Anche i ricchi piangono

Dalla pizza Flat Tax a quella del Capitano, ma ci sono anche la Va’ pensiero, la Ruspa e la Ladrona. Chiaramente l’intento del menù alla Festa della Lega a Pontida è quello di far sorridere, ma fa polemica in Rete il fatto che tra le pizze speciali ne compaiono anche alcune in cui si scherza su un tema che in molti ritengono drammatico: quello dei migranti. Ci sono infatti nell’elenco anche le pizze Aquarius e Sea Watch: tonno, olive, gamberetti e rucola per la Aquarius, frutti di mare e carciofi per la Sea Watch.

Al cattivo gusto si associa la macabra voglia di ridere su ciò che dovrebbe far piangere: queste pizze dovrebbero andare di traverso a chi le cucina trasformando l’odio in riso amaro e a chi le mangia trasformando il sano appetito in ingordigia distruttiva. Siamo arrivati al punto di scherzare su chi muore o rischia di morire in mare e, forse ancor più grave, su chi cerca di salvare costoro. Se è vero che “stultorum mater sempiter gravida” (la madre degli imbecilli è sempre incinta), se è vero che “risus abundat in ore stultorum” (il riso abbonda sulla bocca degli stolti), bisogna aggiungere con Lucio Anneo Seneca che “è perverso comunque tutto ciò che è troppo”.

Ho la speranza che queste manifestazioni, tipiche di una subcultura di stampo fascista (è necessario chiamare le cose con il loro nome), rivelino agli occhi degli italiani la follia in cui stiamo precipitando forse senza neanche accorgercene (almeno lo spero). Nella involuzione leghista si sta passando dallo sberleffo ai ladroni, ai vescovoni ed ai burocratoni alla derisione di chi muore di povertà: i ricchi, che non solo se ne fregano dei poveri, ma si divertono alle loro spalle.

Sto esagerando? Se c’è qualcuno che esagera non sono io, ma quanti si permettono il lusso di sacrificare il senso umanitario sull’altare del proprio egoistico benessere e soprattutto quanti hanno il coraggio di ridere sulle disgrazie altrui. Ricordo un piccolo episodio della mia adolescenza. Stavo giocando al pallone in cortile assieme ad alcuni amici. Ad un certo punto tra una pallonata e l’altra passa un simpatico signore anziano dotato di un enorme deretano. Il caso (?) vuole che un tiro vada a segno incocciando proprio il lato b del malcapitato. La scena era indubbiamente buffa e scoppiai a ridere sguaiatamente. Quell’omone si voltò e mi fulminò con poche parole: “No, ridor no!”. Era disposto a sopportare l’affronto della pallonata, ma non quello della risata. Aveva ragione. La derisione infatti, per dirla con una citazione forbita, è un germe patogeno, che infetta l’uomo dentro.

Oggi si ride dei migranti, domani su chi li aiuta, dopodomani su chi gli dà cristiana sepoltura, piano-piano si arriverà a ridere dell’ingombrante democrazia, delle sue istituzioni, dei suoi valori. Nel 2007 Rifondazione Comunista fece una campagna di affissioni e inserzioni sui giornali: ricordo un manifesto con un grande panfilo bianco ancorato in un mare scintillante e la scritta: “anche i ricchi piangono”. Si disse allora, che l’estrema sinistra cercava la vendetta sociale, la rivincita economica dei ceti impoveriti dall’euro contro le classi agiate. C’era in effetti la presenza di tutta la demagogia tipica dell’estremismo di sinistra. Forse però sarebbe il caso di rispolverare quel manifesto e di riciclarlo in chiave immigrazione, rischiando di fare un po’ di demagogia.  Il gioco democratico a volte vale persino la candela della demagogia.

 

 

 

Galeotto fu il gavettone

A Castelvolturno, in provincia di Caserta, in un clima simpaticamente goliardico, politicamente ben finalizzato, fortunatamente non violento, si è svolta una protesta contro Matteo Salvini, che ha partecipato al Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica. I manifestanti hanno lanciato gavettoni e urlato cori contro il ministro dell’Interno (ne ho colto uno dai video postati su internet: “Leghista terrone vergogna del meridione”). Un carabiniere di presidio si è avvicinato ai contestatori per placare gli animi e ironicamente ha chiesto “almeno di mirare bene”, dopo essere stato quasi colpito da un palloncino pieno d’acqua.

Mi sono sempre stati più simpatici i meridionali con la loro innata e sbraitante carica umana, rispetto ai lumbard con la loro cantilenante e presuntuosa puzza sotto il naso. A ferragosto mi hanno regalato un pizzico di buonumore, ma la ciliegina sulla torta l’ha messa il carabiniere con il suo finto rimprovero: una esclamazione che dice tutto dell’attuale momento politico italiano. Forse sarebbe il caso che, nelle prossime consultazioni al Quirinale per dipanare la matassa governativa, il presidente Mattarella lo ascoltasse come persona informata dei fatti politici. E che a qualcuno non venisse in mente di sottoporre quel furbo carabiniere a una procedura disciplinare: gli va data la medaglia d’oro al valor civile.

Mio padre mi raccontava che, durante il periodo fascista la goliardia degli studenti non si rassegnava alla censura: giravano per la strada con un asino e gli gridavano un coraggioso “vai avanti Benito”. Dobbiamo ritrovare il gusto dello sberleffo contro il potere e in questo i meridionali possono esserci di grande aiuto con la loro fantasia e la loro non violenza.

Da Castelvolturno ci spostiamo a Novorossijsk, in Russia. Dmitriy Timchenko e un suo amico hanno assistito a una scena che ha dell’incredibile mentre si trovavano di fronte a un negozio. Un cane randagio locale, che Dmitriy di solito vedeva vagare per la zona, ha incontrato un Pit Bull legato a un palo fuori dal negozio. La proprietaria dell’animale era solo entrata a fare la spesa, ma il randagio deve aver pensato che l’altro quattrozampe avesse bisogno di aiuto e così lo ha liberato tirando con i suoi denti il guinzaglio. I due hanno poi iniziato ad allontanarsi e in quel momento Dmitriy e il suo amico sono intervenuti, temendo che il Pit Bull potesse perdersi e lo hanno riconsegnato alla sua proprietaria. Una scena molto bella e toccante.

Se i protestatari di Castelvolturno mi hanno concesso una pausa ferragostana di buonumore, i cani di Novorossijsk mi hanno fatto ricredere sugli animali, ai quali non riservo generalmente grande simpatia. Ho pensato a san Francesco alle prese col lupo di Gubbio, al mio caro amico don Luciano Scaccaglia che ammetteva i cani in chiesa, alle tante persone che passano davanti alle mie finestre in dolce compagnia dei loro cani. Queste bestie hanno sempre qualcosa da dirci e da insegnarci. Sono capaci di istintiva solidarietà fra di loro e verso di noi, noi che non sappiamo commuoverci nemmeno di fronte a centinaia di poveri disgraziati che rischiano la vita in mare per trovare un posto in cui sopravvivere.

Morale delle favole ferragostane: c’è sempre qualcosa da imparare, anche e soprattutto politicamente parlando.

Il Parlamento è la Chiesa della democrazia

Agli squallidi protagonisti dell’insano ferragosto della politica si è sovrapposto il serio interprete della festa dell’Assunta, il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei. Lungi da me ricadere nell’integralismo cattolico, rinunciare al mio spirito laico, ma quando si sta politicamente per affogare ben venga una scialuppa di salvataggio, anche se viene da un pulpito clericale, dal referente massimo che la società italiana ha nella gerarchia cattolica: la Conferenza Episcopale Italiana e il suo capo.

Allo scoppio fragoroso e distruttivo di tangentopoli con la politica sommersa dagli scandali della corruzione, la gente intravide due ancore di salvezza: la Magistratura e la Chiesa Cattolica. Non bastò, anzi queste due istituzioni delusero le attese. La stessa Bibbia ricorda come, in un periodo di massima confusione, il popolo di Israele fu governato dai Giudici: ma i giudici devono soltanto far bene il loro mestiere e, per la verità, non sempre ci riescono. La Chiesa, nel triste periodo successivo a tangentopoli, finì col dare fiducia a politici di basso livello e arrivò a “contestualizzare” il berlusconismo. Adagio quindi, ricordiamoci di quanto, nel Don Carlo, famosa opera verdiana, si chiede il re Filippo II a colloquio col Grande Inquisitore: “Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare!”. Devo ammettere che, mentre nel cardinal Bassetti non trovo niente dell’invasivo fanatismo del Grande Inquisitore, in troppi politici, senza voler esagerare, trovo molte assonanze con la furia di potere di Filippo II (lui puntava alla pace dei sepolcri, oggi si offre il silenzio sul mare che inghiotte i disperati).

Il tono e il contenuto del nobilissimo messaggio augurale dell’autorevole cardinale sono tali da imporre a tutti, politici in primis, una seria riflessione e da infondere una speranza. Consiglio di leggerlo integralmente; ne riporto di seguito un brano: “Il Parlamento è cosa seria. È la Chiesa delle democrazie. Nei settant’anni di storia repubblicana gli eletti che l’hanno composto sono stati specchio del Paese: in molti casi, persone da cui prendere esempio per la passione civile con cui hanno servito le Istituzioni. Anche oggi fra i parlamentari vi sono tante persone libere e rigorose, che hanno il dovere di prendere la parola per richiamare tutti a responsabilità. Credo che, più che il loro numero, conti la possibilità che fra loro ci siano non solo i fedelissimi dei capi di turno, ma tante persone oneste, competenti, attente a parlare a tutti. La politica, prima che di numeri, è fatta di persone. Ancora una volta tocca al Parlamento trovare una soluzione per aiutarci a rimanere un grande Paese, democratico ed europeo. Governare è una necessità; governare bene è un dovere. Il Parlamento non diventi, perciò, la trincea di una lunga guerra di posizione. Come nei legami familiari, tutte le forze politiche tornino a guardarsi negli occhi con la disponibilità a individuare le strade per convivere senza inganno o inutili astuzie”.

Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire: immagino il fastidio provocato da un simile appello, anche se magari verrà ufficialmente elogiato. Qualcuno si affretterà a inserire il cardinal Bassetti fra i tifosi del governo anti-Lega. Altri lo giudicheranno come un’intrusione. Altri alzeranno le spalle, invitando la Chiesa a guardare alle proprie “sporcaccionate” a sfondo sessuale ed economico-finanziario.

Preferisco leggerlo, rileggerlo, meditarlo, approfondirlo. Mi sembra una gran bella occasione per tornare alla politica interpretata alla luce dell’etica e dell’ispirazione cristiana, con l’aiuto di Maria di cui non dobbiamo avere una stucchevole e strumentale venerazione, ma una grande considerazione. Bassetti conclude il suo messaggio con queste parole: “Come disse allora Pio XII in Piazza San Pietro – presenti Alcide De Gasperi e Robert Schuman – l’Assunta ha a che vedere con il bene comune: Voi, poveri, malati, profughi, prigionieri, perseguitati, braccia senza lavoro e membra senza tetto, sofferenti di ogni genere e di ogni Paese; voi, a cui il soggiorno terreno sembra dar solo lacrime e privazioni, per quanti sforzi si facciano e si debbano fare al fine di venirvi in aiuto, innalzate lo sguardo a Colei che, prima di voi, percorse le vie della povertà, del disprezzo, dell’esilio, del dolore…”.

Sinistra, se ci sei, batti un colpo!

La politica italiana si sta trasformando in un inconcludente, confuso e pericoloso gioco al tatticismo esasperato. Ogni strategia è composta da obiettivi e da tattiche per raggiungerli. Quindi nessuno scandalo: la tattica è necessaria, purché rientri in una strategia di medio/lungo periodo ed a condizione che risponda ad obiettivi rientranti appunto nella strategia.

Se, come sosteneva Alcide De Gasperi, lo statista guarda alla prossima generazione, mentre il politico guarda alle prossime elezioni, attualmente nel nostro Paese non abbiamo statisti, abbiamo solo politici, direi ancor peggio: abbiamo solo dei politicanti da strapazzo. Essi infatti non hanno nemmeno il coraggio di guardare seriamente alle prossime elezioni: le prefigurano in chiave meramente e spudoratamente strumentale. Chi le punta per incassare lo squallido dividendo dopo un anno di governo penoso e disastroso, chi le vuole rinviare per recuperare il terreno perduto nell’ignobile connubio giallo-verde, chi spera di rigenerarsi nel battesimo elettorale dopo averne combinate di cotte e di crude, chi pensa di lucrare una piccola rendita di ritorno improvvisandosi difensore delle istituzioni e del buongoverno, chi non sa che pesci pigliare e cambia tattica come cambiare di camicia.

Il Parlamento viene ridotto a cassa di risonanza di questi giochetti: credo che il dibattito politico abbia toccato il fondo nell’aula del Senato, quando il leghista Matteo Salvini, rinunciando improvvisamente alle sue dichiarate mire elettoralistiche, si è detto disponibile a varare una riforma costituzionale (sic) per dimezzare il numero dei parlamentari, ben sapendo che mettersi su questo terreno vorrebbe dire andare alle urne  fra un anno oppure fare una riforma che entrerà in vigore fra cinque o sei anni. Lo ha fatto solo per passare all’ex alleato grillino il cerino acceso che aveva in mano. Qualcuno li considera colpi di teatro, io li vedo come manciate di sterco sulla politica. Mio padre sosteneva che la bellezza del teatro consistesse proprio nel colpo di scena e in un certo senso anche la politica potrebbe giovarsene, ma qui, lo ripeto, non abbiamo colpi di scena bensì trasformismi scenici alla Fregoli (con tutto il rispetto per lui e per la sua abilità teatrale, non certo per chi lo scimmiotta nelle aule parlamentari).

Ormai, da incallito appassionato alla politica, devo gettare la spugna: non ci capisco più niente e, cosa ancor più grave, non provo più a cercare di capire, ben sapendo che ballo sul filo del rasoio del qualunquismo. Sono diventato qualunquista o sono qualunquisti i politici che si comportano nel modo indecente di cui sopra? È un gioco al massacro, che getta fango sulle istituzioni, indebolisce la democrazia, crea i presupposti per involuzioni sistemiche.

Non ricordo di aver vissuto momenti politici di tale squallore. Avremo toccato il fondo? Lo spero, anche se temo non ci sia più la residua forza di darsi una spinta per risalire. Nella mia esperienza politica ho sempre guardato a sinistra, tentando di cogliere in essa quelle radici che consentono di rimanere legati al bene comune. Lo sto facendo ancora, ma non trovo quello che cerco. Cerco e non trovo. Sinistra ti supplico, se ci sei ancora, batti un colpo! Te lo chiedo con un groppo in gola e le lacrime agli occhi, in nome di chi ha versato il suo sangue per conquistare e difendere la libertà e la democrazia.

Un discorso forbito, cioè ovvio

Ogni epoca ha la sua parolina magica che ne interpreta gli umori e ne sintetizza i pensieri. Nel periodo corrispondente alla mia adolescenza ed alla mia prima giovinezza era di prammatica portare avanti un certo discorso. Il termine abusato nel parlare à la page era appunto “discorso”. Si trattava di uno spunto intellettualoide che serviva per darsi un contegno e per innescare l’aspettativa di un ragionamento culturale impegnato. Il “discorso” si fece protesta ed arrivò addirittura a contestazione più o meno globale ed a rivoluzione più o meno brigatista.

Molti anni dopo arrivò l’evanescente e trasognante “cioè” e schiere di giovani e meno giovani furono educati ed acculturati all’ombra insignificante del cioè: un avverbio utilizzato ben al di là del suo significato per diventare un intercalare obbligato ed insulso. Ai miei tempi, quando si era interrogati, si iniziava la risposta con un “dunque”, che veniva immediatamente cassato dall’insegnante: dunque è infatti una congiunzione con valore conclusivo, esortativo o rafforzativo oppure un sostantivo che significa conclusione, punto fondamentale, momento decisivo. Non ha senso iniziare un ragionamento con “dunque”. Figuriamoci il cioè, che nel tempo è stato addirittura sostituito da un suono non meglio identificato, una sorta di colpo di tosse da emettere parlando di tutto e di niente.

Attualmente, mentre si sta faticosamente spegnendo l’eco dei “cioè” e il “discorso” ha lasciato campo libero alle “cazzate” on line, non può mancare un “ovviamente” che c’entra come i cavoli a merenda: si tratta di un avverbio prezzemolo entrato nel comune parlare di giovani ed anziani, ignoranti e dotti. Se andiamo avanti così il debutto parolaio dei bambini diventerà: “ovviamente mamma”. Questa parolina magica, adottata globalmente ed indipendentemente dalla sua accezione, trova comunque una giustificazione nella odierna inciviltà dell’ovvio: in un tempo in cui c’è ben poco di ovvio, tutto diventa formalmente tale, vale a dire facile e banale, mentre resta o diventa sempre più sostanzialmente difficile e straordinario.

Nel passaggio dal “discorso” al “cioè” c’è la sintesi di un regresso culturale dall’impegno farneticante al disimpegno alienante; nel passaggio da “cioè” ad “ovviamente” abbiamo la transizione dall’ignoranza volgare all’analfabetismo chiccoso, dal rutto pantagruelico allo sberleffo informatico. Ma, ovviamente, non finisce qui, il bello deve ancora venire.

Ora e sempre resistenza

Forse non è soltanto esplosa una crisi di governo, peraltro apparsa all’improvviso come un fiume carsico che correva sotto terra ma di cui si intuiva la inquietante presenza, ma una vera e propria emergenza democratica da non drammatizzare, ma nemmeno da sottovalutare e soprattutto da capire.

Sta prendendo sempre più piede un tentativo di portare il paese in una sorta di regime autoritario, costruito scientificamente, cavalcando populisticamente le paure, le frustrazioni e le incertezze, usando le istituzioni come strumenti tattici e i social media come cinghia di trasmissione dei messaggi, in una società dove elettori ed eletti si confondono persino a livello di linguaggio.

Di fronte a questo pericolo non si può giochicchiare come ha immediatamente cominciato a fare il partito democratico, non si può limitarsi, come ha cominciato a fare Beppe Grillo, a buttare la palla nella metà campo avversaria o addirittura in tribuna, non si può stare a guardare giocando furbescamente di rimessa, non si può sperare che la mongolfiera salviniana si sgonfi automaticamente.

Ci sarebbero effettivamente gli estremi per un rinnovo del patto costituzionale, per un compromesso ai livelli più alti tra le forze politiche di fede democratica, per una ridefinizione ideale e valoriale della politica, per una scossa forte e rigenerante alle (in)sensibilità popolari. Conversando a ruota libera con un’amica mi sono ritrovato ad auspicare un nuovo sessantotto, anzi un centotrentasei.

È in grado il paese di capire e di agire, esistono le figure carismatiche in grado di sollecitare e guidare la riscossa, c’è voglia di risalire la china? Gramscianamente parlando, c’è di che essere razionalmente pessimisti, ma volonterosamente ottimisti. Si è tanto parlato di prima, seconda e addirittura terza repubblica, credo sia giunto il tempo di prefigurare una vera e propria seconda resistenza. Durante il ventennio fascista il primo e immediato atto di protesta e di distinzione era non prendere la tessera del fascio: oggi le tessere sono state sostituite con i messaggi postati sui social e quindi bisogna combattere questa subdola catena di consenso.

Sono discorsi prepolitici, perché la politica sembra impreparata ed inadeguata a contrastare il disegno autoritario, populista e sovranista di cui sopra. Lasciamo perdere i cespugli destrorsi. Occupiamoci per un attimo del M5S e del PD. I grillini sono invischiati fino al collo e i “mortus” lanciati da Grillo sono tardivi, inconsistenti e superficiali. Il partito democratico fa solo tattica, anche piuttosto confusa e divisiva.  Bisogna quindi ripartire dalla prepolitica, da una forte presa di coscienza che non vedo fra i giovani, storicamente, culturalmente e psicologicamente impreparati, fra gli anziani tentati dallo sconforto, fra i poveri incapaci di introiettare le loro povertà.

Sempre conversando con l’amica di cui sopra, mi sono ritrovato concorde con lei nello sperare che ci possano salvare gli immigrati: dalla crisi demografica, dall’evasione lavorativa dei mestieri difficili, dalla recessione economica, dall’appiattimento sociale, dalla ignoranza dei diritti e dei doveri. Forse abbiamo più bisogno di educazione civica noi di loro.

La Vergine Maria ci liberi da Salvini

Il governo pentaleghista, tra perenni contrasti, continui scontri, clamorosi litigi, tra mille paralizzanti contraddizioni, fra un tira e molla e l’altro, in mezzo a provvedimenti sconclusionati, adottati sul filo del rasoio costituzionale, sbattuti in faccia agli allocchi, stava, subdolamente e in modo strisciante, varando una riforma in cui si sono cimentati in molti con scarso successo e disastrosi risultati: la riforma elettorale. Senza bisogno di una legge ad hoc stava infatti cambiando volto al sistema politico italiano.

Il M5S si stava sciogliendo come neve dimaiana al sole salviniano: i grillini urlavano, strepitavano, protestavano e poi, quando si arrivava al dunque, chinavano il capo e tenevano per il giaguaro. Si intuivano i loro dubbi esistenziali, i loro contrasti interni, ma finiva col vincere la linea della continuità, che li portava al disastro. Il loro elettorato, per la parte più “reazionaria”, guarda infatti alla casa leghista, più credibile e rassicurante; per la parte più “rivoluzionaria” si stava stufando e orientando verso il ribellismo astensionista, che non si sa dove possa approdare (è presto per un eventuale ritorno a sinistra, mentre si affaccia il pericolo di una piazza, mediatica o reale che sia, rissosa e violenta). Prevaleva il ragionamento andreottiano: meglio tirare a campare dandola su all’infido alleato leghista piuttosto che tirare le cuoia in un bagno di sangue elettorale.

Le opposizioni di destra, ormai ridotte a sciocchi gregari della Lega, hanno intrapreso una loro gara a chi arriva prima e meglio all’appuntamento con l’orco che se li vuole mangiare: i Fratelli d’Italia stanno buttando i tradizionali voti pseudo fascisti nel vero e nuovo contenitore fascista; i Forzitalioti, meglio dire Berlusconi, sta brigando per salvare il salvabile e per non farsi troppo male nelle fauci del lupo leghista che si sta già leccando i baffi. Quindi a destra tabula rasa, un unico partito pigliatutto: la peggior destra possibile e immaginabile, egemonica rispetto a tutte le pulsioni negative emergenti in quell’area.

Le opposizioni di sinistra avrebbero un certo interesse a lasciare marcire la situazione con l’illusione di recuperare un elettorato in libera uscita alla ricerca di qualcosa di nuovo, anche se a questo elettorato rischiano di proporre qualcosa di vecchio: le loro divisioni massimaliste, i loro storici burocratismi, le loro incertezze riformiste, i loro deboli personalismi, i loro tradizionali difetti. Il partito democratico fa la voce grossa, ma non ha le corde vocali necessarie e quindi rischia di rimanere afono o comunque inascoltato. A sinistra si intravede una sorta di Aventino preventivo.

Nessuno degli attuali protagonisti, per i motivi suddetti, avrebbe avuto interesse tattico ad elezioni anticipate: sembravano tutti in attesa di arrivare obtorto collo ad un bipartitismo non solo imperfetto, ma orribile. Poi la situazione è precipitata: la Lega vuol passare sbrigativamente all’incasso elettorale e quindi lo scenario è diventato incandescente e strampalato. Tutti stanno improvvisando nuove tattiche: elezioni subito, elezioni fra qualche mese dopo il taglio dei parlamentari, elezioni il più tardi possibile per arginare il ciclone Salvini. Persino Beppe Grillo ha ripreso a farneticare ipotizzando il ritorno dei barbari: un modo vecchio come il cucco per salvare la faccia al suo movimento, gridando al lupo che se lo vuol mangiare.

In mezzo a tutto ciò sta il presidente della Repubblica, che giustamente non vuole fare politica, ma, così facendo, rischia di lasciare libero campo alla rovinosa evoluzione della politica. Egli giustamente si preoccupa della governabilità di una situazione socio-economica assai problematica, teme una deriva “agovernativa”, un vuoto di potere pericolosissimo, perché l’Europa e il mondo non sono disposti ad aspettare i nostri comodi. Mattarella si rende conto che un’accelerazione della crisi di governo sarebbe un perfetto assist alla Lega e vuole passare alla storia come il più corretto e leale presidente e non come il presidente che assiste pilatescamente alla svolta autoritaria del sistema politico. Ha in mano una patata bollente. I più avveduti osservatori e i più sensibili cittadini guardano a lui con fiducia: speriamo che sfoderi la bacchetta magica del suo carisma e ci tolga dal pantano in cui stiamo sprofondando.

In questo assurdo bailamme Matteo Salvini non trova di meglio che agitare lo specchietto per le allodole dell’affidamento alla Vergine Maria, tirandola dalla sua parte con rosari di sciocchezze. Roba da ridere o piangere a seconda dei casi, che merita solo un cenno in quanto rischia di diventare la ciliegina clericale sulla torta fascista. Spero nella riottosità clericale, anche se non mi illudo più di tanto. Con tutto il rispetto e la sana devozione per la Madonna, preferisco affidarmi laicamente a Sergio Mattarella, pregando la Vergine, questo sì, che aiuti il presidente a dipanare una matassa, che forse solo con un miracoloso aiutino dall’alto potrà essere democraticamente districata.

 

Giochiamo a salvinopoli

Il quotidiano La stampa ha proposto su internet un intelligente giochino ai propri lettori, sottoponendo a loro un simpatico, provocatorio e impegnativo quiz: “Perché secondo te Salvini ha innescato ora la crisi di governo?”. Domanda interessante, che costringe a guardare alla politica col disincantato e dovuto interesse.

Le opzioni sono tre. Ecco la prima: “Perché a settembre avrebbe dovuto trovare decine di miliardi per finanziare i provvedimenti del governo”. Poi arriva la seconda: “Perché ora vuole capitalizzare il consenso facendo fuori gli alleati”. Ed ecco la terza: “Perché è impossibile governare con un alleato che dice sempre di no e ti attacca tutti i giorni”.

Sono partito con l’intenzione di rispondere anche per premiare un’iniziativa estemporanea volta a costringere i lettori a pensare e a riempire i social di pensieri, evitando di vomitare solo cazzate a schermo aperto.  Ho ragionato a lungo, compiacendomi dell’acutezza delle risposte indicate, che riescono a riassumere sinteticamente i connotati di una sciagurata esperienza di governo.

Non sono tuttavia riuscito a rispondere per due motivi. Innanzitutto con ogni probabilità tutti tre i motivi delineati sono ragionevoli e si mescolano in un polpettone tattico con cui è finito il pranzo di nozze del cambiamento, che ha dovuto fare i conti coi fichi secchi pentaleghisti.

Però il vero motivo per cui non sono riuscito a formulare una mia risposta è un altro e ben più drammatico: secondo me Matteo Salvini non lo sa nemmeno lui perché ha precipitato la crisi di governo. Ha agito d’impulso, ha fiutato l’aria, ha colto l’occasione, ha fatto politica alla sua maniera. È entrato nel bar e ha sputato il rospo: “Basta amici, mi sono rotto il cazzo, andiamo a votare e non se ne parli più…”.

Naturalmente pensa che i suoi ammiratori siano d’accordo, che continuino ad aumentare di numero, che lo seguano e soprattutto lo votino. “Scommettiamo che prendo la maggioranza e poi faccio quello che voglio?” ha aggiunto in cuor suo fra gli entusiasmi degli ipotetici astanti. Al suo posto non sarei così sicuro, perché i giochi sono belli quando sono corti e il suo sta diventando piuttosto lungo. Quando Berlusconi decise di formare un partito politico e di presentarsi agli elettori, proponendo tre o quattro cazzate ben formulate, gli esperti gli dissero che avrebbe avuto successo, ma che dopo qualche mese la gente si sarebbe svegliata e gli avrebbe chiesto conto. Successe così, il suo primo governo andò in crisi, ma lui, purtroppo per noi, seppe rinnovare le cazzate e la fola durò per vent’anni.

C’è da augurarsi che non succeda così anche con Salvini. Faccio io un contro giochino ai miei pochi ma affezionati lettori: “Secondo te Salvini durerà?”. Tre opzioni. La prima: “Sì, perché la gente sente da lui quel che vorrebbe sentirsi dire”. La seconda: “No, perché la gente, nonostante tutto, prima o poi, ragiona e capisce l’inganno”. La terza: “Non lo so, perché nel gran casino che si è creato c’è da perdere la testa”. Forse io sceglierei la terza opzione.

 

O la minestra politica o la finestra pentaleghista

Dal momento che, un po’ per necessità un po’ per virtù, da tempo immemorabile non faccio vacanze, sto vigliaccamente godendo del fatto che la ormai conclamata crisi di governo stia costringendo tutti gli operatori della politica e dell’informazione a lavorare anche in agosto. Ci voleva la deriva pentaleghista a buttare all’aria le ferie di deputati, senatori, giornalisti, commentatori: i politici lavoreranno, si fa per dire, con lo spettro di perdere il lavoro; i pennivendoli con l’incubo di riposizionarsi in vista di eventuali e probabili nuovi equilibri politici. Lo ammetto: sotto-sotto ci godo, anche se mi rendo perfettamente conto che non è solo questione di ferie, ma c’è in gioco l’avvenire dell’Italia e il lavoro di tanta gente che non ce l’ha o rischia di perderlo.

Salvo improbabili colpi di scena, siamo dunque arrivati al capolinea di una cattiva esperienza governativa: c’è da augurarsi che possa essersi trattato di un male necessario, anche se a furia di mali necessari si è perso di vista l’auspicabile bene. Purtroppo sarà una brutta malattia che lascerà parecchi segni in tutti i sensi e a tutti i livelli, ammesso e non concesso che i malati si rendano conto di essere tali e abbiano la freddezza di curarsi seriamente. Ho molti dubbi, ma spero, anche se non c’è peggior malato di chi non vuol curarsi.

Al momento tutti si esercitano nel prevedere il percorso e lo sbocco che avrà la crisi di governo: mi sembra un inutile gioco. Meglio sarebbe analizzare i motivi della crisi e vedere come se ne possa uscire senza troppi danni diretti e collaterali. Provo al riguardo a fare due riflessioni.

La prima morale della favola pentaleghista è che la politica non si può dribblare con la protesta totale e con l’antipolitica rabbiosa. La politica è necessaria come il pane. Può essere brutta, sporca e cattiva, ma non se ne può fare a meno. Tanto vale affrontarla e viverla seriamente senza correre dietro ai saltimbanchi, ai prestigiatori ed agli illusionisti. Temo che di qui alle prossime elezioni, ormai quasi certe, si scateni una bagarre tale da confondere le idee anche ai più lucidi cittadini. Ai pericoli insiti nel voto anticipato si aggiungono quelli di un voto stralunato. Gli italiani hanno sempre trovato nei momenti più difficili risorse insperate e qualità nascoste. Speriamo succeda così.

La seconda morale riguarda la regola che le difficoltà si superano allargando la visuale,  volando alto e non ripiegando sugli egoismi, sui particolarismi, sulle paure, sulle oltranzistiche difese. In questi ultimi tempi siamo stati indotti dai governanti a chiuderci in un guscio pseudo-protettivo. I problemi esistono, ma non si affrontano con l’egoismo sistemico. Se in una stanza si fatica a respirare perché manca l’ossigeno, non si può rimediare sbattendo fuori dalla porta gli ospiti sgraditi, ma solo spalancando le finestre e poi si potrà anche ragionare sulle regole di convivenza.

L’agosto 2019 passerà probabilmente alla storia come il mese più caldo della politica italiana: quando è troppo caldo si rischia di stare male, di non avere voglia di niente, di essere nervosi e inconcludenti. C’è bisogno di un po’ di aria fresca: l’aria di una convivenza civile rasserenata, di un dibattito politico costruttivo, di una democrazia riscoperta e rinnovata. Aiutiamoci che il ciel e Mattarella ci aiutano.

Sulla Tav governo in fuorigioco

L’articolo 94 della Costituzione recita: “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale. Entro dieci giorni dalla sua formazione, il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Il voto contrario di una o dì entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni. La mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera e non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione”.

Ho voluto rileggermi attentamente le disposizioni che regolano il rapporto fiduciario fra Governo e Parlamento per giudicare, a Costituzione veduta, la situazione che sta vivendo il governo pentaleghista. Il Senato ha espresso un voto a favore della Tav, dopo che il governo su tale tema si era pronunciato in modo contraddittorio: una parte, i ministri leghisti, a favore e un’altra parte, i ministri pentastellati, contro, presentandosi sui banchi del governo in modo addirittura tale da rendere anche plasticamente l’idea della distinzione. Sostanzialmente si è rotto il rapporto di fiducia all’interno del Governo (il contratto è diventato poco più di carta straccia) con la situazione sfuggita di mano al Presidente del Consiglio, che dovrebbe dirigere la politica generale del Governo ed esserne responsabile, mantenendo l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri.

Il primo profilo riguarda quindi il Capo del governo, che non è più in grado, se mai lo è stato, di garantire l’unità della compagine ministeriale: al Senato era addirittura assente a prova del fatto che, avendo precedentemente dichiarato che la realizzazione della Tav sarebbe proseguita anche per la fattuale impossibilità di interrompere i lavori, non sapeva che pesci pigliare e da che parte stare. In un caso simile, quasi paradossale, le dimissioni sarebbero un atto necessario e Giuseppe Conte avrebbe immediatamente dovuto rassegnarle nelle mani del Presidente della Repubblica, che lo ha nominato per svolgere la sua funzione e non per fare il pesce in barile.

Il secondo profilo è quello del rapporto tra Camere e Governo. Anche se, a stretto rigore, non è scattato l’obbligo di dimissioni del Governo, la sostanziale sfiducia ottenuta su un importante problema, accompagnata da una clamorosa divaricazione fra ministri, dovrebbe comportare le dimissioni dell’intero Governo o almeno del ministro (in)competente in materia, vale a dire il grillino Danilo Toninelli a capo del dicastero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Il terzo profilo inerisce ai poteri ed al ruolo del Presidente della Repubblica. A mio modesto avviso esisterebbero gli estremi per chiedere, come minimo, che il Governo si presenti alle Camere per farsi rinnovare o meno la fiducia, messa fortemente in discussione dalla vicenda parlamentare sulla Tav. Potrebbe anche, senza andare oltre i propri poteri, mettere in discussione la nomina, a suo tempo fatta, di Giuseppe Conte, chiedendo le dimissioni sue e/o dell’intero Governo. Qualcuno ha ventilato l’ipotesi del massaggio alla Camere per sollecitare un chiarimento politico-istituzionale in una situazione sempre più ingarbugliata e insostenibile.

Al momento, complice il clima feriale, tutto tace, fioccano i commenti, continua lo scontro politico, nessuno si dimette, si parla di rimpasto, vale a dire di una sistemazione della compagine, che possa favorire la futura collaborazione dei due partner e rilanciare l’azione del governo anche in vista delle scadenze finanziarie vicine e impellenti. Quest’ultima appare come un’ipotesi minimale, fatta apposta per guadagnare tempo e scaricare su qualche capro espiatorio le responsabilità dell’intero Governo e della maggioranza che lo dovrebbe sostenere.

Comincio a pensare che Sergio Mattarella debba battere un colpo, abbandonando la sua prudenza e la sua discrezione, peraltro ammirevoli. Si impone una coraggiosa presa di posizione, che costringa tutti ad assumere le proprie responsabilità. Gli Italiani hanno fiducia in lui, lo vivono come il garante e quindi apprezzerebbero anche una sua entrata a gamba tesa nel bel mezzo di una partita brutta e molto scorretta. È vero che lui si considera un attento e scrupoloso arbitro, ma, dopo aver consultato la var al Senato, dopo avere ripetutamente richiamato all’ordine i capitani, dopo aver fischiato falli a ripetizione, gli sarebbe consentito di interrompere la partita, prima che il tutto degeneri in una rissa oltremodo dannosa per il Paese.