul problema migratorio. In realtà quelle guerre sono state fatte sulla base di una realpolitik finalizzata al controllo delle fonti energetiche e di una strategia militare finalizzata al riposizionamento nelle aree di influenza sui paesi di questa tormentata area. Con tanti saluti e baci alle primavere arabe.

Il giudizio storico sui dittatori, pur sanguinari e feroci, va elaborato con calma e obiettività, lasciando depositare le scorie dei vomitevoli tatticismi in base ai quali quei detestabili personaggi erano prima vezzeggiati e foraggiati e poi sbrigativamente gettati nella pattumiera.

Ho fatto questa doverosa premessa al fine di guardare con equilibrio ad una polemichetta sorta in quel del consiglio comunale di Parma: i rappresentanti della Lega chiedono di cancellare l’intestazione di una strada a Tito, lo storico leader jugoslavo, considerandolo un dittatore che non merita di essere celebrato in tal modo. A questa strumentale richiesta risponde il sindaco Pizzarotti con altrettanta strumentalità, ricacciando tale giudizio storico in gola ai salviniani, rei di tessere rapporti opachi ed opportunistici con Putin, personaggio che, tra sovietico Kgb e mafie russe, non è certo da annoverare tra i benefattori dell’umanità. Non siamo di fronte ad un dibattito di alto livello, ma il convento passa questa minestra, che non mi sento tuttavia di ingoiare.

Lasciamo infatti che la storia faccia il suo corso su Tito e su Putin: al primo può essere ascritto il merito (?) di aver sigillato con il coperchio comunista una incredibile pentola razzista e nazionalista. Terminata la sua dittatura, da quella pentola sono usciti tutti gli istinti repressi dando campo libero ai macellai di turno. Tito ha garantito alla Jugoslavia la pace dei sepolcri, da cui è poi uscito il putridume che abbiamo visto. A Putin verrà riconosciuto il merito (?) di avere ripristinato l’impero russo, ripulito dal comunismo e caratterizzato dall’impostazione populista e mafiosa. Non so quante vittime abbiano sulla coscienza questi personaggi: personalmente credo che Putin vinca due a zero, ma questo è un altro discorso.

Sull’intitolazione delle strade e delle piazze bisognerebbe andare cauti, anche se è difficile trovare la misura giusta fra giudizio storico, etico e culturale. Forse sarebbe meglio numerare semplicemente le strade, anche se spesso il richiamo ai personaggi ci costringe a rileggere la storia, cominciando magari proprio dalla strada o dalla piazza dove abitiamo. Non sarei entusiasta di abitare in una via dedicata a Tito e ancor meno intitolata a Putin, al quale, nonostante tutto, auguro lunga vita.

 

 

 

 

 

Gozi sta sul gozzo

L’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega agli Affari europei nel governo Renzi, ricopre oggi un incarico analogo nel gabinetto del premier francese Edouard Philippe. Si è scatenato un putiferio di polemiche con accuse di tradimento, con richieste di revoca della cittadinanza italiana, con attacchi dal fuoco nemico e amico.

C’è da tempo questo vizietto dei politici di riciclarsi all’estero con incarichi a volte strani, a volte opachi, a volte solamente inopportuni. Mi pare che la virata transalpina di Sandro Gozi possa essere considerata inopportuna. Evidentemente questo illustre signore non ha profetato in patria: il fatto che i cugini francesi lo abbiano ingaggiato dovrebbe farci tuttavia riflettere. Non è poi così squallida la classe politica italiana se fa gola ad altri stati. Evidentemente la sua competenza, esperienza e convinzione in tema di rapporti con l’Europa è riconosciuta ed apprezzata da Macron, senza bisogno per questo di scandalizzarsi e intravedere chissà quale complotto internazionale.

Certamente i rapporti fra Italia e Francia non sono e non sono mai stati idilliaci, è vero che su diverse questioni di politica estera esistono notevoli divergenze strategiche e tattiche, è vero che può dare fastidio che un ex faccia migliore carriera in un altro contesto, è vero che passare dal governo italiano a quello francese non è il massimo della linearità comportamentale, è vero che non solo nello scacchiere internazionale, ma anche in quello europeo i due stati non battono sempre pari, è vero che anche per Sandro Gozi l’erba del vicino è più verde, è vero che nel fare politica occorrerebbe un po’ più di pazienza e perseveranza, è vero che non è il massimo dell’eleganza e dello stile fare questi repentini passaggi, ma da qui a lasciarsi andare a certi sfoghi nazionalistici considerando un traditore chi collabora con un altro governo, a ventilare l’ipotesi, peraltro fantasiosa, del ritiro della cittadinanza italiana, mi sembra che la distanza sia notevole. Lasciando stare poi il solito discorso della pagliuzza nell’occhio gozziano rispetto alla trave nell’occhio salviniano. È più grave collaborare col governo francese o brigare con quello russo, peraltro non da ex ma da ministro in carica.

Non mi sembra che la scelta di Gozi possa essere considerata gravemente opportunistica ed affaristica, come avvenne per l’ex cancelliere tedesco Shröder, nominato direttore indipendente di Rosneft, la più grande compagnia petrolifera controllata dallo stato russo.  Mi sembra anche che Carlo Calenda, personaggio, peraltro stimabile e intelligente, con un piede dentro e uno fuori dal Pd, debba smetterla di fare il fenomeno, tranciando acidi ed inappellabili giudizi politici, atteggiandosi a primo della classe senza esserlo.

Termino la riflessione con una divagazione sportiva: un mio amico, alcuni anni orsono, si dichiarò apertamente e provocatoriamente tifoso del Real Madrid, suscitando parecchie reazioni negative: come? tu italiano simpatizzi per una squadra spagnola? Rispose a tono: non siamo tutti europei? allora cosa c’è di strano? Oggi in campo calcistico verrebbe la tentazione di tifare per le squadre inglesi, che esprimono un gioco bello, divertente e coinvolgente. Ma hanno scelto di non essere più europei e allora che se la vedano da soli anche a livello di tifo calcistico. Infatti Sandro Gozi non è andato a bussare alla corte della regina Elisabetta e al nuovo risicato governo di Boris Jhonson…

La paura democratica

La democrazia non si può sospendere, per nessuna ragione al mondo, anche quando sembra inadeguata a risolvere i drammi della società. Non c’è bisogno di scomodare Winston Churchill. Ebbene, il deputato del Partito democratico Ivan Scalfarotto ha compiuto un gesto altamente e provocatoriamente democratico, rientrante nelle sue prerogative, andando a Regina Coeli per verificare le condizioni di carcerazione dei protagonisti della vicenda criminale culminata in quel di Roma nell’uccisione del carabiniere Mario Cerciello.

La visita al carcere, luogo di un delicato e difficile esercizio da parte dei propri compiti da parte dello Stato, dovrebbe essere molto più praticata dai parlamentari: sono enormi i problemi riguardanti la carcerazione, riconducibili all’esigenza di trovare il giusto equilibrio fra pena e recupero del carcerato. Anche i cittadini, laicamente parlando, me compreso, farebbero bene a visitare le carceri per rendersi conto della situazione di drammatica sofferenza che in esse viene vissuta.

Mi ha stupito non tanto l’iniziativa di Scalfarotto, ma la reazione dei suoi colleghi di partito, che hanno preso le distanze da lui. Lasciamo perdere la scontata valanga di offese piovute dall’oscuro cielo popolare (?) dell’emotività anti-democratica, che non ha niente da spartire con la difesa delle forze dell’ordine e con la salvaguardia della sicurezza, e occupiamoci del segretario del Pd, che sente appunto l’esigenza di prendere le distanze. Da cosa? Dalla politica che si sporca le mani andando a mettere il naso nei punti delicati? Dalla politica che difende a tutti i costi lo stato di diritto? Dalla politica che affronta i problemi e non li elude per lisciare il pelo ai cittadini fuorviati? Dalla politica che si permette di non fare calcoli strumentali per privilegiare le questioni reali?

Non accetto i politici che subordinano le loro iniziative al mero consenso elettorale. Paradossalmente parlando, in questo momento di emotività, per andare dietro alla corrente bisognerebbe ripristinare la pena di morte. Per chi? Come se non stessimo già dando indirettamente la pena capitale ai migranti che muoiono in mare, come se non stessimo criminalizzando persino chi osa aiutare i disgraziati che cercano di vivere, come se non stessimo incarcerando tutta la società seminando paura, odio e rancore.

Ci sono due atteggiamenti per vivere la democrazia: provocarla e snidarla sostanzialmente nei suoi punti deboli; accarezzarla nel suo appeal emotivo e superficiale. Sono nettamente schierato dalla parte dei provocatori e non mi interessano i difensori d’ufficio. Caro Zingaretti, caro Fiano, caro Calenda “il coraggio, dice Alessandro Manzoni, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. È la riflessione di don Abbondio al termine del colloquio con il Cardinale Borromeo. Voi non ce l’avete e, per non sbagliare, non cercate nemmeno di darvelo. Potreste provare a parlarne con papa Francesco…

Vieni, c’è una strada nel bosco

Ricordo una gustosa barzelletta sull’aldilà. Una vecchietta muore dopo una vita esemplare e morigerata. Parte per ricevere il giusto premio e comincia a salire verso il Cielo. Va sempre più su, gli angeli e i santi cominciano a preoccuparsi. Ad un certo punto si sente una voce dal coro celeste che grida: «Vè donlètta, càsa ‘na biastumma, parchè sionò at ve in orbitä!» (chiedo scusa se ho maccheronato il dialetto).

Secondo gli ultimi dati dell’istituto di ricerca di Trieste, la Lega, dopo le elezioni europee tenutesi il 26 maggio scorso, che ne avevano già visto il trionfo col 34% dei voti, arriverebbe al 38% se si andasse a votare in questi giorni di fine luglio 2019. Rimango allibito: Salvini guadagna lo 0,2 per cento alla settimana. Eppure, per tornare alla barzelletta iniziale, di bestemmie politiche ne caccia in continuazione, ma lo premiano. Gli altri partiti sono a distanza chilometrica: il PD continua ad aggirarsi intorno al 22%, il movimento cinque stelle è al 17% circa, Fratelli d’Italia col suo 6,6% supera addirittura Forza Italia. Dati sconcertanti, totalmente al di fuori della mia logica politica.

Rado Fonda, direttore di ricerca di Swg, spiega il boom di consensi leghisti con la coerenza che Salvini riesce a mantenere e con la debolezza di tutte le altre forze politiche, che non hanno un leader forte che possa competere sul piano comunicativo con Salvini e che hanno il problema di doversi ricollocare politicamente trovandosi in una posizione poco chiara, confusa agli occhi degli elettori, i quali non riescono a capire dove quelle forze politiche stiano andando.

Superficialmente parlando l’analisi del sondaggista non fa una piega. Egli conclude infatti: “Lo stato di limbo in cui si trovano Pd, M5S e FI porta a rafforzare la Lega, l’unica che agli occhi degli elettori ha una linea chiara e coerente, anche perché di fatto si basa su pochi argomenti e temi, ma ben chiari, sui quali la linea del partito è sempre stata coerente. La coerenza in questa fase politica mantiene il consenso molto solido, la mancanza di chiarezza genera confusione negli elettori che si sentono demotivati e spinti verso l’astensione”.

Voglio seguire brutalmente e provocatoriamente questo ragionamento. Ipotizziamo di dover andare da Parma a Milano e di avere davanti quattro persone, che ci dovrebbero consigliare su quale tragitto scegliere per arrivare bene e in fretta a destinazione. Tre di esse dimostrano di non avere le idee chiare e propongono percorsi un po’ tortuosi e poco convincenti. La quarta persona dice con grande decisione: “Io a Milano ci vado tutti i giorni, vi potete fidare, conosco perfettamente la strada: si parte da Parma e si va verso Bologna, poi si arriva a Firenze, indi si risale la penisola e in poco tempo si giunge a Milano”. Discorso chiaro e la gran parte dei viaggiatori, stando ai sondaggisti, ci crederebbe, lasciando con un palmo di naso i signor tentenna incerti sul percorso da adottare. In poche parole meglio andare nel fosso che stare fermi ad aspettare.

Non sono convinto che le cose stiano in questi termini: secondo me i viaggiatori dicono di voler andare a Milano, ma in realtà non sanno dove sbattere la testa e allora, non volendo scervellarsi, si affidano al capo-comitiva, che sembra saperla lunga. Prima o poi si accorgeranno di avere sbagliato strada, a meno che non si autoconvincano che la strada è una sola, quella di Salvini ovunque porti.

 

La rana e il popolo bue

Un tempo gli andamenti politici americani prefiguravano le novità italiane, poi con l’avvento di Berlusconi il processo si è invertito e infatti la discesa in politica dell’uomo di Arcore ha anticipato di oltre un ventennio la deriva affaristica e populistica di Donald Trump. Non so dire se Trump sia un Berlusconi all’americana o Berlusconi sia stato un Trump all’italiana, fatto sta che la storia politica, da un certo momento in poi, ci ha visto vivere di esportazione più che di importazione.  Comunque una triste bilancia commerciale in cui c’è tutto da perdere.

Non so quindi se la bagarre esistente all’interno del partito democratico Usa abbia collegamenti profetici o conseguenziali rispetto alla confusione regnante nel partito democratico italiano. La giornalista inviata de la Repubblica, Anna Lombardi, la racconta così: “Una discussione vivacissima: specchio di un partito sempre più diviso, fra chi insegue il centro moderato e indeciso e chi le idee forti della nuova sinistra socialista”. Fin qui niente di nuovo: la storica diaspora della sinistra fra massimalisti e riformisti, che si sposta dall’ideologia ai problemi concreti, vale a dire al welfare, all’immigrazione, ai cambiamenti climatici, al sistema delle banche e di Wall Street.

Lasciando perdere le esasperazioni personalistiche in vista delle elezioni primarie Usa, resta la tradizionale contrapposizione fra moderati e progressisti. L’assistenza sanitaria gratuita per tutti è irrealistica o doverosa? Per affrontare l’immigrazione occorre rafforzare i confini territoriali e valoriali o questa opzione è da considerare frutto di crudeltà e incompetenza? In merito ai cambiamenti climatici bisogna prendere il toro per le corna e non avere paura delle grandi idee oppure barcamenarsi fra interessi alti e compromessi bassi? In campo economico occorre restare rigorosamente ancorati al sistema capitalistico o è permesso mettere in discussione la finanziarizzazione dell’economia?

Sullo sfondo aleggia il fantasma trumpiano anche perché il dibattito avviene fra gli aspiranti sfidanti del tycoon nell’ormai prossimo 2020. Quindi, l’opposizione a Trump va presa di petto combattendolo sul suo stesso terreno o è meglio cambiare totalmente campo e volare alto? Tutti nodi strategici e tattici con cui si misura anche il Partito democratico italiano. Ci sono tante analogie in mezzo a qualche rilevante differenza.  Mentre i democratici americani vengono da una lunga storia e da una gestazione prolungata e continuata, quelli italiani vengono da una nascita affrettata e dalla complessata necessità di contrapporre una forza unitaria al centro-destra berlusconiano. Sennonché il centro destra ha cambiato pelle e uomini, lo scenario ha visto entrare sul palcoscenico l’anti-politica e la sinistra è rimasta con un palmo di naso alle prese con i suoi dubbi esistenziali e strategici.

Una seconda differenza riguarda la società: mentre negli Usa, nonostante la deleteria cura trumpiana, esiste un assetto sociale fluido, ma almeno attento ai propri interessi e portato a dividersi su tematiche ideali e concrete, in Italia permane una società chiusa in se stessa e incapace di uscire dalle proprie paure. Come spiegare infatti il ridondante influsso salviniano se non con l’assoluta mancanza di capacità critica.

Ci sono anche i numeri a fare la differenza. Negli Usa Trump non ha vinto le elezioni, è stato proiettato alla Casa Bianca da un sistema elettorale che consente di vincere con oltre due milioni di voti in meno rispetto allo sconfitto. Roba da matti! Questa anomalia, che permane a livello di sistema elettorale, probabilmente esploderà territorialmente e socialmente alle prossime consultazioni e non credo potrà ripetersi. In Italia nessuno ha vinto le ultime elezioni, c’è solo un vincitore in pectore che le sta vincendo senza averle vinte, che si sta gonfiando come la rana della favola e potrebbe fare la sua stessa fine, anche se manca il bue di riferimento, anzi di bue c’è solo il popolo.

 

La guerra dei martiri o l’armistizio della legalizzazione?

Ho rinunciato a capire l’antefatto dell’uccisione del carabiniere in quel di Roma: ricostruire la vicenda servirà alle forze dell’ordine per non andare allo sbaraglio in un mondo rischiosissimo come quello delle tossicodipendenze; servirà alla magistratura per accertare responsabilità, processare e punire i colpevoli; servirà ai giornalisti che, per mestiere, dovrebbero appurare e presentare la verità oggettiva; servirà ai politici per avere elementi di valutazione al fine di intervenire a livello legislativo ed esecutivo sul discorso delle tossicodipendenze e del mantenimento della sicurezza e dell’ordine pubblico.

Mi sono tuttavia chiesto: la legalizzazione delle droghe potrebbe almeno contenere la follia dei consumatori, ridimensionare il ruolo degli spacciatori, mettere in difficoltà il narcotraffico, evitare di lasciare sul campo oltre ai morti per overdose quelli che per mestiere sono costretti a mettere il dito nel covo di vipere?

In linea teorica sono contrario a legalizzare i fenomeni anomali solo per salvare il salvabile: la legalizzazione prende atto del problema insormontabile, tenta di smorzarlo, ma finisce con l’allargarlo. Tuttavia non condivido nemmeno chi si nasconde dietro la coscienza per salvare la faccia, lasciando le cose come stanno, illudendosi di combattere certi fenomeni con la repressione e la criminalizzazione, immolando sull’altare chi si trova in prima linea a combattere a mani nude.

A chi si imbatte nella criminalità, micro o macro che sia, esistente nel campo delle droghe, una coltellata nella schiena non la toglie nessuno. Dobbiamo essere seri ed ammetterlo: o le forze dell’ordine hanno la capacità di combattere, a tutto campo ed a tutti i livelli, questo fenomeno malavitoso oppure, se si limitano a pizzicare qua e là, corrono rischi tremendi. Chi tocca muore: vale per le tossicodipendenze, per la prostituzione, per le varie mafie.

Non si può certo convivere con questi fenomeni malavitosi e, in certa misura, la legalizzazione può essere considerata una forma garbata di convivenza. Si sappia però che la guerra bisogna saperla fare con i mezzi giusti, le armi opportune e le strategie complessive. L’occasionale retata, l’intervento spot, le tattiche di sopravvivenza non servono, anzi mettono a repentaglio chi ha la sfortuna di trovarsi in mezzo al traffico. Anche la benemerita opera di recupero chiude la stalla quando i buoi sono scappati. E allora? Sono pieno di dubbi. Le risposte facili le lascio ai demagoghi e ai populisti: loro sì che se ne intendono! Anche perché questi problemi fanno parte della nostra (in)civiltà e qui il discorso si fa ancor più difficile al limite dell’impossibile.

Il selfie alla deriva fascista

La foto circolata nei giorni successivi alla drammatica uccisione del carabiniere in servizio, avvenuta ad opera di ragazzini americani rimasti invischiati nel mondo della droga ed autori di una folle aggressione tanto sconsiderata quanto violenta, è la sintesi della crisi totale di valori in cui stiamo precipitando. In essa, che ritrae uno dei due ragazzi americani ammanettato e bendato, c’è il dolore per la morte di un servitore dello Stato che si fa vendetta; c’è l’umiliazione coatta di un ragazzo rovinato per tutta la vita da un episodio assurdo al limite del demoniaco; c’è l’odio che risponde all’odio in una spirale senza fine che ci porta al disastro; c’è la reazione sbagliata alla violenza con la violenza; c’è l’illusione di recuperare dignità e forza schiacciando il colpevole; c’è il pubblico potere che, farneticando, induce a farsi giustizia da sé; c’è l’aggressione dei disvalori che cancella i valori; c’è da rimanere sbigottiti e confusi.

Davanti ad essa non si scontra il “cattivismo” difensivo dello Stato con il “buonismo” arrendevole delle anime belle; si scontra la civiltà con la barbarie, la storia con la preistoria. Sullo sfondo dell’immagine si nota, appesa al muro, la fotografia di Falcone e Borsellino: allo sfregio del sacrificio di Mario Cerciello Rega si aggiunge lo sfregio al loro sacrificio. Stiamo buttando la società nella merda! Fermiamoci, se siamo ancora in tempo, perché non è possibile andare indietro fino a tal punto.

Le prime galline hanno cantato dopo aver fatto l’uovo. Il titolare del Viminale ha ribadito il suo dissennato concetto: “A chi si lamenta della bendatura di un arrestato, ricordo che l’unica vittima per cui piangere è un uomo, un figlio, un marito di 35 anni, un Carabiniere, un servitore della Patria morto in servizio per mano di gente che, se colpevole, merita solo la galera a vita. Lavorando. Punto”. La vittima per cui piangere è la nostra società, che sta brancolando nel buio anche per colpa di politici, che meritano, come minimo, di andare a casa, di cambiare mestiere. Punto. Lasciamo perdere le altre galline di contorno. Un esponente leghista di cui non ricordo il nome ha fatto una dichiarazione tutta contro l’immigrazione clandestina: forse nessuno gli ha detto che le indagini sul fatto di sangue in questione stanno prendendo tutt’altra piega. Cosa c’entra l’immigrazione? Quella c’entra sempre, perché è il modo di conquistare le menti alla politica populista e reazionaria.

Per fortuna il premier Conte ha rilasciato dichiarazioni improntate a moderazione ed equilibrio: fino a quando potrà restare al suo posto per raccattare gli escrementi dei suoi colleghi di governo? Sì, perché sta facendo quello. È poco, ma, devo ammetterlo, è meglio di niente. “L’Italia è uno Stato di diritto, la culla della civiltà giuridica dai tempi dell’antico diritto romano; abbiamo principi e valori consolidati: evitiamo di cavalcare l’onda delle reazioni emotive”: sentirlo ripetere fa bene al cervello e al cuore.

Che mi preoccupa non sono le parole e le invettive di Salvini e c., che mi preoccupa è la progressiva, ingenua, ma comunque colpevole, adesione della gente ad una politica fondata sulla paura, sull’odio, sul risentimento e sul rancore: se si consolida questa tendenza sociale siamo fritti in una padella, che non so definire altrimenti che fascista.