La chiusura dei porti e dei cuori

I giornali abbondano di profili e commenti alla nomina di Luciana Lamorgese a ministro degli Interni: una notevole carriera a livello burocratico (alta funzionaria ministeriale, prefetto di Milano, consigliera di Stato) e una grande esperienza di carattere tecnico. Si era parlato e discusso della presenza di tecnici d’area all’interno del governo giallo-rosso alla ricerca di una sorta di cuscinetto fra le divergenze politiche dei due partner. Fra le diverse possibilità ci si è limitati a quella del ministero più chiacchierato durante l’era salviniana: Luciana Lamorgese è stata collocata in quel dicastero per rimettere ordine e riaprire i rapporti con l’Europa in materia di immigrazione.

Ha certamente in mano una patata bollente, che non vorrei la politica avesse scelto pilatescamente di scaricare sulla burocrazia. Il problema dell’immigrazione, infatti, non è una questione tecnica, ma uno snodo delicatissimo e intricatissimo della politica nazionale, comunitaria ed internazionale. Ci sono in gioco diritti umani fondamentali, scelte valoriali imprescindibili, rapporti fra stati: tutte le tematiche, culturali, sociali, economiche, sono coinvolte in questo enorme problema. Più politico di così si muore! E allora mi chiedo che senso abbia, al di là dell’indiscutibile valore della persona scelta, affidare un incarico di tale importanza a un tecnico. Ho letto con molta attenzione e ammirazione il curriculum di Luciana Lamorgese, ma alla fine mi sono chiesto: può bastare? Ci vuole ben altro.

Intendiamoci bene non è che il problema possa essere affrontato e risolto da un ministro, men che meno da un ministro tecnico. Occorre sensibilità, visione, coraggio, lungimiranza, autorevolezza: doti che non possono essere chieste ad un tecnico pur bravo che sia. Il fatto è che il punto è troppo difficile e non poteva essere affrontato in un già fin troppo problematico accordo di governo. Si è scelto di soprassedere, accontentandosi di smussare gli angoli politici più acuti con l’austerità dell’alta burocrazia. Se proprio si voleva fare spazio alla tecnica non c’era che l’imbarazzo della scelta fra tanti ministeri, si è andati a parare proprio sul meno adatto per i motivi suddetti.

Mi aspetto almeno che la nuova ministra riporti il discorso nella legalità sottraendolo alla demagogia in cui era finito. Poi c’è tutto il resto. Se Matteo Salvini si illudeva di risolvere il problema chiudendo i porti, mentre i cinquestelle stavano a guardare facendo i pesci in barile, il governo giallo-rosso non si illuda di cambiare rotta chiudendo i cuori e affidandosi all’ex prefetto di Milano (senza nulla togliere al buon cuore del nuovo ministro). Credo sia il punto dolente: devo ammettere di non aver ancora capito quale sia la visione grillina del problema, ma devo aggiungere che non mi è affatto chiara quella del partito democratico. Non è facile, ma proprio per quello bisogna partire da una impostazione di fondo condivisa su cui articolare le scelte legislative e amministrative a livello nazionale e comunitario.

Come ho già scritto, essersi liberati della cappa di piombo salviniana non è poca cosa, ma adesso viene il difficile e il terreno migratorio è quello più insidioso. Sì o no alla chiusura dei porti è un falso problema. Il modo peggiore per approcciarlo partendo dalla fine. Come se nell’alimentazione si partisse dalla pancia o ancora peggio. «Scusi, Lei è favorevole o contrario?» così chiese un intervistatore al mio professore di italiano, in occasione dell’introduzione del divorzio nella legislazione italiana. «Tu sei un cretino!» rispose laicamente stizzito il professore. Ben detto. Vista la deriva della politica ridotta a mera tifoseria, prima o dopo mi aspetto di incontrare qualcuno che in via Cavour mi rompa le scatole chiedendomi: «Scusi lei è favorevole o contrario alla chiusura dei porti?». Tutte le problematiche della nostra società vengono ridotte al ritornello: “Scusi, lei è favorevole o contrario?”. A cosa? Non lo so, ma poco importa. Ormai è vietato ragionare, è fondamentale schierarsi…

 

L’Italia fa bene i conte

Sono partito con molto scetticismo, snobbando le vicende della crisi di governo e della formazione di una nuova compagine ministeriale, poi via via la passione per la politica ha (giustamente) prevalso e mi sono ritrovato incollato al video a seguire le maratone giornalistiche a margine delle trattative. E voglio volare sulle ali di questa passione rischiando di saltare di palo in frasca.

Ero andato con mia madre e mia nonna a trascorrere qualche giorno di vacanza a Fabbro Ficulle (paesino in provincia di Terni), ospite del convento dove viveva mia zia suora Orsolina.   Avevo quattro-cinque anni, non ricordo con precisione. Pranzavamo in una saletta messa molto gentilmente a nostra disposizione ed in quella saletta vi era un apparecchio radio: la nonna gradiva ascoltarla durante il pasto, soprattutto le piaceva ascoltare il giornale radio. Un giorno al termine del notiziario politico me ne uscii candidamente con questa espressione: “Adesso nonna chiudi pure la radio, perché a me interessa il governo”. Lascio immaginare le reazioni di mia madre, ma soprattutto di mia nonna, incredula e divertita, che rideva di gusto e forse aveva anche fatto qualche pensiero su quello strano nipote.

Evidentemente la politica ce l’avevo nel sangue, sono nato e vissuto in oltretorrente, il rione popolare dove ho respirato la politica fin da bambino, dove i borghi, gli angoli, gli androni delle case parlavano di antifascismo, dove la gente aveva eretto le barricate contro la prepotenza del fascismo, dove la battaglia politica nel dopoguerra si era svolta in modo aspro e sanguigno, dove il popolo, pur tra mille contraddizioni, sapeva esprimere solidarietà assieme a lotta di classe e battaglia politica.

Ma perché questi ricordi? Il mondo è cambiato e le nostalgie lasciano il tempo che trovano. Non è vero, basti pensare che durante le animate ed approfondite discussioni con l’indimenticabile amico Walter Torelli, ex-partigiano e uomo di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta constatavamo come alla politica stesse sfuggendo l’anima, se ne stessero andando i valori e rischiasse di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restasse che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti: dopo il craxismo, che aveva intaccato le radici etiche della democrazia, venne il berlusconismo a rivoltare il sistema creando un vero e proprio regime in combutta col primo leghismo alla Bossi, poi è arrivato il grillismo con la carica distruttiva della sua antipolitica, dulcis in fundo è sopraggiunto il leghismo riveduto e scorretto alla Salvini.

Il governo pentaleghista, durato per oltre un anno, ha fatto in tempo in questo breve periodo a retrocedere la politica a mera contrattazione, con la scusa di superare gli schemi destra e sinistra, con la manfrina del superamento del sistema, con la menata della lotta contro i poteri forti, mettendo insieme populismo di destra e di sinistra, spargendo paure e illusioni.  Un velleitario e folle connubio, un matrimonio di interessi trasformatosi in convivenza da separati in casa. Ad un certo punto sono volati i piatti e la rottura e stata inevitabile: cercare il colpevole è tempo perso perché prima o poi doveva succedere, meglio prima che poi.

C’era bisogna di cambiare libro e temo invece si sia soltanto voltata la pagina: meglio di niente. Trasferiamoci e diamo un’occhiata a quanto è successo per la nomina alle più alte cariche istituzionali europee. L’Italia, che sta svolgendo un ruolo di mero contorno, quasi per puro caso, ha ottenuto, per un suo rappresentante, l’importante e prestigioso incarico di presidente del Parlamento di Strasburgo: la scelta è andata, più per equilibrismi politici a livello europeo che per riconoscimento dell’importanza del nostro Paese, su David Sassoli, un serio ed apprezzabile uomo di sinistra, un europeista convinto, un ottimo personaggio per una istituzione da valorizzare e potenziare. Ebbene, i leghisti e i fratelli d’Italia, gli hanno votato contro: legittimo se si fosse trattato di un incarico meramente politico, assurdo dal momento che si trattava di una carica istituzionale. Il nazionalismo di certi partiti si ferma ancor prima della nazione, si blocca nell’orto di casa dove non si vuol nemmeno guardare l’erba del vicino. I grillini in quell’occasione non ho capito cosa abbiano combinato (hanno lasciato libertà di coscienza) tanto sono sperduti in un parlamento che li vede figli e fratelli di nessuno.

Poi è avvenuto il miracolo sulla via di Strasburgo: i parlamentari europei pentastellati hanno votato per Ursula von der Leyen assieme ai colleghi del PD (terzo incomodo i berlusconiani). Qualcuno si è affrettato a intravedere, in questo voto per la presidenza della Commissione europea, una svolta, che avrebbe avuto importanti riflessi sulla costituzione del governo giallo-rosso. In effetti il primo atto ufficiale del governo Conte bis o Conte 2, come dir si voglia, ha visto la nomina a commissario europeo agli affari economici, in rappresentanza dell’Italia, di un altro conte, vale a dire Paolo Gentiloni (esponente politico democratico di livello, non certo in linea con l’impostazione grillina): la musica è un po’ cambiata e a Bruxelles se ne sono accorti promuovendo a pieni voti il nuovo governo, mentre Christine Lagarde, nuovo presidente della Bce, ha speso parole buone per il presidente del consiglio italiano. Dobbiamo abituarci all’idea che gran parte della politica si fa e si svolge in sede europea e quindi, se qualcosa di buono si può sperare, bisogna forse prendere la rincorsa dalla UE. Altro che sovranismo! Una nuova pagina europea? Sembra di sì. Anche in politica la speranza è l’ultima a morire.

 

La torta della discontinuità nella continuità

Alla fine è arrivata, con il voto favorevole e plebiscitario sulla piattaforma Rousseau, l’amara ciliegina pentastellata sulla torta governativa del Conte 2. Provo a mangiarne qualche fettina. Al palato, d’acchito, risulta gradevole. Il governo giallo-rosso manda a casa la minacciosa Lega di Salvini, toglie momentaneamente di mezzo un pericoloso ostacolo per la vita democratica del Paese: sembra quasi un sogno, ma non saremo più (speriamo per parecchio tempo) ostaggio delle sparate razziste e demagogiche di una fuorviante destra estrema populista e sovranista. Finisce un incubo.

La seconda fettina ci evita il rischio di elezioni politiche al buio e ci costringe a prendere di petto la difficile situazione economica, riportandoci nell’alveo del fiume europeo, impostando una seria politica di bilancio e recuperando alla base del governare la ragionevolezza della politica.

La terza fettina riguarda la premiership di Giuseppe Conte: questo signore esce dall’angolo per cercare nelle sponde mattarelliane, europee, americane e vaticane un profilo autonomo, che incontra il gradimento della gente. Ha avuto il coraggio di ribellarsi al greve condizionamento della precedente maggioranza politica e di guardare avanti con equilibrio e senso di responsabilità.

Mentre le prime fettine risultano gradevoli, la quarta è invece di dubbio gusto: il programma e gli uomini che lo porteranno avanti non danno sufficienti garanzie per quella discontinuità chiesta dal PD, ma non concessa dal M5S, schiavo del retaggio pentaleghista e costretto alla continuità rispetto alla sua prima disastrosa esperienza di governo. Nasce il governo della discontinuità nella continuità o viceversa: roba da far impallidire le convergenze parallele del primo centro sinistra.

Continuando a mangiare la torta, il palato si fa sempre più esigente.   Affiora la difficilissima convivenza tra due concetti contrapposti di democrazia e di politica: non vedo una base comune, seppur minima, a livello valoriale e ideale tra due forze politiche che dovranno mediare continuamente e faticosamente. Sarà sufficiente la paziente opera di cucitura di Conte? Ho seri dubbi. Se il precedente governo si basava sull’alleanza tra due soggetti così diversi ma così uguali, il nuovo si fonda su soggetti molto diversi alla disperata ricerca di qualche uguaglianza. Il modesto livello qualitativo della compagine ministeriale, l’alto grado di difficoltà dei problemi da affrontare, i risicati numeri della maggioranza non aiuteranno certamente una convivenza che si preannuncia difficile al limite dell’impossibile.

È tuttavia inutile gufare da sinistra, lasciamo questo compito alla destra, che lo svolgerà nelle piazze, ma, quando l’eco della demagogia si spegnerà, forse risulterà chiaro il velleitarismo dei rigurgiti salviniani. Confido nella prospettiva che il governo Conte 2 rimetta la situazione politica in una sorta di vasca di decantazione delle dilaganti spinte populiste e sovraniste, costringa tutti a tornare alla democrazia stringendosi alle sue istituzioni. Non sarebbe poco. Abbandono al momento la torta, temo il disgusto e l’indigestione, la metto in frigorifero e vedrò di mangiarla a pezzettini, al mattino a digiuno da pregiudizi e pessimismi, sperando che non diventi rancida, costringendomi a buttarla nel sacchetto dei rifiuti organici. Sarebbe un vero peccato.

 

 

Al Ciampedie cón il savàti

Il periodo estivo è l’ideale per dare libero sfogo alle proprie passioni escursionistiche e naturalistiche: cose bellissime, che ritemprano l’animo e riempiono il cuore. Si va alla inebriante scoperta degli angoli più reconditi in mare e in montagna, sui laghi, sui fiumi, in terra, sotto terra e sott’acqua. Benissimo: la natura è fatta per essere goduta nella sua bellezza, ma anche per essere rispettata nella sua conformazione.

Si registrano purtroppo episodi tragici dovuti alla fatalità, ma spesso dovuti alla imprudenza. C’è chi si diverte a mettere a repentaglio la propria vita. Fin qui niente da dire: ognuno è libero di interpretare a suo modo il rischio esistenziale coniugandolo col brivido elettrizzante. Quando però questo comportamento mette in difficoltà anche gli altri, occorrerebbe stendere un velo di prudenza e di responsabilità. C’è persino chi paradossalmente e presuntuosamente rifiuta i soccorsi per poi essere salvato in extremis.

Io sono libero di scalare tutte le montagne che voglio, posso andare per mare quando la situazione meteorologica lo sconsiglierebbe, ma non posso poi pretendere che altri rischino la vita per venirmi a togliere dalle difficoltà in cui mi sono cacciato.  Quasi sempre i salvataggi funzionano, a volte meno, ma mi sembra oltre modo ingeneroso, sconveniente e disgustoso scaricare colpe sui soccorritori. Succede e non mi pare giusto.

E allora? Restiamo tutti a casa per evitare il peggio? Non voglio certo teorizzare una vita monotona e timorosa, ma nemmeno una vita avventurosa fine a se stessa. La natura va rispettata in due sensi: non va sporcata, rovinata o addirittura distrutta, ma va anche temuta nella sua immanente grandezza e superiorità.

Ricordo un caro amico che mi raccontava di avere incontrato improvvisati escursionisti che percorrevano i sentieri che portano al rifugio Ciampedie in Val di Fassa con le ciabatte ai piedi: episodio emblematico. Mio padre, ad esempio, non ammetteva scherzi durante i bagni in acqua ed aveva mille ragioni: è un attimo rimanerne vittime.

È sciocco imprecare ai soccorsi tardivi. Capisco la disperazione di parenti e amici delle vittime, ma molte volte il problema è a monte e riguarda l’imprudenza, la faciloneria, l’insensatezza dei protagonisti. La catena dei soccorsi funziona generalmente molto bene, scattano virtuosi meccanismi solidali, tutti si danno da fare e rischiano: fosse così su tutto il fronte delle situazioni socialmente a rischio, andremmo benissimo. È il rovescio della medaglia delle vacanze: c’è chi non se le può permettere; c’è chi, come il sottoscritto, le diserta dal momento che sono diventate più un obbligo che un piacere; c’è chi è sempre in vacanza e quindi non ne ha bisogno; c’è chi le spreca e torna al lavoro più stressato di prima; c’è chi ne fa un’occasione estrema di divertimento e rischia di rimetterci le penne. Tutti coloro che se le possono permettere dovrebbero forse ripensarle, non per routinizzarle ma per viverle meglio.

I berretti a sonagli

Matteo Salvini vedeva crescere smisuratamente voti e sondaggi, si sentiva l’attore protagonista a livello popolare, mentre era costretto al ruolo di comprimario all’interno di un governo, che più lo ruminava e più non riusciva a digerirlo. Si è stufato e, dal suo punto di vista posso capirlo: un logorante e continuo tira e molla di atteggiamenti politici. Le elezioni europee gli avevano mandato il messaggio: la tattica giusta è la tua, siamo con te, viva Salvini, abbasso il M5S. Come resistere alla tentazione di far saltare il banco. Detto fra i denti e fatto nel peggiore dei modi. La comica finale del governo Conte è diventata però la tragica fine di Salvini, dell’accusatore pubblico che diventa l’imputato.  Non è forse successo così in Senato!?

Matteo Renzi vedeva avanzare minacciosamente le truppe salviniane alla conquista delle elezioni anticipate, che avrebbero sicuramente impoverito la sua rappresentanza parlamentare, quei circa 100, fra deputati e senatori, legati a lui e ultima trincea difensiva per il suo ruolo vieppiù indebolito nel partito e nel Paese. Dal suo punto di vista posso capirlo: dopo essere stato segretario potente e premier rampante, dopo aver conquistato il 40% dei voti alle elezioni europee, dopo aver impostato una riforma istituzionale, dopo aver governato per parecchio tempo, ridotto al ruolo di minoranza nel PD con scarsissime chance di rivincita. Bisognava evitare a tutti i costi le elezioni anticipate, per almeno un annetto, per guadagnare tempo e magari fare un nuovo partito con cui presentarsi alle urne. L’unico modo per ottenere ciò era baciare il rospo, strizzare l’occhio ai grillini, farsi promotore di un ribaltamento tattico camuffato da governo di salute pubblica.

Il movimento cinque stelle viene preso d’anticipo da Salvini e dallo stesso Conte: l’uno attacca e l’altro si difende attaccando. Il governo va in pezzi e si avvicina lo spettro delle elezioni a cui presentarsi con piedi stanchi e nudi e mani poco bianche e poco pure. Meglio attestarsi sulla linea della continuità di Conte, non c’era alternativa, sperando che il PD, messo alle strette dall’offensiva renziana, potesse aprire una trattativa per un nuovo governo. Il PD era tentato dalle elezioni anticipate al punto che sembra avesse dato rassicurazioni in tal senso a Salvini, però, messo alle strette da un incalzante richiesta di assunzione di responsabilità, messo all’angolo dai renziani in vena di promuovere un ribaltone storico, si è piegato alla realpolitik ed ha aperto il confronto coi grillini, dando ad esso un aperto significato politico di resistenza al salvinismo dilagante e di coperta prefigurazione del futuro presidente della Repubblica eletto dall’attuale parlamento e quindi lontano dall’ ipoteca destrorsa. Governo di continuità per i grillini, governo di discontinuità per i piddini: ci sarà da faticare un po’. Ma alla fine il cerchio quadrerà.

Anche Giuseppe Conte non è da meno: di giravolte ne fa parecchie, ma le fa bene, con un certo stile. Per oltre un anno sopporta tutto, ingoia tutto, fa la figura del burattino. Poi ha uno scatto di dignità, passa all’attacco, si sfoga con classe, si candida alla discontinuità nella continuità, incassa endorsement a destra e manca, diventa l’ago della bilancia, accetta un incarico che gli consente di rimanere a palazzo Chigi, da cui sarà probabilmente molto difficile schiodarlo, salvo altre pagliacciate in arrivo.

Sì, perché le pagliacciate si dipanano una dopo l’altra, si intersecano, si autogiustificano. Tutti vogliono il bene del Paese, mentre in realtà tutti, più o meno puntano all’interesse di parte. L’unico personaggio, che mette al primo posto il rispetto della Costituzione e la conseguente difesa della democrazia, è Sergio Mattarella, il presidente della Repubblica, costretto a destreggiarsi tra i pagliacci in attesa che la commedia finisca, possibilmente non in tragedia. Quando ascolto senza prevenzione i pagliacci, sono costretto a constatare che tutti hanno le loro “buone” ragioni o meglio che non hanno tutti i torti. Non resta che buttarsi nelle allegorie, per (non) saltarci più fuori.

Bisogna ricorrere a Luigi Pirandello: “Così è se vi pare”, dove alla fine le verità sono tante a seconda dei punti di vista. Che la Verità assoluta esista o meno è cosa tantomeno irrilevante: è questo il messaggio finale di lettura dell’opera dove Pirandello mette lo spettatore di fronte ad una sorta di ‘barriera sul palcoscenico’ costringendolo ad interrogarsi sul significato stesso di ciò che ha appena visto e l’assenza stessa di significato.

Meglio ancora ricorrere al “Berretto a sonagli”.  “Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza…dovendo vivere in società, ci serve la civile…ci mangeremmo tutti, signora mia, l’un l’altro, come tanti cani arrabbiati.  Non si può. E che faccio allora? Do una giratina così alla corda civile. Ma può venire il momento che le acque si intorbidano… se poi non mi riesce in nessun modo, sferro, signora, la corda pazza, perdo la vista degli occhi e non so più quello che faccio!”. Così l’annuncio di Ciampa, il personaggio più complesso della tragicommedia pirandelliana.

La Misurina è colma?

Mi ha profondamente colpito la notizia della chiusura dello storico centro per la cura e la riabilitazione dell’asma sito a Misurina, nell’incantevole centro dolomitico, di proprietà della diocesi di Parma (tramite l’Opera diocesana San Bernardo degli Uberti). Mi è arrivata improvvisamente e occasionalmente, come un fulmine a ciel sereno, da una giovane suora con cui ho parlato: era molto preoccupata e allarmata anche perché aveva lavorato per questa causa e non si dava pace.

Per il mio turbamento esistono ben tre motivi. Innanzitutto sono molto dispiaciuto, pensando a don Sergio Sacchi, sacerdote e mio indimenticabile amico, che ha speso gran parte della sua vita a servizio di questa struttura. La casa di cura di Misurina fa parte del patrimonio religioso, culturale, sociale, storico ed economico della diocesi, anche e soprattutto per merito di don Sergio e delle tante persone che riusciva a coinvolgere a tutti i livelli, delle tante scelte giuste fatte, del coraggio messo in campo, della generosità con cui ci ha lavorato per tanti anni. Me ne parlava sempre: era nel suo cuore. Aveva passato, non senza sofferenza (le solite decisioni calate dall’alto…), il testimone a don Domenico Magri, altro carissimo amico. Entrambi questi preti sono morti recentemente, lo scorso anno, e infatti mi è venuto spontaneo, non riuscendo a comprimere la mia solita vis polemica, reagire alla brutta notizia dicendo: “Fanno, magari indirettamente, uno sgarbo a questi due scomodi sacerdoti anche dopo la loro morte?”. Boccaccia mia statte zitta!!! Ho pensato male, ho fatto un peccato che confesserò alla prima occasione, ma non vorrei averci azzeccato…

Il secondo motivo riguarda il metodo con cui la Chiesa adotta le decisioni. La diocesi avrebbe, a mio modesto avviso, dovuto muoversi in modo diverso, cercando di coinvolgere nel discorso tutta la comunità diocesana, chiamando a raccolta singoli cristiani, esperti in materia, forze economiche e sociali. È una struttura importantissima, specializzata e radicata. Poteva e doveva essere l’occasione per responsabilizzare e far partecipare la comunità, invece … Può darsi effettivamente che non ci siano i presupposti per continuare, ma prima bisognerebbe tentarle tutte. Come minimo spieghino meglio come stanno le cose e mettano in atto, in modo trasparente, tutte le iniziative possibili. Sono piuttosto scettico verso le forze economiche, ma, come diceva anche la suora con cui ho scambiato qualche impressione, possibile che i vari Barilla, Chiesi e c., le fondazioni bancarie, gli istituti di credito stessi, il Vaticano, e gli enti pubblici territoriali non possano fare niente? Avranno già provato ottenendo risposte negative? Non so dire. Si sono salvate tante iniziative e tante strutture…

Il terzo motivo lo traggo da un articolo apparso sulla Gazzetta di Parma nel 2016, proprio tre anni fa, in cui si tessevano gli elogi e le prospettive di questa struttura e che mi permetto di riportare di seguito quasi integralmente.

“L’istituto «Pio XII» di Misurina di Auronzo di Cadore, di proprietà della diocesi di Parma e specializzato nella cura dei disturbi respiratori infantili, mira a diventare un «laboratorio di alta quota» per ricerche e studi dei maggiori ospedali pediatrici italiani. È questo il senso dell’intesa presentata fra la struttura – attiva da 70 anni, anche grazie ad una donazione iniziale di Pietro Barilla – e l’ospedale pediatrico «Bambino Gesù», di Roma, primo di una serie di accordi fra la struttura e i maggiori ospedali italiani.

In Europa, hanno ricordato gli esperti, l’asma è una patologia in aumento, specie tra i bambini, e rappresenta ormai la principale causa di ricovero in pronto soccorso e la prima condizione cronica tra le cause di assenze scolastiche. Si calcola che in Italia ne soffra un minore su dieci, il 5% dei quali in forma grave persistente.

All’ufficializzazione dell’accordo c’erano, fra gli altri, il segretario di stato della Santa Sede, cardinale Pietro Parolin, il vescovo di Parma Enrico Solmi e il vescovo di Belluno-Feltre, Renato Marangoni. «Un luogo come questo – ha detto il cardinale Parolin – per un cristiano ha un ruolo importante, cioè quello di aiutare, grazie al Servizio sanitario regionale, i bambini più deboli, le cui famiglie non possono sostenere il pur modesto contributo economico richiesto per mandare i figli a Misurina».

Nelle prossime settimane si prevede di invitare a collaborare con il Pio XII anche l’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, l’Irccs pediatrico Gaslini di Genova, l’Irccs materno-infantile Burlo Garofalo di Trieste, l’ospedale dei bambini Buzzi di Milano, le Università di Verona e di Padova ed altri due centri di eccellenza pediatrici europei in alta quota per i disturbi del respiro.

«Si sta sviluppando con vari centri pediatrici una sinergia di ricerca sulla validità delle cure ad alta quota, spiega monsignor Solmi. Il centro di Misurina fu acquistato nel 1946 per ospitare i bambini di Parma provati dalla guerra. Negli anni si è dimostrato in grado di guarire da malattie bronchiali e oggi è un centro di eccellenza in Italia, oltre che, con i suoi 1.750 metri di quota, la clinica più alta d’Europa. Con i farmaci e con percorsi educativi e formativi per pazienti, famiglie e professionisti diamo una risposta importante a patologie in aumento: l’asma oggi colpisce il 20% dei bambini in età prescolare».

Il centro, ricorda il presidente dell’istituto Pio XII don Luciano Genovesi, è accreditato dal servizio sanitario per 100 posti letto (capienza complessiva 150 posti, perché sono ospitati anche i familiari) e in estate è sempre pieno. «La prima iniziativa del nascente network “Misurina” sarà una ricerca sui pazienti con asma non controllata in cura al Bambino Gesù – spiega Genovesi – Sarà studiato il miglioramento della patologia in relazione ai farmaci somministrati e alla qualità di vita nel bambino, confrontando i sei mesi precedenti e i sei mesi successivi al ricovero a Misurina».

Ebbene, tutto finito, tutto cambiato, tutto impossibile? Non sarà meglio ripensarci coraggiosamente e seriamente? Riaprendo il discorso a tutti i livelli, ripensando soprattutto a quanti hanno dato la loro vita per costruire questo patrimonio ed a quanti ne potrebbero usufruire sulla loro pelle. Ci spero ancora e sono sicuro che don Sacchi stia facendo la sua parte dall’aldilà, nonostante tutto. Proviamo a consultarlo?

Tempi duri per i parlamenti

Il premier britannico Boris Johnson ha sospeso per un mese il Parlamento: ho leggiucchiato qua e là e confesso di non aver capito il vero motivo di questa originale decisione, anche se con ogni probabilità su questo fatto grava il fantasma della Brexit. Può sembrare una sorta di punizione della Camera dei Comuni per essersi troppo intromessa nella politica; potrebbe essere un periodo di ferie forzato imposto ai parlamentari per aiutare il governo a risolvere la crisi dell’uscita dall’Europa; potrebbe trattarsi di un anomalo comportamento consentito dalla tanto ammirata mancanza di legislazione scritta; potrebbe essere un buco causato anche da una distrazione regale. Potrebbe. Fatto sta che la questione ha sollevato non poche polemiche e non ingiustificati allarmi.

Stando alle più autorevoli e plausibili interpretazioni, Boris Johnson avrebbe depotenziato il Parlamento, piuttosto contrario ad una Brexit dura e non concordata con le istituzioni europee, ciò che vorrebbe invece il premier per tagliare la testa al toro e chiudere unilateralmente la partita. La mancanza di precisi riferimenti legislativi in campo istituzionale rende tutto vago e possibile alla faccia di chi esalta come un pregio la carenza di normativa. In Italia abbiamo certamente troppe leggi, mentre in Gran Bretagna ne hanno troppo poche. Quando si tratta di rispetto dei principi democratici non farebbe male una certa qual precisione nei poteri e nelle procedure.

Sorge spontaneo intravedere una sorta di minaccioso asse Washington-Londra-Roma per il disprezzo della democrazia parlamentare. Negli Usa vige una democrazia presidenziale, che mi ha sempre impressionato e preoccupato: tanto potere nelle mani di un presidente eletto (nel caso di Trump, da una larga minoranza popolare), ma poco controllabile ed orientabile. In Gran Bretagna un Parlamento sconclusionato e depotenziato, tra una regina fantoccio e un premier fantasioso. In Italia una democrazia diretta in bilico tra le onde populiste del web grillino, le piazze strumentalizzate dalla destra sovranista, la voglia demagogica di ridimensionare le Camere, il ricorso facile e sondaggistico alle urne.

Si chiami populismo o altro non saprei dire: mi sento preoccupato. Con la democrazia non si può scherzare, è vietato divagare. Il tutto è drammaticamente complicato dai protagonisti di queste derive. A Donald Trump, a Boris Johnson, a Matteo Salvini, a Beppe Grillo non affiderei neanche le chiavi di cantina. Sì, perché questi assurdi personaggi non si capisce dove ci vogliano portare: certamente fuori strada e, quando si lascia la strada maestra per prendere delle scorciatoie, solo se la guida è competente ed affidabile si può arrivare alla meta. Diversamente si finisce molto male.

Qualche tempo fa, durante una diabolica kermesse qualunquistica, ho sentito ribattezzare Camera e Senato come “pirlamento”, a margine di una lucida e spietata analisi politica formulata da una simpatica anziana signora. Allora non dissi nulla, mi limitai a sorridere per la vis polemica e ironica, che poteva anche rappresentare una sferzata per la sonnolenta prassi parlamentare. Oggi non sarei più così tollerante: meglio, paradossalmente parlando, uno smodato “pirlamento” piuttosto che i sedicenti leader che ci trattano populisticamente tutti da “pirla”.

Abramo Grillo e Isacco Di Maio

Durante una insignificante e insipida conferenza stampa tenuta, nei giorni della crisi di governo, dai capi-gruppo parlamentari pentastellati, è uscita una frase, tra il minaccioso e il ridicolo, volta a recuperare credibilità e autorevolezza: «Chi tocca il leader del nostro movimento, tocca tutto il movimento…». Excusatio non petita per gli innumerevoli episodi, passati e presenti, di gravi divergenze tra le fila grilline: il M5S sarebbe un monolite, anche se in molti si sono accorti del contrario. Endorsement interno per Luigi Di Maio, obiettivamente indebolito dalle vicende crisaiole e dalla evidente sua mancanza di carisma e di autorevolezza: se ne è accorto anche Matteo Salvini che gli ha lanciato una tardiva e irricevibile scialuppa di salvataggio, offrendogli il premierato in una eventuale riedizione immediata del patto giallo-verde.

Che il movimento cinque stelle sia diviso e sfilacciato è cosa evidente e, per certi versi, inevitabile: non può essere unito un movimento senza storia, senza ideologia, senza identità, senza ispirazione. L’unico collante è costituito dall’antipolitica e dall’antisistema, ideati dall’estro di Beppe Grillo e supportati dalla strategia digitalizzata, applicando il fenomeno del web al movimento stesso, messa in moto dalla “Casaleggio e associati”.

Man mano che i grillini si inseriscono nel sistema e sono costretti a fare politica, la loro velleitaria spinta propulsiva si scioglie come neve al sole: è successo nei comuni dove hanno conquistato le tanto odiate poltrone di sindaco, è successo a maggior ragione a livello nazionale dove hanno messo in piedi un’autentica farsa governativa assieme alla Lega di Salvini (così diversi, così uguali). Beppe Grillo lo ha capito da tempo e cerca di tenere viva l’eco dei vaffa senza disturbare i propri manovratori: impresa ardua. In questa morsa socio-politica è rimasto schiacciato l’esponente più esposto: Luigi Di Maio, per il quale sarà una gara dura trovare almeno uno strapuntino nel governo giallo-rosso. Non è un gran male per l’Italia, è un brutto colpo per i pentastellati alla disperata ricerca di una verginità perduta, di uno slancio compromesso e di un consenso calante.

Da una parte hanno dovuto recuperare e adottare l’aplomb di Giuseppe Conte, promuovendolo sul campo leader istituzionale, dall’altra sono costretti a nascondersi dietro il dito della piattaforma Rousseau, mentre il Di Maio bifronte ha scarse possibilità di sopravvivenza politica nonostante le difese d’ufficio. Il loro elettorato è liquido e quindi si sperde nei rigagnoli verso destra o verso sinistra a seconda dei momenti e dei territori. Continuano a inveire contro le poltrone su cui dovranno comunque sedersi e ad enfatizzare programmi onnicomprensivi e confusi volti a drizzare le gambe ai cani. Non hanno avuto il coraggio di tornare alle urne preoccupati da un vistoso calo di consensi, non hanno la freddezza e la spregiudicatezza di trasformarsi in una forza di governo vera e propria, capace di riformare il sistema dal di dentro. Sono allo sbando!

Che Luigi Di Maio faccia o meno il vice-premier oppure il ministro dell’Interno o della Difesa ha poca importanza: era un non leader a cui non ubbidire, adesso è un ingombrante arnese di cui liberarsi senza dare troppo nell’occhio, una vittima illustre (?) da sacrificare sull’altare pentastellato. Ci rimane Giuseppe Conte, che di grillino ha poco o niente e che dal vaffanculo passerà al vaffanbagno di realismo politico. E i Fico, i Di Battista, i Toninelli, i Patuanelli, etc? Ai posteri l’ardua sentenza, che riguarderà peraltro solo Beppe Grillo. Il resto mancia.

 

 

 

Il tuffo dalla piattaforma Rousseau

Rousseau è la piattaforma di democrazia diretta del M5S. I suoi obiettivi sono la gestione del Movimento nelle sue varie componenti elettive (Parlamenti italiano ed europeo, consigli regionali e comunali) e la partecipazione degli iscritti alla vita del Movimento stesso attraverso, ad esempio, la scrittura di leggi e il voto per la scelta delle liste elettorali o per dirimere posizioni controverse all’interno dei cinque stelle.

I pentastellati sono andati da Sergio Mattarella al Quirinale a chiedere l’incarico di formare il governo per Giuseppe Conte sulla base di una maggioranza politico-programmatica fra M5S e PD. Ce la farà Conte? Staremo a vedere, ma non è di questo che mi meraviglio, ma della scelta di sottoporre la nascita di questa nuova compagine ministeriale al giudizio degli iscritti tramite una sorta di referendum informatico: queste consultazioni lasciano il tempo che trovano per la loro scarsissima attendibilità dovuta alla limitata partecipazione ed alla complessità dei quesiti sottoposti ai potenziali elettori. Ma lasciamo perdere…Il problema questa volta è che la piattaforma Rousseau funzionerà come una sorta di Quirinale bis. Se, infatti, dovesse uscire un responso negativo, i dirigenti del Movimento ritirerebbero la disponibilità offerta al Capo dello Stato e presumibilmente di tutto quanto faticosamente costruito in sede istituzionale non se ne farebbe niente. Come minimo, il referendum farsesco l’avrebbero dovuto fare prima di salire al Colle con le loro proposte. Sulla testa di Mattarella e del presidente del consiglio da lui incaricato viene posta quindi la spada di Damocle della piattaforma Rousseau.

I grillini si rifanno ideologicamente a Rousseau, di cui peraltro fanno una specie di vignetta. Il popolo, ma solo quello grillino e solo la parte di esso disposta a cliccare, vale più del Parlamento e del Presidente della Repubblica: una distorta visione, demagogica e sostanzialmente anti-democratica. Sono proprio curioso di vedere come la prenderà Mattarella nel caso in cui i pentastellati facessero marcia indietro alla luce del responso della loro piattaforma. Per i grillini roba da sprofondare di vergogna, per il capo dello Stato la necessità di ripulire le istituzioni dalla smerdata populista.

Forse però è meglio non preoccuparsi più di tanto. Sarà molto probabile che la consultazione diventi l’ennesima buffonata a ratifica dell’operato del gruppo dirigente pentastellato: siamo a livello di falsa o finta democrazia, la versione riveduta e scorretta del velleitario assemblearismo sessantottino.

In questi giorni ho sentito ripetere che il M5S è nato da una parola: “vaffanculo”. Per quanto mi riguarda, fatte tutte le analisi politiche del caso, concesse tutte le attenuanti della ingenuità e dell’impreparazione, considerata la buona fede qualunquista ed antipolitica, tenuto conto del male maggiore evitato (fino a quando non si sa), valutate con pietà le giravolte effettuate, lo seppellirei volentieri con lo stesso termine: “vaffanculo”.

Ma non è finita lì. All’uscita dallo studio del presidente della Repubblica, al termine del colloquio nell’ambito del secondo giro di consultazioni in vista della formazione del nuovo governo, la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha dichiarato: “Non ne abbiamo parlato con Mattarella, ma comunichiamo che se si formerà il governo M5S-Pd scenderemo in piazza”. “Non le sembra un po’ troppo dirlo dalla sala del Quirinale?” le ha chiesto la giornalista di Tiscali, Claudia Fusani. “Non so quando avete deciso che sia una cosa eversiva. È previsto dalla Costituzione” è stata la replica di Meloni. Parole presuntuose, vergognose e inaccettabili.

C’è qualcuno che tenta di tirare la corda intorno al collo della democrazia.  Speriamo che i cinquestelle dopo essere stati ulteriormente infettati dal populismo leghista si ravvedano e rinsaviscano sotto la sostanziale guida di Giuseppe Conte. Non so cosa sperare sul fronte destrorso: Salvini docet e trascina tutti nel gorgo. Giorgia Meloni è più salviniana di Salvini. Berlusconi è salviniano a corrente alternata.

Siamo arrivati a questo punto. Da una parte si fa ricorso alla piazza informatica e dall’altra alla piazza reale: in mezzo il Paese con le sue istituzioni democratiche. Ci salvi Mattarella!

 

La twittata è fatta

Nel bel mezzo della crisi di governo, a consultazioni quirinalizie aperte, con la ricandidatura in bilico a livello delle trattative per la nuova maggioranza giallo-rossa, improvvisamente arriva un chiaro e netto endorsement trumpiano via twitter a favore di Giuseppe Conte e della sua conferma a palazzo Chigi.

Un episodio che, nella sua stranezza e originalità, induce a qualche riflessione (al di fuori della stucchevole manfrina sui poteri forti). Si tratta della conferma della simpatica ammissione di Conte ai tavoli dei big della politica a livello internazionale: egli è fra l’altro fresco reduce dalla partecipazione al G7 di Biarritz, in cui avrà probabilmente, anche se discretamente, informato gli illustri colleghi dell’incertezza istituzionale gravante sulla sua posizione. Non può che far piacere tutto ciò, anche se l’entrata a gamba tesa di Trump crea qualche imbarazzo: proprio nel momento in cui Conte si appresterebbe a presiedere un governo in controtendenza rispetto al sovranismo dilagante, il padre di tutti i sovranisti della terra lo riconosce indirettamente come figlio e si compiace in esso (alla faccia della velleitaria e sciocca corsa salviniana alla primogenitura trumpiana). Non esageriamo e lasciamo stare la puzza di invadenza americana sgorgante dalla twittata del presidente Donald Trump: appare comunque come una sorta di contraccambio rispetto al primo atto di politica internazionale compiuto da Conte più di un anno fa al suo debutto da premier, quando andò a baciare la pantofola del tycoon.

È vero che nel provocatorio e tardivo discorso della corona fatto in Senato, prendendo di mira “le birichinate” di Matteo Salvini, tra gli innumerevoli rimproveri rivolti all’insopportabile partner governativo, Conte aveva inserito lo sgarbo della vicenda, ancora tutta da chiarire, del tangentizio “Russiagate” in cui il capo leghista è rimasto invischiato per ingenuità o per complicità: Salvini  ha costretto il presidente del Consiglio a porgere i chiarimenti del caso in Parlamento con tanto di rinnovo alla storica linea di adesione italiana al campo occidentale e all’atlantismo. Da una parte quindi il tweet di Trump sembra chiudere il cerchio di un ritorno definitivo della politica italiana nel solco filo-occidentale dopo le scorribande leghiste (e non solo) verso la Russia di Putin, dall’altra parte suona come compromettente e indiretta adesione  alla non celata linea antieuropeista di  Donald Trump, che ama vezzeggiare i singoli paesi europei più vicini alla sua sconclusionata strategia  anziché dialogare con l’Europa tutta a livello delle sue istituzioni comunitarie. Attenzione quindi, perché Giuseppe Conte, dopo la boccata d’aria fresca del dopo-Salvini, rischia il raffreddore dall’aria gelida dell’illustre, ma oggi più che mai viscido, alleato americano.

Con la politica estera non si scherza e uno dei punti deboli del governo pentaleghista è stato proprio quello di girovagare ai margini della Ue e dell’alleanza occidentale alla ricerca di una pruriginosa autonomia internazionale. Quando si pensava che il pericoloso gioco fosse finito ecco Giuseppe Conte, che rischia di ricadere nel pericolo opposto, quello dell’appiattimento sugli Usa in chiave antieuropeista. Se resterà, come ormai sembra, a Palazzo Chigi, ne parli con Sergio Mattarella, scelga un ministro degli Esteri autorevole e tranquillizzante, inserisca i chiarimenti del caso nel programma di governo e nel discorso di insediamento davanti alle Camere.

Per fortuna il “Conte rampante” ha avuto la freddezza di ostentare un certo distacco dalla bagarre politica andando a fare shopping nel centro di Roma con il figlio. Come non ricordare il precedente che ci fa andare indietro nella storia. Durante i burrascosi lavori del Consiglio nazionale della DC che nel 1975 sostituì Amintore Fanfani alla segreteria con Benigno Zaccagnini, in piena bagarre Aldo Moro ebbe la geniale idea di assentarsi momentaneamente dal consesso surriscaldato per recarsi in via Condotti a comprare una cravatta. Con quella mossa riuscì a stemperare il clima e a completare un autentico capolavoro politico, sfiduciando Fanfani ma ricuperandolo nella nomina di Zaccagnini, il quale restituì credibilità popolare alla DC, iniziando un nuovo corso fatto di dialogo e di apertura a sinistra (Il male c’è, ma Benigno…, si diceva e si scriveva allora). Chissà che il banale, ma curioso, gesto di Conte non sia di buon auspicio per l’inizio di un nuovo corso politico. Ricordiamoci bene però che Aldo Moro, pur essendo un atlantista convinto, non si fece mai tentare dall’americanismo di (brutta) maniera, ma, anzi, forse pagò a caro prezzo la sua autonomia di pensiero e di azione. Veda Conte di assomigliare a Moro non solo per il gustoso diversivo consumistico, ma per la lungimirante ed equilibrata azione politica.